La teoria Marxista poggia la sua forza sulla scienza... che ne valida la verità, e la rende disponibile al confronto con qualunque altra teoria che ponga se stessa alla prova del rigoroso riscontro scientifico... il collettivo di formazione Marxista Stefano Garroni propone una serie di incontri teorici partendo da punti di vista alternativi e apparentemente lontani che mostrano, invece, punti fortissimi di convergenza...
Nelle accese discussioni che nella Cina degli anni settanta contrapponevano le “due linee”, uno degli argomenti centrali nell’attacco alla “linea capitalistica” verteva sulla cosiddetta “teoria delle forze produttive” – cioè sulla teoria storicista-meccanicistica secondo cui all’evoluzione delle forze produttive (intese qui, in senso radicalmente deformato rispetto alla tradizione marxista se non alla vulgata del Soviet Marxism, come scienza e tecnologia applicate al processo produttivo) debbono adeguarsi i rapporti di produzione. Questo dibattito, come altri nella Cina di allora, non è mai stato preso sul serio in Europa, anche perché si presentava in forma ingenua e spesso teoricamente scorretta. In realtà non si faceva qui nessuno sforzo per comprendere su che cosa si dibattesse nella sostanza. Durava sotterraneo l’etnocentrismo, cieco sul fatto che quelle discussioni riguardavano l’avvenire economico-sociale-politico del paese destinato a divenire la seconda potenza mondiale. L’avvenire è stato, fino a questi giorni, la vittoria della cosiddetta “teoria delle forze produttive”: la vittoria del capitale.
Fra gli europei, molti marxisti inclusi, si è continuato a lungo, e si continua tuttora, a chiamare “rivoluzione industriale” l’introduzione di alcune importanti innovazioni tecniche nella produzione, che hanno favorito la nascita del capitalismo moderno. Scrivo “hanno favorito”; meglio avrei detto: “sono state utilizzate”; ma nella vulgata sono considerate ancora oggi una rivoluzione, cioè un fatto di per sé politicamente rilevante, e causa principale dell’evoluzione verso il capitalismo; le ulteriori innovazioni scientifico-tecniche-organizzative sarebbero poi causa principale delle evoluzioni successive del capitalismo; a fortiori, del passaggio al socialismo che avrà da scaturire dal seno del capitalismo.
I cinesi oggetto di attacco negli anni settanta quali seguaci della “via capitalistica” erano in sostanza assai vicini a questi europei. E risultano assai vicini a Cavallaro e Fineschi [del quale ultimo non ho letto i testi, ma assumo l’interpretazione che ne fornisce Cavallaro sul Manifesto del 7 gennaio; e che appunto mi ha ricordato quell’importante episodio cinese (Hegel
velato dall'occhio di Marx - Luigi Cavallaro)].
Che rapporto ha tutto ciò con la lettura del Capitale organizzata a Bergamo da Riccardo Bellofiore, e di cui questi appunti sono una ricaduta secondaria?
Da: http://www.rifondazione.it/formazione - Estratto dalla Introduzione al volume: ROSA LUXEMBURG, La rivoluzione tedesca 1918 -1919 - Lelio Basso è stato un avvocato, giornalista, antifascista, politico e politologo italiano. [Tutti gli scritti di Lelio Basso li trovate su http://www.leliobasso.it/]
"Rosa
sta dalla parte delle masse perché sono oppresse, e la funzione
educatrice delle élite è per lei finalizzata alla loro rivolta,
alla rivoluzione - non al potere delle stesse élites per conto delle
masse, vicario del potere borghese e a esso speculare. E' una visione
fino a oggi priva di sbocco politico, ma la sola dove la rivoluzione
non sia destinata a divorare se stessa"
(Edoarda
Masi,"La
persona Rosa, perché",
p. 95)
--------------------------- […] Va osservato in primo luogo che Rosa non è stata mai una spontaneista nel senso di considerare che solo conti l’azione spontanea delle masse, senza bisogno di direzione politica.
