"Il capitalismo si modifica continuamente; non è mai
uguale a se stesso. Questa integrazione globale di produzione e finanza
in una teoria generale del processo capitalista sta ancora muovendo i
primissimi passi; non viene mai trattata in modo esauriente. In Keynes
vi sono alcuni accenni e anche Marx suggerisce qualcosa al riguardo, ma
una vera e propria elaborazione teorica sarebbe avvenuta solo in una
concreta fase storica che avrebbe reso necessaria la nuova teoria. E
questo sta avvenendo oggi."
Paul M. Sweezy, "rivista del manifesto", aprile 2000
Il capitalismo è in una crisi ‘sistemica’. Iniziata nell’estate del 2007, a partire dalle difficoltà di un
segmento particolare del mercato finanziario statunitense, l’instabilità finanziaria ha finito col contagiare
l’intero pianeta. La crisi finanziaria si è tramutata in crisi bancaria, poi, nel giro di un anno, in crisi reale.
La recessione sarà lunga. Ammesso e non concesso che la flebile ripresa si confermi, e che non si abbia
un doppio salto nella depressione, il capitalismo potrebbe avere davanti a sé una prolungata
La prima fase del neoliberismo: gli anni Ottanta
Per capire meglio la condizione in cui siamo è bene collocare la crisi attuale in un’ottica di lungo
periodo1. Di cosa, esattamente, stiamo vivendo la crisi? Non certo di un ‘liberismo’ sfrenato. Il lungo
quarantennio che abbiamo alle spalle, a partire dalla svolta neo-liberista del 1979-1980, tutto è stato
meno che una generica ritirata dello Stato, e tanto meno un vuoto della politica economica
interventista. E' sicuramente vero che l’inversione ad U della politica economica alla fine degli anni
Sessanta determinò rapidamente una compressione della domanda effettiva. Il drastico aumento dei
tassi di interesse nominali e reali, e il diffondersi dell’incertezza, contribuirono alla caduta degli
investimenti privati. Questa prima fase della c.d. svolta neoconservatrice potrebbe essere definita una
fase 'monetarista'. Essa era declinata sulla pretesa di controllare l'offerta di moneta per controllare salari
e prezzi dei beni e servizi: un quantum ignoto e non conoscibile, come disse Kaldor nei suoi discorsi alla
House of Lords2). Teoricamente si fondava anche sulla convinzione che la curva di Phillips fosse verticale
a livelli significativi del tasso di disoccupazione, facendo dei disoccupati involontari gente che si
asteneva volontariamente dal lavoro scegliendo più ozio. I politici del tempo non ragionavano
comunque in questo modo: la signora Thatcher, per esempio, cercò deliberatamente di creare un
esercito di riserva di disoccupati, e per questo Kaldor la denominò il primo Primo Ministro marxista
della Gran Bretagna. A ciò si accompagnarono la riduzione della spesa pubblica, soprattutto nella sua
componente sociale, e la caduta del consumo dei lavoratori, imputabile alla riduzione della quota dei
salari.
Viene spontanea allora la domanda: come mai la Grande Crisi (da domanda) non si è materializzata già
nel corso degli anni Ottanta? Come mai, per dirla con John Kenneth Galbraith e Minsky, il Grande
Crollo non si è ripetuto? La risposta breve è che effettivamente vi fu una tendenza alla Grande Crisi da
domanda nei primissimi anni Ottanta, ma che essa fu battuta da controtendenze politiche. La più
evidente fu il ‘doppio disavanzo’ reaganiano che tenne sopra il pelo dell’acqua gli Stati Uniti e di
rimbalzo, in conseguenza delle maggiori importazioni di quel paese, il resto del mondo. Disavanzo del
bilancio pubblico, all’interno, da un lato; disavanzo della bilancia corrente, all'esterno. Gli Stati Uniti,
con pochi altri paesi più piccoli come Inghilterra, Spagna, Australia, furono lo sbocco di ultima istanza
dei neomercantilismi ‘forti’ (come la Germania o il Giappone) o ‘deboli’ (come parte dell’economia
italiana).
