domenica 9 dicembre 2018

Cosa diceva Berlinguer: discorso al "Convegno degli intellettuali" (1977)

Da: https://www.ilpost.it - Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/04/7-aprile-una-interpretazione-degli-anni.html 
                                                                      https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/11/storia-del-sessantotto-michele-brambilla.html 
                                                                                LA "MARCIA DEI 40000": uno dei momenti di caduta



Una cosa è certa... In questo paese (e non solo) nei momenti di crisi economica i sacrifici (austerità o rigore comunque li si voglia chiamare) vengono sempre prima chiesti ai lavoratori. E in genere, si può ben dire sempre, la storia ce lo insegna, a loro rimangono confinati. Oggi come allora a richiederli sono i loro rappresentanti più (o meno) importanti. Questo è il guaio della "sinistra"... 


Sono passati 31 anni da questo discorso di Berlinguer, ed oggi la società, gli stessi lavoratori sono ancora più polarizzati, tra pochi con redditi elevatissimi che costituiscono un insulto verso la massa dei lavoratori con bassi salari e una parte che addirittura non ha di che vivere pur lavorando. E poi i disoccupati: che cosa possono dire se si chiede loro austerità?


Noi ricordiamo quel tempo: se l'intenzione di Berlinguer era quella di opporsi al neo-capitalismo (peraltro già al declino in quegli anni) sarebbe arrivata tardi, come in effetti è stato. Il cosiddetto "consumismo", vale a dire la sussunzione reale al modo di produzione capitalistico della produzione di massa di beni di consumo, collegata alla piena occupazione e agli alti salari (in occidente) era già da un pezzo nella sua fase di riflusso. Iniziava la fase di recupero, da parte del capitale, del potere nelle fabbriche e nella società nel suo complesso. L'obiettivo di ridurre il salario si stava già affermando attraverso la perdita di centralità dei contratti collettivi a favore della contrattazione decentrata, che introduceva elementi di frammentazione all'interno dei diversi comparti della classe operaia con la inevitabile perdita di vitalità e capacità egemonica delle lotte. 

Ricordiamoci della "svolta dell'EUR"(https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/04/1978-la-svolta-delleur.html). Il salario stava ricadendo sotto la categoria di "variabile dipendente" in sintonia con l'affermarsi dell'ideologia interclassista del "patto dei produttori", vale a dire dell'aggancio dei salari alla produttività in accordo con i sindacati e, segnatamente, con la stessa CGIL. 

E' chiaro che il PCI  tentava ancora, in una direzione tattica e strategica che può farsi risalire alla politica togliattiana che ispirò la "svolta di Salerno", di candidarsi come l'unica forza politica in grado di guidare il paese in un momento in cui cominciava a profilarsi la crisi del trentennio d'oro del capitalismo in Europa occidentale e che, per il grande capitale imperialista e finanziario internazionale, coincideva con l'inizio di una rivincita, di pieno carattere strategico, i cui effetti, nel loro crescente svilupparsi e inverarsi, misuriamo oggi nella precarizzazione del lavoro, nelle delocalizzazioni, nella assoluta libertà di movimento dei capitali su scala globale e così via. 

La lotta interna al PCI fra le sue diverse tendenze trova espressione nella onesta retorica berlingueriana che, per quanto animata da buone intenzioni, non fu in grado di impedirne lo sviluppo fino agli esiti che tutti conosciamo. Il capitale si stava liberando (ricordiamoci il discorso di Cefis - https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/05/la-multinazionale-ecumenica-eugenio.html) dal bisogno stesso di avere partiti che gli garantissero le condizioni del proprio sviluppo. 

Un'intera fase storica in cui le classi operaie avevano giocato un ruolo importante era al tramonto. E il tentativo bernsteiniano di Berliguer e della parte autenticamente "riformista" del PCI  ne ha pagato, e fino in fondo, tutte le conseguenze. 

Ovviamente c'è nel discorso di Berlinguer anche un concetto alto: quello secondo cui, da una parte, appena accennata, lo spreco e il consumismo producono ingiustizia e devastazioni ambientali, dall'altra sono il risultato e rinnovano a loro volta una cultura del piacere a breve termine (lontano da una visione del futuro pianificato), un individualismo competitivo opposto alla solidarietà umana alla base di una cooperazione essenziale per qualsiasi costruzione di un mondo socialista.

