venerdì 28 giugno 2019

Il concetto di «capitalismo di Stato» in Lenin - Vladimiro Giacché

Da: http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/1306/1206 - Vladimiro Giacché è un economista italiano.
                           Sulla NEP e sul capitalismo di Stato* - Lenin 


lI concetto di «capitalismo di Stato» in Lenin (1)

Dopo sei mesi di rivoluzione socialista coloro che ragionano solo sulla base dei libri non capiscono nulla. 
LENIN, 5 luglio 1918 (2)


1. 1917-1918. Il capitalismo di Stato come «passo avanti» 

Le prime occorrenze significative del concetto di capitalismo di Stato negli scritti di Lenin del periodo postrivoluzionario risalgono alla primavera del 1918, e si situano nel contesto della dura contrapposizione ai «comunisti di sinistra», l’opposizione interna al Partito comunista allora guidata da Nikolaj Bucharin. Lo scontro, inizialmente infuriato sulla firma del trattato di pace con la Germania, non era meno duro sul terreno economico. Esso riguardava ora la gestione delle imprese e il rafforzamento della disciplina del lavoro al loro interno: alla necessità di questo rafforzamento, su cui Lenin insisteva, i «comunisti di sinistra» contrapponevano la gestione collettiva delle imprese, che finiva in pratica per tradursi nella paralisi e nell’ingovernabilità delle imprese nazionalizzate. Ma il tema centrale era un altro ancora: il ritmo e la direzione della trasformazione economica. In quei mesi Oppokov proponeva di «dichiarare la proprietà privata inammissibile sia nella città che nelle campagne», mentre un altro «comunista di sinistra», Osinskij, parlava di «liquidazione totale della proprietà privata» e di «immediata transizione al socialismo»(3).

Per Lenin le priorità sono diverse: «la ricostituzione delle forze produttive distrutte dalla guerra e dal malgoverno della borghesia; il risanamento delle ferite inferte dalla guerra, dalla sconfitta, dalla speculazione e dai tentativi della borghesia di restaurare il potere abbattuto degli sfruttatori; la ripresa economica del paese; la sicura tutela dell’ordine più elementare»(4) . Diventano quindi decisive da un lato «l’organizzazione di un inventario e di un controllo popolare rigorosissimo sulla produzione e sulla distribuzione dei prodotti», dall’altro «l’aumento su scala nazionale della produttività del lavoro». A questo fine, bisogna arrestare l’offensiva contro il capitale e «spostare il centro di gravità» della propria iniziativa: «Finora sono stati in primo piano i provvedimenti di immediata espropriazione degli espropriatori. Ora passa in primo piano l’organizzazione dell’inventario e del controllo nelle aziende in cui i capitalisti sono già stati espropriati». Ancora più chiaramente: «se volessimo ora continuare ad espropriare il capitale con lo stesso ritmo di prima, certamente subiremmo una sconfitta»(5) . Il passaggio al socialismo non è un salto ma una transizione. «Il problema fondamentale di creare un regime sociale superiore al capitalismo» consiste nell’«aumentare la produttività del lavoro, e in relazione con questo (e a questo scopo) creare una superiore organizzazione del lavoro»: e «se ci si può impadronire in pochi giorni di un potere statale centrale, […] una soluzione durevole del problema di elevare la produttività del lavoro richiede in ogni caso (e soprattutto dopo una guerra straordinariamente dolorosa e devastatrice), parecchi anni»(6).

In questo senso Lenin, al VII Congresso che si era svolto nel mese di marzo, aveva affermato contro Bucharin che «non sono ancora stati creati i mattoni con cui costruire il socialismo»(7). Torna ad adoperare una metafora simile alla fine del mese di aprile nel suo rapporto al Comitato esecutivo centrale di tutta la Russia, ancora in polemica con i «comunisti di sinistra»: «rovesciando i grandi proprietari fondiari e la borghesia, noi abbiamo ripulito la strada, ma non abbiamo ancora costruito l’edificio del socialismo»(8) . Questo rapporto è di notevole importanza perché in esso Lenin, nel rispondere agli attacchi che gli venivano mossi da sinistra nel partito, offre un’analisi originale della realtà socioeconomica russa e su questa base sferra un contrattacco per certi versi sorprendente. Gli attacchi si condensavano in questa critica: «si nota una deviazione bolscevica di destra, che minaccia di far imboccare alla rivoluzione la via del capitalismo di Stato». A questo Lenin risponde: in realtà, «il capitalismo di Stato costituirebbe per noi un passo avanti. Se noi riuscissimo in poco tempo a realizzare in Russia il capitalismo di Stato, sarebbe una vittoria»(9) . E poco oltre: «Che cos’è il capitalismo di Stato sotto il potere sovietico? In questo momento attuare il capitalismo di Stato significa applicare quell’inventario e quel controllo che le classi capitalistiche hanno già applicato. Abbiamo un esempio di capitalismo di Stato in Germania»; il riferimento è all’economia di guerra tedesca, in cui lo Stato aveva posto sotto il proprio controllo interi settori produttivi. Lenin aggiunge: «se lo avessimo in Russia, il passaggio al pieno socialismo sarebbe facile, […] perché il capitalismo di Stato è qualcosa di centralizzato, di calcolato, di controllato e socializzato, ed è proprio questo che a noi manca»(10).

A questo riguardo Lenin rinvia esplicitamente a quanto aveva sostenuto prima della rivoluzione, e precisamente ne La catastrofe imminente e come lottare contro di essa, uno straordinario testo programmatico scritto nel settembre 1917. In questo testo il «capitalismo monopolistico di Stato» compare in un contesto ben preciso: allorché Lenin contesta la tesi – caratteristica di socialistirivoluzionari e menscevichi – secondo cui in Russia non si sarebbe ancora «maturi per il socialismo», sarebbe «ancora troppo presto per “instaurarlo”» (11). In verità – controbatte Lenin – anche in Russia vi è l’imperialismo, vi sono i monopoli capitalistici, e vi sono cartelli e sindacati tra imprese (ad es. il sindacato dello zucchero) che rappresentano «una prova lampante della trasformazione del capitalismo monopolistico in capitalismo monopolistico di Stato». Ora, prosegue Lenin, lo Stato è senz’altro

«l’organizzazione della classe dominante; in Germania, per esempio, quella degli Junker e dei capitalisti. Per questo, ciò che i Plechanov tedeschi (Scheidemann, Lensch, ecc.) chiamano “socialismo di guerra”, in realtà non è altro che il capitalismo di guerra, il capitalismo monopolistico di Stato, oppure, per parlare in modo più semplice e schietto, un ergastolo militare per gli operai, la protezione militare dei profitti per i capitalisti.
Ma provatevi un po’ a sostituire allo Stato degli Junker e dei capitalisti, allo stato dei grandi proprietari fondiari e dei capitalisti, uno Stato democratico rivoluzionario, uno Stato, cioè, che distrugga in modo rivoluzionario tutti i privilegi e non tema di attuare in modo rivoluzionario la democrazia più completa! Vedrete che il capitalismo monopolistico di Stato, in uno Stato veramente democratico rivoluzionario, significa inevitabilmente e immancabilmente un passo, e anche più d’un passo, verso il socialismo!»(12).