La seconda fase del neoliberismo: gli anni Novanta
Ma si trattava, appunto, di controtendenze. Il punto da comprendere bene è che, proprio in
conseguenza delle dinamiche attivate da questa prima fase 'monetarista' della contro-rivoluzione
neoliberista, è emerso nel corso degli anni Novanta un ‘nuovo’ capitalismo ancora una volta centrato
sugli Stati Uniti e caratterizzato da una sorta di paradossale keynesismo 'privatizzato'. Questo ‘nuovo’
capitalismo – nuovo rispetto al capitalismo del Novecento, anche se per certi versi risuscita alcuni
aspetti del capitalismo della fine dell’Ottocento – si è mosso sulle due gambe della (in questo senso lo si
può anche definire un keynesismo 'finanziario') e della precarizzazione del lavoro. Esso si è retto
sull'equilibrio instabile (e alla fine insostenibile) tra le tre figure del lavoratore ‘traumatizzato’, del
risparmiatore in fase ‘maniacale’, e del consumatore ‘indebitato’. Vediamo di capire in che senso.
Il lavoratore traumatizzato e la 'centralizzazione senza concentrazione'
La prima figura, il lavoratore traumatizzato, è anche l’esito del rinnovato primato della finanza, ma in
una forma originale rispetto al mondo precedente la Prima Guerra Mondiale. Una forma, per di più,
che ha prodotto effetti reali significativi - e, si potrebbe dire, capitalisticamente 'virtuosi' - sulla gestione
della produzione (dunque, sulla valorizzazione immediata), sul modo del finanziamento dell'economia
(dunque, sull'immissione della moneta e sulla forma assunta dalla intermediazione finanziaria), sulla
domanda effettiva (dunque, sul suo livello e la sua composizione). Durante la stessa fase che è stata
impropriamente definita come l'età dell'oro del capitale, e ancor più dopo la sua crisi, si è andato
progressivamente affermando quello che Minsky ha chiamato il money-manager capitalism, Aglietta le
capitalisme patrimonial, e che uno di noi ha definito anche come il ‘capitalismo dei fondi pensione.
Il risparmio delle ‘famiglie’ viene dirottato nei ‘fondi’ istituzionali.
La loro gestione è affidata a ‘specialisti ed è inevitabilmente finalizzata a rendimenti il più alti possibile nel brevissimo periodo.
I manager delle imprese non finanziarie vengono cooptati con il meccanismo delle stock-option,
mentre quelli delle imprese finanziarie possono imporre criteri di corporate governance che incidono radicalmente sulla produzione e sul lavoro.
Ne è sortita una vera e propria ‘centralizzazione senza concentrazione. Nei settori chiave si è assistito
a gigantesche fusioni e acquisizioni: la ‘centralizzazione. Ciò non ha però dato vita a grandi imprese
verticalmente integrate – la ‘concentrazione - ma ad una 'rete' tra unità produttive frammentate. Nel
frattempo si era andata praticando tra i global player del manifatturiero e dei servizi una concorrenza
distruttiva anche nelle strategie di investimento, dando così luogo ad un cronico eccesso di offerta in
alcuni settori6. La catena della produzione del valore si andava riorganizzando profondamente,
facendosi autenticamente transnazionale (sono molto utili per comprendere questo processo le analisi
di Francesco Garibaldo). La rete di imprese si è stratificata secondo la diversa forza relativa delle
gestionale, mentre al polo basso si lotta per sopravvivere. Contro la visione troppo facile di un degrado
generale in una corsa verso il basso, la condizione dei lavoratori è dipesa dalla collocazione della singola
impresa nella filiera.
Anche per queste dinamiche la crescita della produzione non è più sinonimo di espansione di una classe
operaia tendenzialmente sempre più omogenea, concentrata nello stesso territorio8, nella stessa
‘fabbrica’, soggetta ad identiche condizioni materiali, giuridiche, e così via. Il lavoro è stato frammentato
e reso sempre più insicuro. La precarietà può sembrare assente ad un polo e devastante ad un altro: essa
però condiziona come minaccia anche la condizione dei più 'garantiti'. Dentro questi caratteri andrebbe
inquadrato anche il sempre più esteso lavoro migrante9. All'indebolimento del mondo del lavoro hanno
contribuito il crollo del socialismo reale e l’entrata nel circolo del capitalismo globale di Cina e India,
eventi che hanno insieme prodotto un sostanziale raddoppio dell’ ‘esercito industriale di riserva’10.
