domenica 23 dicembre 2018

Per una nuova tematizzazione della dialettica - Stefano Garroni

Da: Stefano Garroni, Dialettica riproposta, a cura di Alessandra Ciattini, la città del sole. Stefano_Garroni è stato un filosofo italiano.



    Indice:


Nota dell’editore 










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Convegno sulla dialettica, organizzato dall’Istituto di studi filosofici di La Habana 24-26 ottobre 2000. 

Suddivido questo intervento in due parti. Nella prima, mi soffermo a riflettere su alcuni temi, presenti – anche se con qualche contraddizione – in scritti di filosofi cubani, che mi paiono interessanti come aperture verso una tematizzazione nuova della dialettica. Nella seconda tento, nel limite ovviamente del mio punto di vista, di chiarire un lato di quella nuova tematizzazione, oggi possibile e necessaria.



Così scrive la studiosa cubana Lourdes Rensoli Laliga: «El método de critica a Mach y su escuela se apoya en la constante actualización de la historia. No se trata de conferir valor permanente a las soluciones concretas de los problemas filosóficos surgidos en épocas pasadas, a la luz de circustancias sociales y cognoscitivas por entero diferentes. El valor de las ideas filósoficas de estas épocas se extiende hacia la nuestra, no en virtud de una quimérica absolutización de sus resultados y estructuras, sino de su sentido, el qual debe buscarse tanto en la formulación original como en su proyección histórica»1.

Qui interessa sottolineare la distinzione tra «formulación original» e «proyección histórica», perché da essa deriva un utile strumento contro lo scolasticismo e la dogmatizzazione. Quella distinzione, infatti, sta a dire che il significato di una teoria non coincide con la sua formulación original, ma si estende invece a comprenderne le proyecciónes históricas. In altri termini, il significato di una teoria è quel permanente che, però, esiste solo dandosi, in circostanze storiche diverse, forme ed espressioni
altrettanto diverse; ciò, naturalmente, all’interno di un certo, circoscritto sostanzialmente, margine di variazioni, che definisce la portata o possibilità storica di quella teoria appunto.

E, allora, l‘interpretazione di una teoria non si ridurrà a mero filologismo, ma comporterà sempre un lavoro di ambientazione storica, di contestualizzazione (dunque, filologismo sì, ma rigoroso, non astrattamente erudito), allo scopo di accertare la capacità o meno di quella certa teoria di riformularsi in termini tali, da poter avere senso, importanza ed efficacia propulsiva, in ambiti storicamente mutati. 

A questo punto, la formulación original si rivela solo una delle forme, che la teoria può storicamente assumere; la cui configurazione particolare è, per altro, doppiamente determinata sia dal contesto storico in cui avviene, sia dal grado di consapevolezza che il soggetto ha della stessa teoria, della sua dinamica interna, della sua portata o possibilità. Perché non è detto che colui il quale dà la formulación original alla teoria non possa egli stesso sorprendersi degli esiti (o efficacia), che quel suo prodotto va conquistandosi in contesti modificati. Né tanto meno sarà nel giusto quel suo seguace che, in circostanze ulteriormente modificate, riterrà suo compito, per difendere la teoria, cristallizzarla nella formulación original, ovvero nella forma, che essa ha potuto assumere in un punto dato della storia. Tutto al contrario, l’autentica ortodossia consisterà, invece, nella capacità di ri formulare la teoria, in maniera tale, che essa possa avere efficacia in un nuovo contesto, senza dover per questo introdurre cesure significative all’interno della sua storia o “fortuna”.

A questo punto, possiamo definire dogmatismo o scolasticismo l’atteggiamento di chi riduce il significato della teoria alla sua formulación original. Dobbiamo badare, però, che al fondo di questa riduzione opera un altro – e forse più importante – errore teorico. Intendo la convinzione che teoria corretta sia quell’insieme sistematico di enunciati, posti nella relazione detta di uno/uno con un altrettanto sistematico insieme di eventi extra-teorici (il mondo, la realtà).

In questa prospettiva, ogni enunciato, che si scopra non in relazione uno/uno – diretta o mediata – con eventi del mondo, dovrà essere respinto come enunciato metafisico o speculativo. Se tale convinzione venisse accolta, l’intera storia della scienza diverrebbe incomprensibile: ad esempio, diverrebbe incomprensibile come motivi religiosi, perfino mistici e qabbalistici, abbiano potuto, in contesti storici dati, funzionare come forze sollecitanti un nuovo “orientamento verso il mondo”, da cui è sorta la scienza moderna2.

