mercoledì 19 giugno 2019

- Note sulla polisemia di «dialettica»: dal quotidiano alla riflessione formale - Stefano Garroni

Da: Dialettica riproposta - Stefano Garroni - lacittadelsole a cura di Alessandra Ciattini - Stefano Garroni  è stato un filosofo italiano.  



    Indice:


Nota dell’editore
                                                                                                                                             Stefano Garroni: Dialettica riproposta - Presentazione di Paolo Vinci 









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Una contraddizione, ben bizzarra, del nostro tempo è che l’impegno (l’apparente e sempre proclamato impegno) ad una cultura, che sappia finalmente liberarci da schemi e punti vista, nati e sviluppatisi in contesti storici ormai superati, di fatto si riduce a critica del marxismo e della dialettica, cioè di due momenti della riflessione moderna particolarmente ignorati o fraintesi. Quello che cerco di fare, con queste mie brevi note, è mostrare quanto sia ricca la problematicità della dialettica e come sia sicuramente vero che la sua critica – ovviamente sempre possibile – supponga però una conoscenza larga e profonda della dinamica del movimento storico, sotto tutti i suoi aspetti, notoriamente interconnessi e diversi in contesti diversi.

Un momento di particolare importanza, nella storia del pensiero scientifico, si ha con l’affermarsi del leibniziano «principio di continuità»1. Non è difficile comprendere che questo principio fa parte di una visione del mondo (Weltbild), che nega la possibilità di eventi isolati, i quali non trovino in serie di accadimenti passati, presenti e, perfino, futuri, la spiegazione e il senso del loro esserci attuale. In questa prospettiva non esistono eventi ineffabili, perché al contrario va riconosciuto al «nuovo» la proprietà di essere una combinazione particolare del già noto e, dunque, va altrettanto riconosciuta al linguaggio una plasticità combinatoria, che lo mette in condizione di comunicare novità, servendosi di segni già noti, o di inventare nuovi segni, ma a partire dalla struttura linguistica tradizionale2.

Se questa concezione attribuisce al pensiero ed al linguaggio una capacità inventiva, capace di fare dell’immaginazione scientifica qualcosa di ben più ricco e “imprevedibile” di qualunque coattiva costruzione del mero sentimento (inconscio compreso), dà luogo tuttavia a una difficoltà.

Posto il principio di continuità, va forse affermato che in effetti nulla di nuovo sorge sotto il sole, ovvero, che non esistono fenomeni, anche sociali, in radicale rottura con quelli della tradizione?

Se nella realtà non esiste il gratuito, il casuale, il zufällig, ciò comporta, forse, il pieno dominio del predeterminismo e, di conseguenza, far scienza non significherà che ritrovare nel nuovo, nel sorprendente, nell’inedito, il déjà vu?3

Proseguendo nella nostra ricerca, le sorprese aumentano.

È chiaro infatti che, se vale il principio di continuità e se quello della creatività del linguaggio si riduce semplicemente alla capacità di combinare in modo diverso segni già noti, è inevitabile conseguenza che il “nuovo” sia solo apparenza, che il movimento, il mutamento si manifestino unicamente alla superficie del reale, e che ciò che merita veramente d’esser riconosciuto reale, in verità non è altro che il continuo, il costante.

Ma esaminiamo la questione, anche, sotto un altro verso.

È chiaro che, se vale il principio di continuità, quello della scienza è veramente un cosmo: nel senso di un universo ben costruito, che non presenta smagliature, che funziona con quella regolarità e uniformità, che forse neppure il miglior computer esistente (certamente non il mio) può esibire. È, insomma, un cosmo, secondo il significato, che l’antica Grecia dava al termine4.

Senonché, proprio qui si annida la sorpresa: tutti sappiamo quanto peso abbiano concetti come «totalità», «ordine», «legge», nella prospettiva dialettica di Hegel: nessuna meraviglia, dunque, se anche in Hegel riconosciamo l’orientamento a collegare tra loro tutti gli eventi, ovvero a “superare l’apparente isolamento del singolo esserci (Dasein)”. Insomma, tutti riconosciamo, in Hegel, la prospettiva, secondo cui anche ciò che si presenta isolato presuppone un mondo, che ne renda possibile l’esistenza nell’isolatezza.

Senonché, è proprio questo Hegel – teorico evidente del principio di continuità – ad affermare, invece, che l’astratto è «continuo»5, ma non il concreto o il vivente.