La capital asset inflation e la 'sussunzione reale' del lavoro alla finanza e al debito
Le trasformazioni della condizione del lavoro non sono state indipendenti da quella che possiamo
definire una vera e propria ‘sussunzione’ del mondo del lavoro alla finanza e al debito: una integrazione
subordinata che non è più solo formale, è ormai anche reale. Essa incide nelle condizioni della
valorizzazione all'interno della produzione immediata, spingendo i lavoratori a tempi di lavoro più
lunghi e più intensi (ma anche aumentando il tasso di femminilizzazione della forza-lavoro, e rendendo
più significativo il ruolo del lavoro migrante). E' anche in forza di ciò che estrazione di plusvalore
assoluto e estrazione di plusvalore relativo si sono intrecciate sempre più indissolubilmente,11 mentre la
dicotomia centro-periferia ha perso la sua connotazione rigida e si è tendenzialmente riprodotta
all'interno di ogni area e nazione12.
Per comprendere meglio l'interconnessione tra dinamiche finanziarie e dinamiche reali quale si istituisce
nel corso degli anni Ottanta si deve fare riferimento alla tendenza insita nel capitalismo dei 'fondi' a
produrre una inflazione nel prezzo dei capital asset. Come ha rilevato Jan Toporowski13, l'afflusso
crescente di denaro sui mercati finanziari proveniente dai fondi pensione e dai fondi istituzionali ha
consentito alle imprese non finanziarie di emettere azioni a condizioni sempre più convennienti, mentre
il rendimento delle 'attività-capitale' era sempre più riconducibile alla componente di guadagno
speculativo. La capital asset inflation si è accompagnata ad una sovracapitalizzazione delle imprese
'produttive'. Vista la convenienza di espandere l'investimento finanziario più di quello reale, si
emettevano titoli di proprietà in eccesso rispetto ai propri bisogni industriali e commerciali, e il capitale
di lungo termine così raccolto veniva investito in attività finanziarie con un orizzonte di
cortotermine.Paradossalmente, queste emissioni venivano poi ricomprate dalle stesse imprese (corporate
buy back). L'interesse dei gestori di fondi alle rendite finanziarie e alla valorizzazione azionaria si è fuso
con l'interesse del management imprenditoriale, attirato dai nuovi meccanismi di remunerazione. Di qui
la spettacolare ondata di fusioni e acquisizioni e le selvagge ristrutturazioni delle imprese.
Sui mercati finanziari questi processi hanno stabilito una sistematica tendenza al disequilibrio 'verso
l'alto', senza alcun meccanismo di riaggiustamento nel breve-medio termine. I 'mercati' divenivano
sempre più liquidi, la qualità del collaterale migliorava costantemente, i margini di sicurezza erano ex
post sempre più rassicuranti. Per questo l'indebitamento crescente delle economie è stato sempre più
attribuibile alle imprese finanziarie e alle famiglie, e sempre meno alla dinamica dell'investimento 'fisico'
delle imprese non finanziarie. Queste ultime avevano sempre meno bisogno delle banche, che a loro
volta hanno dovuto cambiare schema di attività. Da agenti preposti in primo luogo alla selezione e al
monitoraggio delle imprese 'produttive' come debitore principale, hanno dovuto cercare i propri
rendimenti nel credito ai consumatori e nelle commissioni legate al processo di cartolarizzazione (il
modello originate and distribute).
