Da:
A. Natoli, Sul compromesso storico, Rivista di
Storia Contemporanea, 1 aprile 1977. - Aldo_Natoli è stato un politico e antifascista italiano.
... Mi interessa l'ipotesi che "fra la strategia del 'compromesso storico' [...] e quella del partito comunista delle origini non vi sia un rapporto evolutivo, bensì un cambiamento qualitativo, che implica il passaggio da una concezione generale del mutamento sociale ad un'altra". E' ciò su cui anch'io vado riflettendo da qualche tempo, non tanto sul piano della teoria quanto su quello della storia, e in relazione a problemi e scelte politiche di attualità. Per intendersi, è stato proprio questo tipo di riflessione a farmi scartare come inattendibile la prospettiva del "governo delle sinistre", avanzata in occasione delle elezioni del 20 giugno 1976 dalla cosidetta "nuova" sinistra. Se il PCI ha veramente mutato la propria "concezione del mutamento sociale", come credo, l'ipotesi di una sinistra unita allora formulata non poggiava su alcuna base. [...]
1-- Farò due osservazioni che costituiscono, in sostanza, l'ipotesi di lavoro che cercherò di verificare nello scritto che segue:
1) ci fu indiscutibilmente continuità ma non parentesi. Si trattò piuttosto della compresenza di due varianti, ora dominanti, ora recessive di un'unica linea generale di lungo periodo, per cui, più che di "ambiguità" come da qualcuno è stato fatto, si dovrebbe più esattamente parlare di una organica doppiezza.
2) la formazione di questa linea generale, più esattamente, la sua matrice deve essere fatta risalire alla fine degli anni Venti. Essa essenzialmente coincide con la vittoria di Stalin nella lotta per il controllo di tutto il potere nell'URSS e nella III internazionale; coincide anche con modificazioni profonde intervenute nell'assetto della struttura e del regime del capitalismo, per cui è possibile affermare che in quell'epoca si verificò il passaggio ad una fase storica successiva e diversa rispetto a quella, densa di fermenti rivoluzionari, che aveva fatto seguito alla rivoluzione d'Ottobre e alla fine della prima guerra mondiale. Ciò che mi preme sottolineare, nell'ambito dell'ipotesi che vorrei sostenere, è che quello fu il punto critico in cui anche nel movimento comunista dell'Europa occidentale si verificò una rottura soggettiva globale con gli orientamenti che in precedenza nell'URSS e nell'Internazionale comunista erano stati ispirati da Lenin, e nel Partito comunista d'Italia, tra il 1923 e il 1926, da Antonio Gramsci.
Il rapporto Lenin-Gramsci, recentemente riportato al centro della discussione teorica e politica, era stato ufficialmente sistemato da Togliatti [...] Questo approccio, prevalentemente ideologico, non privo di evidenti venature marxiste-leniniste, lasciava largamente in ombra l'apporto politico più fecondo che Gramsci seppe trarre da Lenin, la comprensione e l'assimilazione profonda della linea del Fronte unico che Lenin aveva proposto a partire dal III Congresso dell'Internazionale comunista (giugno 1921). [...]
Il rapporto Lenin-Gramsci, recentemente riportato al centro della discussione teorica e politica, era stato ufficialmente sistemato da Togliatti [...] Questo approccio, prevalentemente ideologico, non privo di evidenti venature marxiste-leniniste, lasciava largamente in ombra l'apporto politico più fecondo che Gramsci seppe trarre da Lenin, la comprensione e l'assimilazione profonda della linea del Fronte unico che Lenin aveva proposto a partire dal III Congresso dell'Internazionale comunista (giugno 1921). [...]
Fin dai primi mesi del 1920 Lenin aveva avvertito che l'attesa di rapidi sviluppi rivoluzionari nell'Europa occidentale era ormai priva di fondamento. [...]
Nel 1921 e nel 1922, la linea generale del Fronte unico, mettendo l'accento sulla conquista delle grandi masse, indicando la via del potere come una strada lunga e tortuosa, scaglionata di obiettivi parziali e intermedi, sottolineando la necessità vitale di una politica di alleanze, proponeva per la prima volta al movimento comunista internazionale una fase di transizione. [...]
2-- Tra la fine del 1923 e il maggio del 1924 Gramsci porta a termine l'isolamento di Bordiga e la formazione di un nuovo gruppo dirigente "centrista". [...]
Lo scontro politico era complicato e intorbidito dai rapporti tesissimi tra comunisti e socialisti, fra comunisti e "terzini" in Italia. Gramsci ebbe successo sul punto della disciplina e ciò era sufficiente a isolare Bordiga. Quanto all'accettazione della linea del Fronte unico, essa fu più formale che convinta [...].
...sotto la direzione di Zinoviev, la linea leniniana del Fronte unico aveva già subito, in una situazione resa sempre più difficile dall'incipiente "stabilizzazione" e dal proseguire del riflusso del movimento rivoluzionario, un progressivo svuotamento. [...]
Paradossalmente Gramsci aveva concentrato i suoi sforzi per guadagnare il PCd'I alla politica del fronte unico proprio nel momento in cui nel Comintern si affermava una deriva in senso opposto. [...]