Al contrario essa ha sempre rimproverato alla socialdemocrazia di non sapere svolgere proprio la funzione dirigente cui è chiamata (“Il periodo nuovo, quello dell’imperialismo, ci pone dinanzi dei problemi nuovi, che non possono essere risolti con i soli mezzi parlamentari, con il vecchio apparato e la vecchia routine. Il nostro partito deve imparare a scatenare, quando la situazione lo consente, delle azioni di massa e a dirigerle [corsivo nostro, L. B.]: non sa ancora farlo”), perché delle masse svuotate d’iniziativa politica e di capacità di lotta non saranno mai delle masse che potranno condurre a fondo un’azione rivoluzionaria (anche senza bisogno di attribuire a questa parola il significato insurrezionale).
Non si tratta quindi di negare il ruolo dirigente del partito, ma di contestare il modo come viene svolto e che sottovaluta totalmente il ruolo e la capacità combattiva delle masse, facendo del partito il solo protagonista. “Storicamente, il partito socialdemocratico è chiamato a costituire l’avanguardia del proletariato; partito della classe operaia, deve aprire la marcia e assumere la direzione. Ma se la socialdemocrazia s’immagina che è essa chiamata a scrivere la storia, che la classe non è niente, e che deve esser trasformata in partito prima di poter agire, potrebbe darsi che la socialdemocrazia svolgesse il ruolo di freno nella lotta di classe”, come infatti l’ha svolto.
E d’altra parte, se così fosse, se solo il partito fosse il titolare della azione politica della lotta di classe, come si spiegherebbe che la lotta di classe ha preceduto la nascita del partito, e anzi vi ha dato essa stessa vita, come si spiegherebbe che rivoluzioni socialiste, come a Parigi nel ‘48 e nel ‘71 e in Russia nel ‘905, sono scoppiate senza che un partito le avesse preparate e dirette? Come si spiegherebbe la partecipazione di vastissime masse non organizzate in tanti movimenti e il peso decisivo che vi hanno esercitato? “In occasione di grandi lotte, l’impeto delle masse non organizzate rappresenta, ai nostri occhi, un pericolo assai minore della debolezza dei capi”. Sarebbe quindi “un errore fatale immaginarsi che ormai l’organizzazione socialdemocratica è diventata la depositaria unica di tutta la capacità di azione storica del popolo, e che la massa non organizzata del proletariato è ridotta a un magma amorfo costituente per la storia un’inerte zavorra”. No, “la materia vivente della storia mondiale resta sempre, a dispetto della socialdemocrazia, la massa del popolo; e solo se si mantiene una viva circolazione sanguigna fra il nucleo dell’organizzazione e la massa popolare, solo quando il polso dell’una e dell’altro battono all’unisono la socialdemocrazia può dimostrarsi atta a grandi imprese storiche”.
Questo dunque è il punto essenziale: la funzione dirigente del partito deve esplicarsi non attraverso ordini e direttive, non con i metodi burocratici dell’apparato, non mediante le famose “cinghie di trasmissione”, ma attraverso un’interazione continua che faccia appunto scorrere permanentemente il sangue fra vertici e base, fra partito e classe, fra organizzazione e movimento, essendo chiaro che una grande azione politica, un importante compito storico non potranno essere svolti da una massa abituata soltanto a obbedire.
L’espansione del capitale ha alterato equilibri precedenti,
e non è dimostrabile che costituisca un “progresso”, giacché dovunque arriva
produce sottosviluppo e povertà crescente, oltre che disintegrazione sociale e
distruzione di civiltà. Non solo, ma questi risultati sono necessari alla
sussistenza del meccanismo di accumulazione del capitale stesso. Tanto che al
periodo di rapina nelle regioni del mondo non capitalistiche succede al
presente una tendenziale riduzione al sottosviluppo di zone già capitalistiche,
all’interno delle società cosiddette avanzate o nel pianeta. Così vediamo
ridotti al rango di colonie grandi paesi già liberi e semicapitalistici, e
all’interno del cosiddetto Occidente si riproducono rapporti di lavoro che
credevamo appartenere al passato (sfruttamento dei minori) o addirittura al
lontano passato (riduzione in schiavitù). Non si tratta di fenomeni marginali,
ma della stessa essenza del sistema del capitale al livello più “sviluppato”. L’imperialismo
conduce oggi a una sorta di ricolonizzazione, che parte dalle sfere già
colonizzate ma tende ad allargarsi generalmente. La questione se questo
processo sia ulteriormente possibile è tutt’uno con la domanda se vi sia spazio
per una ulteriore sopravvivenza del sistema che lo postula.