La difficoltà, che abbiamo di fronte, è evidente. Se la conoscenza scientifica implicita il principio di continuità, allora il mondo della scienza sarà letteralmente un cosmo, ovvero, una totalità che non ammette mancanze interruzioni vuoti ed emergenze gratuite; se questo effettivamente significa conoscenza scientifica, allora è inevitabile concludere che l’errore è la libertà, dacché la razionalità delle cose sembra chiuderle entro tracciati e confini rigidi, immodificabili

Senonché, James Collins ci fa notare come le pure essenze, nella prospettiva leibniziana, appartengono sì all’ordine delle eterne verità, si esprimono sì nelle pure essenze, ma queste eterne verità e queste pure essenze non fissano le cose in ordini e rapporti irrevocabili, non ne costituiscono l’eterno, inviolabile destino, sì piuttosto segnano “ the measure of the possibilities of things” – dunque, ordine e stabilità si mostrano essere non negazione del mutamento, sì piuttosto il limite entro cui esso è possibile. In altre parole, ordine e mutamento son mediabili.

Abbiamo ormai compreso che ordine, regola, cioè, identità, da un lato, e, dall’altro, anomia, eccezionalità casualità, per quanto opposti siano tra loro, son tuttavia mediabili, perfino riconoscendo il principio scientifico di continuità. Ciò non impedisce tuttavia che possa riproporsi la loro opposizione e addirittura che lo si faccia entro l’ottica dialettica.

Per approfondire questo punto capitale, dobbiamo porci il problema di come si formino le categorie, ovvero di quali siano di fatto e storicamente i rapporti fra le attitudini – o i modi di porsi di fronte al mondo –, che gli uomini vanno assumendo nel corso della storia, e le categorie, entro cui le prime acquisiscono, una forma e una consistenza determinate, ovvero, entro cui si cristallizzano, si fissano, divenendo precise regole (forme) di vita.

Sappiamo bene che questo è uno dei temi capitali dell’hegeliana Fenomenologia e sappiamo, anche, che pur tra alterne vicende, questo testo ebbe importanza grande per molti autori marxisti e per Marx in primo luogo.

Insomma, le attitudini o i diversi modi di porsi dell’uomo nei confronti del mondo (naturale e sociale), formalizzandosi – ovvero determinandosi ed acquisendo una sorta di sussistenza propria6 – divengono categorie.

In questo senso le categorie non sono arbitrarie, ma sì oggettive.

È vero, tuttavia, che la serie possa subire delle modifiche – evidentemente non totali, altrimenti né vi sarebbe la serie, né la possibilità di un discorso sulla logica dinamica7 dell’esperienza storica.

Se è vero – come alcuni sostengono – che la logica aristotelica non rimanda alla matematica né all’epistemologia, sì invece al discorso comune e alla retorica, è vero allora che, con lo stesso Aristotele (ma ovviamente già col Parmenide di Platone) assistiamo al passaggio dalla inerte contraddizione del discorso comune, all’inquietante scoperta della contraddittorietà delle categorie in quanto tali8.

Un’osservazione, che vale la pena di fare subito – e che d’altronde si collega a quanto sopra – è questa: se le forme del conoscere son cristallizzazioni di atteggiamenti, allora, nel suo modo di concepire e praticare la conoscenza, l’uomo (storico) non rivela solo il suo modo di valorizzare il mondo, ma sì l’interezza della sua personalità (storica). È in questo senso, come nota ancora Sandkühler, che, per Hegel, il modo in cui viene esercitata l’attività conoscitiva è, in qualche misura, rivelatrice non solo del soggetto conoscente, ma sì dell’uomo intero.

Ed allora, seguendo sempre la riflessione di Sandkühler, l’attività conoscitiva si inscrive in un quadro di vita più ampio, si fa ricco di mediazioni e proprio per questo non riducibile a nessuna forma di soggettivismo, né di appiattente oggettivismo9.

Insomma, fa parte del punto di vista dialettico di Hegel cogliere nel conoscere una forma della più generale lotta, che l’uomo conduce per realizzare il suo scambio organico con la natura, ovvero, per la naturalizzazione di se stesso e per l’umanizzazione della natura10.

– Com’è noto, la procedura assiomatica è caratterizzata da processi inferenziali, logicamente validi, a partire da assiomi. Per il tema della definibilità degli assiomi, cf. la tesi di Hilbert, esposta in M. Schlick, Forma e contenuto, Boringhieri 1987: 14.