Le tesi di Lione, scritte in collaborazione da Gramsci e da Togliatti, rappresentano il tentativo più organico e più avanzato che io conosca, compiuto da un partito comunista, per mantenere aperta la via della lotta proletaria di massa, nel senso del Fronte unico di Lenin, per la rivoluzione proletaria in un tempo (e in un paese) in cui quel cammino appariva ormai sbarrato, e per molto tempo. Indicano il terreno per la raccolta delle forze e per lo sviluppo dei processi sociali in una lunga fase di transizione. Tanto lunga che è inevitabile il contrasto fra la novità e l'esattezza dell'analisi delle strutture sociali da una parte e, dall'altra, l'indeterminatezza e la contraddittorietà degli obiettivi intermedi indicati. [...] Nel complesso Gramsci (e qui anche Togliatti) dimostra di aver raccolto in modo creativo la lezione di Lenin degli anni 1920/21, quando nel declino della fase rivoluzionaria indicava ai partiti comunisti la via della maturazione nell'esperienza della lotta di massa, l'avvicinarsi della conquista del potere politico attraverso la tormentata transizione all'interno del processo sociale. E' ciò che Gramsci più tardi, nella riflessione del carcere esprimerà nella celebre formulazione: " Mi pare che Ilici aveva compreso che occorreva un mutamento dalla guerra manovrata, applicata vittoriosamente in Oriente nel 17, alla guerra di posizione che era la sola possibile in Occidente (...). Questo mi pare significhi la formula del "fronte unico" (...). Solo che Ilici non ebbe il tempo di approfondire la sua formula...".
Anche a Gramsci mancò il tempo di approfondire le tesi di Lione (se non per la questione meridionale); quanto a Togliatti, non dovrà passare molto tempo perché venga costretto a pensare ad altro.
3-- Gli anni fra il 1926 e il 1929 determinarono per un intero periodo storico i destini dell'URSS e del movimento comunista internazionale. Io penso che ancora oggi non abbiamo finito di fare i conti con quegli eventi storici e che non è possibile comprendere pienamente l'evoluzione successiva del partito comunista italiano, fino a ciò che esso è divenuto in questi anni, se non si risale a quella vigilia degli anni Trenta. Da allora esso, nel bene e nel male, fu segnato da un'impronta ancora non cancellata; da allora data l'origine della sua forza e delle sue debolezze. [...]
Sono gli anni in cui Stalin, battendo uno dopo l'altro tutti i suoi avversari, si assicura il controllo di tutto il potere nel partito comunista russo, nello stato sovietico, nell'Internazionale comunista. [...]
L'elemento decisivo della vittoria di Stalin fu l'aver associato allo smisurato potere che già possedeva nel controllo dell'organizzazione e dei quadri del partito, la grande spinta mobilitatrice, politica e ideale, proveniente dalla idea-forza della "costruzione del socialismo in un solo paese". Stalin fu l'uomo che, nel riflusso del movimento rivoluzionario in Occidente, di fronte al consolidarsi della "stabilizzazione" capitalistica, ebbe l'audacia di proporre una strada praticabile per l'edificazione di una Russia socialista.
Di fronte all'incapacità di Trotzkij e della "sinistra" di proporre un'alternativa comprensibile per le grandi masse, l'appello di Stalin parlava direttamente alle speranze del popolo russo, possedeva la carica necessaria per stimolarne al massimo l'entusiasmo e le risorse. Per questo Stalin vinse e, naturalmente, per l'uso senza limiti che sempre fece del potere.
Fu in questi anni, mentre nell'URSS, nella collettivizzazione forzata e nell'industrializzazione accelerata, si creavano le strutture autoritarie che avrebbero costituito le basi del dispotismo, che mutò anche in modo radicale e definitivo il rapporto fra il "primo stato socialista" e le forze rivoluzionarie raccolte nell'I.C. Fu un processo che si svolse con grande rapidità, strettamente intrecciato con la liquidazione di ogni opposizione all'interno del partito russo, e che era già compiuto alla metà del 1929 (X Plenum dell'Esecutivo).
Il tratto più rilevante di questo processo fu il totale controllo del partito russo sugli organi di direzione dll'I.C., la conseguente rigida centralizzazione, la perdita di ogni autonomia da parte dei partiti aderenti, la loro epurazione dagli elementi dissidenti, in particolare "trotzkisti", il loro regolare schierarsi in appoggio e in difesa di tutti gli atti della politica interna ed estera dell'URSS, il rilievo preminente che nella loro attività venne assumendo il tema della difesa dell'URSS dalla minaccia della guerra.
Queste modificazioni nella fisionomia, nella struttura organizzativa, nel regime interno, nella cultura e nella ideologia dei partiti comunisti sono passate alla storia sotto il nome di "bolscevizzazione", un termine messo in circolazione dopo la morte di Lenin, quando ancora tra Zinoviev e Stalin vi era un rapporto tra alleati. In realtà esso è servito a mistificare l'idea, che Lenin aveva avuto (vi ho già accennato) nel 1920/21, di promuovere una maturazione dei partiti comunisti nello spirito bolscevico degli anni 1903-1917. Era l'idea che stava alla base della proposta del Fronte unico, terreno di crescita dei partiti all'interno delle lotte di massa, rottura di chiusure settarie, alleanze con forze sociali e politiche per tutta una fase di transizione, anche lunga, al potere proletario.
La “bolscevizzazione” degli ultimi anni Venti (che più giusto sarebbe chiamare con il suo vero nome, stalinizzazione) non aveva più nulla in comune con le idee di Lenin, era un insieme di misure organizzative dettate dall’alto il cui tratto principale era la trasformazione monolitica del regime dei partiti e la loro totale subordinazione alla centrale dell’I.C. ormai dominata dal partito russo. […]
4 Era l'inizio della stalinizzazione del Pcd’I nel senso che ho cercato di chiarire più sopra e ciò implicava ed implicò non solo la rimozione, per disciplina o per calcolo o per zelo, ma una reale rottura con la linea e la ricerca politica di Gramsci, e insieme con la creatività del pensiero di Lenin, nella misura in cui il marxismo-leninismo di Stalin lo confezionava in un catalogo di precetti catechistici.
Ciò che scompariva era la concezione stessa del movimento rivoluzionario come agente politico-sociale del processo di transizione, prima e dopo la presa del potere, l’acquisizione di coscienza cui Lenin era giunto fra il 1919 e il 1921 attraverso l’esperienza dei primi anni della Russia postrivoluzionaria, di fronte alla fase declinante del movimento rivoluzionario in Occidente.
