Leggi
anche: Better
Fewer, But Better*- Vladimir Lenin (1923)
lI concetto di «capitalismo di Stato» in Lenin (1)
Dopo sei mesi di rivoluzione socialista coloro che ragionano solo
sulla base dei libri non capiscono nulla.
LENIN, 5 luglio 1918 (2)
1. 1917-1918. Il capitalismo di Stato come «passo avanti»
Le prime occorrenze significative del concetto di capitalismo di Stato
negli scritti di Lenin del periodo postrivoluzionario risalgono alla
primavera del 1918, e si situano nel contesto della dura
contrapposizione ai «comunisti di sinistra», l’opposizione interna al
Partito comunista allora guidata da Nikolaj Bucharin. Lo scontro,
inizialmente infuriato sulla firma del trattato di pace con la Germania,
non era meno duro sul terreno economico. Esso riguardava ora la
gestione delle imprese e il rafforzamento della disciplina del lavoro al
loro interno: alla necessità di questo rafforzamento, su cui Lenin
insisteva, i «comunisti di sinistra» contrapponevano la gestione
collettiva delle imprese, che finiva in pratica per tradursi nella paralisi e
nell’ingovernabilità delle imprese nazionalizzate. Ma il tema centrale era un altro ancora: il ritmo e la direzione della trasformazione economica.
In quei mesi Oppokov proponeva di «dichiarare la proprietà privata
inammissibile sia nella città che nelle campagne», mentre un altro
«comunista di sinistra», Osinskij, parlava di «liquidazione totale della
proprietà privata» e di «immediata transizione al socialismo»(3).
Per Lenin le priorità sono diverse: «la ricostituzione delle forze
produttive distrutte dalla guerra e dal malgoverno della borghesia; il
risanamento delle ferite inferte dalla guerra, dalla sconfitta, dalla
speculazione e dai tentativi della borghesia di restaurare il potere
abbattuto degli sfruttatori; la ripresa economica del paese; la sicura
tutela dell’ordine più elementare»(4) . Diventano quindi decisive da un
lato «l’organizzazione di un inventario e di un controllo popolare
rigorosissimo sulla produzione e sulla distribuzione dei prodotti»,
dall’altro «l’aumento su scala nazionale della produttività del lavoro». A
questo fine, bisogna arrestare l’offensiva contro il capitale e «spostare il
centro di gravità» della propria iniziativa: «Finora sono stati in primo
piano i provvedimenti di immediata espropriazione degli espropriatori.
Ora passa in primo piano l’organizzazione dell’inventario e del
controllo nelle aziende in cui i capitalisti sono già stati espropriati».
Ancora più chiaramente: «se volessimo ora continuare ad espropriare il
capitale con lo stesso ritmo di prima, certamente subiremmo una
sconfitta»(5) . Il passaggio al socialismo non è un salto ma una transizione.
«Il problema fondamentale di creare un regime sociale superiore al
capitalismo» consiste nell’«aumentare la produttività del lavoro, e in
relazione con questo (e a questo scopo) creare una superiore
organizzazione del lavoro»: e «se ci si può impadronire in pochi giorni
di un potere statale centrale, […] una soluzione durevole del problema
di elevare la produttività del lavoro richiede in ogni caso (e soprattutto
dopo una guerra straordinariamente dolorosa e devastatrice), parecchi
anni»(6).
In questo senso Lenin, al VII Congresso che si era svolto nel mese di
marzo, aveva affermato contro Bucharin che «non sono ancora stati creati i mattoni con cui costruire il socialismo»(7). Torna ad adoperare
una metafora simile alla fine del mese di aprile nel suo rapporto al
Comitato esecutivo centrale di tutta la Russia, ancora in polemica con i
«comunisti di sinistra»: «rovesciando i grandi proprietari fondiari e la
borghesia, noi abbiamo ripulito la strada, ma non abbiamo ancora
costruito l’edificio del socialismo»(8) . Questo rapporto è di notevole
importanza perché in esso Lenin, nel rispondere agli attacchi che gli
venivano mossi da sinistra nel partito, offre un’analisi originale della
realtà socioeconomica russa e su questa base sferra un contrattacco per
certi versi sorprendente. Gli attacchi si condensavano in questa critica:
«si nota una deviazione bolscevica di destra, che minaccia di far
imboccare alla rivoluzione la via del capitalismo di Stato». A questo
Lenin risponde: in realtà, «il capitalismo di Stato costituirebbe per noi
un passo avanti. Se noi riuscissimo in poco tempo a realizzare in Russia
il capitalismo di Stato, sarebbe una vittoria»(9) . E poco oltre: «Che cos’è il
capitalismo di Stato sotto il potere sovietico? In questo momento
attuare il capitalismo di Stato significa applicare quell’inventario e quel
controllo che le classi capitalistiche hanno già applicato. Abbiamo un
esempio di capitalismo di Stato in Germania»; il riferimento è
all’economia di guerra tedesca, in cui lo Stato aveva posto sotto il
proprio controllo interi settori produttivi. Lenin aggiunge: «se lo
avessimo in Russia, il passaggio al pieno socialismo sarebbe facile, […]
perché il capitalismo di Stato è qualcosa di centralizzato, di calcolato, di
controllato e socializzato, ed è proprio questo che a noi manca»(10).
A questo riguardo Lenin rinvia esplicitamente a quanto aveva
sostenuto prima della rivoluzione, e precisamente ne La catastrofe
imminente e come lottare contro di essa, uno straordinario testo
programmatico scritto nel settembre 1917. In questo testo il
«capitalismo monopolistico di Stato» compare in un contesto ben
preciso: allorché Lenin contesta la tesi – caratteristica di socialistirivoluzionari e menscevichi – secondo cui in Russia non si sarebbe
ancora «maturi per il socialismo», sarebbe «ancora troppo presto per “instaurarlo”» (11). In verità – controbatte Lenin – anche in Russia vi è
l’imperialismo, vi sono i monopoli capitalistici, e vi sono cartelli e
sindacati tra imprese (ad es. il sindacato dello zucchero) che
rappresentano «una prova lampante della trasformazione del
capitalismo monopolistico in capitalismo monopolistico di Stato». Ora,
prosegue Lenin, lo Stato è senz’altro
«l’organizzazione della classe dominante; in Germania, per esempio, quella
degli Junker e dei capitalisti. Per questo, ciò che i Plechanov tedeschi
(Scheidemann, Lensch, ecc.) chiamano “socialismo di guerra”, in realtà non è
altro che il capitalismo di guerra, il capitalismo monopolistico di Stato, oppure,
per parlare in modo più semplice e schietto, un ergastolo militare per gli
operai, la protezione militare dei profitti per i capitalisti.
Ma provatevi un po’ a sostituire allo Stato degli Junker e dei capitalisti, allo
stato dei grandi proprietari fondiari e dei capitalisti, uno Stato democratico
rivoluzionario, uno Stato, cioè, che distrugga in modo rivoluzionario tutti i
privilegi e non tema di attuare in modo rivoluzionario la democrazia più
completa! Vedrete che il capitalismo monopolistico di Stato, in uno Stato
veramente democratico rivoluzionario, significa inevitabilmente e
immancabilmente un passo, e anche più d’un passo, verso il socialismo!»(12).
Se un monopolio diviene un monopolio di Stato, lo Stato dirige
quella impresa. Ma nell’interesse di chi? Lenin risponde:
«O nell’interesse dei grandi proprietari fondiari e dei capitalisti, e allora
non avremo uno Stato democratico rivoluzionario, ma burocratico reazionario,
una repubblica imperialistica;
o nell’interesse della democrazia rivoluzionaria, e questo sarà allora un
passo verso il socialismo.
Perché il socialismo non è altro che il passo avanti che segue
immediatamente il capitalismo monopolistico di Stato. O, in altre parole: il
socialismo non è altro che il monopolio capitalistico di Stato messo al servizio
di tutto il popolo e che, in quanto tale, ha cessato di essere monopolio
capitalistico» (13).