In realtà, la teoria scientifica e, più profondamente, l’atteggiamento scientifico sono il precipitato del convergere e dell’intrecciarsi di un complesso di movimenti, correnti, istanze teoriche, morali, politiche, estetiche perfino, che conoscono anch’esse l’intricata relazione di formulazione originale e proiezione storica, di cui già abbiamo detto. E, allora, il risultato è che nella teoria (anche scientifica in senso stretto) il complicato processo storico (non solo culturale d’altronde) lascia l’impronta di sé ed è anche per questo che la pretesa di stabilire la relazione uno/uno fra il complesso degli enunciati teorici e il “mondo” non è sensata, non riesce a rendere il “movimento della cosa stessa”.

Incontriamo, a questo punto, un altro momento significativo della riflessione di Lourdes Rensoli Laliga.
Ella ricorda, infatti, come Lenin fosse lontano dal condividere la posizione di chi concepiva la filosofia come continuazione di una visione mitologica del mondo e, dunque, richiama pure l’attenzione – con Lenin – sul fatto che il marxismo abbia alle proprie spalle una complessa eredità filosofica, certamente non riducibile alla cosiddetta tradizione materialistica, ma come invece il marxismo sia debitore – tra l’altro – nei confronti del cosiddetto empirismo classico, di un Locke ad es.3
Questo richiamo della Rensoli Laliga è assai interessante, in quanto – a prescindere dalla difficoltà, che si incontrerebbe a voler definire esattamente il significato del termine materialismo –, mi sembra vero che nella storia del marxismo, probabilmente a partire dall’ambiente secondointernazionalista (Kautsky e Plechanov), si sia andata progressivamente cristallizzando una tradizione, che (a) usa materialismo nel senso di conoscenza scientificamente accreditata e libera da distorsioni filosofiche;
e (b) vede nel materialismo francese del Settecento una delle matrici fondamentali del pensiero di Marx4, mentre lo stesso Marx tendeva piuttosto a sottolineare
l’importanza dell’empirismo inglese5.

Sappiamo che lo stesso Lenin ha, in realtà, rapporti né semplici né univoci con la linea interpretativa, rappresentata da Plechanov e da Kautsky6. È però vero che da Lenin si ricava l’invito a valutare nel concreto della situazione storica una filosofia, un indirizzo teorico, ecc.; e questo perché solo in tale maniera possiamo comprendere quale ruolo effettivamente quella filosofia o quell’indirizzo giocano, per es., nei confronti della scienza.

Insomma, esiste sempre la possibilità che determinate posizioni filosofiche giochino, in certi contesti, la funzione di premesse o condizioni di un pensiero scientifico che, poi, evolvendosi ulteriormente, si ergerà a critico di quelle stesse posizioni. E di questo Lenin è consapevole7.

È in tale contesto di ragionamento che, opportunamente, la Rensoli Laliga richiama l’attenzione su questo ammonimento di Lenin: nell’analizzare le relazioni tra filosofia e scienza bisogna evitare di appiattire la prima sulle caratteristiche formali di questa o quella scienza particolare; bisogna assolutamente evitare, insomma, quello scientismo che eleva una particolare pratica scientifica alla dignità di modello della scientificità (errore, in cui – secondo Lenin – cadeva Mach); così come bisogna evitare di appiattire la filosofia ad una sola delle sue dimensioni (errore che, secondo la Rensoli Laliga, commette, invece, l’esistenzialismo)8.

Insomma, dallo scritto della Rensoli Laliga emerge la coscienza che la complessità del rapporto scienza/filosofia è ben maggiore di quanto possa intendere qualunque forma di scientismo; come anche emerge la consapevolezza che la storia delle scienze implica, sempre, un travaglio e costruzione teoriche, che continuamente si ripropongono (impedendo, così, di pensare la scienza come tendenziale sostituto della filosofia); e che si ripropongono secondo forme ed intrecci, che non
consentono la sicura e rigida distinzione antitetica fra idealismo (nel senso di pensiero speculativo ostile alla scienza) e materialismo (inteso come generalizzazione al massimo livello delle conquiste scientifiche).

Come si vede la posizione, che assume la studiosa cubana, contraddice opportunamente quell’ambiente culturale contemporaneo, che ripropone, invece, scientismo e Lebensphilosophie, ovvero la riduzione dello scientifico al formalismo pragmatico delle scienze particolari da un lato e, dall’altro, la tematizzazione irrazionalisticoreligiosa dei cosiddetti “eterni problemi” della filosofia.
E contraddice tale ambiente culturale richiamandosi ad una prospettiva dialettica, che punta a mediare nella storia, facendoli interagire senza riduzionismi, teorico e pratico, coscienza e vita.