Il mio primo incontro con Rosa risale ai primissimi anni
‘70, quando giovane militante cercavo con studi, tanto appassionati quanto
caotici, di darmi una formazione teorica di base. Ricordo che ne ricevetti
l’impressione di una donna decisa, dalla forte personalità politica e dalle
brillanti doti teoriche, che aveva attraversato come una meteora l’orizzonte
politico della Seconda internazionale per finire assassinata dalla
controrivoluzione tedesca, dopo aver polemizzato con alcune delle più acute
intelligenze rivoluzionarie della sua epoca. Nel corso degli anni avevo poi
ripreso in mano alcune sue opere, ultima in ordine di tempo, La
Rivoluzione russa. Il convegno organizzato a Roma da Utopia rossa nel
settembre del 2009 a novant’anni dalla sua morte mi ha fornito l’opportunità di
incontrarla di nuovo. E così ho trascorso con lei l’ultimo scorcio di una
caldissima estate, leggendola sulle sponde di un lago, a immediato contatto con
quella natura da lei così profondamente amata in tutti i suoi molteplici aspetti
e nella quale cercava di immergersi non appena poteva.
A mio avviso, Rosa ha rappresentato, insuperata, l’unico
esempio di donna, rivoluzionaria a tempo pieno, che sia riuscita a praticare
concretamente la fusione tra la militanza attiva nei movimenti di lotta della
sua epoca - come agitatrice e dirigente - e l’impegno teorico. Un impegno speso
sul campo della polemica con alcuni tra i più famosi e prestigiosi
intellettuali del suo tempo, come Bernstein, Kautsky e lo stesso Lenin (oltre a
Trotsky con cui fu spesso d’accordo). Una produzione teorica finalizzata alla
denuncia di posizioni che ai suoi occhi rappresentavano concreti pericoli sulla
strada della rivoluzione socialista: contro il revisionismo di Bernstein (Riforma
sociale o rivoluzione?); contro la teoria leninista del partito (Problemi
di organizzazione della socialdemocrazia russa) e contro la concezione
burocratica del rapporto tra movimenti di massa, partito e sindacato (Sciopero
di massa, partito, sindacati); contro il nazionalsciovinismo di Kautsky e
della maggioranza del Spd (La crisi della socialdemocrazia); contro i
pericoli di degenerazione della Rivoluzione russa del ‘17 (La Rivoluzione
russa).
Da non trascurare sono anche i suoi testi di economia
politica come l’Introduzione all’economia politica e L’accumulazione
del capitale - in cui si misura direttamente con il Marx de Il
Capitale - elaborati nel periodo in cui insegnò alla scuola quadri del
Spd a partire dal 1907. Per non parlare poi della prodigiosa mole di articoli
pubblicati sugli organi di stampa dei partiti in cui militò e/o che contribuì a
fondare: Partito socialdemocratico tedesco (Spd), Partito socialdemocratico di
Polonia e Lituania (Sdkpil), Spartakusbund, Kpd.
"L’immagine che
di lei hanno avuto ed hanno i suoi avversari, di ieri e di oggi, è semplice
abbastanza da poter essere sintetizzata in un’espressione efficace come “Rosa
la sanguinaria”. Ma anche le immagini che di lei hanno dominato e dominano tra
chi dovrebbe averne più a cuore la memoria – penso ai marxisti di questo
secolo, e a un certo femminismo – sono a volte talmente semplificate da
risultare ancora meno accettabili. Si prenda, per esempio, un articolo di
Margarethe von Trotta, regista di un film su Rosa Luxemburg.