All’inizio degli anni Trenta in Europa non vi era alcun paese nel quale si potesse sperare che la presa del potere fosse all’ordine del giorno e Stalin per conto suo, da tempo aveva nutrito un profondo scetticismo sulle possibilità di sviluppi rivoluzionari prossimi nel continente. [...]
Ciò che colpisce, invece, nella linea dell’I.C. è la scomparsa di ogni vestigio della leniniana scienza della rivoluzione proletaria, surrogata nel cosiddetto “terzo periodo” dall’insistente e vano appello in vista del prossimo crollo provocato dall’acutizzarsi della crisi generale del capitalismo. Il processo della transizione è stato sostituito dal mito della radicalizzazione. La minaccia dell’aggressione all’URSS, minaccia che in verità non si profilò mai seriamente almeno fino al 1933, costituì uno degli ingredienti indispensabili per raggiungere il voluto grado di mobilitazione e di compattezza nelle organizzazioni.
Ma quando il fascismo avrà vinto in Germania, quando la sua ombra (e la minaccia connessa di guerra) si stenderanno su tutta l’Europa; quando l’esperienza di cinque anni avrà dimostrato che l’aggravamento della crisi del capitalismo non porta affatto con sé automaticamente né il crollo né la radicalizzazione delle masse, allora i partiti comunisti si troveranno isolati, privi di strategia, privi di tattica; passerà almeno un anno e mezzo prima che essi divengano in grado di ricominciare a lavorare per organizzare un nuovo schieramento di lotta.
5 [...]La vittoria di Hitler in Germania provocò un duplice riflesso di difesa. Prima di tutto le organizzazioni del movimento operaio dell’Europa occidentale (e l’iniziativa partì dalla socialdemocrazia) si sentirono direttamente minacciate dall’avanzata del fascismo. Si aprì un contrastato processo di riavvicinamento che, fra il 1934 e il 1936, portò alla costituzione di schieramenti unitari di difesa antifascista, costituiti da comunisti, socialisti, partiti della sinistra democratica. […]
Il fatto nuovo, segno della novità dei tempi, era costituito dalla presenza nel Fronte popolare, in posizione preminente, di forze politiche borghesi, la formazione di governi di coalizione, con il sostegno o con la partecipazione dei comunisti, governi che non erano né “sinonimi“ della dittatura del proletariato e nemmeno forme di transizione verso di quella. Erano governi di difesa antifascista, cui le masse operaie potevano imporre con la lotta rivendicazioni sociali anche avanzate, nel quadro intangibile del capitalismo e, fino a un certo punto, della democrazia. Tali obiettivi politici e sociali dei partiti comunisti non dovevano intaccare quel quadro e più di una volta (sia in Francia che in Spagna) essi intervennero nei confronti di certe forze politiche e delle stesse masse operaie perché quei limiti non venissero superati.
La presa del potere era ormai un obiettivo remoto, collocato al termine di un lungo cammino comune da percorrere insieme con gli alleati nella lotta contro il fascismo, ma i passaggi intermedi rimasero imprecisati, malgrado il tentativo di Togliatti di riprendere il discorso sugli obiettivi transitori.
[…] nel disegno di Stalin non vi era soltanto la difesa dell’URSS. Certo la difesa dell’URSS era il punto centrale di quel disegno;[…]. Ma il Fronte popolare di difesa delle libertà democratiche contro il fascismo, nell’idea che Stalin si faceva degli sviluppi della rivoluzione mondiale, aveva da assolvere compiti propri all’interno dei paesi capitalistici, delle loro interne contraddizioni e delle contraddizione tra di essi.
In primo luogo e immediatamente il compito di mantenere aperto e di accentuare il contrasto tra paesi già fascistizzati e paesi a regime democratico e così impedire la formazione di una coalizione che presto o tardi si sarebbe rivolta contro l’Unione Sovietica.
In secondo luogo, il VII congresso non aveva affatto smentito o, tanto meno, rinnegato l’analisi del fascismo condotta dal XIII esecutivo dell’I.C. nel dicembre 1933: attanagliato dalla crisi generale , il capitalismo non sarebbe più stato in grado di mantenere la propria dittatura con “i vecchi metodi del parlamentarismo e della dmocrazia borghese”, di conseguenza sarebbe stato “costretto” a passare alla dittatura fascista , “terrorista aperta”.
Su questa base “teorica”, la lotta per la difesa e il consolidamento delle libertà democratiche condotta dai comunisti nei fronti popolari non serviva soltanto a combattere immediatamente il fascismo, ma puntava ad approfondire all’interno del regime capitalistico una contraddizione ormai ritenuta intollerabile e, per questo, destinata a determinarne il crollo. Venuto meno il crollo economico per effetto della crisi “finale” degli inizi degli anni Trenta, si profilava adesso l’ipotesi di un crollo politico, esito terminale dell’espansione della democrazia all’interno di involucri politici incapaci di contenerla e destinati a scoppiare. […]
6 L’Internazionale comunista aveva cessato di svolgere un ruolo internazionalista fin dal 1929, quando si era trasformata in un organo di coordinamento, di sostegno e di promozione del movimento comunista nel quadro ideologico del marxismo-leninismo tolemaico di Stalin, nel quadro politico-strategico della difesa del primo stato “socialista”. Bisogna poter risalire al clima di “ferro” degli anni Trenta per avvertire quanto, pur in quell’ambito, vivesse di eroico e di esaltante nello scontro gigantesco fra il capitalismo “morente” e l’epica dei grandi cantieri del socialismo. E c’è chi ricorda ancora il richiamo vibrante del VII congresso, la grande illusione del primo anno della guerra di Spagna. Ma l’altra faccia, quella allora pressoché totalmente sconosciuta e, comunque, negata o rimossa, era che proprio in quegli anni nell’URSS veniva estinto ogni germe di socialismo e sviluppato a sistema di governo il terrore di massa.