Tuttavia, la stessa studiosa cubana enuncia posizioni, forse non del tutto coerenti con quanto abbiamo finora visto. Ad es., dal rifiuto della tesi, secondo cui il pensiero di Marx ha solo nella linea “materialistica” i suoi antecedenti, la Rensoli Laliga ricava (e non è ben chiaro perché) che “esto precisamente permite comprender porqué la filosofia de Marx no costituye un compendio del desarrollo precedente. Esto equipararía en un sentido finalista muy ajeno a ella, su posición en la historia con la ya propuesta por Hegel para su propio sistema”9.

Proseguendo il suo argomento, la Rensoli Laliga scrive, evidentemente con l’intento di sottolineare una differenza radicale fra Hegel e Marx, che “la eternidad de los problemas se refiere a su fundamento esencial, pero su formulación, organización, funciones, varían en extremo”. È ben chiaro che questa è una tesi, che è facilissimo ricavare, invece, proprio dalle pagine di Hegel – ed infatti è da lì che Marx la ricavò. Ma forse ancora più sorprendente è come conclude la pagina, che stiamo citando:

“Es por ello que Lenin puede colocarse junto a los materialistas franceses de siglo XVIII en la forma de enfrentar y resolver el problema que tanto a estos como a él mismo se les presentó: dilucidar el fundamento sustancial de una realidad que los últimos descubrimientos de las ciencias en cada etapa habían presentado de una forma nueva y más rica, de lo cual se habían derivado las más enconadas polémicas con los empiristas ingleses”10.

Di nuovo, ciò che sorprende è che la Rensoli Laliga non colga la necessità – stanti le pagine di Marx – di revocare in dubbio proprio l’enfasi sul rapporto fra marxismo e materialismo francese del XVIII secolo e, quindi, che non veda in quella tesi leniniama un nesso preciso con la tradizione secondointernazionalista. Inoltre, che la studiosa cubana fissi, cristallizzi il rapporto scienza/filosofia, facendo di quest’ultima un momento di riflessione sulle scienze, esteriore però rispetto alle stesse scienze. Nelle altre parti del suo saggio, la Rensoli Laliga ci aveva abituati a ben altra duttilità di analisi e ragionamento.

Un altro studioso cubano, J. Luis Villate Díaz11, ci permette di riprendere un tema già accennato: intendo l’individuazione/denuncia dell’intreccio tra formalismo pragmatistico e Lebensphilosophie, che nella cultura contemporanea assume l’aspetto dell’implicazione reciproca tra ragione debole da un lato, e concezione irrazionalistica della vita (e della vita sociale, in particolare) dall’altro. Vale la pena ricordare che la polemica contro la reciproca implicazione di astratto formalismo e sentimentalismo irrazionale, certamente, è uno dei temi, che percorre il mondo della filosofia classica tedesca, almeno a partire da Kant12 e che sicuramente è una costante della riflessione hegeliana. È utile richiamare questo dato storico, perché l’autore cubano ritiene, invece, di poter spiegare quell’implicazione, citando il sovietico Mitin, il quale afferma:

“El desarrollo de la sociedad burguesa redundó en el derrumbe de los ideales y los valores de la cultura tradicional, que se orientaba al racionalismo de indole hegeliano, a la identificatión del ser y la consciencia, a lo «racional de la realidad». El racionalismo idealista, que reducía todos los problemas de la actividad humana a los del conocimiento, pierde su valor socialmente orientador en virtud de que el flagrante carácter inmoral e inhumano del capitalismo no puede ser amortiguado por razonamiemtos metafísicos abstractos”13.

La pubblicazione di numerose pagine finora inedite di Hegel, nuove, accurate edizioni critiche di suoi testi già noti, come anche lo studio più approfondito della situazione politico-culturale dell’Ottocento germanico, ci consentono oggi di cogliere appieno i limiti dell’interpretazione proposta dal sovietico Mitin, in particolare, proprio riguardo al centrale motivo hegeliano della razionalità del reale14. Ed è interessante osservare che – sia pure volgendola contro Hegel – J. Luis Villate Díaz propone un’interpretazione della dialettica, estremamente vicina a quella che, oggi, senza scandalo, possiamo definire hegeliana.

“... lo que en un sentido estrecho, logicista, puede aparecer como «irracional», – scrive J. Luis Villate Díaz – en un sentido amplio, es dicir, no identificando la razón a la manera que apuntamos anteriormente [insomma, seguendo l” interpretazione del sovietico Mitin], sino concibiéndola en su carácter histórico-concreto, con su contenido socio-clasista y forjada en la práctica material transformadora de los hombres, puede explicar científicamente (racionalmente) la historia, el papel del hombre en su construcción y en su multifacética acción, y de hecho lo ha explicado y continúa haciéndolo en la conceptión del mundo marxista-leninista”15.