(collettivo di formazione marxista Stefano Garroni)
                                                         

“Convegno degli intellettuali sulla politica di austerità e rigore”
  Roma, gennaio 1977.

Da che cosa è nata, da che cosa nasce l’esigenza di metterci a pensare e a lavorare attorno ad un progetto di trasformazione della società che indichi obiettivi e traguardi tali da poter e dover essere perseguiti e raggiunti nei prossimi tre-quattro anni, ma che si traducano in atti, provvedimenti, misure, che ne segnino subito l’avvio?
Questa esigenza nasce dalla consapevolezza che occorre dare un senso e uno scopo a quella politica di austerità che è una scelta obbligata e duratura, e che, al tempo stesso, è una condizione di salvezza per i popoli dell’occidente, io ritengo, in linea generale, ma, in modo particolare, per il popolo italiano.

L’austerità non è oggi un mero strumento di politica economica cui si debba ricorrere per superare una difficoltà temporanea, congiunturale, per poter consentire la ripresa e il ripristino dei vecchi meccanismi economici e sociali. Questo è il modo con cui l’austerità viene concepita e presentata dai gruppi dominanti e dalle forze politiche conservatrici. Ma non è cosi per noi. Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato. L’austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia; cioè il contrario di tutto ciò che abbiamo conosciuto e pagato finora, e che ci ha portato alla crisi gravissima i cui guasti si accumulano da anni e che oggi sì manifesta in Italia in tutta la sua drammatica portata.

Ecco, in base a quale giudizio il movimento operaio può far sua la bandiera dell’austerità?

L’austerità è per i comunisti lotta effettiva contro il dato esistente, contro l’andamento spontaneo delle cose, ed è, al tempo stesso, premessa, condizione materiale per avviare il cambiamento. Cosi concepita l’austerità diventa arma di lotta moderna e aggiornata sia contro i difensori dell’ordine economico e sociale esistente, sia contro coloro che la considerano come l’unica sistemazione possibile di una società destinata organicamente a rimanere arretrata, sottosviluppata e, per giunta, sempre più squilibrata, sempre più carica di ingiustizie, di contraddizioni, di disuguaglianze.

Lungi dall’essere, dunque, una concessione agli interessi dei gruppi dominanti o alle esigenze di sopravvivenza del capitalismo, l’austerità può essere una scelta che ha un avanzato, concreto contenuto di classe, può e deve essere uno dei modi attraverso cui il movimento operaio si fa portatore di un modo diverso del vivere sociale, attraverso cui lotta per affermare, nelle condizioni di oggi, i suoi antichi e sempre validi ideali di liberazione. E infatti, io credo che nelle condizioni di oggi è impensabile lottare realmente ed efficacemente per una società superiore senza muovere dalla necessità imprescindibile dell’austerità.

Ma l’austerità, a seconda dei contenuti che ha e delle forze che ne governano l’attuazione, può essere adoperata o come strumento di depressione economica, di repressione politica, di perpetuazione delle ingiustizie sociali, oppure come occasione per uno sviluppo economico e solidale nuovo, per un rigoroso risanamento dello Stato, per una profonda trasformazione dell’assetto della società, per la difesa ed espansione della democrazia: in una parola, come mezzo di giustizia e di liberazione dell’uomo e di tutte le sue energie oggi mortificate, disperse, sprecate.

Abbiamo richiamato in altre occasioni e anche di recente le profonde ragioni storiche, certamente non solo italiane, che rendono obbligata, e non congiunturale, una politica di austerità. Sono ragioni varie, ma occorre ricordare sempre che l’evento più importante i cui effetti non sono più reversibili, è stato e rimarrà l’ingresso sulla scena mondiale di popoli e paesi ex coloniali che si vengono liberando dalla soggezione e dal sottosviluppo a cui erano condannati dalla dominazione imperialistica. Si tratta di due terzi dell’umanità, che non tollerano più di vivere in condizioni di fame, di miseria, di emarginazione, di inferiorità rispetto ai popoli e paesi che hanno finora dominato la vita mondiale.