È interessante osservare che in quello stesso 1917 l’idea di un
superamento del capitalismo attraverso il capitalismo di Stato fu
formulata anche da intellettuali vicini alla socialdemocrazia. Ne è prova
il testo dell’austriaco Rudolf Goldscheid Staatssozialismus oder
Staatskapitalismus, che quell’anno vide diverse edizioni. Secondo
Goldscheid la socialdemocrazia avrebbe avuto tutto l’interesse a far sì
quella «socializzazione dell’economia, che durante la guerra era emersa
quale mero prodotto della necessità» (e che pertanto non poteva avere
«carattere esemplare»), «a guerra finita venisse condotta al suo pieno
dispiegamento in base alle necessità stesse dello Stato» (14) . Queste
necessità consistevano nell’enorme debito pubblico accumulato in
guerra, che avrebbe reso lo Stato soggetto alla «schiavitù del capitale
finanziario internazionale», a meno che lo Stato stesso non avesse
proceduto alla «statalizzazione dei mezzi di produzione» (Goldscheid
proponeva in concreto la statalizzazione di un terzo dei mezzi di
produzione privati – patrimonio che egli stimava corrispondere
all’incirca all’entità del debito statale dell’epoca)(15) . In questo modo,
possedendo una parte significativa della ricchezza produttiva del paese,
lo Stato non soltanto avrebbe risolto il problema del debito pubblico in
modo ben più radicale di quanto avrebbe potuto fare limitandosi
all’imposizione di maggiori tasse (sarebbe infatti diventato esso stesso
produttore di ricchezza), ma avrebbe iniziato a realizzare la
«socializzazione dei mezzi di produzione» e reso concretamente
possibile, attraverso un adeguato «periodo di transizione», l’avvento del
socialismo(16) .
Goldscheid nelle ultime pagine del suo libro espresse tutto questo
nel motto: «dal capitalismo privato, attraverso il capitalismo di Stato,
all’economia e alla società socializzate!»(17) . Sarebbe fin troppo facile
osservare l’assenza in Goldscheid del concetto leniniano della «dittatura
del proletariato», e per contro ben presente la convinzione che la
transizione proposta potesse avvenire in modo pacifico e (cosa
abbastanza singolare) senza un’accanita resistenza da parte dei
proprietari dei mezzi di produzione. È però significativo che queste teorizzazioni sul «capitalismo di Stato» quale status di transizione si
facessero strada anche in un ambiente ben diverso da quello dei
bolscevichi. Il minimo comun denominatore è rappresentato dal
controllo e coordinamento non più privato dell’attività economica, la
cui concreta realizzabilità era stata per l’appunto dimostrata dal
«capitalismo di Stato» realizzato in tempo di guerra(18) .
Ma torniamo a Lenin. Egli ripropone l’impostazione che aveva dato
alla questione del capitalismo di Stato nel settembre 1917 e nell’aprile
1918 in un altro importante scritto della primavera del 1918,
Sull’infantilismo «di sinistra» e sullo spirito piccolo-borghese, ove
ribadisce provocatoriamente il concetto secondo cui «il capitalismo di
Stato rappresenterebbe un passo avanti rispetto allo stato attuale delle
cose nella nostra Repubblica sovietica». Anzi, lo rafforza: «Se, per
esempio, fra sei mesi si instaurasse da noi il capitalismo di Stato, ciò
sarebbe un enorme successo e rappresenterebbe la più sicura garanzia
che tra un anno il socialismo sarebbe da noi definitivamente consolidato
e reso invincibile» (19) . La contraddizione tra passare al capitalismo di
Stato e fare un passo avanti verso il socialismo è secondo Lenin solo
apparente: infatti, puntualizza, la stessa definizione di Repubblica
Socialista Sovietica «significa che il potere dei soviet è deciso a
realizzare il passaggio al socialismo, ma non significa affatto che
riconosca come socialisti i nuovi ordinamenti economici». L’economia
russa postrivoluzionaria, argomenta Lenin, è in realtà un’economia di
«transizione», in cui sono compresenti «diversi tipi economico-sociali».
Addirittura cinque:
1) l’economia «patriarcale, cioè in larga misura
naturale, contadina»;
2) la piccola produzione mercantile (che comprende la maggioranza dei contadini che vendono il grano);
3) il
capitalismo privato;
4) il capitalismo di Stato;
5) il socialismo(20) .
Il punto essenziale del ragionamento di Lenin è questo: in un paese
di piccoli contadini come la Russia predomina l’elemento piccoloborghese. La piccola borghesia, assieme al capitalismo privato, lotta
contro ogni intervento statale: il principale nemico del potere sovietico
oggi è lo speculatore, il trafficante che sabota e spezza il monopolio
statale del grano, non il capitalismo di Stato. Questo è il punto
fondamentale, che i «comunisti di sinistra» non intendono(21). Ancora: il
socialismo per Lenin è «inconcepibile» da un lato «senza la tecnica del
grande capitalismo, costruita secondo l’ultima parola della scienza
moderna, senza una organizzazione statale pianificata, che subordina
decine di milioni di persone all’osservanza più rigorosa di un’unica
norma nella produzione e nella distribuzione dei prodotti»; dall’altro «il
socialismo è egualmente inconcepibile senza il dominio del proletariato
nello Stato». Curiosamente, la storia ha generato «le due metà separate
del socialismo» in due paesi diversi: la Germania rappresenta infatti la
realizzazione materiale delle «condizioni economiche, produttive e
sociali», la Russia di quelle politiche. Finché queste due parti non si
riuniranno idealmente attraverso la rivoluzione in Germania, «il nostro
compito è di metterci alla scuola del capitalismo di Stato tedesco, di
cercare di assimilarlo con tutte le forze», senza rinunciare ai metodi
dittatoriali per affrettare tale assimilazione. Questo perché «in senso
materiale, economico, produttivo noi siamo ancora nella “anticamera”
del socialismo, anzi ancora non vi siamo».(22)
2. 1921. Dopo la guerra civile e il «comunismo di guerra»: il capitalismo
di Stato nella Nep
Le considerazioni svolte ne L’infantilismo «di sinistra» e sullo spirito
piccolo borghese furono riprese da Lenin tre anni dopo, allorché si
impose un radicale mutamento di corso rispetto al “comunismo di
guerra” praticato negli anni della guerra civile, caratterizzato dalla «politica delle requisizioni nei confronti dell’agricoltura e dalla
distribuzione centralizzata per l’industria, il consumo ordinario e
l’esercito»(23) .
L’opuscolo Sull’imposta in natura, pubblicato nel maggio del 1921,
fornì a Lenin l’occasione per un’esposizione d’insieme della Nuova
politica economica e dei suoi presupposti. In esso Lenin dichiara di
voler «affrontare il problema non dal punto di vista della sua
“attualità”, ma come una questione generale di principio»(24) . E a questo
fine cita lunghi brani proprio dello scritto Sull’infantilismo «di sinistra»,
e in particolare le riflessioni sulla compresenza in Russia di «diversi tipi
economico-sociali», e sulla superiorità del capitalismo di Stato rispetto
all’economia attuale della Russia, in cui predomina il «capitalismo
piccolo-borghese», rappresentato essenzialmente dalla piccola
produzione mercantile contadina.
Ora, si domanda Lenin, che cosa è cambiato dal maggio 1918 a
questo riguardo? Nulla di decisivo: «gli elementi fondamentali della
nostra economia sono rimasti gli stessi». Semmai, «i contadini poveri
(proletari e semiproletari) si sono trasformati, in moltissimi casi, in
contadini medi. L’“elemento” piccolo-proprietario, piccolo-borghese si
è quindi rafforzato». Questa situazione sociale, insieme alla guerra civile
(che ha «estremamente aggravato la rovina del paese») e al cattivo
raccolto del 1920, determinano la necessità di prendere provvedimenti
immediati «per migliorare le condizioni dei contadini e suscitare una
ripresa delle loro forze produttive». Solo questo, infatti, può migliorare
le condizioni anche degli operai (che hanno bisogno di pane per vivere
e di combustibile per lavorare) e «rafforzare» – in realtà ristabilire –
«l’alleanza degli operai coi contadini»(25) .