Se un monopolio diviene un monopolio di Stato, lo Stato dirige quella impresa. Ma nell’interesse di chi? Lenin risponde:

«O nell’interesse dei grandi proprietari fondiari e dei capitalisti, e allora non avremo uno Stato democratico rivoluzionario, ma burocratico reazionario, una repubblica imperialistica; 
o nell’interesse della democrazia rivoluzionaria, e questo sarà allora un passo verso il socialismo.
Perché il socialismo non è altro che il passo avanti che segue immediatamente il capitalismo monopolistico di Stato. O, in altre parole: il socialismo non è altro che il monopolio capitalistico di Stato messo al servizio di tutto il popolo  e che, in quanto tale, ha cessato di essere monopolio capitalistico» (13).

È interessante osservare che in quello stesso 1917 l’idea di un superamento del capitalismo attraverso il capitalismo di Stato fu formulata anche da intellettuali vicini alla socialdemocrazia. Ne è prova il testo dell’austriaco Rudolf Goldscheid Staatssozialismus oder Staatskapitalismus, che quell’anno vide diverse edizioni. Secondo Goldscheid la socialdemocrazia avrebbe avuto tutto l’interesse a far sì quella «socializzazione dell’economia, che durante la guerra era emersa quale mero prodotto della necessità» (e che pertanto non poteva avere «carattere esemplare»), «a guerra finita venisse condotta al suo pieno dispiegamento in base alle necessità stesse dello Stato» (14) . Queste necessità consistevano nell’enorme debito pubblico accumulato in guerra, che avrebbe reso lo Stato soggetto alla «schiavitù del capitale finanziario internazionale», a meno che lo Stato stesso non avesse proceduto alla «statalizzazione dei mezzi di produzione» (Goldscheid proponeva in concreto la statalizzazione di un terzo dei mezzi di produzione privati – patrimonio che egli stimava corrispondere all’incirca all’entità del debito statale dell’epoca)(15) . In questo modo, possedendo una parte significativa della ricchezza produttiva del paese, lo Stato non soltanto avrebbe risolto il problema del debito pubblico in modo ben più radicale di quanto avrebbe potuto fare limitandosi all’imposizione di maggiori tasse (sarebbe infatti diventato esso stesso produttore di ricchezza), ma avrebbe iniziato a realizzare la «socializzazione dei mezzi di produzione» e reso concretamente possibile, attraverso un adeguato «periodo di transizione», l’avvento del socialismo(16) .

Goldscheid nelle ultime pagine del suo libro espresse tutto questo nel motto: «dal capitalismo privato, attraverso il capitalismo di Stato, all’economia e alla società socializzate!»(17) . Sarebbe fin troppo facile osservare l’assenza in Goldscheid del concetto leniniano della «dittatura del proletariato», e per contro ben presente la convinzione che la transizione proposta potesse avvenire in modo pacifico e (cosa abbastanza singolare) senza un’accanita resistenza da parte dei proprietari dei mezzi di produzione. È però significativo che queste teorizzazioni sul «capitalismo di Stato» quale status di transizione si facessero strada anche in un ambiente ben diverso da quello dei bolscevichi. Il minimo comun denominatore è rappresentato dal controllo e coordinamento non più privato dell’attività economica, la cui concreta realizzabilità era stata per l’appunto dimostrata dal «capitalismo di Stato» realizzato in tempo di guerra(18) .

Ma torniamo a Lenin. Egli ripropone l’impostazione che aveva dato alla questione del capitalismo di Stato nel settembre 1917 e nell’aprile 1918 in un altro importante scritto della primavera del 1918, Sull’infantilismo «di sinistra» e sullo spirito piccolo-borghese, ove ribadisce provocatoriamente il concetto secondo cui «il capitalismo di Stato rappresenterebbe un passo avanti rispetto allo stato attuale delle cose nella nostra Repubblica sovietica». Anzi, lo rafforza: «Se, per esempio, fra sei mesi si instaurasse da noi il capitalismo di Stato, ciò sarebbe un enorme successo e rappresenterebbe la più sicura garanzia che tra un anno il socialismo sarebbe da noi definitivamente consolidato e reso invincibile» (19) . La contraddizione tra passare al capitalismo di Stato e fare un passo avanti verso il socialismo è secondo Lenin solo apparente: infatti, puntualizza, la stessa definizione di Repubblica Socialista Sovietica «significa che il potere dei soviet è deciso a realizzare il passaggio al socialismo, ma non significa affatto che riconosca come socialisti i nuovi ordinamenti economici». L’economia russa postrivoluzionaria, argomenta Lenin, è in realtà un’economia di «transizione», in cui sono compresenti «diversi tipi economico-sociali». Addirittura cinque:

1) l’economia «patriarcale, cioè in larga misura naturale, contadina»;
2) la piccola produzione mercantile (che comprende la maggioranza dei contadini che vendono il grano);
3) il capitalismo privato;
4) il capitalismo di Stato;
5) il socialismo(20) .

Il punto essenziale del ragionamento di Lenin è questo: in un paese di piccoli contadini come la Russia predomina l’elemento piccoloborghese. La piccola borghesia, assieme al capitalismo privato, lotta contro ogni intervento statale: il principale nemico del potere sovietico oggi è lo speculatore, il trafficante che sabota e spezza il monopolio statale del grano, non il capitalismo di Stato. Questo è il punto fondamentale, che i «comunisti di sinistra» non intendono(21). Ancora: il socialismo per Lenin è «inconcepibile» da un lato «senza la tecnica del grande capitalismo, costruita secondo l’ultima parola della scienza moderna, senza una organizzazione statale pianificata, che subordina decine di milioni di persone all’osservanza più rigorosa di un’unica norma nella produzione e nella distribuzione dei prodotti»; dall’altro «il socialismo è egualmente inconcepibile senza il dominio del proletariato nello Stato». Curiosamente, la storia ha generato «le due metà separate del socialismo» in due paesi diversi: la Germania rappresenta infatti la realizzazione materiale delle «condizioni economiche, produttive e sociali», la Russia di quelle politiche. Finché queste due parti non si riuniranno idealmente attraverso la rivoluzione in Germania, «il nostro compito è di metterci alla scuola del capitalismo di Stato tedesco, di cercare di assimilarlo con tutte le forze», senza rinunciare ai metodi dittatoriali per affrettare tale assimilazione. Questo perché «in senso materiale, economico, produttivo noi siamo ancora nella “anticamera” del socialismo, anzi ancora non vi siamo».(22)

2. 1921. Dopo la guerra civile e il «comunismo di guerra»: il capitalismo di Stato nella Nep  

Le considerazioni svolte ne L’infantilismo «di sinistra» e sullo spirito piccolo borghese furono riprese da Lenin tre anni dopo, allorché si impose un radicale mutamento di corso rispetto al “comunismo di guerra” praticato negli anni della guerra civile, caratterizzato dalla «politica delle requisizioni nei confronti dell’agricoltura e dalla distribuzione centralizzata per l’industria, il consumo ordinario e l’esercito»(23) .

L’opuscolo Sull’imposta in natura, pubblicato nel maggio del 1921, fornì a Lenin l’occasione per un’esposizione d’insieme della Nuova politica economica e dei suoi presupposti. In esso Lenin dichiara di voler «affrontare il problema non dal punto di vista della sua “attualità”, ma come una questione generale di principio»(24) . E a questo fine cita lunghi brani proprio dello scritto Sull’infantilismo «di sinistra», e in particolare le riflessioni sulla compresenza in Russia di «diversi tipi economico-sociali», e sulla superiorità del capitalismo di Stato rispetto all’economia attuale della Russia, in cui predomina il «capitalismo piccolo-borghese», rappresentato essenzialmente dalla piccola produzione mercantile contadina.