Riflettiamo su questa pagina di Villate Díaz, trascurando che l’autore cubano ritiene di dire quanto sta dicendo in critica ad Hegel – non si tratta, ovviamente, di un particolare di poca importanza, ma ora possiamo metterlo tra parentesi con lo scopo di comprendere, comunque, quale concezione in positivo Villate Díaz presenti della dialettica ed, in particolare, della razionalità del reale che, come sappiamo, è momento decisivo, culminante, della stessa teoria dialettica.

Con tutta evidenza, Villate Díaz respinge due interpretazioni della razionalità del reale: (a) la prima, che dà alla tesi il senso di una conformistica accettazione dell’esistente, in quanto sicura espressione della razionalità; in questa prospettiva, ovviamente, qualunque critica al reale – nel senso di ciò, che di fatto esiste – equivarrebbe al collocarsi fuori e contro la razionalità; (b) la seconda interpretazione, che egli parimenti respinge, è quella secondo cui del reale vale solo ciò, che è razionale. In questa prospettiva, la tesi dialettica comporterebbe la discriminazione, entro il reale, di ciò che è razionale e di ciò che, invece, razionale non è. Il pericolo implicito in questa interpretazione è di accogliere come reale solo ciò, che s’accordi ad una certa, presupposta concezione della razionalità.

Dunque, se in (a) si teorizza un quietistico conformismo, che accoglie come reale – e, dunque, razionale – tutto ciò che esiste, per il fatto di esistere; al contrario, in (b), un criterio, presupposto al reale, pretende di giudicarlo e di discriminare entro di esso ciò che effettivamente è reale – e quindi razionale – da ciò che solo sembra esser tale. Come si vede (a) e (b) descrivono un campo d’oscillazione, i cui estremi sono il passivo arrendersi al dato di fatto; ovvero la pretesa intellettualistica – dunque soggettiva – di decidere, sulla scorta di un principio esteriore, cosa sia reale e cosa no.

Per dir lo stesso ma sotto un altro profilo, se valesse (a), diritto e non-diritto, bene e male, comune e idiosincratico, tutto, dovrebbe essere parimenti accolto, in quanto razionale; dunque, ragione e non-ragione, entrambi, sarebbero facce di uno stesso reale, santificato perché esistendo è ipso facto razionale. Ciò non toglie, però, che malgré lui s’inserisca in (a) l’inquietante distinzione tra reale e non-reale, diritto e non-diritto, ecc. Insomma, la contraddizione vien riconosciuta, ma subito tolta in una quietistica concezione del razionale.

D’altra parte, se valesse (b), la contraddizione tra razionale e non-razionale verrebbe immediatamente dichiarata, ma con la pretesa di superarla negando uno dei due opposti, il non-razionale. Dunque, non tanto avremmo il superamento della contraddizione, quanto un’arbitraria semplificazione del reale, amputato di uno dei suoi membri.

Perfino la rapida descrizione, che di (a) e (b) abbiamo fornito, basta probabilmente a riconoscerle, entrambe, come posizioni non dialettiche. Sappiamo, infatti, che la partita della dialettica si gioca tutta nella capacità di riconoscer come reale la contraddizione (tra razionale e non-razionale, tra diritto e non-diritto, ecc.), ma contemporaneamente nel tematizzare gli opposti come momenti entrambi essenziali di uno stesso ritmo, di una stessa regola di movimento, di una stessa dinamica di produzione storico-reale.

Insomma, se ha senso la prospettiva dialettica, il problema non è discriminare, nel reale, ciò che è razionale e ciò che non lo è pretendendo, inoltre, di considerar quest’ultimo mera inessenzialità e, dunque, qualcosa di indifferente, da non contare. Né il problema può essere quello di “toglier le differenze” e tutto appiattire in una stessa razionalità.

Qui ha del tutto ragione Villate Diaz: sia nel caso ci si muova nella prospettiva (a), sia che si scelga, invece, la prospettiva (b), il risultato sarà sempre uno: la sostituzione della storia reale – e, dunque, del protagonismo umano in essa – con un’altra storia, o improntata a quietistica passività oppure a velleitario arbitrarismo.
Ciò su cui Villate Diaz ha torto è nel non riconoscere che Hegel non si trova né in (a) né in (b), ma che invece è assai prossimo alla prospettiva, che egli propone.

Anche dalle poche e rapide osservazioni che abbiamo fatto a proposito degli scritti di Lourdes Rensoli Laliga e J. Luis Villate Diaz, risulta con chiarezza una caratteristica del loro discorso: quest’ultimo si costruisce e svolge sulla base del continuo rinvio da considerazioni di tipo epistemologico16 a considerazioni di ordine morale17.
Naturalmente ciò non meraviglia, trattandosi di pensatori, che si collocano all’interno della tradizione dialettica. È propria di quest’ultima, infatti, una necessità sistematica, che conduce a collocare il momento teoretico e quello pratico all’interno di un movimento logicostorico, che manifesta se stesso, appunto nel modo in cui, in un’epoca data (qualunque cosa significhi esattamente epoca), dimensione pratica e dimensione teoretica si realizzano o, se si vuole, vivono.