– Così Hegel, a proposito del genio nell’Enciclopedia, §. 395 – L’anima fa tutt’uno con il soggetto individuale: questa soggettività è come il differenziarsi dei modi del temperamento, del talento, del carattere, della fisiognomica e di altre disposizioni e idiosincrasie delle famiglie e dei singoli individui. [Aggiunta] – Con l’individuale comincia la sfera della casualità, dato che necessario è solo l’universale; le singole anime si differenziano l’un dall’altra mediante una serie infinita di modifiche casuali (Hegel, op. cit.: 71). Contro l’insegnamento individualizzato; la scuola ha da essere caratterizzata non tanto dallo sforzo del maestro di entrare in sintonia con ogni singola, particolare personalità, quanto dall’adeguarsi, ormai, di quella personalità alla regola comune, sociale (Hegel, op. cit.: 71a). Genio e talento appartengono al «naturale» dell’individuo; differenza tra genio e talento – ma entrambi, comunque, vanno educati, sennò scadono in mèra “originalità”. In filosofia, il semplice genio non porta lontano; deve piuttosto sottoporsi al rigoroso giogo del pensare logico; solo così il genio può pervenire alla sua completa libertà (Hegel, op. cit.: 71b). Non vi è una genialità orientata alla virtù, in quanto la virtù è qualcosa di universale, che va richiesta a ogni uomo e non è nulla di innato, ma sì il prodotto in ognuno della sua propria attività. (Hegel, op. cit.: 72).

– Questo è un esempio preciso di cosa significa, nel marxismo, nesso fra teoria e prassi, come d’altronde conferma questa pagina: “La filosofia trova di fronte a sé un mondo estremamente complesso, già elaborato: una lunga storia la precede ed è storia di lotte e conquiste umane. Il filosofo si trova ad operare quando è già sopravvenuta la vecchiezza dell’uomo e del tempo. Alla storia degli uomini, al divenire delle loro società e costituzioni, all’interno dei complessi rapporti che intercorrono fra quelle vicende e il mondo della cultura vanno ricondotte le interrogazioni e le risposte del filosofo per essere capite, cioè vanno ricollocate in quel solco che ha dato loro vita e nutrimento, ancorate alla Città, che le ha sollecitate.” (Sichirollo, 8746: 20). Quando Althusser si preoccupa di difendere l’eredità di Hegel in Marx, ricorre prima di tutto alla Scienza della logica, per indagare il ruolo della dialettica in Das Kapital. La critica di Althusser si risolve largamente in una positiva esposizione della teoria della conoscenza marxista, che è inseparabile dalla materia dell’economia politica. (v. A, Schmidt, Geschichte und Struktur, 1971 : 16). Cf. anche L. Goldmann, Recherches dialectiques, Paris 959: 31.

– Nota i motivi di consonanza (non di identità) con il modo di procedere aristotelico: “Inoltre, (per Aristotele) la raccolta e la valutazione dei fenomeni, di «ciò che appare», sono importanti non solo per stabilire i dati ed esporre le credenze comuni, ma anche, più in particolare, per identificare i problemi che esigono una soluzione. Spesso, quando esamina un argomento, Aristotele inizia passando in rassegna le opinioni dei suoi predecessori. Ma non si tratta tanto di dare una prospettiva storica alla questione a fini puramente storici, quanto di esporre le principali difficoltà …, che richiedono di essere risolte e chiarite”. (G.E.R. Lloyd, “Osservazione e ricerca”, in AA VV, Storia Einaudi dei Greci e dei Romani. 11. Il sapere greco: filosofia, politica, scienza e religione, Torino 1996: 268).

Nella prospettiva dialettica di Hegel e di Marx, ciò non comporta la produzione di un sapere di tipo empiristico, come spiega bene lo stesso Hegel. “L’inizio della cultura e la fuoriuscita dall’immediatezza della vita sostanziale dovrà, sempre, concretarsi nel guadagnare conoscenze di principi generali, nel cavarsela (sich herausarbeiten) con i pensieri delle cose, nell’aver la capacità di sostenerli o rifiutarli con fondamento, nella capacità di cogliere i ricchi e concreti insiemi (Fülle) di determinazioni e nel saper fornire adeguate informazioni e onesti giudizi sulle cose stesse” (Hegel, Phänomenologie des Geistes, Suhrkamp 1986: 13s).

– Per fare un solo esempio, così leggiamo in Platone: “Quelli che vendono l’uso della forza, chiamando salario la ricompensa, son chiamati, mi pare, salariati”. (Respublica 371e). Si noti bene, salariati son coloro che vendono l’uso della loro forza: non siamo certo lontani dalla distinzione tra lavoro e forza-lavoro! È noto l’impegno di Lenin nel sottolineare che il marxismo non è l’ideologia di una sètta, ma sì il risultato di un lungo travaglio culturale, in cui confluiscono tradizioni diverse, che in esso trovano la loro sintesi (AA VV, Attualità del materialismo dialettico, Roma 1974: 10).

– Nota che i Greci indicavano i ricchi e i poveri con  a e  aa, cioè, rispettivamente, coloro che hanno possibilità (il Vermögen tedesco) e coloro che non ne hanno.

– Secondo Engels, il materialismo storico ha come oggetto la società umana, le sue generali leggi di sviluppo, le leggi della nascita, del modo di funzionare e del perire delle formazioni sociali. Nel discorso funebre in onore di Marx, Engels indicò come contributo di Marx al pensiero universale la scoperta delle leggi di svolgimento della storia umana e le leggi specifiche di movimento del modo capitalistico di produzione.