Ora, si domanda Lenin, che cosa è cambiato dal maggio 1918 a questo riguardo? Nulla di decisivo: «gli elementi fondamentali della nostra economia sono rimasti gli stessi». Semmai, «i contadini poveri (proletari e semiproletari) si sono trasformati, in moltissimi casi, in contadini medi. L’“elemento” piccolo-proprietario, piccolo-borghese si è quindi rafforzato». Questa situazione sociale, insieme alla guerra civile (che ha «estremamente aggravato la rovina del paese») e al cattivo raccolto del 1920, determinano la necessità di prendere provvedimenti immediati «per migliorare le condizioni dei contadini e suscitare una ripresa delle loro forze produttive». Solo questo, infatti, può migliorare le condizioni anche degli operai (che hanno bisogno di pane per vivere e di combustibile per lavorare) e «rafforzare» – in realtà ristabilire – «l’alleanza degli operai coi contadini»(25) .

A questo fine, prosegue Lenin, occorrono «cambiamenti profondi nella politica degli approvvigionamenti». Uno di questi è la sostituzione dei prelevamenti con l’imposta in natura (per di più di ammontare inferiore a quanto in precedenza veniva prelevato forzosamente) e la libertà dei contadini di vendere («almeno su scala locale») il resto della produzione una volta pagata l’imposta. Soprattutto sul secondo aspetto si erano registrate forti critiche da parte della sinistra del partito (tra gli altri, da parte di Bucharin) già nella riunione dell’ufficio politico del Comitato centrale al quale a febbraio Lenin aveva portato la sua proposta. Nel suo opuscolo Lenin menziona in termini generali queste obiezioni, e in particolare l’idea che con l’imposta in natura e la libertà di commercio «dal comunismo in generale si al sistema borghese in generale». L’imposta in natura, controbatte Lenin, è invece «una delle forme transitorie da un particolare “comunismo di guerra”, che era necessario a causa dell’estremo bisogno, della rovina e della guerra, al giusto scambio socialista dei prodotti». Il “comunismo di guerra” – Lenin pone il concetto tra virgolette – «consisteva di fatto nel togliere ai contadini tutte le derrate eccedenti, e talvolta addirittura non soltanto quelle eccedenti ma anche quelle necessarie, per coprire le spese dell’esercito e per nutrire gli operai. Per lo più prendevamo il grano a credito, pagando con carta moneta»(26) . Nonostante fosse necessario per vincere la guerra civile, «il “comunismo di guerra” […] non era e non poteva essere una politica rispondente ai compiti economici del proletariato». La politica giusta è lo scambio del grano con i prodotti dell’industria. L’imposta in natura è un passaggio verso questa politica. Non la attua ancora, perché le condizioni dell’industria non consentono di «dare al contadino prodotti industriali in cambio di tutto il grano di cui abbiamo bisogno». 



Lenin non si nasconde che «sulla base di una certa libertà di commercio (sia pure soltanto locale) risorgeranno la piccola borghesia e il capitalismo»(27). Qui però, aggiunge, i casi sono due: o si tenta di impedire lo scambio privato, o si tenta di incanalare il capitalismo «nell’alveo del capitalismo di Stato». La prima strada (quella che si era tentato di percorrere durante il “comunismo di guerra”) «sarebbe una politica sciocca e costituirebbe un suicidio per il partito che la tentasse»28 . Resta la seconda. Il richiamo al testo del 1918 è importante – ribadisce qui Lenin – precisamente perché già allora ciò che egli si proponeva di dimostrare era la possibilità della «coesistenza dello Stato sovietico, della dittatura del proletariato, col capitalismo di Stato»(29). 




E Lenin rimane della stessa idea: questa coesistenza è possibile. «Tutto il problema, sia teorico che pratico, consiste nel trovare i metodi giusti appunto per incanalare lo sviluppo inevitabile (fino ad un certo punto e per un certo periodo) del capitalismo nell’alveo del capitalismo di Stato, nel trovare le condizioni che garantiscano questo sviluppo e assicurino in un futuro non lontano la trasformazione del capitalismo di Stato in socialismo»(30). Ma quali forme potrà assumere in concreto il capitalismo di Stato all’interno del sistema sovietico, nel quadro dello Stato sovietico? Lenin ne enumera quattro.


La prima è quella delle concessioni, che Lenin definisce così: «si tratta di un contratto, di un blocco, di un’alleanza del potere statale sovietico, cioè proletario, col capitalismo di Stato, contro l’elemento piccoloproprietario (patriarcale e piccolo-borghese). Il concessionario è un capitalista. Egli fa gli affari da capitalista, per avere dei profitti: egli accetta di concludere un contratto col potere sovietico per ottenere un profitto eccezionale, maggiore del consueto, o per avere delle materie prime che non può procurarsi o gli è estremamente difficile procurarsi in altri modi. Il potere sovietico ne trae vantaggio: le forze produttive si sviluppano, la quantità di prodotti aumenta immediatamente o nel termine più breve».
In termini strategici, «“impiantando” il capitalismo di Stato sotto forma di concessioni, il potere sovietico rafforza la grande produzione contro la piccola, la progredita contro l’arretrata, la produzione a macchina contro quella a mano, aumenta la quantità dei prodotti della grande industria (la sua quota parte), rafforza i rapporti economici regolati dallo Stato contro quelli anarchici piccolo-borghesi»(31).

Una seconda forma è quella delle cooperative. «Il capitalismo “cooperativistico”, a differenza del capitalismo privato, in regime sovietico è una varietà del capitalismo di Stato […]. Dato che l’imposta in natura significa libertà di vendita delle derrate eccedenti (non prelevate sotto forma d’imposta), è necessario fare di tutto affinché questo sviluppo del capitalismo – poiché libertà di vendita e libertà di commercio sono sviluppo del capitalismo – venga incanalato nell’alveo del capitalismo cooperativistico». Perché? Per due motivi. Da una parte in quanto, a somiglianza del capitalismo di Stato, «il capitalismo cooperativistico […] facilita l’inventario, il controllo, la sorveglianza, i rapporti contrattuali fra lo Stato (sovietico nel caso nostro) e il capitalista». Dall’altra perché le cooperative «facilitano l’unione, l’organizzazione di milioni di abitanti, e poi di tutti gli abitanti senza eccezione, e questa circostanza, a sua volta, offre un immenso vantaggio dal punto di vista dell’ulteriore passaggio dal capitalismo di Stato al socialismo»(32). Come vedremo più oltre, le riflessioni di Lenin sulle cooperative conosceranno ulteriori sviluppi.

Dopo queste prime due forme, esposte più in dettaglio, Lenin accenna anche ad altre due forme di capitalismo di Stato.

La terza è quella dell’intermediazione commerciale: «lo Stato assume il capitalista in qualità di commerciante, pagandogli una determinata percentuale di commissione per la vendita dei prodotti dello Stato e la compera dei prodotti del piccolo produttore».

La quarta forma è quella – prossima al contratto di concessione – per cui «lo Stato dà in appalto all’imprenditore capitalista uno stabilimento, un’industria, o un bosco, un appezzamento di terra ecc. appartenente allo Stato». Qui però, a differenza di quanto accade con le concessioni, l’interlocutore del potere sovietico non è una grande impresa o un conglomerato straniero, ma un capitalista russo.