Con tutta evidenza ciò deriva dall’assunto18 dialettico del primato del tutto sulle parti e, d’altronde,  è proprio questo assunto che conduce Hegel e Marx ad affermare il paradosso, secondo cui solo in società è possibile isolarsi.
In altre parole, giusta la prospettiva dialettica, l’emergere ed imporsi storicamente dell’individualità separata è possibile, ma solo a patto che esista un insieme sociale, che questo richieda per il proprio svolgersi.

Il tutto dialettico, sappiamo, comprende e supera entro di sé le proprie parti19; ma, d’altronde, quello stesso tutto non ha esistenza, se non nelle parti, in cui si articola20; possiamo dire, insomma, che l’assunto dialettico del primato del tutto sulle parti sfugge alle difficoltà dell’olismo sociologico, proprio perché nella sua intima struttura riconosce la presenza ed il ruolo delle parti e, dunque, non è costretto a trovare nell’individualismo il proprio rigido contraddittorio (come capita, invece, alla moderna sociologia anglo-sassone, per fare un esempio).

È vero, tuttavia, che qualunque tradizione – non solo la dialettica – non può che ospitare al proprio interno un rinvio, un reciproco richiamarsi di morale e teoretico.
La differenza con la dialettica sta nel modo di questo rinvio. Cerchiamo di illustrare – sia pure nel limite di uno scoraggiante schematismo – questa problematica.

Che la nostra conoscenza preveda enunciati analitici (nel senso di enunciati, in cui il predicato si limita ad esplicitare il significato del soggetto)21 ed enunciati sintetici (nel senso di enunciati che, unendo quel certo predicato a quel certo soggetto, ci fanno guadagnare nuova conoscenza), certamente, è una consapevolezza molto antica.

Ed è anche ben noto che – ancora con Leibniz, per es. –, a tale consapevolezza si è a lungo legata la convinzione che analitica – nel significato prima chiarito – sia la forma della conoscenza perfetta. Appunto, per Leibniz poniamo, la mente di dio22 conosce la totalità dell’universo analiticamente; nella sua conoscenza non trovano posto enunciati sintetici (sempre nel significato prima chiarito). L’enunciato sintetico è in gran parte costitutivo, invece, della conoscenza dell’uomo, a causa della limitata portata o capacità della mente sua, che non sa cogliere quell’infinità di passaggi, che mostrerebbe la necessità, in ogni caso, di un qualunque giudizio dalla forma «PS».

Ora è dimostrabile che ad una concezione analitica del conoscere corrisponde l’affermazione di un modello di moralità, il cui nucleo centrale (il cui valore o principio di fondo) è dato dal coerente inserirsi del singolo nell’armonia dell’insieme23.
Non è un caso, dunque, se la cultura, che più ha avvertito e sperimentato il nesso fra crisi e moderno sviluppo (economico, sociale, politico, scientifico), abbia posto in forse – anche se in maniere diverse – il modello analitico del conoscere.

Un esempio adeguato di quanto dico è rappresentato da David Hume, il quale – sappiamo – continua ad accettare il modello analitico del conoscere, relegandolo però in ambito logico-matematico e sottolineandone con forza l’incapacità di produrre conoscenza nuova24. 
Per Hume, è noto, tutta quella conoscenza, che ci permette un ampliamento dei confini, un allargamento di orizzonti teorici e pratici, ha la forma della Probability25, dunque, di una radicale incertezza e revocabilità.
Insistiamo su questo punto. Hume non rinuncia alla tesi, secondo cui la conoscenza compiuta ha forma analitica; al contrario, continua ad accettarla questa tesi, confinando però la Demonstration26 in ambito puramente formale, vuoto di contenuto.
L’universo del contenuto, invece (dunque, quello del concreto vivere), è posto da lui entro l’intreccio di una Probability, insuperabile nella sua provvisorietà di principio, e della certezza, data però dall’abitudine, dal credere, insomma dall’a-logico.

Non ci meraviglia a questo punto, se una importante differenza tra Leibniz e Hume si abbia proprio in sede pratica, intendo in ambito religioso. Se Leibniz, infatti, sottilmente riflette sul rapporto fede/ragione, allo scopo di definire le possibilità ed i limiti del loro accordo, ma certamente con l’intento di precisare le condizioni della loro armonia (ecco tornare il modello morale dell’equilibrio, dell’inserimento armonico, dell’accordo fra opposti); la riflessione religiosa di Hume si presenta, al contrario, caratterizzata da una profonda disarmonia: egli dimostra, infatti, da un lato, la piena inconsistenza della pretesa religiosa di dare un fondamento – storico, empirico, ma anche logico – alle sue credenze; però, dall’altro, torna ad autorizzare la fede religiosa, se frutto di un rapporto a-logico (sentimentale, mistico, interiore) fra uomo e dio.