– A chiarimento dell’espressione forma dialettica generale, si ricordi che il grande merito storico di, Hegel, secondo Marx ed Engels, consiste, – leggiamo in Schleifstein, Einführung in das Studium, 1995: 48 – da un lato, nel concepire come un processo l’intero mondo naturale, storico e culturale, dunque, nel concepirlo come qualcosa che sta in continuo movimento, cambiamento, formazione e svolgimento; e, dall’altro lato, consiste nel tentativo di mostrare l’interna connessione, che si rivela in questo movimento e svolgimento. È interessante notare che W. Goldschmidt – in Interaktionen zwischen Philosophie und empirischen Wissenschaften, Frankfurt/Main 1995: 338 – parla di Marx come di un pensatore esplicitamente antispeculativo ma, tuttavia, non libero da elementi, propri della filosofia della storia di Hegel; altrettanto interessante è che Goldschmidt definisca insufficiente la critica di Marx ad Hegel, legando questa insufficienza all’influenza feuerbachiana. Ma vale la pena, anche, di richiamare una tesi tradizionale del marxismo (cioè, del pensiero di coloro che a Marx si son richiamati): questa tesi dice che il materialismo dialettico costituisce il fondamento teorico della concezione marxiana sia della storia che dell’economia politica; come documenti essenziali del materialismo dialettico si indicano il Materialismo ed empiriocriticismo e i Quaderni filosofici di Lenin, nonché il Ludovico Feuerbach, la Dialettica della natura e l’Antidühring di Engels. Senonché, fa parte di questa tesi sottolineare, anche, che non esiste un’opera propriamente filosofica di Marx, che ci permetta di affermare con relativa certezza «così e così egli pensava in sede di filosofia». La conclusione è che per sapere quale sia la filosofia di Marx bisogna leggere … Engels; si aggiunga che a riprova della piena convergenza della esplicita filosofia di Engels con quella marxiana, di cui non esistono documenti, si cita il fatto che Marx abbia collaborato alla stesura di un capitolo dell’Antidühring, dedicato alla storia dell’economia politica! (v. J. Schleifstein, Einführung in das Studium von Marx, Engels und Lenin, Essen 1995: 38).

– Si potrebbe dire che l’istanza materialistica esprime una preoccupazione di determinatezza. Insomma, metterei insieme come indicanti uno stesso orientamento, l’enfatizzazione di determinato, sensibile, differente, materialistico, scientifico. E questo atteggiamento sembra esser comune a Kant, Hegel, Marx. Si tenga ben presente che definire scientifica l’analisi, che Marx propone del capitalismo e scientifica la prospettiva comunista, che egli stesso ne ricava, può prestarsi ad equivoci: infatti, può essere intesa nel senso (a) della loro riduzione al livello di una Einzelwissenschaft; oppure, (b) può implicare la riduzione della Sozialwissenschaft al livello della Naturwissenschaft: “Essendo persuasi della propria capacità di prevedere meglio di chiunque altro il cammino della storia, i marxisti erano imbarazzati dal fatto che questa si discostava – nel suo svolgimento reale – da alcuni chichés belli e pronti”. (Lewin, L’ultima battaglia di Lenin, Bari 1969: 123).

– MEW, 26.1: 122s.

– In MEW, 26.1: 126, leggiamo di una prima, significativa oscillazione del pensiero di A. Smith; esistono luoghi – questo Marx vuole sottolineare –, da cui risulta che per l’economista scozzese produttivo è qualunque lavoro che produca valore; in altri, invece, è chiaramente espressa la tesi, che già conosciamo, ovvero che produttivo è solo quel lavoro, che produce MW. Questa oscillazione sta a dire che l’analisi di A. Smith non si attiene rigorosamente a come le cose stanno, all’interno del modo capitalistico di produzione. Vale sottolineare che, se l’endiadi lavoro produttivo/ improduttivo viene rigorosamente mantenuta entro i contorni del modo capitalistico di produzione, allora è vero che “alla categoria di lavoratore produttivo appartengono tutti coloro, i quali in un modo o nell’altro prendono parte alla produzione della merce – dal lavoratore manuale propriamente al manager, all’ingegnere (in quanto distinti dal capitalista)” (MEW. 26.1: 126s). La sottolineatura è mia, SG.

– MEW. 26.1: 127.