A questo fine, prosegue Lenin, occorrono «cambiamenti profondi
nella politica degli approvvigionamenti». Uno di questi è la sostituzione
dei prelevamenti con l’imposta in natura (per di più di ammontare
inferiore a quanto in precedenza veniva prelevato forzosamente) e la libertà dei contadini di vendere («almeno su scala locale») il resto della
produzione una volta pagata l’imposta. Soprattutto sul secondo aspetto
si erano registrate forti critiche da parte della sinistra del partito (tra gli
altri, da parte di Bucharin) già nella riunione dell’ufficio politico del
Comitato centrale al quale a febbraio Lenin aveva portato la sua
proposta. Nel suo opuscolo Lenin menziona in termini generali queste
obiezioni, e in particolare l’idea che con l’imposta in natura e la libertà
di commercio «dal comunismo in generale si al
sistema borghese in generale». L’imposta in natura, controbatte Lenin,
è invece «una delle forme transitorie da un particolare “comunismo di
guerra”, che era necessario a causa dell’estremo bisogno, della rovina e
della guerra, al giusto scambio socialista dei prodotti». Il “comunismo
di guerra” – Lenin pone il concetto tra virgolette – «consisteva di fatto
nel togliere ai contadini tutte le derrate eccedenti, e talvolta addirittura
non soltanto quelle eccedenti ma anche quelle necessarie, per coprire le
spese dell’esercito e per nutrire gli operai. Per lo più prendevamo il
grano a credito, pagando con carta moneta»(26) . Nonostante fosse
necessario per vincere la guerra civile, «il “comunismo di guerra” […]
non era e non poteva essere una politica rispondente ai compiti
economici del proletariato». La politica giusta è lo scambio del grano
con i prodotti dell’industria. L’imposta in natura è un passaggio verso
questa politica. Non la attua ancora, perché le condizioni dell’industria
non consentono di «dare al contadino prodotti industriali in cambio di
tutto il grano di cui abbiamo bisogno».
Lenin non si nasconde che «sulla base di una certa libertà di
commercio (sia pure soltanto locale) risorgeranno la piccola borghesia e
il capitalismo»(27). Qui però, aggiunge, i casi sono due: o si tenta di
impedire lo scambio privato, o si tenta di incanalare il capitalismo
«nell’alveo del capitalismo di Stato». La prima strada (quella che si era
tentato di percorrere durante il “comunismo di guerra”) «sarebbe una
politica sciocca e costituirebbe un suicidio per il partito che la
tentasse»28
. Resta la seconda. Il richiamo al testo del 1918 è importante
– ribadisce qui Lenin – precisamente perché già allora ciò che egli si proponeva di dimostrare era la possibilità della «coesistenza dello Stato
sovietico, della dittatura del proletariato, col capitalismo di Stato»(29).
La prima è quella delle concessioni, che Lenin definisce così:
«si tratta di un contratto, di un blocco, di un’alleanza del potere statale
sovietico, cioè proletario, col capitalismo di Stato, contro l’elemento piccoloproprietario (patriarcale e piccolo-borghese). Il concessionario è un capitalista.
Egli fa gli affari da capitalista, per avere dei profitti: egli accetta di concludere
un contratto col potere sovietico per ottenere un profitto eccezionale, maggiore
del consueto, o per avere delle materie prime che non può procurarsi o gli è
estremamente difficile procurarsi in altri modi. Il potere sovietico ne trae
vantaggio: le forze produttive si sviluppano, la quantità di prodotti aumenta
immediatamente o nel termine più breve».
In termini strategici, «“impiantando” il capitalismo di Stato sotto
forma di concessioni, il potere sovietico rafforza la grande produzione contro la piccola, la progredita contro l’arretrata, la produzione a
macchina contro quella a mano, aumenta la quantità dei prodotti della
grande industria (la sua quota parte), rafforza i rapporti economici
regolati dallo Stato contro quelli anarchici piccolo-borghesi»(31).
Una seconda forma è quella delle cooperative. «Il capitalismo
“cooperativistico”, a differenza del capitalismo privato, in regime
sovietico è una varietà del capitalismo di Stato […]. Dato che l’imposta
in natura significa libertà di vendita delle derrate eccedenti (non
prelevate sotto forma d’imposta), è necessario fare di tutto affinché
questo sviluppo del capitalismo – poiché libertà di vendita e libertà di
commercio sono sviluppo del capitalismo – venga incanalato nell’alveo
del capitalismo cooperativistico». Perché? Per due motivi. Da una parte
in quanto, a somiglianza del capitalismo di Stato, «il capitalismo
cooperativistico […] facilita l’inventario, il controllo, la sorveglianza, i
rapporti contrattuali fra lo Stato (sovietico nel caso nostro) e il
capitalista». Dall’altra perché le cooperative «facilitano l’unione,
l’organizzazione di milioni di abitanti, e poi di tutti gli abitanti senza
eccezione, e questa circostanza, a sua volta, offre un immenso vantaggio
dal punto di vista dell’ulteriore passaggio dal capitalismo di Stato al
socialismo»(32). Come vedremo più oltre, le riflessioni di Lenin sulle
cooperative conosceranno ulteriori sviluppi.
Dopo queste prime due forme, esposte più in dettaglio, Lenin
accenna anche ad altre due forme di capitalismo di Stato.
La terza è
quella dell’intermediazione commerciale: «lo Stato assume il capitalista
in qualità di commerciante, pagandogli una determinata percentuale di
commissione per la vendita dei prodotti dello Stato e la compera dei
prodotti del piccolo produttore».
La quarta forma è quella – prossima
al contratto di concessione – per cui «lo Stato dà in appalto
all’imprenditore capitalista uno stabilimento, un’industria, o un bosco,
un appezzamento di terra ecc. appartenente allo Stato». Qui però, a
differenza di quanto accade con le concessioni, l’interlocutore del
potere sovietico non è una grande impresa o un conglomerato straniero,
ma un capitalista russo.
Ora, queste forme del capitalismo di Stato appaiono a Lenin
progressive rispetto ai «rapporti precapitalistici» che ancora imperano
in Russia in immensi territori, in cui «regnano il sistema patriarcale, la
semibarbarie e la barbarie vera e propria». Il «passaggio immediato da
queste condizioni predominanti in Russia al socialismo» è, dice Lenin,
possibile «fino a un certo punto», a condizione che sia realizzato il
piano di elettrificazione del paese: in tal caso – afferma Lenin – «non vi
sarà bisogno, o quasi non vi sarà bisogno di fasi intermedie, di anelli
transitori fra il sistema patriarcale e il socialismo». Ma nella migliore
delle ipotesi «noi impiegheremo per lo meno dieci anni soltanto per i
lavori più urgenti» previsti dal piano («si può pensare di impiegarne di
meno soltanto nel caso in cui la rivoluzione proletaria riporti la vittoria
in paesi come l’Inghilterra, la Germania, l’America»). Ne consegue una
necessità per l’immediato futuro: «dobbiamo imparare a pensare agli
anelli intermedi che possono facilitare il passaggio dal sistema
patriarcale, dalla piccola produzione, al socialismo»(33).
Si tratta quindi di uscire dalla logica binaria che si limita
all’opposizione capitalismo-socialismo. «Noi» prosegue infatti Lenin
«spesso facciamo oggi ancora il seguente ragionamento: “Il capitalismo
è un male, il socialismo è un bene”. Ma questo ragionamento è
sbagliato, poiché non tiene conto della somma di tutte le forme
economiche e sociali esistenti, e ne considera soltanto due. Il
capitalismo è un male in confronto al socialismo. Il capitalismo è un
bene in confronto al periodo medioevale, in confronto alla piccola
produzione, in confronto al burocratismo che è connesso alla
dispersione dei piccoli produttori». Ed ecco una delle affermazioni
chiave dell’intero saggio di Lenin: «Poiché non abbiamo ancora la forza
di passare immediatamente dalla piccola produzione al socialismo, il
capitalismo è, in una certa misura, inevitabile, come prodotto spontaneo
della piccola produzione e dello scambio; e noi dobbiamo quindi
utilizzare il capitalismo (soprattutto incanalandolo nell’alveo del
capitalismo di Stato) come anello intermedio tra la piccola produzione e il socialismo, come un mezzo, una via, un modo, un metodo per
aumentare le forze produttive»(34).
Si tratta insomma di «sviluppare lo scambio», e si può farlo «senza
aver paura del capitalismo, perché i limiti che gli abbiamo posto
(espropriazione dei grandi proprietari fondiari e della borghesia in
economia, potere operaio e contadino in politica) sono abbastanza
angusti, abbastanza “moderati”. Questa è l’idea fondamentale
dell’imposta in natura, questo è il suo significato economico»(35).