A partire dallo scoppio della seconda guerra mondiale, fra il 1939 e il 1941, l’I.C. aveva perduto gran parte del proprio prestigio […].
Lo scioglimento avvenne nella primavera del 1943 in un momento in cui, dopo la grande battaglia di Stalingrado, le sorti della guerra si andavano rapidamente capovolgendo e la sconfitta finale del nazismo appariva inevitabile. La motivazione era che ormai i partiti comunisti avevano raggiunto la maturità che li rendeva capaci di portare avanti la loro lotta senza il collegamento con un centro di direzione: era la fase in cui gli sviluppi della guerra richiedevano l’intensificazione degli sforzi in vista dell’unità nazionale antifascista e della lotta armata nei paesi dell’Europa ancora occupata dagli eserciti nazisti.
Era il momento, dunque, nel quale gli alleati nella guerra antifascista cominciavano a discutere non solo su come concludere più efficacemente e rapidamente la guerra, ma anche sui problemi dell’assetto del mondo nella pace futura. [...]il capitalismo (quello americano) aveva dimostrato di essere tutt’altro che sull’orlo del crollo. Con esso bisognava fare un buon tratto di strada insieme anche dopo la fine della guerra. Stalin non aveva affatto rinunziato al suo piano di rivoluzione mondiale. Intanto l’Unione Sovietica doveva battere definitivamente il nemico principale, il nazismo; poi avrebbe avuto bisogno di alcuni piani quinquennali per rimarginare le perdite, subito bisognava assicurarsi il massimo possibile di posizioni avanzate consentito dall’esito della guerra. […]
7 E’ noto che lo spostamento di Togliatti dalla tattica del “socialfascismo” alla linea del Fronte popolare non fu né pronta, né agevole.
[…] Penso però che riuscì a superare la nuova contraddizione con la “parentesi” del periodo 1929-1934, quando più solidamente poggiò sulla base di continuità che, travalicando le svolte tattiche, si prolungava dall’una fase nell’altra, dal VI al VII Congresso: e cioè il ruolo primario e decisivo dell’URSS nella strategia della rivoluzione mondiale, la difesa dell’URSS, dunque, come compito primario del movimento comunista internazionale, nell’identità assoluta degli interessi immediati e delle prospettive future, né più né meno la strategia di Stalin, che egli condivise pienamente e che proclamò dalla tribuna del VII Congresso dell’I.C.
Togliatti ormai era totalmente all’interno del quadro politico e storico di quegli anni, la cui linea di sviluppo era, nella radice, nella direzione, negli obiettivi finali su un altro piano, quello che ho cercato di tratteggiare poco più sopra, rispetto alla linea Lenin-Gramsci (Fronte unico-transizione rivoluzione proletaria) della prima metà degli anni Venti.
Ciò non vuol dire che in lui fosse del tutto spento il retaggio del patrimonio culturale, politico, ideale che aveva accumulato in quegli anni. […]
Lo dimostra soprattutto il tentativo fra il 1935 e il 1936, in relazione con i prodromi e poi con lo scoppio della guerra civile in Spagna, di riprendere il discorso sulla fase di transizione nella lotta “classe contro classe” negli anni del socialfascismo. Nella Spagna del 1936, nel quadro delle alleanze del Fronte popolare, nella lotta armata contro il fascismo e per il completamento della rivoluzione democratico-borghese, la classe operaia, avanguardia di quella lotta, avrebbe dovuto conquistarne la direzione e imporre l’attuazione del programma di una “democrazia di tipo nuovo”, fondata su riforme sociali, anzitutto la riforma agraria, elemento di sviluppo dinamico del processo rivoluzionario.
Questa riflessione di Togliatti merita di essere ricordata perché è l'unico caso, a mia conoscenza, di un tentativo, nell’Europa di quegli anni, di scavare una prospettiva di sviluppo rivoluzionario all’interno del quadro del Fronte popolare. Nello stesso tempo non si può non rilevare che l’indicazione non fu mai trasformata in una proposta fuori dal brillante saggio in cui apparve; non assunse mai una dimensione politica pratica e, comunque, fu immediatamente travolta dalla piega assunta dagli sviluppi della guerra di Spagna. [...] In Spagna, le divisioni all’interno del movimento rivoluzionario da una parte, le pressioni provenienti dalle esigenze internazionali dall’altra (le une e le altre mediate dalla regia di Stalin) bloccarono ogni velleità in quella direzione. Togliatti non dimenticherà quella lezione. […]
La “democrazia di nuovo tipo” o “progressiva” farà la sua ricomparsa in Italia tra il 1943 e il 1946, ma la sua sorte non sarà diversa da quella toccatale in Spagna. […]
Il Fronte popolare non fu affatto il recupero del Fronte unico nel senso di Lenin, così nel 1935 e nel 1936 non vi fu un ricollegarsi di Togliatti al Gramsci del 1925 e del 1926, ma piuttosto l’acquisizione di una concezione della democrazia che era totalmente estranea a Gramsci. In dieci anni, vi ho già accennato, si era passati da una fase storica ad un’altra: il Fronte unico di Lenin (e di Gramsci) poggiava sulla organizzazione delle masse operaie e contadine come protagoniste della fase di transizione della rivoluzione proletaria. Per contro, l’alleanza democratica e antifascista del Fronte Popolare sorgeva e poteva svilupparsi nei limiti segnati, da una parte, dal quadro democratico borghese, capitalistico, che non doveva essere spezzato, dall’altra, dalla politica internazionale dell’URSS alla vigilia dello scoppio della seconda guerra mondiale; la rivoluzione era ormai rinviata ad un crollo remoto, ad una rottura di equilibrio fra il capitalismo morente e il primo paese “socialista” trionfante. Non si potrebbe immaginare nulla di più lontano dalle idee di Gramsci fra il 1923 e il 1926 e dalle due successive riflessioni negli anni del carcere.