– Metto in evidenza, ora, il termine tedesco Bestimmung, come, poco sopra, ho evidenziato l’altro termine bestimmen (quest’ultimo è un verbo, mentre il primo è il sostantivo, che ne deriva), perché costituiscono una precisa esemplificazione di una caratteristica generalmente comune ad ogni vocabolo, e che nel linguaggio e nel pensare quotidiani vien subita e non razionalmente governata: intendo la qualità di possedere più di un significato, fino all’estremo di poter esprimere concetti opposti. In effetti, se bestimmen (e i termini, che ne derivano) corrisponde all’italiano determinare, ciò è vero nel senso che è termine ambiguo, polisemico, come lo è il corrispettivo italiano. In effetti bestimmen/determinare può significare: – orientare irresistibilmente verso una certa situazione; sollecitare, richiamare, ricordare qualcosa (bestimmen rimanda a Stimme = voce) ed è termine usato anche nel linguaggio religioso, per indicare la “voce di dio, che si fa sentire in me e che mi sollecita verso un certo atteggiamento”; ma può significare, anche, definire, circoscrivere, precisare. Anche se in effetti, di solito, nelle traduzioni italiane, bestimmen è ogni volta reso con determinare, sembra a me che convenga, invece, in contesti discorsivi diversi, scegliere tra i vari possibili significati del termine, quello che appare più adatto. È questa la regola prudenziale, che userò nella traduzione
del termine tedesco (e degli altri che da esso derivano).

– MEW, 26.1: 127s. Si tenga presente, inoltre, che l’espressione tedesca die Produktivkräfte der Arbeit indica, ad un tempo, lavoro, industria, abilità (Geschicklichkeit), dunque, ha un arco di significato, che dall’oggetto dilavoro arriva alla soggettiva capacità umana, alla Bildung dall’uomo storicamente raggiunta e sviluppata. Ha un rapporto tutto ciò con il concetto hegeliano di Geist?

– “Nella storia del pensiero scientifico si rivela sempre … l’aspirazione a convertire il funzionale in sostanziale, il relativo in assoluto, i concetti esprimenti misure in concetti esprimenti cose” (Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, 3.1, Firenze 1966: 27).

– Questo tema è particolarmente sottolineato in F. Petry, Il contenuto sociale della teoria del valore di Marx, Laterza 1973 e questo è il senso della dialektische Ableiten (deduzione dialettica), di cui in I.I. Rubin, Studien zur Marxschen Werttheorie, Europäische Verlag 1973. Da collegare a questa prospettiva logica marxiana (primato della logica delle relazioni sulla staticità della logica soggetto-predicato) è anche la tesi, per cui non è possibile definire esattamente cosa siano e quante siano le classi e le loro frazioni, al di fuori dello svolgersi della lotta di classe.

– Di cui un tratto fondamentale è la Verdinglichung o mistificazione sotto forma di “cosa” delle relazioni storico-sociali. Che la sachliche Form (sinonimo della Verdinglichung) derivi da certe condizioni di possibilità, ovvero, dal tipo determinato di relazione sociale-produttiva, che sta al fondo della formazione sociale nel suo complesso, presuppone la concezione, secondo cui i vari livelli della vita sociale son come uno svolgersi, un esplicarsi delle condizioni materiali della produzione e che, dunque, i vari livelli e le condizioni materiali sono condizioni di possibilità gli uni delle altre – nel senso che le condizioni materiali sono il presupposto per l’esistenza di quei vari livelli ma, nello stesso tempo, questi ultimi assicurano il finish delle condizioni materiali.

– E questo è un ulteriore elemento dell’intima relazione esistente tra riflessione di Hegel e di Marx. In proposito è interessante quanto si legge in J. Bigo, Marxismo e umanesimo, Bompiani 1963: 39, “Niente è più caratteristico del modo con cui Marx ha letto i suoi maestri in economia politica e di quanto ne ha ritenuto. Egli è andato diritto all’idea che è la sua prospettiva essenziale e il suo punto di partenza: la ricchezza è lavoro e deriva dall’umano. Agli occhi del discepolo di Hegel questa soggettivizzazione del valore è l’apporto essenziale della nuova scienza.” Si tenga presente che la polemica contro la “oggettivazione” dell’attività umana, la sua trasformazione in “cosa” appartiene, anche, alla tradizione dell’irrazionalismo moderno – come mostra bene Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, 3.1, Firenze 1966, in particolare p. 49. A differenza della critica dialettica, quella irrazionalistica intende, sempre, la proiezione all’esterno di una capacità umana, il suo realizzarsi in un’esistenza (dunque, quello che in tedesco si dice Entäußerung) come Entfremdung, ovvero creazione di una presenza obiettiva, che si rovescia in potere contro l’uomo.

– MEW, 26.1: 129.

– MEW, 26.1: 131.

– Marx, ovviamente, non condivide questa tesi e, contro A. Smith, sottolinea che per esser produttivo non è necessario che il lavoro si esteriorizzi in una cosa obiettiva: si considerino, per es., il lavoro di uno scrivano nello studio di un avvocato, o la recitazione di un attore o le prestazioni di una prostituta. La condizione che rende produttivo il lavoro è che l’imprenditore (avvocato, impresario, lenone, a seconda dei casi qui elencati) ricavi profitto dalle prestazioni dei lavoratori, qui, chiamati in causa; non è vero, dunque, che un lavoro per essere produttivo debba realizzarsi in una merce oggettiva (MEW, 26.1: 136s).