La capital asset inflationspiega molto della 'esuberanza irrazionale' che è stata pervasiva prima sui mercati
azionari e poi sul mercato immobiliare. E' qui che entrano in gioco le altre due figure che rendono
conto del 'nuovo' capitalismo, e che sono due facce della stessa medaglia: il risparmiatore nella sua fase
‘maniacale' e il consumatore sempre più ‘indebitato’. Quando si ha la rivalutazione del prezzo delle
azioni, o ancor più delle case, ciò nutre una vera e propria bolla speculativa, ed è in effetti possibile
consumare di più a credito. Il risparmio sul reddito disponibile si riduce o diviene negativo, anche per la
stagnazione o addirittura il declino dei salari reali; intanto il consumo si fa autonomo dal reddito e viene
gonfiato da quello che viene percepito come un ‘effetto ricchezza’. Tutto ciò, evidentemente e
paradossalmente, sostiene la domanda effettiva. La deflazione salariale e la decostruzione del mondo
del lavoro, da un lato, la capital asset inflatione il crescente leverage famiglie e finanza, dall'altro lato, sono
aspetti complementari di un meccanismo perverso dove sono proprio gli aspetti più tossici della finanza
a drogare la crescita reale. Vanno in crisi le tradizionali visioni costruite su una opposizione statica tra
capitale 'industriale' e capitale 'fittizio', tra rendita e profitto, tra produttivo e improduttivo.
Cambia nel frattempo la forma tipica del circuito monetario, sia all'apertura che alla chiusura.
L'immissione di moneta-credito nel sistema ha ora come suo punto di partenza privilegiato
l'indebitamento delle famiglie e non il finanziamento alla produzione14. La liquidità immessa nella
circolazione dalle banche alle famiglie (direttamente o tramite gli intermediari) viene trasferita dalle
famiglie alle imprese sul mercato dei beni e dei servizi, garantendo così anche la realizzazione del valore
e plusvalore. Oppure essa viene mantenuta all'interno del mercato finanziario, facendo girare ancora più
velocemente il mulinello della rivalutazione dei prezzi delle attività. Si tratta in sostanza di un modo
indiretto, ma efficace, di garantire lo stesso finanziamento della produzione alle imprese non finanziarie,
mentre la domanda di beni capitali si basa prevalentemente sull'autofinanziamento.
L'indebitamento crescente delle famiglie così come la sovracapitalizzazione delle imprese non
finanziarie si appoggiano a loro volta sull'esplosione dell'indebitamento interno alla finanza. In questo
mondo incantato si è infatti potuta sbizzarrire senza limiti la fantasia dell'innovazione finanziaria, con la
conseguenza di rendere la creazione delle monete 'private' del sistema bancario 'ombra' quasi totalmente
indipendente dalla emissione di moneta da parte del sistema bancario 'tradizionale'. Un miraggio
scambiato per realtà. Il settore delle imprese nel suo complesso pare in grado di crearsi la propria
moneta in modo pienamente hayekiano, rendendosi indipendente dalla 'tradizionale' creazione
monetaria via banche ordinarie e Banca Centrale15. E' un miraggio che ha ingannato pure marxisti, che
avrebbero dovuto conoscere meglio.
Un quadro del genere sarebbe soggetto a gravi fraintendimenti se non si aggiungessero alcune
importanti qualificazioni relative: (i) alla 'nuova' politica economica senza la quale il funzionamento
fluido di un meccanismo del genere sarebbe stato impossibile; (ii) alle precondizioni istituzionali e
geopolitiche che hanno consentito che si mettesse in piedi il mondo del 'nuovo' indebitamento privato;
(iii) al significato sociale del 'nuovo' consumatore, che ne fa l'espressione di una società che si
impoverisce e non che si arricchisce.
Per quanto riguarda il primo punto, la 'nuova' politica economica, dovrebbe essere ormai chiaro dopo
quel che si è detto che il capitalismo degli anni Novanta tutto è stato meno che un capitalismo
'stagnazionistico'. Ciò è stato però in larga misura dovuto ad una diversa gestione della politica
economica, e in particolare ad una manovra politica della domanda effettiva (a cui non poteva non
corrispondere una particolare composizione della produzione). Si tratta ora di vedere come questa
gestione politica della domanda si sia costruita ed articolata.