Sul significato del capitalismo di Stato nella Russia sovietica Lenin
tornò nell’ottobre del 1921, in un denso articolo scritto Per il quarto
anniversario della Rivoluzione d’ottobre. Nel suo articolo Lenin insiste
anzitutto sul «contenuto democratico-borghese» della Rivoluzione
russa, precisando così il significato di questa espressione:
«Dire che la rivoluzione ha un contenuto democratico-borghese significa
che i rapporti sociali (il regime, le istituzioni) del paese si sono epurati da tutto
ciò che è medioevale, dalla servitù della gleba, dal feudalesimo. Quali erano nel
1917, in Russia, le principali manifestazioni, le principali sopravvivenze, i
principali residui della servitù della gleba? La monarchia, la divisione in caste,
la proprietà fondiaria, il godimento della terra, la condizione della donna, la
religione, l’oppressione nazionale. Prendete una qualunque di queste “stalle di
Augia” […] e vedrete che noi le abbiamo ripulite completamente»(36).
Anche dal punto di vista della politica internazionale, prosegue
Lenin, «la nostra Rivoluzione d’ottobre ha iniziato una nuova epoca
della storia mondiale», rompendo con le guerre imperialiste(37).
Il fronte su cui il bilancio di Lenin è più cauto è proprio quello
economico: «l’ultima nostra opera – la più importante, la più difficile, la
più incompiuta – è l’organizzazione economica, la costruzione di una
base economica per il nuovo edificio socialista che sostituisce quello vecchio e feudale distrutto, e quello capitalista semidistrutto. In questa
opera, che è la più difficile e la più importante, abbiamo, più che in ogni
altra, subìto insuccessi e commesso errori». Quali? Uno su tutti, quello
compiuto nel periodo del “comunismo di guerra”: la presunzione di
«organizzare, con ordini diretti dello Stato proletario, la produzione
statale e la ripartizione statale dei prodotti su base comunista in un
paese di piccoli contadini. La vita ci ha rivelato il nostro errore.
Occorreva una serie di fasi transitorie: il capitalismo di Stato e il
socialismo, per preparare – con un lavoro di una lunga serie d’anni – il
passaggio al comunismo». Segue un’esortazione molto significativa:
«Non direttamente sull’entusiasmo, ma con l’aiuto dell’entusiasmo nato
dalla grande rivoluzione, basandovi sullo stimolo personale,
sull’interesse personale, sul calcolo economico, prendetevi la pena di
costruire dapprima un solido ponte che, in un paese di piccoli
contadini, attraverso il capitalismo di Stato, conduca verso il socialismo,
altrimenti voi non arriverete al comunismo, altrimenti voi non
condurrete decine e decine di milioni di uomini al comunismo»(38). Il
solo entusiasmo rivoluzionario, insomma, non basta: occorre fondarsi
sulla più sicura base dell’interesse personale(39).
A questo Lenin fa seguire una metafora spiazzante, ma in fondo
conseguente al ragionamento appena svolto, circa i compiti dello Stato:
«Lo Stato proletario deve diventare un “padrone” cauto, scrupoloso,
esperto, un commerciante all’ingrosso puntuale, perché altrimenti non potrà
mettere economicamente sulla buona via un paese di piccoli contadini. […] Un
commerciante all’ingrosso sembrerebbe un tipo economico lontano dal
comunismo come il cielo dalla terra. Ma questa è appunto una delle
contraddizioni che, nella vita reale, attraverso il capitalismo di Stato,
conducono dalla piccola azienda contadina al socialismo. L’interesse personale
eleva la produzione, e noi abbiamo bisogno dell’aumento della produzione,
innanzi tutto e a qualunque costo. Il commercio all’ingrosso unisce
economicamente milioni di piccoli contadini, in quanto li interessa, li spinge a gradini economici superiori, a diverse forme di collegamento e di associazione
nella produzione stessa»(40).
In quegli stessi giorni di ottobre del 1921, in un discorso intitolato
La Nuova politica economica e i compiti dei Centri di educazione
politica, Lenin torna sul significato della Nep in questi termini: «Nuova
politica economica significa sostituire ai prelevamenti una imposta,
significa passare in misura notevole alla restaurazione del capitalismo.
In quale misura ancora non sappiamo» (41). Non lo sappiamo, dice Lenin,
perché non sappiamo chi avrà il sopravvento: potranno essere i
capitalisti, che «in questo caso cacceranno i comunisti, e allora sarà la
fine di tutto»; oppure potrà essere «il potere statale proletario», se
riuscirà a «guidare il capitalismo lungo la via tracciata dallo Stato e
creare un capitalismo subordinato allo Stato e posto al suo servizio»(42).
Si tratta insomma di una partita aperta, di una sfida da vincere.
Sempre nell’ottobre del 1921 Lenin propone la più severa analisi
autocritica sulle politiche del periodo 1918-1920. La sede è la VII
Conferenza del Partito della provincia di Mosca, ove Lenin presenta un
rapporto su La Nuova politica economica. Qui egli Lenin ricorda che il
presupposto condiviso dal Partito già a inizio 1918 – «non sempre
apertamente espresso, ma sempre tacitamente sottinteso» – era che «si
sarebbe passati direttamente all’edificazione del socialismo». In altre
parole, «allora si riteneva di poter passare direttamente al socialismo
senza un periodo preliminare in cui si dovesse adattare la vecchia
economia all’economia socialista. Ritenevamo che, avendo creato la
produzione e la distribuzione di Stato, questo ci avrebbe permesso di
compiere immediatamente il passaggio a un sistema economico di
produzione e distribuzione diverso dal precedente»(43).
Ma non è questo il solo accento nuovo. Lenin rivede ora i suoi
giudizi precedenti anche su un altro aspetto, ridimensionando la portata
delle sue stesse riflessioni del 1918 sulla progressività del capitalismo di
Stato: «Quando, in polemica con una parte dei compagni che non
approvavano la Pace di Brest, noi sollevammo, ad esempio nella primavera del 1918, la questione del capitalismo di Stato, tale questione
non venne posta nel senso che noi dovessimo andare indietro verso il
capitalismo di Stato, ma nel senso che la nostra situazione sarebbe stata
più facile e la soluzione dei nostri problemi socialisti sarebbe stata più
vicina se, da noi, in Russia, il sistema economico dominante fosse stato
un capitalismo di Stato»(44). E, cosa più importante, Lenin aggiunge
subito che bisogna fare attenzione a questo aspetto «per comprendere
in che cosa è consistito il cambiamento della nostra politica economica e
come si dovrebbe giudicare questo cambiamento»(45). Che è così
caratterizzabile: «Verso la primavera del 1921 apparve chiaro che era
stato frustrato il nostro tentativo di passare ai princìpi socialisti di
produzione e distribuzione con il sistema “dell’assalto”, cioè con il
mezzo più breve, rapido e diretto. La situazione politica della primavera
del 1921 ci rivelò che per una serie di questioni economiche non
potevamo non ripiegare sulla posizione del capitalismo di Stato, non
passare dall’“assalto” all’“assedio”»(46).
A questo punto Lenin si chiede se la ritirata effettuata col passaggio
alla Nuova politica economica, il «nostro ripiegamento su procedimenti,
mezzi e metodi di attività che sono propri del capitalismo di Stato», sia
stata sufficiente per riprendere l’offensiva. La risposta è negativa. Ma
seguiamo la ricostruzione di Lenin: «In primavera abbiamo detto che
non avremmo temuto di ritornare al capitalismo di Stato e che i nostri
compiti si riducevano ad organizzare lo scambio delle merci». Questo
presupponeva «lo scambio in modo più o meno socialista» – ossia in
natura e non tramite il commercio e pagamenti in moneta – «in tutto lo
Stato, dei prodotti dell’industria con i prodotti dell’agricoltura e, grazie
a questo scambio, la ricostruzione della grande industria, unica base
dell’organizzazione socialista». Invece, ammette Lenin, «dallo scambio
di merci non è uscito nulla, il mercato privato si è dimostrato più forte
di noi, al posto dello scambio delle merci si è avuta la compravendita
usuale, il commercio». E quindi, conclude Lenin, «ora ci troviamo nella
situazione di dover tornare un po’ indietro, non solo verso il capitalismo di Stato, ma anche verso il disciplinamento del commercio e della
circolazione del denaro da parte dello Stato»(47).