Come si vede, all’affermazione del modello analitico del conoscere corrisponde una prospettiva morale, che fa perno sul motivo dell’armonia, dell’equilibrio. Ma non appena quel modello venga posto in dubbio, non appena forma e contenuto del conoscere si rivelino non mediati, esteriori l’uno all’altro, la scissione si introduce anche nella dimensione pratica, morale. Ma andiamo avanti.

In David Hume la prospettiva empiristica (che, ovviamente, è quella che sta alla base dell’asserto sintetico) si presenta, a dir così, in forma ancora timida: la probability si contrappone alla Demonstration, non però nel senso di un modello epistemologico nuovo, sostitutivo. Hume continua – lo ripeto – a riconoscere il primato della conoscenza analitica, la quale è sì alla portata umana, ma solo nel limite della pura formalità (logica, matematica); per questo, è necessario retrocedere e contentarci – noi, uomini, creature, enti contingenti – di una conoscenza probabilistica, quando siano le “cose” che vogliamo conoscere, e non il rigore logico di mere relazioni formali.

Detta in altre parole, con Hume e in generale con l’empirismo classico, il modello empiristico non pretende, ancora, di sostituirsi a quello razionalistico; il sintetico non rivendica, ancora, il diritto di declassare l’analitico, ma si riconosce piuttosto come rimedio, come soluzione possibile in mancanza di meglio (laddove il meglio continua ad essere il modello analitico o della Demonstration).

Cosa succede, invece, se la prospettiva empiristica abbandona tale sua timidezza e si fa più arrogante, proponendosi essa stessa come il modello? La risposta la troviamo in una pagina di Kolakowski, anche se l’autore – forzando, mi pare, un po’ le cose – individua il processo, che ci interessa, già pienamente svolto in David Hume.

“When the premisses of empiricism were carried to their logical conclusion, it became clear that the notion of a natural order was untenable. If there can be no knowledge except what is conveyed by the senses, and if our sensedata provide no evidence for any causal connection or law of necessity, then it is clear that our minds are incapable of apprehending reality as anything but a collection of separate phenomena. Nor can we, in that case, perceive any natural order which it would be legitimate to regard as an immanent feature of the universe rather than simply a “law” of the scientific type, i.e. the subjective fixing in the mind, for reasons of practical convenience, of certain recurrent sequences
of events. Nor, again, is there any reason to suppose that we are bound by moral laws possessing a validity independent of our own sensations of pain and pleasure. In short, both the “physical order” and the “moral order” are imaginations above and beyond what is or can be conveyed to us by experience.
In the same way, it is useless to suppose that there is any human standard, obligation, or purpose independent of the actual course of human history”27.

Il punto centrale è proprio questo: la prospettiva empiristica – fondata, come essa è, sulla rigida separazione tra «formale» (tautologico e soggettivo, intellettuale – per dirla con Hegel) e «contenuto» (disarticolato nella molteplicità delle sensazioni, casuale, contingente) – non è, solo, un modo di pensare la conoscenza (in questo senso non è, solo, una proposta epistemologica, per quanto innovativa rispetto ad una tradizione classica)28; piuttosto esso è un certo modo di pensare il mondo ed il rapporto che l’uomo ha con esso.

Non per caso, il moderno empirismo nasce (nel senso che tende ad affermarsi) nel momento in cui cresce il ruolo dei disaggreganti rapporti commerciali. I quali, certamente, ampliano le prospettive, a dir così “liberano la diversità”, aprono nuove dimensioni all’individuo, all’eccezione, al singolare. Ma, anche, rispondono all’opposta, ineliminabile esigenza (quella, cioè, di riaggregare il separato, di ricostruire un tessuto connettivo), mediante una socialità esteriore, perché non costruita in continuità con un vivere quotidiano, fatto oramai dai molteplici, casuali e in definitiva incontrollabili rapporti di scambio fra privati.

Ed, allora, si ha il paradosso di una socialità scissa: in ambito epistemologico, la distinzione/separazione tra Demonstration e probability; in ambito religioso, la dichiarata insostenibilità dei miracoli – i quali, non dimentichiamolo, giocavano tradizionalmente il ruolo di prova empirica della verità delle credenze religiose –, ma congiunta al riconoscimento della plausibilità della religione stessa, come rapporto emozionale, intimo fra uomo e dio; in ambito politico e sociale, l‘affermazione dell’atomismo della società civile ma, anche, della – formale, giuridica – comunanza tra gli uomini.