Assai vario e complesso è, certo, questo moto. Grandi sono le differenze storiche, economiche, sociali, culturali, politiche, che esistono tanto all’interno di quel che suole chiamarsi il Terzo mondo, quanto nei suoi rapporti esterni. In particolare, negli ultimi tempi si è venuta precisando una tendenza verso alleanze tra i gruppi dominanti dei paesi capitalisticamente più sviluppati e quelli di certi paesi in via di sviluppo, alleanze che operano a danno di altri paesi più poveri e più deboli, e contro ogni movimento popolare e progressista. Non sono stati e non sono solo i Kissinger, ma anche gli Yamani (avrete visto le recenti dichiarazioni) che hanno perseguito e perseguono una politica di ostilità contro gli Stati e contro le forze politiche che si battono per il rinnovamento del proprio paese, comprese le forze avanzate del movimento operaio dell’occidente.

Ma mentre dobbiamo saper cogliere queste differenze all’interno del Terzo mondo, e tenerne conto, non dobbiamo mai perdere di vista il significato generale del moto grandioso di cui sono stati e sono protagonisti quei popoli: un moto che cambia la rotta della storia mondiale, che sconvolge via via tutti gli equilibri esistiti ed esistenti, e non soltanto quelli relativi ai rapporti di forza su scala mondiale, ma anche gli equilibri all’interno dei singoli paesi capitalistici. È questo moto, o almeno è principalmente questo moto, che, operando nel profondo, fa esplodere le contraddizioni di una intera fase dello sviluppo capitalistico post-bellico, e determina in singoli paesi condizioni di crisi di gravità mai raggiunta. E se può accadere, come ci è dato di constatare, che all’interno del mondo capitalistico alcune economie più forti possono trarre profitto dalla crisi e consolidare la propria posizione di dominio, per altri paesi economicamente più deboli, come l’Italia, la crisi diventa ormai un rotolare più o meno lento verso il precipizio.

Sullo sfondo di questa acuita conflittualità tra i paesi e i gruppi capitalistici, mal celata da fragili solidarietà, avanzano processi di disgregazione e di decadenza che, mentre rendono sempre più insopportabili le condizioni di esistenza di grandi masse popolari, minacciano le basi stesse, non solo dell’economia, ma della nostra stessa civiltà e del suo sviluppo.

Non è necessario descrivere i mille segni in cui si manifesta questa tendenza che ferisce e mortifica così profondamente anche la vita della cultura. Quel che deve essere chiaro a chiunque voglia intendere le ragioni ed i fini della nostra politica, sia all’interno del nostro paese, sia nei rapporti con forze progressiste di altri paesi, è che essa si può tutta ricondurre allo sforzo di mobilitazione e di ricerca per bloccare questa tendenza e per rovesciarla.

Viviamo, io credo, in uno di quei momenti nei quali – come afferma il Manifesto dei comunisti – per alcuni paesi, e in ogni caso per il nostro, o si avvia «una trasformazione rivoluzionaria della società» o si può andare incontro «alla rovina comune delle classi in lotta»; e cioè alla decadenza di una civiltà, alla rovina di un paese.

Ma una trasformazione rivoluzionaria può essere avviata nelle condizioni attuali solo se sa affrontare i problemi nuovi posti all’occidente dal moto di liberazione dei popoli del Terzo mondo. E ciò, secondo noi comunisti, comporta per l’occidente, e soprattutto per il nostro paese, due conseguenze fondamentali: aprirsi ad una piena comprensione delle ragioni di sviluppo e di giustizia di questi paesi e instaurare con essi una politica di cooperazione su basi di uguaglianza; abbandonare l’illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario.

Ecco perché una politica di austerità, di rigore, di guerra allo spreco è divenuta una necessità irrecusabile da parte di tutti ed è, al tempo stesso, la leva su cui premere per far avanzare la battaglia per trasformare la società nelle sue strutture e nelle sue idee di base.

Una politica di austerità non è una politica di tendenziale livellamento verso l’indigenza, ne deve essere perseguita con lo scopo di garantire la semplice sopravvivenza di un sistema economico e sociale entrato in crisi. Una politica di austerità, invece, deve avere come scopo – ed è per questo che essa può, deve essere fatta propria dal movimento operaio – quello di instaurare giustizia, efficienza, ordine, e, aggiungo, una moralità nuova.