8 […] La linea e gli obiettivi del Fronte popolare ritornarono ampliati nell’unità nazionale per la guerra di liberazione nell’Europa occupata dai nazisti. Ciò favorì l’espansione di una nuova ondata del movimento antifascista e rivoluzionario in forme e livelli diversi e con diversa fortuna soprattutto in Grecia, in Iugoslavia, in Francia, in Italia.
Togliatti fu uno degli animatori più vivaci e più convinti della nuova svolta; essa si inseriva esattamente, ampliandola, sulla linea di sviluppo che si era interrotta nel 1939. Fu la fase in cui la linea di difesa e di riconquista democratica si saldò con la lotta nazionale di liberazione antifascista, come veniva sottolineato nella risoluzione di scioglimento del Comintern di cui egli fu uno degli artefici.
[…] Quando torna in Italia, sa perfettamente che anche l’epoca del Fronte popolare è passata, solo in termini vaghi e propagandistici parlerà di “democrazia progressiva” e già nell’agosto 1945, al convegno economico del PCI, non esiterà a spegnere ogni illusione al riguardo. Il suo è un disegno di lungo periodo il cui cardine è l’alleanza della “classe operaia e del popolo” con la borghesia antifascista, attraverso la rappresentanza e la mediazione del partito democristiano; leva primaria è l’uso, attraverso il governo, delle strutture statali, l’organizzazione, in un assetto predisposto dall’alto, di un movimento popolare capace di colmare di democrazia quell’involucro, ma senza romperlo, almeno per un lasso di tempo indeterminato, certamente lungo:
In questo disegno, l’accentuazione degli elementi politici e di organizzazione politica (il partito nuovo, l’alleanza dei tre partiti di massa, l’azione statale) rispetto al momento delle lotte sociali e di massa, finiranno col conferire un significato letterale alla prospettiva della “guerra di posizione” svuotandola del carattere di processo di transizione costruito sulla dinamica degli obiettivi intermedi.
Nella lotta di classe nessuna rottura, anzi una tregua nella quale la classe operaia avrebbe collaborato alla ricostruzione delle forze produttive e dei rapporti di produzione capitalistici; nella sfera politica la partecipazione del partito comunista al governo, non senza illusioni costituzionali, e, creazione originale e durevole, il partito nuovo, della classe operaia e del popolo, di massa e di governo. Fu questa una delle intuizioni più geniali di Togliatti e certamente la costruzione più coerente con la prospettiva per la quale lavorò almeno fino al 1946: un periodo di sviluppo democratico, un quadro di graduale avanzata popolare, garantito dalla collaborazione delle potenze vincitrici della guerra. La prospettiva di una trasformazione rivoluzionaria era ormai legata ad un futuro spostamento a favore dell’URSS dell’equilibrio creatosi alla fine della seconda guerra mondiale. Era questo l’elemento staliniano, tolemaico, nuova variante della teoria del crollo, già operante nell’Europa centro-orientale, che, dopo lo scioglimento della I.C., era divenuto legge imperativa e vincolante per il movimento comunista. In Italia, già allora, funzionò come un’ipoteca. […]
Io penso che negli anni 1944-46 non esistessero in Italia né le condizioni né le forze necessarie per tentare una spinta rivoluzionaria di tipo socialista; penso che la leggenda, fiacca del resto, della rivoluzione mancata non abbia nessun fondamento; è altrettanto vero però che il modello cavurriano funzionò in modo restrittivo, soffocando un intervento più avanzato delle masse operaie e contadine in vista di trasformazioni sociali nel regime di fabbrica e nella questione della terra, nell’allargamento dei poteri democratici di base. Alcune battaglie possibili furono perdute senza combattere e se le tensioni all’interno del partito e fra partito e masse furono, nel complesso, controllate e riassorbite senza gravi fratture, quando dopo il 1947 la “guerra di posizione”, nella mutata situazione internazionale, sarà definitivamente fissata in una guerra di trincea difensiva, la nuova “parentesi” del Cominform rimetterà in circolazione i miti già falliti del VI Congresso e del XIII plenum: il sistema capitalistico votato alla stagnazione e al crollo, il suo regime politico incapace di sopravvivere nella democrazia; la difesa dell’URSS, nell’epoca della minaccia atomica, sarà la difesa della pace nel mondo.
9 E’ fra il 1947 e il 1956 che il PCI sostiene le prove decisive che assicureranno la crescita e il consolidamento del partito di massa, del partito “nuovo”. Mentre, sul piano internazionale, dopo la rottura della grande alleanza antifascista, infuriava la guerra fredda, sul piano interno il PCI dovette affrontare in una grande battaglia difensiva l’attacco che mirava a spezzare la sua unità con il PSI e a isolarlo dalle masse. Il terreno della lotta fu la difesa ad oltranza delle libertà democratiche scritte nella nuova Costituzione. Il PCI si presentò e svolse effettivamente il ruolo del baluardo della libertà. Fu una scelta vincente:
[...] Ciò che caratterizzò questa fase fu un’accentuazione della separazione, già chiaramente profilatasi fra il 1944 e il 1947, fra lotta politica e lotta sociale. La classe operaia è chiusa nella più stretta difensiva, costretta a subire il peso della ricostruzione capitalistica e poi della nuova accumulazione che sarà la base del successivo miracolo economico. Anche i problemi delle libertà operaie nella fabbrica vengono visti in termini di democrazia formale, di entrata della Costituzione nella fabbrica, del tutto staccati e variamente sovrapposti alle forme reali dei rapporti di produzione. La divaricazione fra sfera politica e sfera sociale ne risultava approfondita, ed è qui, secondo me, la spiegazione del fatto che la vittoria sulla legge-truffa di De Gasperi e di Scelba nel 1953, non segnò alcuna ripresa di un’egemonia operaia, anzi fu a breve distanza seguita dalla disfatta nelle elezioni per le commissioni interne alla Fiat.