Se l’empirismo nasce (nel senso chiarito) segnato da queste caratteristiche, non resta tuttavia inoperoso: al contrario, opera sulla coscienza sociale, diffondendo e consolidando quel modo di concepire il mondo e i rapporti dell’uomo con esso, che ho prima indicato con l’espressione paradossale di socialità scissa. A questo punto, non abbiamo difficoltà a comprendere che l’intreccio, a noi contemporaneo, di irrazionalismo etico-politico e di ragione debole o, in una versione culturalmente più degna, di formalismo pragmatistico e Lebensphilosophie, ha lontane e solide radici, nei processi più profondi che caratterizzano il sistema capitalistico, nelle varie fasi del suo svolgersi.

In che senso quella dialettica può essere un’alternativa a tale prospettiva?
Mi pare che questo si possa dire: il senso della dialettica è riuscire a costruire un ordine, una regola, una razionalità, che impliciti, però, il riconoscimento dell’aberrante, dell’anomia, della diversità, insomma, dell’irrazionale.
In questo senso, la prospettiva dialettica rompe con il razionalismo (meglio, con l’intellettualismo), se con ciò s’intende o il quietistico arrendersi all’esistente, o la pretesa di sovrapporre ad esso una razionalità presupposta.

Come già dicevo, la partita della dialettica si gioca, tutta, nella possibilità di coniugare razionale e irrazionale, all’interno di un comune ritmo di sviluppo o regola di movimento, che rende la storia comprensibile (in questo senso, appunto, razionale) e ne riconosce tutte le contraddizioni, complessità e “vie indirette”29.

Ma questo comporta, anche, una concezione della storia non predeterministica (rischio sempre presente in una prospettiva razionalistica), né privata di senso, perché tutta confinata nella casualità e contingenza dell’individuale, del particolare e frammentario (rischio, questo, che segna invece la prospettiva empiristica)30.

Strumento fondamentale per continuare e svolgere tale prospettiva dialettica, mi sembra con tutta chiarezza quella nozione di ragione, come linea di movimento del processo storico (e, dunque, non come modello), che non casualmente Marx ricavava da Hegel, il cui pensiero, infatti, è radicalmente immanentistico (e, dunque, avversario di ogni trascendentalismo), proprio perché basato su una ragione/Vernunft, contraddittoria – nel senso di rispettosa delle differenze, che pur supera.