La regista
tedesca sintetizzava l’eredità della rivoluzionaria polacca nell’amore,
nell’incapacità di odiare, nel rifiuto della violenza. Non si potrebbe
immaginare certo nulla di più lontano da “Rosa la sanguinaria”. Già nel film,
peraltro, la Luxemburg vi appare come una pacifista, amante della natura, che
patisce la divisione tra politica e sentimenti, precocemente oltre il
femminismo nella convinzione di una maggiore positività delle relazioni
femminili. Tutti tratti, si badi, che hanno un riscontro in momenti ed aspetti
di questa donna cui è capitato di essere rivoluzionaria.
Ma se si assolutizzano
questi lati mettendo tra parentesi la sua vita spesa nel lavoro teorico
marxista, tra analisi dell’accumulazione e agire politico, la sua lucida
coscienza della amara spietatezza delle leggi della storia e della lotta contro
di esse, si finisce – magari contro le intenzioni – con il riproporre una
divisione delle ragioni dalle passioni. Quello che nel film Rosa L. era utile e
provocatorio, insomma, diviene nella formula troppo ellittica “l’amore era la
sua guida” un appello generico ai sentimenti, ed infine una non innocente
distorsione di questa figura, perché riproduce proprio quella scissione tra
pensiero (un pensiero rivoluzionario, con quanto di “sporco” e irrisolto
l’aggettivo comporta) e sentire (di un sentire caratterizzato da affezioni
radicali e intransigenti, come era nella natura della Luxemburg) che si voleva
combattere.
Della persona che ha
scritto in uno dei suoi ultimi articoli su Rote Fahne, nel dicembre 1918, “Un
mondo deve essere distrutto, ma ogni lacrima che scorra sul volto, per quanto
asciugata, è un atto d’accusa” non si può, non si deve, perdere la tensione tra
momento della lotta e momento della com-passione: non lo si può, non lo si deve
perdere, perché è appunto nel legame tra “forza” della trasformazione sociale e
“debolezza” che si riconosce in sé e cui si vuole dare spazio nel mondo che
risiede quanto di più inquietante ed innovativo questa rivoluzionaria può dire
a noi ancora oggi." (R. Bellofiore)
"Rosa sta dalla parte delle masse perché sono oppresse,
e la funzione educatrice delle élite è per lei finalizzata alla loro rivolta,
alla rivoluzione - non al potere delle stesse élites per conto delle masse,
vicario del potere borghese e a esso speculare. E' una visione fino a oggi
priva di sbocco politico, ma la sola dove la rivoluzione non sia destinata a
divorare se stessa" (Edoarda Masi,"La persona Rosa, perché", p. 95).
"Se la talpa della storia è la verità che, celata al
presente, si rivelerà nelle mutate condizioni del futuro, è in questo nostro
tempo che si rovescia in rivincita tutto quanto era parso il risvolto negativo
delle idee di Rosa e della sua sorte: puntare sulle masse - quando la
rivoluzione d'ottobre, la sola vittoriosa, aveva seguito altra via; optare per
la pace - quando la socialdemocrazia aveva scelto la guerra, e la guerra era
venuta, seguita poi ancora da un'altra ancora più tremenda e universale;
trovarsi dalla parte degli sconfitti - il peggiore dei torti secondo la ragion
politica. Le vittorie di allora, se pure autentiche, non ci riguardano ormai,
quando tutto è mutato e trascinato via dal tempo [...] Attuali e invincibili
restano le idee degli sconfitti, perché rispondono ad un'esigenza
insopprimibile degli esseri umani di questo secolo e ne rappresentano la
nobiltà. Indipendentemente da se e fino a quando siano attuabili" (idem,
pp. 98 e 95).