Ora, queste forme del capitalismo di Stato appaiono a Lenin progressive rispetto ai «rapporti precapitalistici» che ancora imperano in Russia in immensi territori, in cui «regnano il sistema patriarcale, la semibarbarie e la barbarie vera e propria». Il «passaggio immediato da queste condizioni predominanti in Russia al socialismo» è, dice Lenin, possibile «fino a un certo punto», a condizione che sia realizzato il piano di elettrificazione del paese: in tal caso – afferma Lenin – «non vi sarà bisogno, o quasi non vi sarà bisogno di fasi intermedie, di anelli transitori fra il sistema patriarcale e il socialismo». Ma nella migliore delle ipotesi «noi impiegheremo per lo meno dieci anni soltanto per i lavori più urgenti» previsti dal piano («si può pensare di impiegarne di meno soltanto nel caso in cui la rivoluzione proletaria riporti la vittoria in paesi come l’Inghilterra, la Germania, l’America»). Ne consegue una necessità per l’immediato futuro: «dobbiamo imparare a pensare agli anelli intermedi che possono facilitare il passaggio dal sistema patriarcale, dalla piccola produzione, al socialismo»(33).

Si tratta quindi di uscire dalla logica binaria che si limita all’opposizione capitalismo-socialismo. «Noi» prosegue infatti Lenin «spesso facciamo oggi ancora il seguente ragionamento: “Il capitalismo è un male, il socialismo è un bene”. Ma questo ragionamento è sbagliato, poiché non tiene conto della somma di tutte le forme economiche e sociali esistenti, e ne considera soltanto due. Il capitalismo è un male in confronto al socialismo. Il capitalismo è un bene in confronto al periodo medioevale, in confronto alla piccola produzione, in confronto al burocratismo che è connesso alla dispersione dei piccoli produttori». Ed ecco una delle affermazioni chiave dell’intero saggio di Lenin: «Poiché non abbiamo ancora la forza di passare immediatamente dalla piccola produzione al socialismo, il capitalismo è, in una certa misura, inevitabile, come prodotto spontaneo della piccola produzione e dello scambio; e noi dobbiamo quindi utilizzare il capitalismo (soprattutto incanalandolo nell’alveo del capitalismo di Stato) come anello intermedio tra la piccola produzione e il socialismo, come un mezzo, una via, un modo, un metodo per aumentare le forze produttive»(34).

Si tratta insomma di «sviluppare lo scambio», e si può farlo «senza aver paura del capitalismo, perché i limiti che gli abbiamo posto (espropriazione dei grandi proprietari fondiari e della borghesia in economia, potere operaio e contadino in politica) sono abbastanza angusti, abbastanza “moderati”. Questa è l’idea fondamentale dell’imposta in natura, questo è il suo significato economico»(35).

Sul significato del capitalismo di Stato nella Russia sovietica Lenin tornò nell’ottobre del 1921, in un denso articolo scritto Per il quarto anniversario della Rivoluzione d’ottobre. Nel suo articolo Lenin insiste anzitutto sul «contenuto democratico-borghese» della Rivoluzione russa, precisando così il significato di questa espressione:
«Dire che la rivoluzione ha un contenuto democratico-borghese significa che i rapporti sociali (il regime, le istituzioni) del paese si sono epurati da tutto ciò che è medioevale, dalla servitù della gleba, dal feudalesimo. Quali erano nel 1917, in Russia, le principali manifestazioni, le principali sopravvivenze, i principali residui della servitù della gleba? La monarchia, la divisione in caste, la proprietà fondiaria, il godimento della terra, la condizione della donna, la religione, l’oppressione nazionale. Prendete una qualunque di queste “stalle di Augia” […] e vedrete che noi le abbiamo ripulite completamente»(36).

Anche dal punto di vista della politica internazionale, prosegue Lenin, «la nostra Rivoluzione d’ottobre ha iniziato una nuova epoca della storia mondiale», rompendo con le guerre imperialiste(37).

Il fronte su cui il bilancio di Lenin è più cauto è proprio quello economico: «l’ultima nostra opera – la più importante, la più difficile, la più incompiuta – è l’organizzazione economica, la costruzione di una base economica per il nuovo edificio socialista che sostituisce quello vecchio e feudale distrutto, e quello capitalista semidistrutto. In questa opera, che è la più difficile e la più importante, abbiamo, più che in ogni altra, subìto insuccessi e commesso errori». Quali? Uno su tutti, quello compiuto nel periodo del “comunismo di guerra”: la presunzione di «organizzare, con ordini diretti dello Stato proletario, la produzione statale e la ripartizione statale dei prodotti su base comunista in un paese di piccoli contadini. La vita ci ha rivelato il nostro errore. Occorreva una serie di fasi transitorie: il capitalismo di Stato e il socialismo, per preparare – con un lavoro di una lunga serie d’anni – il passaggio al comunismo». Segue un’esortazione molto significativa: «Non direttamente sull’entusiasmo, ma con l’aiuto dell’entusiasmo nato dalla grande rivoluzione, basandovi sullo stimolo personale, sull’interesse personale, sul calcolo economico, prendetevi la pena di costruire dapprima un solido ponte che, in un paese di piccoli contadini, attraverso il capitalismo di Stato, conduca verso il socialismo, altrimenti voi non arriverete al comunismo, altrimenti voi non condurrete decine e decine di milioni di uomini al comunismo»(38). Il solo entusiasmo rivoluzionario, insomma, non basta: occorre fondarsi sulla più sicura base dell’interesse personale(39).

A questo Lenin fa seguire una metafora spiazzante, ma in fondo conseguente al ragionamento appena svolto, circa i compiti dello Stato:
«Lo Stato proletario deve diventare un “padrone” cauto, scrupoloso, esperto, un commerciante all’ingrosso puntuale, perché altrimenti non potrà mettere economicamente sulla buona via un paese di piccoli contadini. […] Un commerciante all’ingrosso sembrerebbe un tipo economico lontano dal comunismo come il cielo dalla terra. Ma questa è appunto una delle contraddizioni che, nella vita reale, attraverso il capitalismo di Stato, conducono dalla piccola azienda contadina al socialismo. L’interesse personale eleva la produzione, e noi abbiamo bisogno dell’aumento della produzione, innanzi tutto e a qualunque costo. Il commercio all’ingrosso unisce economicamente milioni di piccoli contadini, in quanto li interessa, li spinge a gradini economici superiori, a diverse forme di collegamento e di associazione nella produzione stessa»(40).

In quegli stessi giorni di ottobre del 1921, in un discorso intitolato La Nuova politica economica e i compiti dei Centri di educazione politica, Lenin torna sul significato della Nep in questi termini: «Nuova politica economica significa sostituire ai prelevamenti una imposta, significa passare in misura notevole alla restaurazione del capitalismo. In quale misura ancora non sappiamo» (41). Non lo sappiamo, dice Lenin, perché non sappiamo chi avrà il sopravvento: potranno essere i capitalisti, che «in questo caso cacceranno i comunisti, e allora sarà la fine di tutto»; oppure potrà essere «il potere statale proletario», se riuscirà a «guidare il capitalismo lungo la via tracciata dallo Stato e creare un capitalismo subordinato allo Stato e posto al suo servizio»(42). Si tratta insomma di una partita aperta, di una sfida da vincere.

Sempre nell’ottobre del 1921 Lenin propone la più severa analisi autocritica sulle politiche del periodo 1918-1920. La sede è la VII Conferenza del Partito della provincia di Mosca, ove Lenin presenta un rapporto su La Nuova politica economica. Qui egli Lenin ricorda che il presupposto condiviso dal Partito già a inizio 1918 – «non sempre apertamente espresso, ma sempre tacitamente sottinteso» – era che «si sarebbe passati direttamente all’edificazione del socialismo». In altre parole, «allora si riteneva di poter passare direttamente al socialismo senza un periodo preliminare in cui si dovesse adattare la vecchia economia all’economia socialista. Ritenevamo che, avendo creato la produzione e la distribuzione di Stato, questo ci avrebbe permesso di compiere immediatamente il passaggio a un sistema economico di produzione e distribuzione diverso dal precedente»(43).