3. 1922/3. Gli ultimi scritti di Lenin: un capitalismo di Stato «del tutto
insolito»
Il capitalismo di Stato riceve una trattazione in parte nuova
nell’ultimo anno di attività di Lenin, a partire dal rapporto politico a
nome del Comitato centrale pronunciato il 27 marzo 1922 davanti all’XI
Congresso del Partito comunista russo. Il punto da cui Lenin muove, in
polemica con Bucharin, è che quanto si trova nei libri si riferisce al
capitalismo di Stato «che esiste nel regime capitalistico», mentre
ovviamente «non c’è nemmeno un libro che parli del capitalismo di
Stato che esiste nel regime comunista». Nemmeno a Marx, prosegue
Lenin, «è venuto in mente di scrivere una sola parola a questo
proposito, ed è morto senza lasciare nessuna citazione precisa o
indicazione irrefutabile. Perciò dobbiamo cavarcela da soli».
Il fatto è, osserva Lenin, che «il capitalismo di Stato, secondo tutta la
letteratura economica, è quel capitalismo che esiste in regime
capitalistico, quando il potere statale controlla direttamente certe
aziende capitalistiche. Ma il nostro è uno Stato proletario, che poggia
sul proletariato, che al proletariato dà tutti i vantaggi politici e che
attraverso il proletariato attira a sé dal basso le masse contadine». In
altri termini, «la nostra è una società che è uscita dai binari capitalistici
e che ancora non si è messa su nuovi binari; e alla direzione di questo
Stato non si trova la borghesia, bensì il proletariato. Noi non vogliamo
comprendere che quando diciamo “lo Stato”, questo Stato siamo noi, è
il proletariato, è l’avanguardia della classe operaia. [...] Il capitalismo di
Stato è quel capitalismo che dobbiamo circoscrivere entro i limiti
determinati, cosa che finora non siamo riusciti a fare. Ecco il punto. E
sta a noi decidere che cosa deve essere questo capitalismo di Stato».
Dice ancora Lenin: «Di potere politico ne abbiamo a sufficienza, del
tutto a sufficienza, i mezzi economici a nostra disposizione sono pure
sufficienti, ma l’avanguardia della classe operaia, che è stata portata in
primo piano per dirigere, per stabilire i limiti, per distinguersi, per
sottomettere e non essere sottomessa, non ha sufficiente abilità per
farlo. Qui occorre soltanto dell’abilità, ed è quello che ci manca»(48).
Quello che qui Lenin ha in mente è una sorta di diarchia tra il
capitalismo privato (che deve essere permesso: «è necessario fare in
modo che sia possibile il decorso abituale dell’economia capitalistica e
della circolazione capitalistica, perché ciò è indispensabile al popolo, e
senza di ciò è impossibile vivere») e potere dello Stato (che però per
l’incapacità di chi è alla guida sfugge di mano)(49). Questo potere, giova
precisarlo, è per Lenin anche potere economico. E precisamente sul
terreno economico deve avere la meglio sul capitale privato. Non per
decreto, ma per la capacità (ancora da dimostrare) di organizzare
l’economia meglio del capitale privato. Per questo compito, conclude
Lenin, sarà decisiva «la scelta degli uomini e il controllo
dell’esecuzione»(50).
Sul tema del capitalismo di Stato durante l’XI Congresso Lenin
tornerà ancora, questa volta nelle Conclusioni sul rapporto politico del
Cc del Pcr(b), in polemica con Preobraženskij. «Il capitalismo di Stato è
capitalismo» aveva detto Preobraženskij «ed è soltanto così che lo si
può e lo si deve intendere». Lenin ribatte: dire questo significa essere
scolastici. Gli sviluppi della Russia postrivoluzionaria presentano un tale
carattere di novità che «nessun Marx e nessun marxista potevano
prevederlo». Infatti il capitalismo di Stato nella Russia sovietica «è un
capitalismo a tal punto inatteso, un capitalismo che nessuno
assolutamente aveva previsto, poiché nessuno poteva prevedere che il
proletariato avrebbe conseguito il potere in un paese tra i meno
sviluppati e avrebbe cercato dapprima di organizzare una grande
produzione e la distribuzione per i contadini, per poi, non essendo
venuto a capo di questo compito a causa delle condizioni culturali, far
partecipare il capitalismo alla sua opera»(51).
A ben vedere, quello che distingue l’impostazione di Lenin da quella
di Bucharin e di Preobraženskij è l’approccio: attento alla complessa
dinamica dei processi storici (e alla compresenza di diversi modi di
produzione nella struttura economica russa) quello del primo,
teleologico e tipico delle filosofie della storia stadiali quello dei secondi.
Così, per il Bucharin dell’Economia del periodo di trasformazione, «la
riorganizzazione dei rapporti di produzione del capitale finanziario
procede nella direzione della organizzazione universale del capitalismo
di Stato»; quest’ultimo, «con l’eliminazione del mercato, con la
trasformazione del denaro in un’unità di calcolo, con la produzione
organizzata su scala statale, con la subordinazione dell’intero
meccanismo “economico-nazionale” agli scopi della concorrenza
mondiale, cioè prima di tutto a quelli della guerra», è una sorta di
preparazione del comunismo. In tal modo, può affermare Bucharin,
«l’epoca prossima», che dovrà essere «l’epoca della dittatura del
proletariato, […] avrà una rassomiglianza formale con l’epoca della
dittatura della borghesia, sarà cioè il capitalismo di Stato rovesciato, il
suo rovesciamento dialettico nel proprio diretto opposto» (52).
Lenin è meno funambolico, non pensa a rovesciamenti dialettici. Si
limita a osservare che nella Russia sovietica il controllo dello Stato non è
più nella mani della borghesia e che quindi «il capitalismo di Stato da
noi non è più quello a proposito del quale hanno scritto i tedeschi. È un
capitalismo ammesso da noi». E quindi «bisogna fare in modo che nello
Stato proletario il capitalismo di Stato non possa e non osi uscire dai
limiti e dalle condizioni fissate dal proletariato, dalle condizioni che
sono convenienti per il proletariato»(53).
Secondo Lenin c’è un motivo di fondo per cui questa sfida può
essere vinta dallo Stato sovietico: perché quest’ultimo possiede la
proprietà della terra e dei settori strategici dell’industria. È quanto dirà
nella sua relazione al IV Congresso dell’Internazionale Comunista, il 13
novembre 1922: «Il capitalismo di Stato, come l’abbiamo instaurato da
noi, è un capitalismo di Stato particolare. Esso non corrisponde al concetto ordinario di capitalismo di Stato. Noi abbiamo nelle nostre
mani tutte le leve di comando […]. Il nostro capitalismo di Stato
differisce dal capitalismo di Stato nel senso letterale dell’espressione, in
quanto abbiamo nelle mani dello Stato proletario non soltanto la terra,
ma anche i settori più importanti dell’industria»(54). Potrebbe sembrare
una mera esplicitazione di quanto Lenin aveva già detto parlando
davanti al precedente Congresso dell’Internazionale Comunista:
«capitalismo di Stato in una società in cui il potere appartiene al
capitale, e capitalismo di Stato in uno Stato proletario sono due concetti
diversi. In uno Stato capitalistico, capitalismo di Stato significa
capitalismo riconosciuto e controllato dallo Stato a vantaggio della
borghesia contro il proletariato. Nello Stato proletario, vien fatta la
stessa cosa a vantaggio della classe operaia allo scopo di resistere alla
borghesia ancora forte e di lottare contro di essa»(55). Ma nel discorso al
IV Congresso dell’Internazionale Comunista c’è qualcosa di più: c’è la
precisazione che nello Stato proletario i principali mezzi di produzione
appartengono allo Stato. È questo, dice ora Lenin, il concreto tratto
distintivo dello Stato proletario, che determina quindi anche la
particolare configurazione che in tale contesto assume il capitalismo di
Stato(56).