– Da quanto sopra si ricava pure un’altra tesi smithiama, non solo corretta ma che, anche, Marx riproporrà come elemento centrale del suo discorso: ovvero, se per Smith, a differenza di quello produttivo, il lavoratore improduttivo non produce merci, tuttavia, in ogni caso, il lavoro in quanto tale è una merce. (MEW, 26.1: 141).

– Anche questo è un motivo fondamentale della ricostruzione marxiana del modo capitalistico di produzione: la produzione di MW è il risultato non già dell’opera del singolo lavoratore, sì piuttosto del lavoro complessivo, che si realizza mediante la cooperazione di lavoratori, dalle funzioni e dalle qualifiche diverse, ma tutti collaboranti ad un unico risultato: la produzione di una quantità di valore, superiore a quella del capitale investito (variabile plus costante). Qui può inserirsi opportunamente una nota a proposito del significato del termine tedesco Arbeiter. Sta di fatto che questo termine traduce sia ciò che noi diciamo lavoratore, sia ciò che diciamo operaio ed è vero che varie voci si son
levate contro la tradizionale traduzione di Arbeiter – e quindi di Arbeitrsbewegung e di Arbeiterklasse – con «operaio» e non con il più generico «lavoratore» (donde poi, rispettivamente «movimento dei lavoratori» e «classe lavoratrice»). Naturalmente, ciò che importa non è, prima di tutto, quale termine si usi per tradurre Arbeiter (anche se la cosa non è affatto priva di importanza, data la carica di significato che, storicamente, si è accumulata sul termine «operaio», anche per distinguere il comunista dal socialdemocratico); ciò che veramente conta è mettere in evidenza quale sia il significato, che Marx vuole trasmetterci con quel termine tedesco. Ed allora la questione non è più oziosamente filologica, ma acquista un autentico peso reale. 

A questo punto, scopriamo che per tradurre correttamente Arbeiter dobbiano aver presente Das Kapital e le migliaia di pagine, che Marx scrisse su questo argomento, ma che gli editori (Engels, Kautsky, Bernstein) non ritennero di dover inserire nei tre libri canonici. 

Da tale lettura ricaviamo che: 1) Arbeiter è quel lavoratore, che vende – per un certo tempo e per una certa cifra variabile (salario =Lohnarbeit) – la propria forza lavoro, producendo, invece, lavoro; 2) che dal passaggio da forza-lavoro a lavoro c’è un aumento di valore, che non vien pagato, ma che qualifica il soggetto che compie quel passaggio come lavoratore produttivo; 3) l’Arbeiter è subito parte di un lavoratore collettivo, il che comporta che vengano moltiplicati gli effetti della erogazione della singola forza lavoro: dunque, l’Arbeiter, in quanto individuo determinato, vale, all’interno del modo capitalistico di produzione, come momento particolare dell’Arbeiter come lavoratore collettivo. 4) La moltiplicazione degli effetti prodotti dall’uso della singola forza lavoro non deriva, solo, dal fatto che il soggetto reale è non il singolo, ma il lavoratore collettivo; quella moltiplicazione, infatti, è determinata, anche, dall’organizzazione del lavoro e dall’uso di tecnologie sempre più avanzate – il che significa dal crescente uso della scienza a scopi produttivi.

Se precisiamo tutto ciò, comprendiamo bene che l’Arbeiter non è un qualunque lavoratore, ma sì un lavoratore che ha certe caratteristiche storiche ben determinate. In una parola è il moderno salariato, è il lavoratore dell’epoca delle rivoluzioni tecnico-scientifiche. Insomma è l’operaio moderno, con tutto il ventaglio di qualifiche possibili, a cui Marx fa cenno.

– Questo è l’autentico significato di due termini, frequentissimi nelle pagine sia di Hegel che di Marx: «svolgere» (entwickeln) e «svolgimento» (Entwicklung).

– Cf. medga3.doc.

– Così leggiamo nella lettera di Marx ad Engels del 6 luglio 1863: “Tu sai che A. Smith scompone completamente nel reddito il “natural” o “necessary price” composto di salario, profitto (interesse), rendita. Questo assurdo è passato in Ricardo, quantunque questi escluda dal catalogo la rendita, in quanto puramente accidentale. Quasi tutti gli economisti hanno accettato la cosa da A. Smith e quelli che la combattono cadono in altre assurdità. Smith stesso intuisce l’assurdo di scomporre il prodotto totale per la società in pura rendita (che può venir consumata annualmente), mentre egli per ogni singolo ramo della produzione scompone il prezzo in capitale (materie prime, macchinari, ecc.) e reddito (salario, profitto, rendita). Dato ciò, la società dovrebbe ricominciare ogni anno de novo, senza capitale”. (K. Marx – F. Engels, Carteggio, vol. IV, Roma 1951: 189). La riduzione smithiana del profitto a mero reddito è un’eredità fisiocratica.