Ma non è questo il solo accento nuovo. Lenin rivede ora i suoi giudizi precedenti anche su un altro aspetto, ridimensionando la portata delle sue stesse riflessioni del 1918 sulla progressività del capitalismo di Stato: «Quando, in polemica con una parte dei compagni che non approvavano la Pace di Brest, noi sollevammo, ad esempio nella primavera del 1918, la questione del capitalismo di Stato, tale questione non venne posta nel senso che noi dovessimo andare indietro verso il capitalismo di Stato, ma nel senso che la nostra situazione sarebbe stata più facile e la soluzione dei nostri problemi socialisti sarebbe stata più vicina se, da noi, in Russia, il sistema economico dominante fosse stato un capitalismo di Stato»(44). E, cosa più importante, Lenin aggiunge subito che bisogna fare attenzione a questo aspetto «per comprendere in che cosa è consistito il cambiamento della nostra politica economica e come si dovrebbe giudicare questo cambiamento»(45). Che è così caratterizzabile: «Verso la primavera del 1921 apparve chiaro che era stato frustrato il nostro tentativo di passare ai princìpi socialisti di produzione e distribuzione con il sistema “dell’assalto”, cioè con il mezzo più breve, rapido e diretto. La situazione politica della primavera del 1921 ci rivelò che per una serie di questioni economiche non potevamo non ripiegare sulla posizione del capitalismo di Stato, non passare dall’“assalto” all’“assedio”»(46).

A questo punto Lenin si chiede se la ritirata effettuata col passaggio alla Nuova politica economica, il «nostro ripiegamento su procedimenti, mezzi e metodi di attività che sono propri del capitalismo di Stato», sia stata sufficiente per riprendere l’offensiva. La risposta è negativa. Ma seguiamo la ricostruzione di Lenin: «In primavera abbiamo detto che non avremmo temuto di ritornare al capitalismo di Stato e che i nostri compiti si riducevano ad organizzare lo scambio delle merci». Questo presupponeva «lo scambio in modo più o meno socialista» – ossia in natura e non tramite il commercio e pagamenti in moneta – «in tutto lo Stato, dei prodotti dell’industria con i prodotti dell’agricoltura e, grazie a questo scambio, la ricostruzione della grande industria, unica base dell’organizzazione socialista». Invece, ammette Lenin, «dallo scambio di merci non è uscito nulla, il mercato privato si è dimostrato più forte di noi, al posto dello scambio delle merci si è avuta la compravendita usuale, il commercio». E quindi, conclude Lenin, «ora ci troviamo nella situazione di dover tornare un po’ indietro, non solo verso il capitalismo di Stato, ma anche verso il disciplinamento del commercio e della circolazione del denaro da parte dello Stato»(47).

3. 1922/3. Gli ultimi scritti di Lenin: un capitalismo di Stato «del tutto insolito»

Il capitalismo di Stato riceve una trattazione in parte nuova nell’ultimo anno di attività di Lenin, a partire dal rapporto politico a nome del Comitato centrale pronunciato il 27 marzo 1922 davanti all’XI Congresso del Partito comunista russo. Il punto da cui Lenin muove, in polemica con Bucharin, è che quanto si trova nei libri si riferisce al capitalismo di Stato «che esiste nel regime capitalistico», mentre ovviamente «non c’è nemmeno un libro che parli del capitalismo di Stato che esiste nel regime comunista». Nemmeno a Marx, prosegue Lenin, «è venuto in mente di scrivere una sola parola a questo proposito, ed è morto senza lasciare nessuna citazione precisa o indicazione irrefutabile. Perciò dobbiamo cavarcela da soli».

Il fatto è, osserva Lenin, che «il capitalismo di Stato, secondo tutta la letteratura economica, è quel capitalismo che esiste in regime capitalistico, quando il potere statale controlla direttamente certe aziende capitalistiche. Ma il nostro è uno Stato proletario, che poggia sul proletariato, che al proletariato dà tutti i vantaggi politici e che attraverso il proletariato attira a sé dal basso le masse contadine». In altri termini, «la nostra è una società che è uscita dai binari capitalistici e che ancora non si è messa su nuovi binari; e alla direzione di questo Stato non si trova la borghesia, bensì il proletariato. Noi non vogliamo comprendere che quando diciamo “lo Stato”, questo Stato siamo noi, è il proletariato, è l’avanguardia della classe operaia. [...] Il capitalismo di Stato è quel capitalismo che dobbiamo circoscrivere entro i limiti determinati, cosa che finora non siamo riusciti a fare. Ecco il punto. E sta a noi decidere che cosa deve essere questo capitalismo di Stato».

Dice ancora Lenin: «Di potere politico ne abbiamo a sufficienza, del tutto a sufficienza, i mezzi economici a nostra disposizione sono pure sufficienti, ma l’avanguardia della classe operaia, che è stata portata in primo piano per dirigere, per stabilire i limiti, per distinguersi, per sottomettere e non essere sottomessa, non ha sufficiente abilità per farlo. Qui occorre soltanto dell’abilità, ed è quello che ci manca»(48).

Quello che qui Lenin ha in mente è una sorta di diarchia tra il capitalismo privato (che deve essere permesso: «è necessario fare in modo che sia possibile il decorso abituale dell’economia capitalistica e della circolazione capitalistica, perché ciò è indispensabile al popolo, e senza di ciò è impossibile vivere») e potere dello Stato (che però per l’incapacità di chi è alla guida sfugge di mano)(49). Questo potere, giova precisarlo, è per Lenin anche potere economico. E precisamente sul terreno economico deve avere la meglio sul capitale privato. Non per decreto, ma per la capacità (ancora da dimostrare) di organizzare l’economia meglio del capitale privato. Per questo compito, conclude Lenin, sarà decisiva «la scelta degli uomini e il controllo dell’esecuzione»(50).

Sul tema del capitalismo di Stato durante l’XI Congresso Lenin tornerà ancora, questa volta nelle Conclusioni sul rapporto politico del Cc del Pcr(b), in polemica con Preobraženskij. «Il capitalismo di Stato è capitalismo» aveva detto Preobraženskij «ed è soltanto così che lo si può e lo si deve intendere». Lenin ribatte: dire questo significa essere scolastici. Gli sviluppi della Russia postrivoluzionaria presentano un tale carattere di novità che «nessun Marx e nessun marxista potevano prevederlo». Infatti il capitalismo di Stato nella Russia sovietica «è un capitalismo a tal punto inatteso, un capitalismo che nessuno assolutamente aveva previsto, poiché nessuno poteva prevedere che il proletariato avrebbe conseguito il potere in un paese tra i meno sviluppati e avrebbe cercato dapprima di organizzare una grande produzione e la distribuzione per i contadini, per poi, non essendo venuto a capo di questo compito a causa delle condizioni culturali, far partecipare il capitalismo alla sua opera»(51).