Concepita in questo modo, una politica di austerità, anche se comporta (e di necessità, per la sua stessa natura) certe rinunce e certi sacrifici, acquista al tempo stesso significato rinnovatore e diviene, in effetti, un atto liberatorio per grandi masse, soggette a vecchie sudditanze e a intollerabili emarginazioni, crea nuove solidarietà, e potendo cosi ricevere consensi crescenti diventa un ampio moto democratico, al servizio di un’opera di trasformazione sociale.

Proprio perché pensiamo questo, occorre riconoscere, a me sembra, che finora la politica di austerità non è stata presentata al paese, e ancor meno attuata, dentro tale spirito non di rassegnazione, ma di consapevolezza e di fiducia. E se possiamo ammettere – dobbiamo ammettere, anzi – che vi sono state e vi sono a questo proposito manchevolezze e oscillazioni del movimento operaio e anche del nostro partito, tuttavia le deficienze principali sono da imputare alle forze che dirigono il governo del paese.

Non voglio qui esaminare i vari provvedimenti di politica economica attuati o in preparazione da parte del governo, ne ricordare il nostro atteggiamento su di essi. Sono note le posizioni, a volte favorevoli a volte critiche, assunte dal nostro partito sui diversi aspetti della politica economica governativa. Del resto, proprio in questa sala, come sapete, nostri autorevoli compagni qualche giorno fa hanno fatto il punto – in un positivo confronto con esponenti di altri partiti, con illustri economisti e alla presenza, anche, dei rappresentanti del governo – sul quadro economico complessivo e sugli interventi da compiere da parte del governo e dei partiti.

Voglio invece ribadire una critica di ordine generale che noi comunisti continuiamo a fare, non possiamo non continuare a fare, all’azione del governo. La politica di austerità è tuttora viziata, infatti, da carenze di vigore, di coraggio e di respiro. Ad esempio: non si è saputo ancora suscitare il necessario movimento di opinione e di massa contro gli sprechi. Contro gli sprechi in senso diretto, che sono ancora enormi (si pensi all’energia o all’organizzazione sanitaria) e contro gli sprechi in senso indiretto e lato, come quelli che derivano dal lassismo nelle aziende, nelle scuole e nella pubblica amministrazione; o come quelli, qui denunciati con particolare rigore dai professori Carapezza, Nebbia, Maldonado e da altri, derivanti da imprevidenze, di cui avvertiamo oggi tutto il peso, e da errori enormi compiuti nella politica del suolo, del territorio, dell’ambiente; o dalla trascuratezza nel campo della ricerca. C’è tutta un’azione amplissima contro gli sprechi e per il risparmio in ogni campo che avrebbe bisogno dello stimolo, della direzione, dell’iniziativa continua di un governo che sapesse davvero esprimere l’autorevolezza politica e morale oggi indispensabile.

Non è un caso, certo, che tutto ciò sia mancato o sia stato carente, giacché un’azione simile non si organizza solo con la propaganda, che pure va fatta, e non la si fa abbastanza, ma richiede che siano individuati e colpiti precisi interessi costituiti, una gran parte dei quali sta alla base del mantenimento del sistema di potere della Democrazia cristiana.

Ma è evidente, soprattutto pesa assai negativamente, l’angustia di prospettive che caratterizza la politica di austerità chiesta e fatta finora dal governo. Sta qui il punto di massima differenziazione tra noi e gli esponenti governativi e i gruppi economici dominanti. In costoro, al fondo, vi è uno stato d’animo di resa, cioè qualcosa che sta agli antipodi di ciò che occorrerebbe per ottenere l’adesione convinta del popolo a certi sacrifici necessari. Il paese avrebbe bisogno, per compiere uno sforzo adeguato, di veder chiaro davanti a sé, o quanto meno di vedere chiari alcuni elementi fondamentali di una prospettiva nuova. E invece gli esponenti delle vecchie classi dominanti e molti uomini del governo, quando arrivano a tanto, non sanno andare più in là dell’obiettivo di riportare l’Italia sugli stessi binari su cui procedeva lo sviluppo economico prima della crisi.