Questo video di Frasi di Marx è dedicato al famoso tema dell’accumulazione originaria, che spiega in maniera profonda le origini del sistema capitalistico, smentendo la favola dell’uomo che si fa da sé, si arricchisce e fa prosperare la società. Marx tratta dell’accumulazione originaria nel Primo libro del Capitale, esattamente al capitolo XXIV, dove mostra come essa non sia il risultato del modo di produzione capitalistico, ma il suo punto di partenza. Come suo solito, fa un parallelo interessante addirittura con un tema preso dalla teologia, cosa non nuova per lui. A suo parere l’accumulazione originaria gioca lo stesso ruolo del peccato originale nel Cristianesimo. Secondo il Genesi, indotto da Eva, Adamo peccò e la sua colpa ricadde su tutto il genere umano. La tesi dell’accumulazione originaria è invece più selettiva e non coinvolge tutta l’umanità. Infatti, nei tempi dei tempi, vi erano alcuni uomini intelligenti, diligenti e risparmiatori, il cui comportamento era assai diverso da quello degli altri sciagurati che non avevano voglia di lavorare e che si davano allo sperpero. A causa di questa abissale differenza, i primi hanno accumulato grandi ricchezze e non hanno più bisogno di lavorare, mentre gli altri sono privi di tutto e “hanno da vendere solo la propria pelle”. Su questo mito fondativo si basa la struttura di classe del sistema capitalistica, che come si vede si adorna di motivi moralisti, per occultare la cruda realtà svelata nelle parole di Marx, che hanno la potenza di spiegare i fenomeni più raccapriccianti dell’oggi.
Il Primo libro del Capitale (unico volume pubblicato direttamente da Marx, che ne curò un’edizione semplificata per i lavoratori francesi) colpisce non solo per la profondità delle analisi, per la capacità mutare la natura delle cose guardandole da un punto di vista alternativo e radicale, impressiona anche per la grande passione con cui è scritto. Per riconoscimento unanime si tratta di un’opera dal grandissimo valore, oltre che scientifico, anche letterario, alimentata e arricchita dalle lettura di autori quali Dante, Cervantes, Shakespeare, Balzac; tutti autori che avevano capito a fondo sia la drammatica vicenda umana, sia con Balzac, i meccanismi ideologici e politici del capitalismo in ascesa, eppure profondamente corrotto. (Alessandra Ciattini)
Andre Vltchek (29 dicembre 1963-22 settembre 2020) è stato un analista politico, giornalista e regista americano di origine sovietica. Vltchek è nato a Leningrado, ma in seguito è diventato cittadino americano naturalizzato dopo aver ottenuto asilo lì a vent'anni. Ha vissuto negli Stati Uniti, Cile, Perù, Messico, Vietnam, Samoa e Indonesia. Vltchek ha coperto i conflitti armati in Perù, Kashmir, Messico, Bosnia, Sri Lanka, Congo, India, Sud Africa, Timor orientale, Indonesia, Turchia e Medio Oriente. Ha viaggiato in più di 140 paesi, e ha scritto articoli per Der Spiegel , quotidiano giapponese The Asahi Shimbun , The Guardian , ABC News e il quotidiano della Repubblica Ceca Lidové novizio. Dal 2004, Vltchek ha lavorato come senior fellow presso l' Oakland Institute.
Ogni qualvolta si guarda La Ultima Cena, un geniale film del 1976 diretto dal cubano Tomás Gutiérrez Alea, ci si rende conto di molti importanti messaggi che vengono letteralmente urlati dallo schermo.
Il primo: non si può schiavizzare un intero gruppo o un’intera etnia, almeno non per sempre. È impossibile spezzare l’ardente desiderio di esercitare le propria libertà e i propri diritti, non importa quanto brutalmente e frequentemente il colonialismo, l’imperialismo, il razzismo e il terrore religioso provano a farlo.
Il secondo messaggio ugualmente importante è che i bianchi e i cristiani (e ancora di più i cristiani bianchi) per secoli, ovunque nel mondo, si sono comportati come orde di bestie selvagge e maniaci genocidi.