A ben vedere, quello che distingue l’impostazione di Lenin da quella di Bucharin e di Preobraženskij è l’approccio: attento alla complessa dinamica dei processi storici (e alla compresenza di diversi modi di produzione nella struttura economica russa) quello del primo, teleologico e tipico delle filosofie della storia stadiali quello dei secondi. Così, per il Bucharin dell’Economia del periodo di trasformazione, «la riorganizzazione dei rapporti di produzione del capitale finanziario procede nella direzione della organizzazione universale del capitalismo di Stato»; quest’ultimo, «con l’eliminazione del mercato, con la trasformazione del denaro in un’unità di calcolo, con la produzione organizzata su scala statale, con la subordinazione dell’intero meccanismo “economico-nazionale” agli scopi della concorrenza mondiale, cioè prima di tutto a quelli della guerra», è una sorta di preparazione del comunismo. In tal modo, può affermare Bucharin, «l’epoca prossima», che dovrà essere «l’epoca della dittatura del proletariato, […] avrà una rassomiglianza formale con l’epoca della dittatura della borghesia, sarà cioè il capitalismo di Stato rovesciato, il suo rovesciamento dialettico nel proprio diretto opposto» (52).

Lenin è meno funambolico, non pensa a rovesciamenti dialettici. Si limita a osservare che nella Russia sovietica il controllo dello Stato non è più nella mani della borghesia e che quindi «il capitalismo di Stato da noi non è più quello a proposito del quale hanno scritto i tedeschi. È un capitalismo ammesso da noi». E quindi «bisogna fare in modo che nello Stato proletario il capitalismo di Stato non possa e non osi uscire dai limiti e dalle condizioni fissate dal proletariato, dalle condizioni che sono convenienti per il proletariato»(53).

Secondo Lenin c’è un motivo di fondo per cui questa sfida può essere vinta dallo Stato sovietico: perché quest’ultimo possiede la proprietà della terra e dei settori strategici dell’industria. È quanto dirà nella sua relazione al IV Congresso dell’Internazionale Comunista, il 13 novembre 1922: «Il capitalismo di Stato, come l’abbiamo instaurato da noi, è un capitalismo di Stato particolare. Esso non corrisponde al concetto ordinario di capitalismo di Stato. Noi abbiamo nelle nostre mani tutte le leve di comando […]. Il nostro capitalismo di Stato differisce dal capitalismo di Stato nel senso letterale dell’espressione, in quanto abbiamo nelle mani dello Stato proletario non soltanto la terra, ma anche i settori più importanti dell’industria»(54). Potrebbe sembrare una mera esplicitazione di quanto Lenin aveva già detto parlando davanti al precedente Congresso dell’Internazionale Comunista: «capitalismo di Stato in una società in cui il potere appartiene al capitale, e capitalismo di Stato in uno Stato proletario sono due concetti diversi. In uno Stato capitalistico, capitalismo di Stato significa capitalismo riconosciuto e controllato dallo Stato a vantaggio della borghesia contro il proletariato. Nello Stato proletario, vien fatta la stessa cosa a vantaggio della classe operaia allo scopo di resistere alla borghesia ancora forte e di lottare contro di essa»(55). Ma nel discorso al IV Congresso dell’Internazionale Comunista c’è qualcosa di più: c’è la precisazione che nello Stato proletario i principali mezzi di produzione appartengono allo Stato. È questo, dice ora Lenin, il concreto tratto distintivo dello Stato proletario, che determina quindi anche la particolare configurazione che in tale contesto assume il capitalismo di Stato(56).

Il Lenin che pronuncia in tedesco la sua relazione al Congresso dell’Internazionale Comunista è un Lenin malato da tempo. Da metà dicembre le sue condizioni si aggraveranno e da allora in poi potrà lavorare solo per poche ore al giorno, dettando i propri testi. Tra i testi scritti sotto dettatura dalle sue segretarie negli ultimi mesi di attività di Lenin, particolare rilievo ha l’articolo Sulla cooperazione, del gennaio 1923. Il punto di partenza di Lenin è questo: i sogni degli antichi teorici delle cooperative erano fantasticherie giustamente criticate dai socialisti. Ma perché quelle fantasticherie erano fuori dalla realtà? Per il fatto di «non comprendere l’importanza principale, radicale della lotta politica della classe operaia per l’abbattimento del dominio degli sfruttatori».(57) L’utopismo dei cooperatori, insomma, consisteva nel pensare di poter conseguire il socialismo esclusivamente attraverso lo sviluppo del sistema cooperativo.

Le cose però cambiano «una volta che il potere dello Stato è nelle mani della classe operaia, una volta che a questo potere dello Stato appartengono tutti i mezzi di produzione». Con la Nep si è fatto un ulteriore passo avanti: concedendo al contadino il commercio privato, «ora abbiamo trovato quel grado di coordinazione dell’interesse privato, dell’interesse commerciale privato, con la verifica e con il controllo da parte dello Stato, quel grado di subordinazione dell’interesse privato all’interesse generale, che prima rappresentava un ostacolo insormontabile per molti, moltissimi socialisti». In questo nuovo contesto la cooperazione («che noi una volta consideravamo dall’alto in basso come un affare da bottegai») diviene l’ulteriore elemento necessario «per condurre a termine la costruzione di una società socialista integrale. Questo non è ancora la costruzione della società socialista, ma è tutto ciò che è necessario e sufficiente per tale costruzione»58 . Per tornare alla metafora adoperata contro Bucharin nel 1918, la situazione da allora è cambiata: i mattoni per costruire la società socialista adesso ci sono.

Il tema della cooperazione offre a Lenin anche l’occasione per tornare sulla questione del capitalismo di Stato, che egli qui riformula ancora una volta, da un lato distinguendo tra il «capitalismo di Stato abituale» e il «capitalismo di Stato insolito, addirittura del tutto insolito», della realtà economica sovietica, dall’altro dichiarando che tra questi due tipi di capitalismo di Stato vi è un «legame, senza soluzione di continuità»(59). La cooperazione assume un significato e un ruolo differenti in tre diverse configurazioni sociali:
1) «In regime di capitalismo privato le aziende cooperative differiscono dalle aziende capitalistiche, come le aziende collettive dalle aziende private»;
2) «In regime di capitalismo di Stato le aziende cooperative si distinguono dalle aziende capitaliste di Stato, in primo luogo come aziende private, in secondo luogo come aziende collettive»;
3) «Nel nostro regime attuale» – che quindi non è identificabile con il capitalismo di Stato «abituale» – «le aziende cooperative si distinguono dalle aziende capitaliste private in quanto sono aziende collettive, ma non si distinguono dalle aziende socialiste, perché sono fondate sulla terra e sui mezzi di produzione che appartengono allo Stato, cioè alla classe operaia». Da questo punto di vista, conclude Lenin, «nelle nostre condizioni la cooperazione coincide di regola completamente con il socialismo»(60).

È interessante notare che il testo Sulla cooperazione, e più in particolare l’identificazione della cooperazione con il socialismo, fu adoperata nel 1925 sia da Stalin sia da Bucharin a riprova della convinzione di Lenin che in Russia fossero presenti tutti gli elementi per costruire il socialismo, senza bisogno di ricorrere all’apporto di capitali stranieri(61). La posizione di Lenin sembra in realtà molto più cauta. Con l’affermazione del potere sovietico non è soltanto il concetto di cooperazione a doversi trasformare. Per Lenin «siamo obbligati a riconoscere che tutte le nostre opinioni sul socialismo hanno subìto un cambiamento radicale». Se prima della conquista del potere il centro di gravità era «sulla lotta politica, sulla rivoluzione», adesso «il centro di gravità si sposta fino al punto di trasferirsi sul pacifico lavoro organizzativo “culturale”. Sarei pronto a dire che per noi il centro di gravità si sposta sul lavoro culturale, se non fossimo impediti dai rapporti internazionali, dall’obbligo di lottare per la nostra posizione su scala internazionale. Ma se lasciamo questo da parte e ci limitiamo ai rapporti economici interni, allora oggi il centro di gravità del nostro lavoro si sposta veramente sul lavoro culturale».

