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Nelle accese discussioni che nella Cina degli anni settanta contrapponevano le “due linee”, uno degli argomenti centrali nell’attacco alla “linea capitalistica” verteva sulla cosiddetta “teoria delle forze produttive” – cioè sulla teoria storicista-meccanicistica secondo cui all’evoluzione delle forze produttive (intese qui, in senso radicalmente deformato rispetto alla tradizione marxista se non alla vulgata del Soviet Marxism, come scienza e tecnologia applicate al processo produttivo) debbono adeguarsi i rapporti di produzione. Questo dibattito, come altri nella Cina di allora, non è mai stato preso sul serio in Europa, anche perché si presentava in forma ingenua e spesso teoricamente scorretta. In realtà non si faceva qui nessuno sforzo per comprendere su che cosa si dibattesse nella sostanza. Durava sotterraneo l’etnocentrismo, cieco sul fatto che quelle discussioni riguardavano l’avvenire economico-sociale-politico del paese destinato a divenire la seconda potenza mondiale. L’avvenire è stato, fino a questi giorni, la vittoria della cosiddetta “teoria delle forze produttive”: la vittoria del capitale.
Fra gli europei, molti marxisti inclusi, si è continuato a lungo, e si continua tuttora, a chiamare “rivoluzione industriale” l’introduzione di alcune importanti innovazioni tecniche nella produzione, che hanno favorito la nascita del capitalismo moderno. Scrivo “hanno favorito”; meglio avrei detto: “sono state utilizzate”; ma nella vulgata sono considerate ancora oggi una rivoluzione, cioè un fatto di per sé politicamente rilevante, e causa principale dell’evoluzione verso il capitalismo; le ulteriori innovazioni scientifico-tecniche-organizzative sarebbero poi causa principale delle evoluzioni successive del capitalismo; a fortiori, del passaggio al socialismo che avrà da scaturire dal seno del capitalismo.
I cinesi oggetto di attacco negli anni settanta quali seguaci della “via capitalistica” erano in sostanza assai vicini a questi europei. E risultano assai vicini a Cavallaro e Fineschi [del quale ultimo non ho letto i testi, ma assumo l’interpretazione che ne fornisce Cavallaro sul Manifesto del 7 gennaio; e che appunto mi ha ricordato quell’importante episodio cinese (Hegel
velato dall'occhio di Marx - Luigi Cavallaro)].
Che rapporto ha tutto ciò con la lettura del Capitale organizzata a Bergamo da Riccardo Bellofiore, e di cui questi appunti sono una ricaduta secondaria?
Il primo punto è che, agli occhi di una profana quale sono, l’analisi così attenta e puntuale del testo porta a una prima evidenza: non solo nella sua totalità (specie quanto al Libro terzo) ma in ogni sua parte, anche nel così ben congegnato Libro primo, Il capitale appare un’opera non conclusa; di più, risulta in questo non il suo limite ma la sua grandezza.
Quando si guardano i manoscritti di Leonardo, appare drammaticamente quello scavare accanito e infinito, la domanda continua senza possibilità di risposta definitiva ma posta e riproposta incessantemente nella presunzione umana della conoscenza (“diventereste come Dio”). Marx è l’ultimo umanista. Adopera la sua enorme erudizione per fingersi economista, filosofo, anche teologo, ma tutte quelle figure, e nozioni, sono strumentali a una unità di uomo.
Perciò, da profana, mi appaiono confusi quanti dall’analisi specialistica intendono tirarlo di qua e di là a conferma o smentita delle proprie teorie di economisti, di filosofi; per non parlare dei politici. Marx non è un economista, né un filosofo, anche se con tutte le forze pretende di esserlo. E vi riesce, anche. Ma la sua grandezza è là dove la scienza non lo soccorre, dove è spinto a ricercare oltre, senza mai riuscire a sfuggire alla contraddizione – che è in lui perché è nell’oggetto: nel mostro appena nato, intollerabile fonte della distruzione, che pure fa tutt’uno, per il buon illuminista, con la celebrazione finale della civiltà da parte della borghesia trionfante.
Mi si obietterà che questo appunto è scienza, questa ricerca mai compiuta. D’accordo: ma allora, attenti a evitare le belle costruzioni coerenti, che escludono la contraddizione. Quell’uomo che mira a una visione globale possiamo chiamarlo filosofo, purché non si confonda il filosofo col professore di filosofia. (Neppure con quel professore di filosofia, o di economia, che spesso è lo stesso Marx.)
Allora, niente meglio dello studio analitico dei testi: consente l’assunzione della contraddittorietà del soggetto e dell’oggetto.
Niente peggio che prendere qualche aspetto di Marx per cristallizzarlo nell’una o nell’altra politica di potere.
L’estremo del peggio: la politica di potere che pretenda impadronirsi del capitale, omettendone la funzione reificatrice e proponendolo come incarnazione del progresso. Progresso segnato dalle “forze produttive” nella versione di quei cinesi, cui subordinare chi lavora trasformato in cosa.
Anche i presupposti di questo peggio è dato trovare in Marx, giacché, da buon illuminista, non può non essere anche entusiasta del suo mostro: specie quando ne estrae e analizza le viscere.
Il mostro oggi ha occupato tutto lo spazio, siamo nel suo ventre e dobbiamo uscirne e non sappiamo più come. Dovremmo approfondire le nostre contraddizioni in questo. Un buon deterrente contro il fascino esercitato dal mostro (anche quello sotterraneo, magari mascherato da progressismo o dall’estremismo creatore di figure collettive antitetiche-eroiche, o dal non volere più chiederci chi siamo e dalla parte di chi) può essere l’apparentemente semplice esortazione di Mao Zedong: non dimenticare mai la lotta di classe.
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