D’altro canto questo e non altro era il terreno di lotta imposto da una parte dal rilancio dello sviluppo capitalistico sotto la guida USA e, dall’altra, dalla strategia staliniana nella sua variante difensiva che Togliatti attuava con raffinata versatilità tattica. […]
Contemporaneamente gli sfuggivano i processi apertisi nella nuova fase di sviluppo del capitalismo, non mise mai in discussione la categoria della “stagnazione” che sarebbe stata, secondo gli economisti del Cominform, la caratteristica preagonica del capitalismo postbellico. Il suo economicismo proveniva forse, paradossalmente, da un disprezzo dell’economia. Punto fermo in questo sistema, prima e dopo la morte di Stalin (1953), rimase il ruolo dell’URSS, di agente decisivo del crollo futuro e, intanto, di caposaldo la cui difesa era il primo e fondamentale compito dei partiti comunisti.[…]
In tale ottica, totalmente esclusa anzi incompatibile risultava la stessa concezione della fase di transizione, come terreno di lotta per la ricomposizione fra la sfera politica e quella sociale nella prospettiva del potere, la linea Lenin-Gramsci degli anno Venti, cui più volte ho accennato. Il richiamo che ne faccio qui non significa che io pensi che negli anni Cinquanta fosse attuale e possibile un ricollegamento con quella linea, mi serve piuttosto per marcare l’estinzione di quella concezione del farsi del movimento rivoluzionario, grossolanamente mistificata dagli odierni assertori di una transizione tutta politica che sarebbe già in atto.
Nel vuoto fra lo sforzo per mantenere aperta la via democratica e un crollo finale promosso dall’esterno e dall’alto, crebbe nel PCI quella che Togliatti nel 1956 chiamerà la “doppiezza”, la quale non era ora il risultato di una reale incertezza di prospettiva, di una doppia prospettiva come in Zinoviev al V Congresso dell’Internazionale comunista; ma, al contrario, della certezza della subordinazione della “via italiana” ad una rottura di equilibri internazionali in cui l’URSS avesse il sopravvento. Non fu solo uno stato d’animo ingenuo del militante di base (ha da venì Baffone!), fu anche un comportamento politico a livello dirigente, inevitabile in un partito comunista costretto al deperimento del proprio modo di essere partito rivoluzionario, promotore e agente del processo sociale e politico della transizione.
In sostanza già in questi anni (e in modo più accentuato dopo il 1956) la lotta per mantenere aperti spazi democratici e, più tardi, per l’espansione della democrazia sembra funzionare come un processo di “rivoluzione passiva” in un sistema politico che non dimostra maggiori tendenze al crollo di quante ne aveva manifestate il capitalismo negli ultimi cinquant’anni. Occupa spazi interni, compatibili con le istituzioni, senza limitazioni, e tanto meno dualismo, nella gestione del potere.
10 Il 1956 è un anno che per il movimento comunista corrisponde a un crinale fra due epoche storiche . Esso inizia con il XXCongresso del PCUS e, per il partito comunista italiano, si chiude con l’VIII Congresso. Khrusciov senza alcun preavviso aveva fatto esplodere due bombe ad alto potenziale: la prima, con la demolizione tanto clamorosa quanto sommaria del mito di Stalin; la seconda, con la proclamazione dell’era della coesistenza pacifica fra URSS e USA e, di conseguenza, con l’indicazione che nella lotta per il potere i partiti comunisti dovevano muoversi sulla strada della democrazia, anche della democrazia parlamentare.
Non è mio compito analizzare le origini e le motivazioni della svolta di Khrusciov. Mi limiterò alle ripercussioni nella strategia del PCI e ciò equivale a cercare di comprendere nell’essenziale la linea adottata da Togliatti. […]
Anzitutto, Togliatti non riesce a portare a fondo la critica a Stalin e al regime staliniano. Si potrebbe dire che egli razionalizza la scomposta critica di Khrusciov, ma la sostanza è identica: Malgrado gli “elementi di tirannide”, gli “sbagli di ordine generale”, gli “atti delittuosi e moralmente ripugnanti”, le “degenerazioni” nei processi di centralizzazione e burocratizzazione, la natura socialista e democratica della società sovietica non sarebbe stata intaccata. E’ una analisi tutta sovrastrutturale che non si spinge mai fino ad esplorare , anzi ignora la natura dei rapporti di produzione e dei rapporti sociali, che dà per scontato proprio ciò che doveva essere dimostrato, cioè la “struttura politica democratica” dei soviet.
Togliatti, come del resto Trotzkij tanti anni prima di lui, non riesce a superare la contraddizione contenuta nell’affermazione che il regime staliniano sarebbe stato una mostruosità ma che la società socialista si sarebbe conservata intatta come una sostanza eterna e incorruttibile.
Io credo che questa tesi non possa essere accettata anzi debba essere respinta perché essa implica una condanna circoscritta al regime politico staliniano, tralasciando totalmente l’analisi della struttura materiale economico-sociale sulla quale esso poggiava (o meglio con la quale esso era indissolubilmente intrcciato), e ciò porterebbe ad ammettere implicitamente una totale indipendenza e divaricazione fra la struttura materiale e il regime politico[…].