A fine Aprile 2016, a bordo del jet della Cubana de Aviacion, che mi stava portando da Parigi a L’Avana, non ho resistito alla tentazione di accendere il computer e guardare di nuovo, forse per la decima volta in vita mia, La Ultima Cena. Con Gutiérrez nello schermo, Granma Internacional (il giornale ufficiale cubano chiamato così dalla nave che portò Fidel, il Che e altri rivoluzionari a Cuba per dare l’avvio alla rivoluzione) e un bicchiere di autentico e puro rum sul tavolino, mi sentivo a casa, al sicuro e raggiante di felicità. Dopo diversi giorni tristemente trascorsi a Parigi, mi stavo finalmente lasciando alle spalle la grigia, sempre più deprimente, dispotica e auto compiacente Europa.
L’America Latina mi aspettava. Stava affrontando degli attacchi terribili organizzati dall’Occidente. Il suo futuro era ancora una volta incerto. “I nostri governi” stavano sanguinando, alcuni di loro collassando. Quello terrificante dell’ala di estrema destra guidato da Mauricio Macri in Argentina era completamente impegnato nello smantellare lo stato sociale. Il Brasile soffriva per il colpo di stato ad opera dei corrotti legislatori di destra. La rivoluzione bolivariana del Venezuela combatteva strenuamente per la propria sopravvivenza. Le forze sovversive conservatrici stavano affrontando sia l’Ecuador che la Bolivia.
Mi chiesero di andare. Mi dissero: “L’America Latina ha bisogno di te. Stiamo combattendo per la nostra sopravvivenza”. Ed eccomi lì, a bordo del Cubana, mentre andavo a casa, in quella parte del mondo che mi è sempre stata cara e mi ha modellato in quello che sono ora, un uomo e uno scrittore.
Andavo a casa perché lo volevo, ma anche perché era un mio dovere. E cavolo, io ci credo davvero nei doveri!
Dopotutto, non sono un anarchico, ma un Comunista, “istruito” e temprato in America Latina.
Da: https://www.facebook.com/notes/maurizio-bosco - [Die Fackel, nr. 546-550, luglio 1920, pp.6-9; e nr. 554-556, novembre 1920, pp. 6-12] - Vedi anche: ROSA L. - Margarethe Von Trotta (1986)
Dedico alla memoria della più nobile vittima la lettura della seguente lettera, che Rosa Luxemburg scrisse dal carcere femminile di Breslavia a Sonja Liebknecht a metà dicembre 1917.
«Ormai è un anno che Karl è in carcere a Luckau. In questo mese ci ho pensato spesso: proprio un anno fa Lei era a casa mia, qui a Wronke, e mi ha donato quel bell’albero di natale…Quest’anno me ne sono procurato uno,ma me lo hanno portato molto scadente e con qualche ramo mancante – non c’è confronto con quello dell’anno scorso. Non so come potrò appenderci le otto piccole luci che mi sono porcurata. E’ il mio terzo Natale in carcere , ma non la prenda sul tragico. Io sono tranquilla e serena come sempre. Ieri sono rimasta sveglia a lungo – ormai non riesco a prender sonno prima dell’una, ma devo coricarmi già alle dieci – e poi nel buio mi abbandono a tanti sogni dunque pensavo: è strano come io viva costantemente in una lieta ebrezza – e senza alcun motivo particolare. Così, per esempio, giaccio in questa cella buia su un materasso duro come la pietra, tutto intorno a me regna il solito silenzio di tomba, sembra di essere già morti: dalla finestra si staglia sulla coperta il riflesso di un lampione, che arde tutta la notte davanti al carcere. Di quanto in quanto si sente, smorzato, lo strepito lontano di un treno che passa o, vicinissimo sotto la finestra, il tossicchiare della sentinella che, per sgranchirsi le gambe irrigidite, fa due passi lentamente nei suoi pesanti stivali. Sotto questi passi la sabbia scricchiola così disperatamente, che tutto il vuoto e l’inesorabilità dell’esistenza risuonano nella notte umida e oscura. Ed io giaccio sola, avvolta nei molteplici panni neri delle tenebre, della noia, della prigionia dell’inverno – ma il mio cuore intanto batte di un’intima gioia