Il fenomeno del lavoratore 'traumatizzato' ha significato che i pericoli sul fronte dell’inflazione non
venivano più dal mondo del lavoro. Detto altrimenti, le autorità di politica economica si sono rese
progressivamente conto che la disoccupazione poteva ridursi senza provocare tensioni sul salario.
Detto altrimenti, la ‘curva di Phillips’, su cui si era incentrata la diatriba tra 'keynesiani' e 'monetaristi', si
è sostanzialmente appiattita16. Ciò rendeva nuovamente praticabile l'obiettivo di una ‘piena
occupazione’. Non però di una piena occupazione con salari sostenibili e lavori stabili. Nel nuovo
quadro si poteva trattare però solo della ‘piena sotto-occupazione’ di una forza-lavoro flessibile e
precaria, costituita sempre più anche da working poor con un salario non solo basso ma incapace di
garantire la sussistenza. La disoccupazione di fatto attraversava la stessa la forza-lavoro occupata con la
diffusione del lavoro a tempo parziale, informale e precario. Contratti atipici sempre più tipici: un
lavoro non 'decente' ma 'vulnerabile', secondo le definizioni dell'ILO. Una piena sotto-occupazione,
insomma, che può rovesciarsi all’improvviso nella disoccupazione di massa, come vediamo accadere ai
nostri giorni.
Lo strumento di politica economica per raggiungere l'obiettivo del pieno impiego non è stato più la
politica fiscale. Sicuramente non la politica di spesa pubblica in disavanzo: mentre si è talora impiegato
lo strumento delle riduzioni di imposte. Ad assumere centralità è stata invece la politica monetaria.
Non, anche qui, nel senso degli effetti del 'basso costo del denaro' sulla domanda privata di beni di
investimento. La catena causale è stata tutta diversa. La Banca Centrale ha regolato la liquidità nel
sistema nella quantità adeguata a far correre verso l’alto le quotazioni sui mercati azionari (o, più in
generale, sui mercati delle attività). Direttamente o indirettamente: dove indirettamente significa anche
che l'istituto di emissione ha dovuto farsi garante della stabilità del sistema bancario 'ombra' e della
qualità della intermediazione finanziaria. E' così che ad ogni accenno di crisi finanziaria nel 'centro' la
Banca centrale ha operato come prestatore 'di prima istanza' (per usare la felice espressione di De
Cecco17). Si fissava così un pavimento alla caduta dei prezzi delle attività, e questa aspettativa veniva
incorporata dai mercati finanziari (il c.d. Greenspan put, che aveva fatto i primi passi proprio con la
risposta alla crisi dell'ottobre 1987, e che si confermò e ingigantì durante tutto il mandato di
Greenspan). Il monetarismo quantitativista lascia la scena, per essere esplicitamente sostituito dal
controllo del tasso di interesse di base al quale viene fornita tutta la moneta domandata.
Come la curva di Phillips, anche la curva dell’offerta di moneta diviene ‘piatta’ agli occhi delle stesse
autorità di politica economica. Lungi dal riconoscere la verità interna dell' 'orizzontalismo' della teoria
endogena dell'offerta di moneta, la teoria corrente razionalizza questo cambiamento di regime facendo
riferimento alla 'regola di Taylor' che interviene politicamente sul tasso di interesse, con una
accettazione solo implicita della necessaria endogeneità dell'offerta di moneta via sistema bancario nelle
economie capitalistiche. L'interazione tra politica monetaria e mercato dei titoli (o delle attività)
contribuisce però alle variazioni della domanda di consumo per il tramite delle variazioni del valore
'virtuale' dei patrimoni, e spiega molto del cosidddetto 'nuovo consenso' che ha dominato la teoria
macroeconomica negli ultimissimi decenni. Come abbiamo anticipato, si può definire questa seconda
fase del neoliberismo come una sorta di paradossale keynesismo 'privatizzato' e 'finanziario'. La
domanda aggregata viene trascinata verso l'alto in forza delle bolle nei prezzi delle attività che la politica
monetaria produce o consente.