Il Lenin che pronuncia in tedesco la sua relazione al Congresso
dell’Internazionale Comunista è un Lenin malato da tempo. Da metà
dicembre le sue condizioni si aggraveranno e da allora in poi potrà
lavorare solo per poche ore al giorno, dettando i propri testi. Tra i testi
scritti sotto dettatura dalle sue segretarie negli ultimi mesi di attività di
Lenin, particolare rilievo ha l’articolo Sulla cooperazione, del gennaio
1923. Il punto di partenza di Lenin è questo: i sogni degli antichi teorici
delle cooperative erano fantasticherie giustamente criticate dai socialisti.
Ma perché quelle fantasticherie erano fuori dalla realtà? Per il fatto di
«non comprendere l’importanza principale, radicale della lotta politica
della classe operaia per l’abbattimento del dominio degli sfruttatori».(57) L’utopismo dei cooperatori, insomma, consisteva nel pensare di poter
conseguire il socialismo esclusivamente attraverso lo sviluppo del
sistema cooperativo.
Le cose però cambiano «una volta che il potere dello Stato è nelle
mani della classe operaia, una volta che a questo potere dello Stato
appartengono tutti i mezzi di produzione». Con la Nep si è fatto un
ulteriore passo avanti: concedendo al contadino il commercio privato,
«ora abbiamo trovato quel grado di coordinazione dell’interesse
privato, dell’interesse commerciale privato, con la verifica e con il
controllo da parte dello Stato, quel grado di subordinazione
dell’interesse privato all’interesse generale, che prima rappresentava un
ostacolo insormontabile per molti, moltissimi socialisti». In questo
nuovo contesto la cooperazione («che noi una volta consideravamo
dall’alto in basso come un affare da bottegai») diviene l’ulteriore
elemento necessario «per condurre a termine la costruzione di una
società socialista integrale. Questo non è ancora la costruzione della
società socialista, ma è tutto ciò che è necessario e sufficiente per tale
costruzione»58
. Per tornare alla metafora adoperata contro Bucharin nel
1918, la situazione da allora è cambiata: i mattoni per costruire la
società socialista adesso ci sono.
Il tema della cooperazione offre a Lenin anche l’occasione per
tornare sulla questione del capitalismo di Stato, che egli qui riformula
ancora una volta, da un lato distinguendo tra il «capitalismo di Stato abituale» e il «capitalismo di Stato insolito, addirittura del tutto
insolito», della realtà economica sovietica, dall’altro dichiarando che tra
questi due tipi di capitalismo di Stato vi è un «legame, senza soluzione
di continuità»(59). La cooperazione assume un significato e un ruolo
differenti in tre diverse configurazioni sociali:
1) «In regime di
capitalismo privato le aziende cooperative differiscono dalle aziende
capitalistiche, come le aziende collettive dalle aziende private»;
2) «In
regime di capitalismo di Stato le aziende cooperative si distinguono
dalle aziende capitaliste di Stato, in primo luogo come aziende private,
in secondo luogo come aziende collettive»;
3) «Nel nostro regime
attuale» – che quindi non è identificabile con il capitalismo di Stato
«abituale» – «le aziende cooperative si distinguono dalle aziende
capitaliste private in quanto sono aziende collettive, ma non si
distinguono dalle aziende socialiste, perché sono fondate sulla terra e
sui mezzi di produzione che appartengono allo Stato, cioè alla classe
operaia». Da questo punto di vista, conclude Lenin, «nelle nostre
condizioni la cooperazione coincide di regola completamente con il
socialismo»(60).
È interessante notare che il testo Sulla cooperazione, e più in
particolare l’identificazione della cooperazione con il socialismo, fu
adoperata nel 1925 sia da Stalin sia da Bucharin a riprova della
convinzione di Lenin che in Russia fossero presenti tutti gli elementi per
costruire il socialismo, senza bisogno di ricorrere all’apporto di capitali
stranieri(61). La posizione di Lenin sembra in realtà molto più cauta. Con
l’affermazione del potere sovietico non è soltanto il concetto di
cooperazione a doversi trasformare. Per Lenin «siamo obbligati a
riconoscere che tutte le nostre opinioni sul socialismo hanno subìto un
cambiamento radicale». Se prima della conquista del potere il centro di
gravità era «sulla lotta politica, sulla rivoluzione», adesso «il centro di
gravità si sposta fino al punto di trasferirsi sul pacifico lavoro
organizzativo “culturale”. Sarei pronto a dire che per noi il centro di
gravità si sposta sul lavoro culturale, se non fossimo impediti dai
rapporti internazionali, dall’obbligo di lottare per la nostra posizione su
scala internazionale. Ma se lasciamo questo da parte e ci limitiamo ai rapporti economici interni, allora oggi il centro di gravità del nostro
lavoro si sposta veramente sul lavoro culturale».
Questo, prosegue Lenin, definisce «due compiti fondamentali, che
costituiscono un’epoca». Il primo è «il compito di trasformare il nostro
apparato statale, che proprio non vale nulla e che abbiamo ereditato al
completo dall’epoca precedente». Il secondo compito consiste nel
«lavoro culturale in favore dei contadini. E questo lavoro culturale fra i
contadini ha come scopo economico appunto la cooperazione. Se
potessimo riuscire a organizzare tutta la popolazione nelle cooperative,
noi staremmo già a piè fermo sul terreno socialista». La chiusa
dell’articolo riprende il concetto di rivoluzione culturale e ne chiarisce i
presupposti: «Ora a noi basta compiere questa rivoluzione culturale per
diventare un paese completamente socialista; ma per noi questa
rivoluzione culturale comporta delle difficoltà incredibili, sia di
carattere puramente culturale (poiché siamo analfabeti) che di carattere
materiale (poiché per diventare colti è necessario un certo sviluppo dei
mezzi materiali di produzione, è necessaria una certa base materiale)»(62).
Da queste affermazioni di Lenin è difficile far discendere, come
intesero fare Stalin e Bucharin, l’idea di un processo ormai
sostanzialmente compiuto di passaggio al socialismo. Lenin lo ribadirà
nel suo ultimo scritto, Meglio meno, ma meglio, completato il 2 marzo
1923: «noi non abbiamo un grado sufficiente di civiltà per passare
direttamente al socialismo, pur essendoci da noi le premesse
politiche»(63). È invece lecito leggere nelle ultime riflessioni di Lenin la
convinzione che il capitalismo di Stato di tipo nuovo della Russia
sovietica (nuovo e qualitativamente diverso da quello “abituale” in
quanto fondato sul potere politico e sui principali mezzi di produzione
detenuto dal proletariato e non più dalla borghesia) potesse costituire
un elemento essenziale della transizione al socialismo.
4. Il capitalismo di Stato dopo Lenin
Il destino del concetto di capitalismo di Stato dopo Lenin ha
qualcosa di ironico. Per decenni questo concetto è stato adoperato
come un atto d’accusa da svariati critici dell’Unione Sovietica:
quest’ultima non sarebbe mai stata altro che un «falso socialismo dietro
cui si celava il capitalismo di Stato».(64) In anni recenti si è per contro
avanzata l’ipotesi che precisamente nel capitalismo di Stato consista il
lascito più durevole di Lenin.
A questo concetto è legata anche la presenza – decisamente
inconsueta – di Lenin sulla prima pagina di un numero
dell’”Economist” di qualche anno fa. «The Rise of State Capitalism.
The Emerging World’s New Model»: questo il titolo di copertina
dell’Economist del 21 gennaio 2012, accompagnato dall’immagine di un
Lenin con in mano un sigaro inconfondibilmente capitalistico. L’inserto
dedicato a questo tema, La mano visibile, era introdotto da un articolo
omonimo di Adrian Wooldridge, che metteva in luce come nel
Novecento si fossero succeduti grosso modo due grandi cicli: dal 1900
al 1970 un ciclo di crescita dell’importanza dello Stato nell’economia,
dal 1970 al 2000 il ritorno dei fautori del libero mercato. Con la crisi
che nel 2008 ha trovato il suo simbolo nel fallimento di Lehman
Brothers, questo secondo ciclo ha conosciuto una brusca battuta
d’arresto. Inoltre «la crisi del capitalismo liberale è stata resa più seria
dalla crescita di una potente alternativa: il capitalismo di Stato, che
cerca di combinare le capacità dello Stato con le capacità del
capitalismo. Scegliere i vincitori e promuovere la crescita economica
dipende dal governo. Che però usa strumenti capitalistici quali la quotazione delle imprese possedute dallo Stato sul mercato azionario e
l’uso della globalizzazione». L’“Economist”, comprensibilmente critico
su ciò che definiva «capitalismo di Stato», lo riteneva comunque «il
nemico più formidabile che il capitalismo liberale abbia sinora dovuto
affrontare. I capitalisti di Stato sbagliano ad affermare che sono in
grado di combinare il meglio dei due mondi, ma hanno imparato come
evitare alcune delle trappole in cui è incappata in passato la crescita
sostenuta dallo Stato»(65).