sconosciuta, inconcepibile, come se camminassi su un prato fiorito nella chiara luce del sole. Nel buio io sorrido alla vita, come se fossi consapevole di un magico segreto, che annulla il male e la tristezza e li trasforma in pura luminosa felicità. Cerco un motivo per questa gioia, non lo trovo e sorrido di me stessa. Penso che il segreto non sia che la vita stessa; le profonde tenebre notturne sono belle e morbide come il velluto, basta saper guardare. Ed anche nello scricchiolio della sabbia umida sotto i passi lenti e pesanti della sentinella, risuona un piccolo e dolce canto sulla vita – basta saper ascoltare. In questi momenti io penso a Lei, e vorrei comunicarLe la chiave magica, perché possa cogliere, sempre ed in ogni circostanza, la gioiosa bellezza della vita, perché anche Lei possa vivere in questa ebrezza e camminare come su un prato fiorito. Non voglio certo propinarLe ascetismo e gioie immaginarie: Le auguro tutte le reali gioie dei sensi. A queste vorrei solo aggiungere la mia inesauribile gioia interiore, per essere tranquilla sul Suo conto, per essere sicura che Lei affronti la vita avvolta in un mantello trapunto di stelle, che La protegga da ogni piccineria, volgarità angoscia. Nel parco di Steglitz Lei ha colto un bel mazzo di bacche nere e rosso-viola. Per quelle nere, si può trattare di sambuco – le sue bacche pendono in pesanti e fitti corimbi fra grandi foglie pennate, le conosce certamente – o di ligustro: piccole, esili pannocchie dritte, tra foglie sottili e lanceolate- Le bacche rosa-viola, nascoste tra le piccole foglie, potrebbero essere quelle del nespolo nano; in realtà sono rosse, ma in questa stagione avanzata sarebbero fin troppo mature, e un po’ marcite appaiono spesso di un rosa violetto; le foglioline sono simili a quelle del mirto, piccole e aguzze in cima, di un verde scuro, ruvide nella parte inferiore e simili al cuoio in quella superiore.
Da: http://www.consecutio.org - Edoarda_Masi è stata una saggista e sinologa italiana, specializzata nella cultura della Cina e nella lingua cinese.
Questo testo riprende, anche nella forma, il testo presentato al Seminario Bergamasco sul Capitale coordinato da Riccardo Bellofiore il 3 maggio 2008. -
Non riassumo il capitolo 25°, che è abbastanza breve e – mi sembra – di facile lettura. Marx è interessato a indagare come il capitale agisca sempre secondo la sua logica interna, e si propone qui di mostrare che nelle colonie si riproducono i suoi meccanismi fondamentali: specificamente, nella trasformazione di uomini liberi in salariati sfruttati. Per semplificare il discorso utilizza polemicamente un testo di E.G. Wakefield, un teorico della colonizzazione. Il discorso è chiaro e coerente, la sua logica incontestabile, una volta che si accettino i presupposti – per la verità non tutti accettabili (come quello che nelle terre da colonizzare il capitale trovi, all’inizio, liberi produttori).
Partire dal massimo livello di astrazione può valere contro la realtà storica? Al di là di questa logica, mi limiterò ad alcune osservazioni in certo senso fuori tema.
Quando Marx scrive queste righe, siamo in pieno Ottocento – il secolo nel corso del quale le terre emerse colonizzate degli europei passano dal 35% all’85%. È quanto meno singolare che un osservatore acuto (diciamo pure, un genio) come lui non si curi di questo evento macroscopico, una volta che abbia deciso di scrivere un capitolo sulla colonizzazione. Né si domandi per quali motivi tale fenomeno sia in corso, da dove parta e quali risultati produca nellamadrepatria (cioè nel luogo centrale della sua indagine sul capitale).
Non solo. Come esempio di colonia sceglie gli Stati Uniti d’America, che da un pezzo hanno raggiunto l’indipendenza; anche se – come si precisa in nota – «economicamente parlando […] sono ancora terra coloniale dell’Europa».