Questo, prosegue Lenin, definisce «due compiti fondamentali, che costituiscono un’epoca». Il primo è «il compito di trasformare il nostro apparato statale, che proprio non vale nulla e che abbiamo ereditato al completo dall’epoca precedente». Il secondo compito consiste nel «lavoro culturale in favore dei contadini. E questo lavoro culturale fra i contadini ha come scopo economico appunto la cooperazione. Se potessimo riuscire a organizzare tutta la popolazione nelle cooperative, noi staremmo già a piè fermo sul terreno socialista». La chiusa dell’articolo riprende il concetto di rivoluzione culturale e ne chiarisce i presupposti: «Ora a noi basta compiere questa rivoluzione culturale per diventare un paese completamente socialista; ma per noi questa rivoluzione culturale comporta delle difficoltà incredibili, sia di carattere puramente culturale (poiché siamo analfabeti) che di carattere materiale (poiché per diventare colti è necessario un certo sviluppo dei mezzi materiali di produzione, è necessaria una certa base materiale)»(62).

Da queste affermazioni di Lenin è difficile far discendere, come intesero fare Stalin e Bucharin, l’idea di un processo ormai sostanzialmente compiuto di passaggio al socialismo. Lenin lo ribadirà nel suo ultimo scritto, Meglio meno, ma meglio, completato il 2 marzo 1923: «noi non abbiamo un grado sufficiente di civiltà per passare direttamente al socialismo, pur essendoci da noi le premesse politiche»(63). È invece lecito leggere nelle ultime riflessioni di Lenin la convinzione che il capitalismo di Stato di tipo nuovo della Russia sovietica (nuovo e qualitativamente diverso da quello “abituale” in quanto fondato sul potere politico e sui principali mezzi di produzione detenuto dal proletariato e non più dalla borghesia) potesse costituire un elemento essenziale della transizione al socialismo. 



4. Il capitalismo di Stato dopo Lenin 


Il destino del concetto di capitalismo di Stato dopo Lenin ha qualcosa di ironico. Per decenni questo concetto è stato adoperato come un atto d’accusa da svariati critici dell’Unione Sovietica: quest’ultima non sarebbe mai stata altro che un «falso socialismo dietro cui si celava il capitalismo di Stato».(64) In anni recenti si è per contro avanzata l’ipotesi che precisamente nel capitalismo di Stato consista il lascito più durevole di Lenin.

A questo concetto è legata anche la presenza – decisamente inconsueta – di Lenin sulla prima pagina di un numero dell’”Economist” di qualche anno fa. «The Rise of State Capitalism. The Emerging World’s New Model»: questo il titolo di copertina dell’Economist del 21 gennaio 2012, accompagnato dall’immagine di un Lenin con in mano un sigaro inconfondibilmente capitalistico. L’inserto dedicato a questo tema, La mano visibile, era introdotto da un articolo omonimo di Adrian Wooldridge, che metteva in luce come nel Novecento si fossero succeduti grosso modo due grandi cicli: dal 1900 al 1970 un ciclo di crescita dell’importanza dello Stato nell’economia, dal 1970 al 2000 il ritorno dei fautori del libero mercato. Con la crisi che nel 2008 ha trovato il suo simbolo nel fallimento di Lehman Brothers, questo secondo ciclo ha conosciuto una brusca battuta d’arresto. Inoltre «la crisi del capitalismo liberale è stata resa più seria dalla crescita di una potente alternativa: il capitalismo di Stato, che cerca di combinare le capacità dello Stato con le capacità del capitalismo. Scegliere i vincitori e promuovere la crescita economica dipende dal governo. Che però usa strumenti capitalistici quali la quotazione delle imprese possedute dallo Stato sul mercato azionario e l’uso della globalizzazione». L’“Economist”, comprensibilmente critico su ciò che definiva «capitalismo di Stato», lo riteneva comunque «il nemico più formidabile che il capitalismo liberale abbia sinora dovuto affrontare. I capitalisti di Stato sbagliano ad affermare che sono in grado di combinare il meglio dei due mondi, ma hanno imparato come evitare alcune delle trappole in cui è incappata in passato la crescita sostenuta dallo Stato»(65).

Commentatori più recenti preferiscono eludere la realtà di un confronto in atto tra due diversi modelli economici, cavandosela un po’ a buon mercato: spostando il confronto sul piano delle strutture politiche (autocrazie di impronta “leninista” contro democrazie liberali). Così, lo storico Ian Morris vede consistere «l’eredità di Lenin per il XXI secolo» nel fatto di essere stato «il primo a mostrare come un percorso illiberale verso la modernità possa funzionare»(66). E anche un autorevole commentatore del Financial Times quale Martin Wolf appare incline a caratterizzare l’attuale modello cinese quale un «connubio di politica leninista ed economia di mercato»(67); laddove i rimarchevoli trend dello sviluppo cinese degli ultimi decenni, di cui egli stesso dà qualche saggio, meriterebbero di essere interpretati e valutati sotto un diverso profilo: quali risultati di un modello economico peculiare, basato sulla dialettica tra un capitalismo di Stato tuttora dominante e un’economia di mercato in forte sviluppo.

Ma un ragionamento sulla presenza del capitalismo di Stato nel mondo contemporaneo non può tralasciare l’Occidente. Anche qui, nei paesi industrialmente più avanzati, la crisi scoppiata nel 2007/8 non soltanto ha scosso la fiducia nella capacità autocorrettiva delle forze di mercato, ma ha al tempo stesso mostrato l’impossibilità di trovare vie d’uscita con i soli strumenti di mercato. In verità, in nessuna parte del mondo la crisi è stata affrontata con strumenti di mercato tipici di quello che l’“Economist” definisce «capitalismo liberale». Sono state al contrario mobilitate risorse pubbliche senza precedenti per salvare banche, società assicuratrici e interi settori industriali. I benefici di queste gigantesche misure di «socializzazione delle perdite» sono risultati quantomeno dubbi in termini di rilancio dello sviluppo economico, oltreché assai diversamente ripartiti tra le diverse classi sociali. In ogni caso, anche qui si potrebbe scorgere un revival del «capitalismo di Stato». Ma nel significato che Lenin definirebbe “abituale” – quello cioè di «capitalismo di Stato in una società in cui il potere appartiene al capitale» ed è esercitato «a vantaggio della borghesia» 68 . Un capitalismo di Stato che nella sua configurazione attuale, se per un verso pone ingentissime risorse pubbliche al servizio dei grandi monopoli, esclude per contro dal proprio orizzonte ogni finalità di orientamento strategico dello sviluppo economico.