Come se quelle vie e quei modi dello sviluppo possano rappresentare ancor oggi un ideale di società da perseguire, e come se, soprattutto, la crisi di questi anni e di oggi non fosse esattamente la crisi di quel modello di società (crisi in atto non solo in Italia, ma anche, in forme sia pure diverse, in altre nazioni europee). È molto chiara per noi la ragione di queste carenze di vigore, di coraggio, di respiro e di prospettiva nella politica di austerità di cui prima ho parlato. In tali carenze noi vediamo l’evidenza di un processo storico che è segnato dal declino irrimediabile della funzione dirigente della borghesia e dalla conferma che tale funzione dirigente già comincia a passare al movimento operaio, alle forze popolari unite: naturalmente a una classe operaia, a masse popolari, che dimostrino la maturità necessaria per presentarsi a provare al paese intero di essere una forza che democraticamente guida l’intera società alla salvezza e alla rinascita. Ciò richiede che nelle file stesse del movimento operaio, e nelle sue organizzazioni economiche e politiche, si eserciti più ampiamente e più responsabilmente uno spirito autocritico che porti al superamento di quegli atteggiamenti negativi e fuorvianti, o di subalternità o di estremismo, che pesano in misura ancora non trascurabile e che nel concreto, poi, ostacolano la soluzione positiva di problemi di bruciante attualità, quali il risanamento economico, produttivo, finanziario della società e dello Stato.

Per impegnarci in un progetto di rinnovamento della società, e per fare la proposta di mettersi al lavoro per definirlo, non potevamo attendere che, prima, maturassero nei partiti le condizioni per un nostro ingresso nel governo. Questa esigenza, lo ribadiamo, rimane più che mai aperta. Ma intanto e subito noi abbiamo il dovere di prendere le opportune iniziative, che rispondono a non rinviabili necessità di lotta del movimento operaio e a non procrastinabili interessi generali del paese, anche nell’ambito dell’attuale quadro politico, che, pur con tutte le sue insufficienze, è un quadro profondamente influenzato dagli effetti positivi dell’avanzata popolare e comunista di questi anni, in particolare di quella del 20 giugno.

La proposta del progetto nasce anche da una esigenza interna al movimento operaio: quella di evitare che non si comprendano bene le ragioni oggettive, l’obbligo di una politica di austerità, oppure che si corra il rischio di adagiarsi nella quotidianità, di assuefarsi al piatto tran-tran del giorno per giorno. Ma nasce soprattutto da una esigenza generale, di tutta la nazione, di avere finalmente un orizzonte diverso e dei concreti punti di riferimento.

La fase attuale della nostra vita nazionale è certo gravida di rischi, ma essa offre a noi tutti la grande occasione per un rinnovamento. Questa occasione non può essere perduta: essa è la più grande, forse, – sia detto senza retorica, – che si presenti al popolo italiano e alle sue più serie forze politiche da quando è nata la nostra repubblica democratica.

Sta qui una peculiarità italiana, di questo nostro paese dissestato, disordinato, si, ma vivo, carico di energie, forte di un grande spirito democratico; di questa nostra Italia che è forse la nazione nella quale la crisi è più grave che in altre zone del mondo capitalistico (e non soltanto in senso economico, ma anche in quello politico, di minaccia alle istituzioni democratiche), e nella quale, però, sono anche maggiori che in molti altri paesi le possibilità per lavorare dentro la crisi stessa, per farla diventare mezzo per un cambiamento generale della società.

La nostra iniziativa non è dunque un atto di propaganda o di esibizione del nostro partito. Vuole essere un atto di fiducia; vuole essere, ancora una volta, un atto di unità, cioè un contributo che sollecita quello di altri partiti per avviare un lavoro e chiamare ad un impegno comuni, che coinvolgano tutte le forze democratiche e popolari.

Anche per questo suo carattere e intento unitario, il nostro progetto non vuole essere, non deve essere, io credo, un programma di transizione a una società socialista: più modestamente, e concretamente, esso deve proporsi di delineare uno sviluppo dell’economia e della società le cui caratteristiche e modi nuovi di funzionamento possano raccogliere l’adesione e il consenso anche di quegli italiani che, pur non essendo di idee comuniste o socialiste, avvertono acutamente la necessità di liberare se stessi e la nazione dalle ingiustizie, dalle storture, dalle assurdità, dalle lacerazioni a cui ci porta, ormai, l’attuale assetto della società.