Ma chi sono quei liberi produttori che il capitale colonizzatore trasforma in salariati sfruttati? Non gli indigeni del continente colonizzato, bensì i liberi immigrati, originari e del presente. Sulle conseguenze della guerra civile, terminata da poco quando presumibilmente scrive queste righe, Marx osserva che questa ha prodotto «un debito nazionale colossale, accompagnato da una pressione fiscale, dalla nascita della più volgare aristocrazia finanziaria, dalla donazione di una parte enorme di terreni pubblici a società di speculatori al fine dello sfruttamento di ferrovie, miniere, ecc. in breve, ha avuto come conseguenza una rapidissima centralizzazione del capitale. Dunque la grande repubblica ha cessato di essere la terra promessa degli operai emigranti».
Da: https://www.facebook.com/notes - INTRODUZIONE a «Tornare al lavoro. Lavoro di cittadinanza e piena occupazione», a cura di Jacopo Foggi, Castelvecchi, Roma, 2019, pp. 17-27
Il libro sui piani di lavoro garantito curato in modo esemplare da Jacopo Foggi per lo CSEPI è un volume importante, tanto per la qualità e la completezza di quello che contiene e che dice, quanto per quello che resta sullo sfondo e rimane ancora da articolare con più precisione e ricchezza, e magari da mettere meglio a fuoco. In queste poche righe di introduzione mi propongo di presentare al lettore, senza alcuna possibile pretesa di completezza, alcune considerazioni evidentemente soggettive, essendo io stesso parte attiva di questo dibattito in corso.
Il problema della disoccupazione in Italia è un problema che affonda le radici nel passato. Anche limitandoci al secondo dopoguerra, non solo esso non è stato mai risolto, ma alla sua risoluzione non hanno affatto contribuito né la apertura al commercio internazionale, né il miracolo economico, né gli abortiti tentativi di programmazione: semmai, l’emigrazione. La svolta degli anni ’80 prima peggiorò le cose, poi provvide una falsa soluzione nella sottoccupazione dovuta alla caduta della produttività e alla precarizzazione. Si può dubitare che sia mai davvero esistita da noi una fase keynesiana (molti guardano con nostalgia malriposta ai cosiddetti trent’anni gloriosi), e il keynesismo criminale stigmatizzato da de Cecco ne fu un povero sostituto. Il che lascia dubitare che sia possibile una soluzione keynesiana oggi, fondata sulla sola espansione della domanda effettiva, che rovesci l’austerità che ci accompagna da decenni. Si può dire che in varia forma la disoccupazione si sia tramandata tanto nello sviluppo quanto nella crisi, come anche che la crisi italiana sia di lunga durata, e risalga in realtà alle occasioni perse di metà anni ’60. È una crisi che ha aspetti strutturali, non solo congiunturali: e la stessa cosa si può dire della problematica della disoccupazione. La crisi recente, successiva alla nuova “grande crisi” esplosa nel 2007-2008 e aggravata dalle dinamiche interne all’area europea, va relativizzata come parte di questo quadro complessivo.
Il cuore del libro è costituito, di fatto, da una proposta di importazione chiavi in mano, ovviamente adattata al nostro paese, di una idea di origine anglosassone, l’insieme di programmi per un Job Guarantee, una volta denominata come proposta dello Stato come “occupatore di ultima istanza”, un’idea sostenuta con forza dalla corrente della cosiddetta Modern Money Theory. I “piani di lavoro garantito” vengono contrapposti con ragione, e qualche tentativo di mediazione, all’idea alternativa di un “reddito di esistenza”: è chiaro che mentre questa seconda politica di fatto accetta la precarizzazione e la disoccupazione permanente come un destino, cui mettere una pezza con sussidi prevalentemente monetari, i piani di lavoro garantito scommettono sulla compatibilità della piena occupazione permanente con la configurazione sociale capitalistica. I proponenti dell’Employer of Last Resort hanno scritto altrove che il punto è «ripensare il capitalismo»: i proponenti del basic income ritengono invece che il superamento del capitalismo si gioca essenzialmente su un piano distributivo.