Note  


1 Testo rivisto della relazione al convegno “Rivoluzioni e restaurazioni, guerre e grandi crisi storiche. Cento anni dell’Ottobre russo”, tenutosi all’Università di Urbino il 7-8 novembre 2017.
2 LENIN 1918, p. 494.
3 Cit. in MEDVEDEV 1978, p. 76.
4 LENIN 1917/23, p. 152.
5 Ivi, pp. 153-54. 6 Ivi, p. 163.
7 Ivi, p. 140.
8 Ivi, p. 181.
9 Ivi, p. 176.
10 Ivi, p. 177.
11 LENIN 1917, p. 339.
12 Ivi, p. 340.
13 Ibidem.
14 GOLDSCHEID 1917, p. 342.
15 Ivi, pp. 42, 133, 34 sgg.
16 Ivi, p. 131.
17 Ivi, p. 180; cfr. anche p. 186.
18 In questa stessa direzione si muoveranno nel loro ABC del comunismo anche Nikolaj Bucharin ed Evgenij Preobraženskij, che pure ancora nel 1922 criticheranno l’uso del concetto di “capitalismo di Stato” a proposito della Russia sovietica da parte di Lenin: «È chiaro […] che ammettere il capitalismo di Stato significa, nello stesso tempo, ritenere possibile l’organizzazione socialista della produzione. Infatti la sola differenza è che nel primo caso l’organizzazione e il controllo della produzione appartengono allo Stato borghese, mentre nel secondo allo Stato proletario» (BUCHARIN E PREOBRAŽENSKIJ 1919, p. 146).
19 LENIN 1917/23, p. 188.
20 Ivi, p. 189.
21 Ivi, p. 190.
22 Ivi, p. 194.
23 DOBB 1957, p. 145. «Comunismo di guerra» è la definizione che – in termini autocritici – lo stesso Lenin diede dell’economia di questo periodo, riprendendo un concetto già usato ad altro riguardo da Bogdanov: cfr. CARPI 2015, p. 129.
24 LENIN 1917/23, p. 352.
25 Ivi, pp. 352-53.
26 Ivi, p. 354.
27 Ivi, p. 355.
28 Ivi, p. 356.
29 Ivi, p. 357. È interessante notare che sull’importanza di rifarsi ai suoi scritti del 1918 Lenin non mutò opinione neppure in seguito: ancora nel 1922, all’economista ungherese Eugen Varga che gli chiedeva di scrivere un articolo sulla Nep per lo Jahrbuch für Wirtschaft, Politik und Arbeiterbewegung, Lenin, già malato, rispondeva che a causa delle sue condizioni di salute gli era impossibile provvedere a quanto richiesto, ma indicava in primo luogo, tra gli articoli che potevano essere utilizzati, precisamente L’infantilismo di sinistra; si vedano le lettere a Varga dell’8 marzo e del 10 aprile 1922 in LENIN 1920/23, pp. 516-17 e 538-39. Varga si attenne poi a quanto richiesto da Lenin, ma andò ancora più indietro, riprendendo anche passi dallo scritto del 1917 La catastrofe imminente e come lottare contro di essa; si veda LENIN 1923, pp. 328-44.
30 LENIN 1917/23, p. 357.
31 Ivi, pp. 357-58.
32 Ivi, pp. 359-60.
33 Ivi, pp. 360-62. Come si vede dall’importanza attribuita al piano di elettrificazione, in Lenin il ragionamento sulla transizione dal modo di produzione capitalistico al socialismo non è scindibile dai temi dello sviluppo delle forze produttive e della pianificazione.
34 Ivi, p. 362.
35 Ivi, p. 364.
36 Ivi, p. 388. Sul tema Lenin sarebbe tornato negli stessi termini in uno scritto del febbraio del 1922: «Noi abbiamo portato a termine la rivoluzione democratico-borghese in modo così “pulito” come mai era avvenuto nel mondo. È questa una conquista grandissima, che nessuna forza potrà toglierci»: ivi, p. 446.
37 Ivi, p. 391.
38 Ivi, p. 394.
39 A ragione Włodzimierz Brus e Kazimierz Łaski osservano come l’enfasi sull’importanza degli incentivi materiali per l’organizzazione della produzione e la denuncia dell’errore di fare affidamento soltanto sull’entusiasmo siano tratti di fondo della Nep leniniana; si veda BRUS e ŁASKI 1989, p. 37.
40 LENIN 1917/23, p. 394.
41 Ivi, p. 402.
42 Ivi, p. 403.
43 Ivi, pp. 408-09.
44 Ivi, p. 410; corsivi miei.
45 Ibidem.
46 Ivi, pp. 413-14; corsivi miei
47 Ivi, pp. 415-16. Per misurare la portata dell’evoluzione della posizione di Lenin a questo riguardo sarà sufficiente ricordare quanto egli aveva scritto nell’agosto del 1919: «la libertà di commercio del grano è il ritorno al capitalismo, all’onnipotenza dei grandi proprietari fondiari e dei capitalisti» (LENIN 1919, p. 522).
48 LENIN 1917/23, pp. 457-58.
49 LENIN 1917/23, pp. 458-59.
50 Ivi, p. 466.
51 Ivi, p. 467.
52 BUCHARIN 1920, pp. 40, 71; alcuni corsivi dell’autore sono stati eliminati. Cfr. anche pp. 79-80: «il sistema del capitalismo di Stato si trasforma dialetticamente nel suo proprio contrario, nella forma statuale del socialismo operaio».
53 LENIN 1917/23, p. 469.
54 Ivi, pp. 478-79.
55 LENIN 1920/21, p. 466.
56 Va detto che, nonostante le precisazioni e i distinguo di Lenin, l’uso del concetto di «capitalismo di Stato» rimase controverso nel partito. Lo stesso Trockij, che tenne al IV Congresso una relazione su La Nuova politica economica della Russia e la rivoluzione mondiale che Lenin apprezzò (ne consigliò la pubblicazione, ritenendo le tesi di Trockij «particolarmente adatte per far conoscere al pubblico straniero la nostra Nuova politica economica»), in essa affermò di non gradire l’uso del termine «capitalismo di Stato» nel caso della Russia sovietica: cfr. TROTZKI 1923, p. 13. Si veda inoltre p. 17: «quando definiamo la nostra situazione anche “capitalismo di Stato”, lo facciamo soltanto […] in senso molto convenzionale e io preferisco evitare questa definizione». Il giudizio positivo di Lenin è contenuto in una lettera allo stesso Trockij del 25 novembre 1922: «ho letto le vostre tesi sulla Nep e le trovo in complesso molto buone, e alcune eccezionalmente felici, ma alcuni punti mi sono sembrati discutibili» (LENIN 1920/23, p. 608). È lecito presumere che tra i punti «discutibili» vi fosse proprio il rifiuto di utilizzare la definizione di «capitalismo di Stato» a proposito della Russia sovietica.
57 LENIN 1917/23, p. 481.
58 Ivi, pp. 481-82.
59 Ivi, p. 485; corsivi miei.
60 Ivi, p. 486.
61 Si veda DAY 1979, pp. 122, 124-26, 149.
62 LENIN 1917/23, pp. 487-88.
63 Ivi, p. 492.
64 Così si legge nella Nota dell’editore alla più completa rassegna di queste posizioni critiche disponibile al lettore italiano: PEREGALLI, TACCHINARDI 2011: p. 9. La pura e semplice identificazione dell’Unione Sovietica con una forma di capitalismo, che questo enunciato sottintende, è stata rifiutata da tutti coloro che, pur considerando l’Unione Sovietica una “società di transizione” dal capitalismo al socialismo, ponevano l’accento sulla proprietà prevalentemente non privata dei mezzi di produzione in essa vigente: vedi ad es. MANDEL 1973, p. 30; altri autori, in passato assertori di un “capitalismo di Stato” sovietico, preferiscono oggi parlare di “modo di produzione sovietico”: cfr. AMIN 2017, p. 17.
65 WOOLDRIDGE 2012, pp. 3-4. Sul tema del capitalismo di Stato e della tendenza a un “ritorno dello statalismo” si veda anche KURLANTZICK 2015.
66 MORRIS 2017.
67 WOLF 2017.

Riferimenti bibliografici

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