Ma chi sente questo assillo e ha questa aspirazione sincera non può non riconoscere che, per uscire sicuramente dalle sabbie mobili in cui rischia di essere inghiottita l’odierna società, è indispensabile introdurre in essa alcuni elementi, valori, criteri propri dell’ideale socialista.

Quando poniamo l’obiettivo di una programmazione dello sviluppo che abbia come fine la elevazione dell’uomo nella sua essenza umana e sociale, non come mero individuo contrapposto ai suoi simili; quando poniamo l’obiettivo del superamento di modelli di consumo e di comportamento ispirati a un esasperato individualismo; quando poniamo l’obiettivo di andare oltre l’appagamento di esigenze materiali artificiosamente indotte, e anche oltre il soddisfacimento, negli attuali modi irrazionali, costosi, alienanti e, per giunta, socialmente discriminatori, di bisogni pur essenziali; quando poniamo l’obiettivo della piena uguaglianza e dell’effettiva liberazione della donna, che è oggi uno dei più grandi temi della vita nazionale, e non solo di essa; quando poniamo l’obiettivo di una partecipazione dei lavoratori e dei cittadini al controllo delle aziende, dell’economia, dello Stato; quando poniamo l’obiettivo di una solidarietà e di una cooperazione internazionale, che porti a una ridistribuzione della ricchezza su scala mondiale; quando poniamo obiettivi di tal genere, che cos ‘altro facciamo se non proporre forme di vita e rapporti fra gli uomini e fra gli Stati più solidali, più sociali, più umani, e dunque tali che escono dal quadro e dalla logica del capitalismo?

E tuttavia questi criteri, questi valori, questi obiettivi, che indubbiamente sono propri del socialismo, riflettono un’aspirazione che non è esclusivamente della classe operaia e dei partiti operai, dei comunisti e dei socialisti, ma esprimono un’esigenza che oggi può venire – e anzi, viene già – anche da cittadini e strati di popolo e lavoratori di altre matrici ideali, di altri orientamenti politici, in primo luogo di matrice e ispirazione cristiana; è un’esigenza che può venire, e che viene in misura crescente, da aree sociali ben più ampie, che vanno ben al di là della classe operaia. La ragione principale per cui consideriamo la crisi come un’occasione, sta nel fatto che obiettivi di trasformazione e di rinnovamento come quelli che ho ricordato possono essere non solo compatibili, ma debbono e possono essere organicamente compresi dentro una politica di austerità, che è la premessa indispensabile per superare la crisi, ma andando avanti, non tornando al passato. Infatti, mi pare sia evidente che quegli obiettivi contribuiscono a configurare un assetto sociale e una politica economica e finanziaria organicamente diretti proprio contro gli sprechi, i privilegi, i parassitismi, la dissipazione delle risorse: realizzano, cioè, quello che dovrebbe costituire l’essenza di ciò che, per natura e definizione è una vera politica di austerità.

Anzi, si potrebbe osservare che come spesso, nelle società decadenti, sono andati, vanno insieme e imperano le ingiustizie e lo scialo, così nelle società in ascesa vanno insieme la giustizia e la parsimonia.

Naturalmente, questa convinzione non ci fa dimenticare, ma anzi ci impegna ad affrontare nella loro concretezza, i problemi immediati, le scelte da compiere, le priorità da imporre in ogni campo della politica economica, finanziaria, fiscale, dell’istruzione, allo scopo di prevenire i rischi di tracolli improvvisi, di bruschi arretramenti e di garantire, invece, che, passo a passo, si avanzi verso traguardi di efficienza e di giustizia, di produttività e di socialità. La ricerca dei nessi che devono legare i provvedimenti immediati all’avvio di questa linea di rinnovamento sarà certamente uno dei cimenti più impegnativi di tutti noi e di quanti vorranno contribuire e partecipare all’elaborazione compiuta di un progetto, che corrisponda alle caratteristiche ed alle esigenze che abbiamo cercato di delineare a grandi tratti.