NOTE

1 L. Rensoli Laliga, “La historia de la filosofía y su función heurística
en Materialismo e Empiriocriticismo”, in Contribución al estudio
de Materialismo y Empiriocriticismo, La Habana 1989: 3.
2 Per far solo degli esempi, la riflessione di Locke, Newton e
Leibniz, che certamente ha rappresentato momenti decisivi per la
costituzione del moderno ragionare scientifico, difficilmente sarebbe
comprensibile, se non venisse collocata anche entro un determinato
dibattito religioso. E ciò vale, d’altronde, per molti aspetti della riflessione
logica moderna.
3 L. Rensoli Laliga, “La historia de la filosofia y su función heurística
en Materialismo e Empiriocriticismo”, in Contribución ..., op. cit: 4ss.
4 “La filosofia del marxismo è il materialismo. Nel corso di tutta
la storia moderna d’Europa, e soprattutto alla fine del XVIII secolo in
Francia, dove si combatteva una lotta decisiva contro le vestigia medievali
d’ogni sorta, contro il feudalesimo nelle istituzioni e nelle idee, il
materialismo ha dimostrato di essere l’unica filosofia coerente, conforme
a tutti gli insegnamenti delle scienze naturali, ostile ai pregiudizi, alla
bigotteria, ecc. I nemici della democrazia perciò hanno cercato con
tutte le forze di «confutare» il materialismo, di screditarlo, di calunniarlo;
essi hanno difeso diverse forme dell’idealismo filosofico, che si
riduce sempre, in un modo o nell’altro, alla difesa e al sostegno della
religione”. (V.I. Lenin, “Tre fonti e tre parti integranti del marxismo”,
in Opere XIX: 10).
5 V. F. Engels-K. Marx, “Die heilige Familie”, in Marx-Engels,
Werke. 2; Berlin 1970: 131ss. Porre l’enfasi sulla tradizione francese o
su quella inglese implica sottolineare o meno il tono meccanicistico o
anti-meccanicistico del “materialismo” marxista.
6 È per questo che, probabilmente, la stessa dimensione filosofica
(dialettica) del pensiero di Lenin si può meglio valutare, riflettendo sul
suo modo di fare e pensare la politica, piuttosto che attraverso le pagine
esplicitamente filosofiche, in cui la soluzione di continuità rispetto a
Plechanov e Kautsky è, per dir così, meno insistita.
7 Va da sé che questa posizione entra in contraddizione con
l’altra, anch’essa sostenuta da Lenin sulla scia di Engels – ma pure di
Plechanov e Kautsky –, secondo cui la storia della filosofia sarebbe la
scena dell’eterno conflitto tra materialismo e idealismo.
8 L. Rensoli Laliga, op. cit.: 7s.
9 Qui l’implicito sembra essere un grave fraintendimento del
pensiero di Hegel, che, d’altronde, caratterizza proprio quel marxismo
scolastico, contro cui abbiamo visto l’A. polemizzare, pure, quasi
apertamente.
10 Rensoli Laliga, op. cit.: 16s.
11 J. L. Villate Díaz, “La valoración leninista del empiriocriticismo
y la historia della filosofía contemporánea”, in Contribución ..., op. cit.
12 A tacere di Leibniz.
13 Contribución ..., op. cit.: 46
14 Ciò non toglie, si badi, che quella interpretazione di Hegel fosse
largamente discutibile – e respinta da molti – anche diversi decenni fa.
15 J. Luis Villate Díaz, in Contribución ..., op. cit.: 46.
16 Intendo dire legate a problemi, che riguardano la struttura
formale del conoscere.
17 Intendo dire che riguardano l’atteggiamento pratico.
18 Naturalmente, all’interno della tradizione dialettica, usare il
termine assunto può destare perplessità, se non altro perché, insistentemente,
sia Hegel che Marx proclamano la loro Voraussetzungslosigkeit
(mancanza di presupposti). Mi sembra, tuttavia, che la prospettiva
dialettica manchi di presupposti nello stesso senso, in cui essa pone e
toglie contemporaneamente l’Ausganspunkt, il «punto di partenza». Insomma,
così come ciò che inizialmente si presenta punto di partenza si
rivela poi, nello svolgimento dialettico, un che di posto, analogamente,
nella dialettica, l’assunto risulta posto e dimostrato dalle conseguenze,
che se ne tirano.
19 Questo «comprendere e superare» è espresso dal verbo tedesco,
di difficile traduzione italiana, übergreifen.
20 In questo senso, se è vero che il tutto dialettico comprende in
sé le proprie parti, ma anche le supera e, dunque, non è esauribile da
esse, piuttosto in qualche modo è sempre oltre esse; tuttavia è altrettanto
vero che quel tutto abbisogna delle parti per esistere, mostrandosi
in questo senso dipendente da esse, le quali – proprio perciò – sono
a loro volta, sia pure in un altro senso, sempre oltre il tutto. Come si
vede, nell’hegeliano übergreifen è già compreso il modo di intendere
la dialettica, che esponeva Villate Diaz.
21 Secondo il formalismo logico possiamo scrivere «S È PS», ovvero
«il soggetto S implicita l’attribuzione a se stesso del predicato P»,
oppure «se S, allora PS».
22 È chiaro che, in Leibniz – ma certo non solo in lui –, dio gioca
il ruolo (anche il ruolo) di entificazione del modello epistemologico.
23 Di nuovo, troviamo in Leibniz una compiuta esemplificazione
di quanto stiamo dicendo.
24 Per comprendere bene la portata della cosa, si ricordi che
Hume relega la conoscenza dimostrativa o analitica al piano formale,
in un’epoca in cui il mondo scientifico ed economico si mostravano,
invece, fortemente plasmati dalla produzione di novità.
25 Si ricordi che Leibniz, autore importantissimo per Hume,
distingueva una logica della dimostrazione ed una logica del verosimile.
26 È così che Hume chiama la conoscenza analitica, nel significato
che qui diamo a tale espressione.
27 L. Kolakowski, Main Currents of Marxism. Its Origins, Growth
and Dissolution, Oxford New York, 1978: 42s. Mie sono le sottolineature
nel testo (S.G.).
28 Carattere innovativo che, in una certa misura, va smorzato:
sappiamo, infatti, che già con Francis Bacon il moderno empirismo si
costruisce, certo, in polemica con l’aristotelismo medievale, ma lo fa
recuperando momenti fondamentali proprio della riflessione di Aristotele.
Si potrebbe dire che il moderno empirismo non tanto rompe
con la lezione di Aristotele, quanto piuttosto opera un rovesciamento
di valori al suo interno, portando in primo piano ciò che, invece, in
Aristotele, si collocava piuttosto in una posizione secondaria.
29 Anche se non frequentemente lo si nota, un ruolo teoricamente
centrale è giocato, nella dialettica di Hegel e di Marx, dal concetto
di Umweg.
30 Si pensi, per contrapposizione, all’autentico culto del frammento
e del casuale, che caratterizza il post-moderno. Clamoroso esempio
di ciò è tanta antropologia contemporanea, ma anche quella diffusa
concezione morale, che appiattisce principi e valori a mere scelte e
regole pragmatiche.

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