Commentatori più recenti preferiscono eludere la realtà di un
confronto in atto tra due diversi modelli economici, cavandosela un po’
a buon mercato: spostando il confronto sul piano delle strutture
politiche (autocrazie di impronta “leninista” contro democrazie
liberali). Così, lo storico Ian Morris vede consistere «l’eredità di Lenin
per il XXI secolo» nel fatto di essere stato «il primo a mostrare come un
percorso illiberale verso la modernità possa funzionare»(66). E anche un
autorevole commentatore del Financial Times quale Martin Wolf
appare incline a caratterizzare l’attuale modello cinese quale un
«connubio di politica leninista ed economia di mercato»(67); laddove i
rimarchevoli trend dello sviluppo cinese degli ultimi decenni, di cui egli
stesso dà qualche saggio, meriterebbero di essere interpretati e valutati
sotto un diverso profilo: quali risultati di un modello economico
peculiare, basato sulla dialettica tra un capitalismo di Stato tuttora
dominante e un’economia di mercato in forte sviluppo.
Ma un ragionamento sulla presenza del capitalismo di Stato nel
mondo contemporaneo non può tralasciare l’Occidente. Anche qui, nei
paesi industrialmente più avanzati, la crisi scoppiata nel 2007/8 non
soltanto ha scosso la fiducia nella capacità autocorrettiva delle forze di
mercato, ma ha al tempo stesso mostrato l’impossibilità di trovare vie
d’uscita con i soli strumenti di mercato. In verità, in nessuna parte del
mondo la crisi è stata affrontata con strumenti di mercato tipici di
quello che l’“Economist” definisce «capitalismo liberale». Sono state al
contrario mobilitate risorse pubbliche senza precedenti per salvare
banche, società assicuratrici e interi settori industriali. I benefici di queste gigantesche misure di «socializzazione delle perdite» sono
risultati quantomeno dubbi in termini di rilancio dello sviluppo
economico, oltreché assai diversamente ripartiti tra le diverse classi
sociali. In ogni caso, anche qui si potrebbe scorgere un revival del
«capitalismo di Stato». Ma nel significato che Lenin definirebbe
“abituale” – quello cioè di «capitalismo di Stato in una società in cui il
potere appartiene al capitale» ed è esercitato «a vantaggio della
borghesia»
68
. Un capitalismo di Stato che nella sua configurazione
attuale, se per un verso pone ingentissime risorse pubbliche al servizio
dei grandi monopoli, esclude per contro dal proprio orizzonte ogni
finalità di orientamento strategico dello sviluppo economico.
1 Testo rivisto della relazione al convegno “Rivoluzioni e
restaurazioni, guerre e grandi crisi storiche. Cento anni
dell’Ottobre russo”, tenutosi all’Università di Urbino il 7-8
novembre 2017.
2 LENIN 1918, p.
494.
3 Cit. in MEDVEDEV
1978, p. 76.
4 LENIN 1917/23, p.
152.
5 Ivi, pp. 153-54. 6
Ivi, p. 163.
7 Ivi, p. 140.
8 Ivi, p. 181.
9 Ivi, p. 176.
10 Ivi, p. 177.
11 LENIN 1917, p.
339.
12 Ivi, p. 340.
13 Ibidem.
14 GOLDSCHEID 1917,
p. 342.
15 Ivi, pp. 42, 133,
34 sgg.
16 Ivi, p. 131.
17 Ivi, p. 180; cfr.
anche p. 186.
18 In questa stessa
direzione si muoveranno nel loro ABC del comunismo anche
Nikolaj Bucharin ed Evgenij Preobraženskij, che pure ancora nel 1922
criticheranno l’uso del concetto di “capitalismo di Stato” a
proposito della Russia sovietica da parte di Lenin: «È chiaro […]
che ammettere il capitalismo di Stato significa, nello stesso tempo,
ritenere possibile l’organizzazione socialista della produzione.
Infatti la sola differenza è che nel primo caso l’organizzazione e
il controllo della produzione appartengono allo Stato borghese,
mentre nel secondo allo Stato proletario» (BUCHARIN E PREOBRAŽENSKIJ
1919, p. 146).
19 LENIN 1917/23, p.
188.
20 Ivi, p. 189.
21 Ivi, p. 190.
22 Ivi, p. 194.
23 DOBB 1957, p.
145. «Comunismo di guerra» è la definizione che – in termini
autocritici – lo stesso Lenin diede dell’economia di questo
periodo, riprendendo un concetto già usato ad altro riguardo da
Bogdanov: cfr. CARPI 2015, p. 129.
24 LENIN 1917/23, p.
352.
25 Ivi, pp. 352-53.
26 Ivi, p. 354.
27 Ivi, p. 355.
28 Ivi, p. 356.
29 Ivi, p. 357. È
interessante notare che sull’importanza di rifarsi ai suoi scritti
del 1918 Lenin non mutò opinione neppure in seguito: ancora nel
1922, all’economista ungherese Eugen Varga che gli chiedeva di
scrivere un articolo sulla Nep per lo Jahrbuch für Wirtschaft,
Politik und Arbeiterbewegung, Lenin, già malato, rispondeva che
a causa delle sue condizioni di salute gli era impossibile provvedere
a quanto richiesto, ma indicava in primo luogo, tra gli articoli che
potevano essere utilizzati, precisamente L’infantilismo di
sinistra; si vedano le lettere a Varga dell’8 marzo e del 10
aprile 1922 in LENIN 1920/23, pp. 516-17 e 538-39. Varga si attenne
poi a quanto richiesto da Lenin, ma andò ancora più indietro,
riprendendo anche passi dallo scritto del 1917 La catastrofe
imminente e come lottare contro di essa; si veda LENIN 1923, pp.
328-44.
30 LENIN 1917/23, p.
357.
31 Ivi, pp. 357-58.
32 Ivi, pp. 359-60.
33 Ivi, pp. 360-62.
Come si vede dall’importanza attribuita al piano di
elettrificazione, in Lenin il ragionamento sulla transizione dal modo
di produzione capitalistico al socialismo non è scindibile dai temi
dello sviluppo delle forze produttive e della pianificazione.
34 Ivi, p. 362.
35 Ivi, p. 364.
36 Ivi, p. 388. Sul
tema Lenin sarebbe tornato negli stessi termini in uno scritto del
febbraio del 1922: «Noi abbiamo portato a termine la rivoluzione
democratico-borghese in modo così “pulito” come mai era avvenuto
nel mondo. È questa una conquista grandissima, che nessuna forza
potrà toglierci»: ivi, p. 446.
37 Ivi, p. 391.
38 Ivi, p. 394.
39 A ragione
Włodzimierz Brus e Kazimierz Łaski osservano come l’enfasi
sull’importanza degli incentivi materiali per l’organizzazione
della produzione e la denuncia dell’errore di fare affidamento
soltanto sull’entusiasmo siano tratti di fondo della Nep leniniana;
si veda BRUS e ŁASKI 1989, p. 37.
40 LENIN 1917/23, p.
394.
41 Ivi, p. 402.
42 Ivi, p. 403.
43 Ivi, pp. 408-09.
44 Ivi, p. 410;
corsivi miei.
45 Ibidem.
46 Ivi, pp. 413-14;
corsivi miei
47 Ivi, pp. 415-16.
Per misurare la portata dell’evoluzione della posizione di Lenin a
questo riguardo sarà sufficiente ricordare quanto egli aveva scritto
nell’agosto del 1919: «la libertà di commercio del grano è il
ritorno al capitalismo, all’onnipotenza dei grandi proprietari
fondiari e dei capitalisti» (LENIN 1919, p. 522).
48 LENIN 1917/23,
pp. 457-58.