Il nostro proposito è di arrivare nel giro di pochi mesi all’elaborazione di un testo che rappresenti una prima base di dibattito e di confronto, ma è anche di stimolare, prima e dopo la pubblicazione di tale testo, un vasto e continuo impegno d’iniziativa e di lotta. Anche e proprio perché sentiamo tutta la difficoltà di questa impresa, ma insieme anche la sua necessità e la sua forza di suggestione, ci siamo rivolti a voi, ci rivolgiamo a tutte le forze intellettuali affinché siano protagoniste – come ha detto Tortorella esponendo questo tema in un modo giusto ed efficace – e di proposte ed iniziative volte a ridare vitalità, a rinnovare le istituzioni culturali (a cominciare dalla scuola, dall’università e dai centri di ricerca) e, al tempo stesso, affinché diano il loro apporto alla elaborazione delle scelte complessive, e non solo di quelle di settore, che devono essere alla base del progetto.

Un appello, un invito cosi diretto ed esplicito alla cultura italiana ha oggi una sua ben precisa ragione: infatti, da un lato, come sappiamo, le forze intellettuali hanno oggi in Italia, come del resto hanno in quasi tutti i paesi capitalistici più sviluppati, un peso sociale quale non avevano mai avuto nel passato, e hanno anche, in Italia, in larghissima misura, un orientamento politico democratico e di sinistra; ma accanto a tale dato positivo (Giulio Einaudi ha messo bene in luce questa contraddizione) vi è quello, negativo, della condizione di crisi, di decadimento, di mortificazione in cui sono state precipitate le nostre istituzioni culturali dopo trent’anni di potere democratico-cristiano e di sviluppo sociale distorto e squilibrato. Ed è evidente che nessuna opera di salvezza e di rinnovamento generale del paese può andare avanti senza superare questa crisi, senza sciogliere questa contraddizione: senza, vorrei dire, una crescita del sapere e dell’amore per il sapere, senza un rinnovamento degli strumenti del sapere, affinché la produzione di cultura, e quindi le istituzioni culturali, siano artefici anch’esse del risanamento e del rinnovamento di tutta la società.

II modo in cui poniamo oggi la funzione della cultura per la trasformazione del paese corrisponde a una tradizione, a una peculiarità del Partito comunista italiano, come partito della classe operaia, come partito democratico e nazionale, come grande organismo che è esso stesso produttore di cultura. Noi ci siamo battuti sempre e ci battiamo per il progresso e l’espansione della vita culturale. Ma in questo nostro impegno dobbiamo sempre guardarci da interventi che possano, nella benché minima misura, ledere l’autonomia della ricerca teorica, delle attività culturali, della creazione artistica, giacché queste hanno come condizione vitale di sviluppo non quella di obbedire a un partito, a uno Stato, a un’ideologia, ma quella di poter dispiegarsi in pienezza di libertà e di spirito critico. Tale impostazione, che è parte della più generale visione che noi abbiamo dei rapporti tra democrazia e socialismo, si distingue da quella di alcuni partiti al potere in paesi socialisti; atteggiamenti e comportamenti del potere politico quali quelli di cui si ha notizia (per esempio in Cecoslovacchia dove siamo di fronte addirittura ad atti di tipo repressivo), sono per noi inaccettabili in linea di principio. Interpretando questa posizione generale del partito alcuni nostri compagni intellettuali hanno preso l’iniziativa di una dichiarazione pubblica, che noi consideriamo giusta ed opportuna. Fa parte irrinunciabile del nostro patrimonio una concezione che riconosce l’essere compito del partito comunista, degli altri partiti democratici e dei pubblici poteri, in quanto siano orientati anch’essi in senso democratico, da un lato la creazione del clima politico morale e dall’altro lato, l’attuazione delle condizioni materiali, pratiche, organizzative che consentano il positivo e libero sviluppo della ricerca, della iniziativa e del dibattito culturale. Ma non è compito né dei partiti, né dello Stato esigere obbedienze, far prevalere concezioni del mondo, limitare in qualsiasi modo le libertà intellettuali.

Ed io, cari compagni ed amici – non senza prima ringraziare tutti voi e in modo del tutto particolare il compagno Argan, che è venuto a rappresentare la città di Roma e la nuova amministrazione popolare romana – voglio concludere il mio intervento proprio con la tranquilla conferma di questa nostra impostazione: da essa non dobbiamo discostarci mai.

Enrico Berlinguer.

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