D’altro canto, questo limite che egli non poteva, o non volle , valicare influirà pesantemente sulle sue scelte strategiche successive. La sua presa di distanza, il suo rifiuto di quel modello di società, pur sempre riconosciuta come “socialista”, lo spingeva a concepire in alternativa la lotta per il socialismo come un indefinito avanzamento di progressi democratici senza rotture, una conquista graduale degli istituti della democrazia borghese da parte del partito “nuovo”, della classe operaia e del popolo.
Vi era in questo orientamento una ripresa vivace, più che giustificata anzi ovvia, dei motivi ispiratori della politica del 1944, da Salerno in poi. Ma la vera novità, quella che si esprimerà compiutamente nella Dichiarazione programmatica dell’VIII Congresso, non è secondo me la “novità della politica di Salerno”, come ha affermato recentemente Ingrao. La novità consiste nelfatto che con la proclamazione da parte di Khrusciov dell’inizio dell’epoca della coesistenza pacifica era venuto meno il quadro internazionale in cui quella politica era integralmente inscritta e cioè la prospettiva del “crollo” del sistema capitalistico, almeno nei suoi anelli più deboli, nello spostamento degli equilibri a favore dell’URSS.
Non ci sarebbero stati più “crolli”, la via democratica, anzi adesso la via parlamentare, cessava di essere una scelta tattica sia pure di lungo periodo per acquistare pienamente la dimensione e la autonomia di una strategia, di una via nazionale, cui era venuto meno il collegamento internazionale la prospettiva della rivoluzione.
[…] Nell’VIII Congresso del PCI, la via italiana al socialismo tende ad uscire da quel quadro, per la prima volta, cominciando a prospettare la permanenza dello sviluppo della democrazia come campo generatore del socialismo, nell’ambito degli equilibri della coesistenzapacifica. In questo senso è vero che si trattò di una “rifondazione strategica”. Come pure è vero che nella Dichiarazione programmatica dell’VIII Congresso “si liquida ogni forma di doppiezza sul problema della democrazia politica”. Giova però riflettere sul fatto che l’altra faccia della doppiezza consisteva nella sopravvivenza, sia pure nella forma mistificata del “crollo”, del fantasma della rivoluzione socialista. E’ questo fantasma che viene liquidato nel 1956, […] l’espansione della democrazia, che fino alla crisi del 1956 aveva funzionato da contraddizione non superabile all’interno del regime politico del capitalismo, destinata a concorrere nella prospettiva del “crollo”, adesso tenderà ad assumere valore primario di processo graduale cui l’egemonia operaia imprimerebbe la direzione del socialismo. Ma è possibile una egemonia operaia senza la liberazione della classe da rapporti sociali e di produzione oppressivi e di sfruttamento? Mentre nell’analisi del regime sovietico Togliatti sembrava ammettere la persistenza del socialismo anche sotto un regime tirannico, nella strategia della via italiana il socialismo germinerebbe spontaneamente ad un certo livello di crescita della democrazia. Una transizione tutta politica, svuotata dei suoi contenuti sociali. […] Se era decisamente contrario alla persistenza della pratica dello stato-guida e del partito-guida, se rivendicò non solo autonomia, ma perfino policentrismo, ciò non significò mai per lui rottura con l’URSS; se il legame con essa non poteva essere più di “ferro”, esso continuava ad avere un carattere ombelicale. […] Così per l’URSS, pensava che il sistema potesse essere sanato con l’innesto di riforme democratiche e certamente non fu mai sfiorato dal sospetto che il problema reale fosse quello della ripresa della lotta per la rivoluzione comunista. […] Per tutti questi motivi, pur non avendo mai abbandonato la prospettiva della trasformazione rivoluzionaria, ma avendola rinviata ad un futuro indeterminato, non fu in grado di proporre neanche le vie d’accesso in quella direzione, ma solo un avanzamento indefinito in una democrazia che, adesso, non si fregiava più nemmeno dell’aggettivo “progressiva”.
11 […] la presa di coscienza delle nuove possibilità di sviluppo rivelatesi nell’evoluzione delle strutture del capitalismo, lo svuotamento della categoria della “stagnazione” non porteranno ad una analisi delle contraddizioni inerenti al nuovo livello dell’imperialismo, ma alla strategia delle riforme di struttura (nazionalizzazioni e riforme politiche) e, al più, a un serio aggiornamento della linea e delle forme di lotta del sindacato.
I tentativi di riprendere e di rinnovare la tematica della lotta operaia anticapitalistica, di riproporre il rapporto produzione-politica (polemica sul controllo operaio, tentativi di riprendere l’analisi marxiana ripartendo dall’inchiesta sulla fabbrica moderna) saranno emarginati e respinti.
Dominante sarà la manovra politica nei confronti del centro-sinistra, fino al punto di impedire la comprensione della crisi sociale che lo travolgerà, crisi aperta dalla vasta ripresa delle lotte operaie e culminata negli anni 1968 1969. In primo piano, in modo esclusivo d escludente è ormai “un discorso di pure forme politiche proprio quando […] alla sinistra nel suo insieme [ si apre] la possibilità di cominciare a costruire la fuoriuscita da un sistema di potere”.
Infatti gli anni 1968 e 1969 segneranno un altro momento di svolta, da una parte in continuità con il 1956 per la prevalenza del momento internazionale (la crisi cecoslovacca), dall’altra rispetto a quello completamente nuovo per l’apertura della più profonda e acuta crisi sociale di tutto il dopoguerra e per il ruolo di primo piano che in questa svolse la classe operaia.