– Come risulta dalla trattazione dei Fisiocratici, che Marx fa in questo stesso volume delle sue Theorien… lo strumento stesso «tableau» (il cui primo esemplare, ricordiamolo, è di Quesnay) sembra esser possibile, solo presupponendo una concezione della scienza come sapere sistematico; l’esistenza reale delle classi sociali e il processo della reificazione dell’economico. Com’è chiaro,
si tratta di tutti elementi, che hanno seriamente a che fare con la dialettica.

– È questo l’uso, che Marx fa, sulla scia di Hegel, dell’espressione tedesca Trieb. È utile sotto questo rispetto richiamare quanto scrive il sovietico Ja. Pevzner, in Il capitalismo monopolistico di Stato alla luce della teoria del valore-lavoro, Mosca 1987: 86, 87 – “Le ricerche della misura ideale del valore sono una chimera, un allontanarsi dalla vita sociale reale. La scienza reale, che si occupa dei rapporti tra le persone e tra le classi nei processi di riproduzione dei servizi, non può porsi come obiettivo quello di ricercare una misura stabile e immutabile del valore … è assolutamente impossibile trovare questa misura nell’ambito delle utilità la cui commensurabilità dipende da un numero illimitato di fattori, dai gusti di milioni di persone (produttori e consumatori), dai desideri, dalle intenzioni, dalle possibilità che cambiano continuamente e che sono qualitativamente non confrontabili. L’unico fattore su cui la scienza è in grado di appoggiarsi nella ricerca di una misura del valore è il lavoro”.

– Tutto ciò, ma lo vedremo meglio in seguito, ha importanti conseguenze sulla teoria marxiana del valore. “Da questo punto di vista, il tempo di lavoro necessario ha un senso diverso. Ovvero, in quali quantità il tempo di lavoro necessario ha da esser ripartito fra le diverse sfere della produzione. La concorrenza regola costantemente questa divisione, ma nello stesso modo la rimette in questione”  (MEW, 26.1: 202s). Insomma, Marx sta dicendo che esiste un tempo di lavoro necessario all’interno di un certo ramo della produzione; ma esiste, al di sopra, un tempo di lavoro, che la società nel suo complesso è disposta a dedicare alla produzione di quel ramo, avendo, però, presente la distribuzione delle ore di lavoro dal punto di vista della produzione globale. Dunque, due significati di «tempo di lavoro necessario»: (i) tempo medio richiesto per la produzione di una merce o di un tipo di merce; (ii) il tempo che la società è disposta ad investire in una certa produzione, tenendo presente la produzione complessiva. 

MEW, 26.1: 204. Marx non si ferma ad analizzare il caso finora considerato, ma indica anche altre situazioni possibili: ad es., quello dell’oscillazione del valore relativo delle merci, quando mutano le condizioni della produzione. Questo pezzo di tela, che si trova al mercato, è costato 2 shellings = per es. ad 1 giornata di lavoro; tuttavia, questo stesso pezzo di stoffa può essere giornalmente riprodotto ad 1 shelling; ora, poiché il valore è orientato (bestimmen) dal tempo di lavoro socialmente necessario, ma non dal tempo di lavoro impiegato effettivamente dal singolo produttore, così la giornata che quest’ultimo ha speso per la produzione di 1 braccio di tela è =, solo, a mezza giornata richiesta (bestimmen) socialmente. La caduta del prezzo di questo braccio di tela da 2 ad 1 shelling – e, dunque, al di sotto del valore della merce in questione – testimonia di un cambiamento delle condizioni di produzione, cioè della quantità di tempo socialmente necessario (MEW, 26.1: 204a). Un’altra situazione possibile è questa: non si modificano le condizioni di produzione della tela, né muta il costo del denaro, ma cresce il valore delle merci M, M’ e M” – che non entrano come componenti della tela –, allora il prezzo della tela cade in relazione a M, M’, M”. (MEW, 26.1: 204b).

– Rendita e interesse – ovviamente per Marx – sono parte del profitto.

– Si pensi, ad es., a J-B. Say, il quale rimproverava Smith perché negava il termine di prodotti ai risultati delle attività dei funzionari di Stato, arrivando a definire improduttivo il lavoro, a cui si dedicano. D’altronde – prosegue Say – Smith non nega che il lavoro dei servitori dello Stato abbia dei risultati, tra i quali indica la tranquillità, la pace, la sicurezza dello Stato, appunto (MEW, 26.1: 238).