49 LENIN 1917/23,
pp. 458-59.
50 Ivi, p. 466.
51 Ivi, p. 467.
52 BUCHARIN 1920,
pp. 40, 71; alcuni corsivi dell’autore sono stati eliminati. Cfr.
anche pp. 79-80: «il sistema del capitalismo di Stato si trasforma
dialetticamente nel suo proprio contrario, nella forma statuale del
socialismo operaio».
53 LENIN 1917/23, p.
469.
54 Ivi, pp. 478-79.
55 LENIN 1920/21, p.
466.
56 Va detto che,
nonostante le precisazioni e i distinguo di Lenin, l’uso del
concetto di «capitalismo di Stato» rimase controverso nel partito.
Lo stesso Trockij, che tenne al IV Congresso una relazione su La
Nuova politica economica della Russia e la rivoluzione mondiale
che Lenin apprezzò (ne consigliò la pubblicazione, ritenendo le
tesi di Trockij «particolarmente adatte per far conoscere al
pubblico straniero la nostra Nuova politica economica»), in essa
affermò di non gradire l’uso del termine «capitalismo di Stato»
nel caso della Russia sovietica: cfr. TROTZKI 1923, p. 13. Si veda
inoltre p. 17: «quando definiamo la nostra situazione anche
“capitalismo di Stato”, lo facciamo soltanto […] in senso molto
convenzionale e io preferisco evitare questa definizione». Il
giudizio positivo di Lenin è contenuto in una lettera allo stesso
Trockij del 25 novembre 1922: «ho letto le vostre tesi sulla Nep e
le trovo in complesso molto buone, e alcune eccezionalmente felici,
ma alcuni punti mi sono sembrati discutibili» (LENIN 1920/23, p.
608). È lecito presumere che tra i punti «discutibili» vi fosse
proprio il rifiuto di utilizzare la definizione di «capitalismo di
Stato» a proposito della Russia sovietica.
57 LENIN 1917/23, p.
481.
58 Ivi, pp. 481-82.
59 Ivi, p. 485;
corsivi miei.
60 Ivi, p. 486.
61 Si veda DAY 1979,
pp. 122, 124-26, 149.
62 LENIN 1917/23,
pp. 487-88.
63 Ivi, p. 492.
64 Così si legge
nella Nota dell’editore alla più completa rassegna di
queste posizioni critiche disponibile al lettore italiano: PEREGALLI,
TACCHINARDI 2011: p. 9. La pura e semplice identificazione
dell’Unione Sovietica con una forma di capitalismo, che questo
enunciato sottintende, è stata rifiutata da tutti coloro che, pur
considerando l’Unione Sovietica una “società di transizione”
dal capitalismo al socialismo, ponevano l’accento sulla proprietà
prevalentemente non privata dei mezzi di produzione in essa vigente:
vedi ad es. MANDEL 1973, p. 30; altri autori, in passato assertori di
un “capitalismo di Stato” sovietico, preferiscono oggi parlare di
“modo di produzione sovietico”: cfr. AMIN 2017, p. 17.
65 WOOLDRIDGE 2012,
pp. 3-4. Sul tema del capitalismo di Stato e della tendenza a un
“ritorno dello statalismo” si veda anche KURLANTZICK 2015.
66 MORRIS 2017.
67 WOLF 2017.
Riferimenti
bibliografici
AMIN, SAMIR, 2017
Ottobre ’17: ieri e domani, Edizioni MarxVentuno,
Bari.
BRUS, WŁODZIMIERZ e
ŁASKI, KAZIMIERZ, 1989 From Marx to the Market. Socialism in
Search of an Economic System, Clarendon Press, Oxford.
BUCHARIN, NIKOLAJ,
1921 Economia del periodo
di trasformazione, trad. it. Jaca Book, Milano, 1971.
BUCHARIN, NIKOLAJ e
PREOBRAŽENSKIJ, EVGENIJ, 1919 ABC
del Comunismo, prima trad. it. integrale, Del Bosco Edizioni,
Roma, 1973.
GOLDSCHEID, RUDOLF,
1917 Staatssozialismus
oder Staatskapitasmus. Ein finanzsoziologischer Beitrag zur Lösung
des Staasschulden-Problems, Anzengruber-Verlag Brüder
Suschitzky, Wien-Leipzig, Vierte und Fünfte Auflage.
CARPI, GUIDO, 2015
“Il marxismo russo e sovietico fino a Stalin”, in Storia del
marxismo. 1. Socialdemocrazia, revisionismo, rivoluzione (1848-1945),
a cura di S. Petrucciani, Carocci, Roma 2015, pp. 101-42.
DAY, RICHARD B.,
1979 Trotskij e Stalin. Lo
scontro sull’economia (1973), trad. it., Editori Riuniti, Roma.
68
LENIN 1920/21, p.
466.
DOBB, MAURICE, 1957
Storia dell’economia sovietica (1948), trad. it.,
Editori Riuniti, Roma. GOLDSCHEID, RUDOLF, 1917 Staatssozialismus
oder Staatskapitasmus. Ein finanzsoziologischer Beitrag zur Lösung
des Staasschulden-Problems, Anzengruber-Verlag Brüder Suschitzky,
Wien-Leipzig, Vierte und Fünfte Auflage.
KURLANTZICK, JOSHUA,
2015 State Capitalism: How the Return of Statism is Transforming
the World, Oxford University Press, Oxford.
LENIN, 1917 Opere
complete, vol. XXV (giugno-settembre 1917), Editori Riuniti,
Roma, 1967. ID., 1917/23, Economia della rivoluzione, a cura
di V. Giacché, il Saggiatore, Milano, 2017.
ID., 1918 Opere
complete, vol. XXVII (febbraio-luglio 1918), Editori Riuniti,
Roma, 1967.
ID., 1919 Opere
complete, vol. XXIX (marzo-agosto 1919), Editori Riuniti, Roma,
1967.
ID., 1920/21, Opere
complete, vol. XXXII (dicembre 1920 - agosto 1921), Editori
Riuniti, Roma, 1967.
ID., 1920/23 Opere
complete, vol. XLV (novembre 1920 - marzo 1923), Editori Riuniti,
Roma, 1970.
ID., 1923 Die
neue ökonomische Politik (Zusammenstellung aus Lenins Schriften
von E. Varga), in «Jahrbuch für Wirtschaft, Politik und
Arbeiterbewegung 1922/23», Verlag der Kommunistischen
Internationale, Auslieferungsstelle für Deutschland, Carl Hoym
Nachf. Louis Cahnbley, Hamburg, pp. 328-344.
MANDEL, ERNEST, 1973
“Zehn Thesen zur sozialökonomischen Gesetzmäßigkeit der
Übergangsgesellschaft zwischen Kapitalismus und Sozialismus”, in
Probleme des Sozialismus und der Übergangsgesellschaften,
Hrsg. von P. HENNICKE, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1973, pp. 15-37.
MEDVEDEV, ROY, 1978
Dopo la rivoluzione (1977), Editori Riuniti, Roma.
MORRIS, IAN, 2017 A
century Later, Lenin’s Legacy Lives On, “Stratfor Worldview”,
19 aprile 2017: https://worldview.stratfor.com/article/century-later-lenins-legacy-lives (ultima verifica 26 novembre 2017).
PEREGALLI, ARTURO E
TACCHINARDI, RICCARDO, 2011 L’Urss e la teoria del capitalismo
di Stato. Un dibattito dimenticato e rimosso 1932- 1955, Milano,
Pantarei, Milano
TROTZKI, LEO, 1923
Die neue ökonomische Politik Sowjetrusslands und die
Weltrevolution, Verlag der Kommunistischen Internationale,
Auslieferungsstelle für Deutschland, Carl Hoym Nachf. Louis
Cahnbley, Hamburg.
WOLF, MARTIN, 2017
The challenge of Xi Jinping’s Leninist autocracy, in
«Financial Times», 31 ottobre 2017; tr. it. Perché il sistema
Lenin fallito in Urss ha ancora successo in Cina, “il Sole 24 Ore”,
1° novembre 2017.
WOOLDRIDGE, ADRIAN,
2012 The Visible Hand, “The Economist”, Special Report, 21
gennaio 2012, pp. 3-5
Nessun commento:
Posta un commento