Sul piano dei rapporti internazionali la crisi cecoslovacca stimolò ulteriormente il processo di autonomizzazione dall’URSS, in modi e forme che erano stati ben previsti da Togliatti nel Memoriale di Yalta. Ma non si trattò affatto di un processo rettilineo, ne ritornarono in primo piano le istanze policentriche. Il contrasto che si aprì allora non fu più sanato e, anche se fu sottaciuto per alcuni anni, rimase latente fino a questi ultimi quando riapparve in pieno, assumendo la fisionomia dell’”eurocomunismo”. Il rapporto politico con l’URSS apparve ormai largamente svuotato dei suoi contenuti, non è più una scelta di campo (si pensi a certe dichiarazione di Berlinguer sul Patto atlantico); sopravvive attraverso la solidarietà ideale con la rivoluzione d’Ottobre. La logica dei blocchi statali-militari è rifiutata, la prospettiva è l’istituzionalizzazione della distensione mondiale fondata sul superamento dei blocchi.
L’ulteriore passo verso la totale autonomia dalla politica sovietica non è affatto il risultato di un approfondimento dell’analisi delle strutture della società e dello stato sovietici, rimasta ferma al 1956; piuttosto sembra procedere di pari passo con l’acquisizione degli istituti, dei valori e perfino dei miti della democrazia politica, nonché con il graduale approssimarsi del PCI alle soglie della cogestione del governo e del potere.
Manca parimenti anche il tentativo di una analisi dei nuovi meccanismi di crisiapertisi nell’econimia mondiale agli inzi degli anni Settanta, nonché della politica imperiale americana dopo la sconfitta del Vietnam. Nell’orizzonte internazionale di Berlinguer affiorano curiosamente, e senza alcun visibile fondamento, aspirazioni di sapore utopistico come il governo mondiale, una giusta ripartizione delle risorse. L’ecologia sembra avere il sopravvento sul metodo dell’analisi di classe.
E’ a partire dal 1968 che il PCI assume sempre più chiaramente il ruolo di firza stabilizzatrice delle istituzioni democratiche di fronte alla strategia eversiva della destra, parallelamente al suo crescente intervento nel controllo della crisi sociale. E’ negli anni 1968 e 1969 che il PCI accumula i titoli necessari a dare credibilità presso gli strati intermedi della società alla prospettiva del “compromesso storico” che avanzerà alla fine del 1973, nell’atmosfera di profonda emozione suscitata dalla tragedia cilena. E’ allora che esso ha rifiutato la tentazione di costruire una fase di transizione sopra la crisi che la lotta operaia ha scatenato nei meccanismi dell’accumulazione e del potere capitalistici. Esso respinge ogni rottura, sia la rottura dell’ordine democratico proveniente dalla destra, sia la rottura dell’ordine sociale alimentata dagli squilibri che la lotta operaia ha introdotto nei rapporti di produzione. Non ritiene praticabileun rimodellamento e una ricomposizione dei due livelli, nemmeno in una prospettiva “progressiva”. Il momento puramente politico-istituzionale, partitico, fondato sui partiti di massa, ha ormai un primato indiscusso. La ricomposizione fra stato e società, fra società politica e società civile sarebbe già in corso di attuazione nei partiti di massa, nella democrazia di massa. Di qui la proposta di una alleanza di lungo periodo alla Democrazia cristiana e ad altre forze politiche (compromesso storico), dalla crisi economico-strutturale e insieme dalla sfiducia nella lotta comunista di lunga durata.
Nella prima metà degli anni Settanta il PCI ha svolto indubbiamente il ruolo principale nella difesa e nel mantenimento del quadro istituzionale democratico e ciò lo ha favorito nel processo di graduale occupazione della sfera politico-istituzionale portandolo fino alle soglie della partecipazione al vertice del potere. E’ dubbio che la sua condotta tattica raffinata (e finora vincente) avrà sbocchi strategici a questo punto interviene l’elemento determinante, quello finora aggirato e rimosso, il contenuto di classe del potere, la natura non consensualmente trasformabile del capitalismo, come sistema di rapporti sociali.
Nel complesso malgrado la profonda crisi sociale degli anni 1968 e 1969, l’apertura di un processo di autonomia della classe operaia, la comparsa di obiettivi, di forme di lotta e di organizzazione, di valoro “oganici”, malgrado il mantenimento e la tenuta di una irriducibile capacità combattiva, non si può parlare, secondo me, di una crescita di egemonia operaia avvenuta in questi anni . Colpisce, a questo riguardo, come segno della penetrazione dell’ideologia borghese, il rilievo assunto dal dibattito sul pluralismo; mentre la proposta Berlingueriana di salvezza attraverso l’austerità sparge un velo di utopismo sulla tormentata realtà di classe della crisi.
Per il periodo successivo al 1944 – e si tratta ormai di un terzo di secolo – sarebbe assai importante uno studio complessivo, che al momento attuale non esiste ancora, sulle strutture organizzative del partito: il consolidamento di un potente apparato permanente di tipo statuale; il suo prolungarsi nelle ramificazioni del governo locale e nelle organizzazioni di massa; il tramonto di una o due generazioni di rivoluzionari professionali di formazione terzinternazionalista o carceraria e l’avvento a tutti i livelli di direzione di migliaia di quadri maturati all’interno dell’apparato e delle gestioni amministrative; le modificazioni nella composizione sociale nel senso di una diminuzione forse assoluta certamente relativa della presenza operaia; il marcato processo di appropiazione-legittimazione all’interno del patrimonio storico-culturale nazionale; tutti gli elementi, insomma, che oggi contribuiscono a conferire al partito comunista la sua fisionomia di partito nazionalpopolare democratico e interclassista, aspirante alla cogestione del governo del paese.
Ma il sistema è attualmente in grado di tollerare un tale livello di democrazia?
La tattica comunista ha costruito negli ultimi vent’anni la base obiettiva perché questo interrogativo (che esprime un principio che fu assiomatico in Stalin e, in parte, anche in Togliatti) potesse essere posto con pregnante attualità.
La sua strategia non sembra in grado di darvi una risposta risolutiva.
Febbraio 1977. Aldo Natoli
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