– Su questo, cf. l’Introduzione del 1857 al marxiano Zur Kritik der pölitische Ökonomie. Per il tema della distribuzione, cf. anche MEW, 26.1: 11, in cui si vede operare questa categoria già nell’opera di J. Steuart, sempre circa questo stesso tema, è utile anche MEW, 26.1: 13, dove si insiste sul fatto che la quantità di ricchezza sociale, che spetta ai lavoratori, dipende da una “necessità”, contro cui l’arbitrio del singolo lavoratore non può che scontrarsi inutilmente.

– MEW, 26.1: 207.

– Una trattazione di questo ciclo o processo, nel suo insieme e nelle sue due parti componenti, sta in K. Marx – Fr. Engels, Gesamtausgabe, zweite Abteilung. «Das Kapital» und Vorarbeiten. Band 3, Berlin 1976: 5. 

– È chiaro che pagine come queste valgono come illustrazione del carattere necessariamente indiretto, che le categorie e i processi economici all’interno della KPW, hanno tra di loro (insomma sono un’illustrazione di quel auf Umwege, di cui abbiamo già detto); sono, quindi, un esposizione chiara, esemplificante del profondo nesso, che lega approccio dialettico e “via indiretta” (auf Umwege).


Note

1 Nella Préface ai suoi Nouveaux Essais sur l’Entendement humain
(Paris 1966: 33ss), Leibniz anticipa con tutta chiarezza Freud
nell’affermare la continuità della vita psichica. Ricorrendo proprio allo
stesso principio leibniziano, Freud affermava che non c’è sonno senza
il persistere di una qualche soglia di coscienza, né veglia senza la persistenza
di livelli psichici subconsci (si ricordi che in Leibniz avviene
qualcosa di strettamente analogo, quando il principio di continuità si
lega alla tesi delle “piccole percezioni’). D’altronde, il principio di continuità
è certamente presente nel tema della «serie matematica», che
tanto interessava Descartes e David Hume). Si ricordi, ancora, che sulla
stesso principio si basava la fondazione dell’io da parte di Durkheim.
2 Va notato come il principio di continuità abbia un rapporto di
piena coerenza con le tesi neo-positivistiche sul linguaggio. È interessante
come Jean Laporte descrive l’autentico dibattito filosofico, che
non è tra Kant e Spencer, ma sì tra Kant e Hume (ovvero non già tra
idealismo e materialismo; ma sì piuttosto tra razionalismo e irrazionalismo)
ed a questo punto il cosiddetto problema fondamentale della
filosofia acquista contorni ben precisi e controllabili – cf. su questo J.
Laporte, Le rationalisme de Descartes, Paris 1988: 3.
3 È ricorrendo all’impostazione del predeterminismo, che Freud
sostiene la piena conoscibilità scientifica di fenomeni apparentemente
del tutto scollegati rispetto all‘agire quotidiano del soggetto. Su questo
tema, cf. l’Intr. di S. Garroni a D. D’Ambra, Freud e la riflessione
sull’errore, Firenze 1990.
4 Divino è ciò che sfugge al controllo umano ma ciò che sfugge
al controllo umano è, in definitiva, il casuale – ciò che non può essere
ridotto a ragione (= ragione finalizzata). Dunque l’esaltazione del divino
si capovolge in esaltazione del caso e dell’arbitrio (Hegel, Vorlesungen
über die Geschichte der Philosophie. III . Suhrkamp Verlag 1957: 488).
5 M. Cingoli, in AA VV, La filosofia come sapere storico, Milano
1980: 550.
6 O, se più piace, sussistendo – secondo il senso, che il termine
ha in Meinong.
7 È interessante questa espressione «logica dinamica» che, per
assonanza (ma solo per questo?) richiama l’altra espressione, ovvero
psicologia dinamica.
8 Interessante l’osservazione che da ciò trae H.H. Holz – una
filosofia che trovi l’essere nello spazio del gioco necessità/possibilità
(Spielraum), che lasci dunque l’apertura, di cui invece mancherebbe se
l’essere fosse risolto nel puro divenuto in quanto tale, non può certo
appagarsi del concetto di materia proprio delle scienze naturali del
XVII secolo, in particolare se non vuole ridursi a mera fantasticheria
metafisica. In questa prospettiva di pensiero, che sappiamo legata al
principio di continuità, l’equivoco predeterministico è talmente lontano,
che il concetto di reale implicita immediatamente quello di possibile.
Cf. Logica en forma simple sobre lo completo, Moscù, 1991.
9 H. J. Sandkühler, La razionalità della filosofia e delle scienze nella
filosofia, Napoli 1994.
10 Al testo seguono le note senza il richiamo preciso (nota del redattore). 





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