Per quanto riguarda il secondo punto - le precondizioni istituzionali e geopolitiche che hanno reso
possibile, e per una certa fase stabile, il mondo del 'nuovo' indebitamento privato - dobbiamo guardare
essenzialmente a Stati Uniti e Giappone negli anni Settanta e Ottanta. Già allora l'Europa, non solo
accettava, ma addirittura propugnava la stagnazione come mezzo per produrre la deflazione salariale18.
Stati Uniti e Giappone misero invece in atto misure per combattere la stagnazione19. Dopo il crollo a
Wall Street dell'ottobre 1987 il Giappone reflazionò, abbattendo i tassi di interesse e inondando di
liquidità tanto i propri mercati quanto la borsa americana. Ne seguì una bolla fondiaria e nelle attività
che le autorità di politica economica giapponese fecero scoppiare, aumentando nel 1992 i tassi di
interesse. L'effetto indesiderato fu di far collassare la propria economia perché crollavano gli
investimenti e i consumi indotti dalla bolla, mentre intanto schizzava verso l'alto il tasso di cambio (sino
all'estate del 1995). Si determinò per questo un crollo nei profitti sulle esportazioni, visto che la
concorrenza internazionale impediva un aumento dei prezzi sull'export. Dopo l'estate del 1995 - quando
gli Stati Uniti coordinarono la discesa dello yen rispetto al dollaro, col fine di far terminare le vendite
giapponesi di attività in dollari, e così liquidare le perdite dovute alla rivalutazione e alla compressione
nei margini di profitto sulle esportazioni - la politica economica interna giapponese divenne ultrakeynesiana.
I tassi di interesse praticamente si azzeranroo, e emersero enormi disavanzi dello Stato (sino
al 10% sul PIL) finanziati con nuova moneta: senza che ciò peraltro consentisse di uscire dalla
stagnazione.
Una delle conseguenze più significative delle politiche fiscali e monetarie del Giappone fu l'enorme
espansione del, e la nuova direzione presa dal, c.d. carry trade. Certi che in nessun modo Tokyo avrebbe
permesso all'economia di scivolare dalla stagnazione nella depressione, e che la valuta giapponese non si
sarebbe rivalutata, diveniva conveniente alle imprese finanziarie o ai grossi oligopoli l'indebitarsi in yen
a tassi vicini allo zero per investire in titoli governativi o valori azionari negli Stati Uniti o comunque nei
paesi con un più elevato tasso di rendimento (si tenga conto che la caduta del Nikkei ,dal picco di
38.000 al di sotto di 10.000, rendeva attraente praticamente qualsiasi mercato finanziario). Ciò non
nutriva solo gli squilibri sui mercati finanziari, sostenendo le rivalutazioni speculative delle attività, ma
sganciava anche l'andamento del tasso di cambio dallo stato delle partite correnti, congelando i
tradizionali meccanismi di riaggiustamento.
I due episodi cruciali nelle politiche economiche del Giappone alla fine degli anni Ottanta e alla metà
degli anni Novanta sostennero il processo di finanziarizzazione negli Stati Uniti, che era in atto dagli
anni Settanta. Come hanno spesso sottolineato Harry Magdoff e Paul Sweezy20, già dalla fine degli anni
Sessanta la tecnostruttura galbraithiana della grandi corporation divenne orientata finanziariamente,
soprattutto in termini della gerarchia manageriale. Negli Stati Uniti il processo di finanziarizzazione era
dunque già in atto per cause indipendenti. Vi avevano contribuito, a partire dagli anni Settanta, non solo
la finanziarizzazione delle stesse imprese 'produttive', ma anche l'incanalamento verso i mercati
finanziari del risparmio destinato alla pensione. L'esplosione finanziaria fu anche favorita, prima dalla
liberalizzazione dei movimenti di capitale, poi dallo smantellamento delle salvaguardie istituite dal New
Deal di Roosevelt e dalla compressione dei disavanzi pubblici. Si creava così spazio alla creazione di
debito privato. Sui mercati finanziari, periodo dopo periodo, si confermavano le aspettative positive
sulla capitalizzazione dei rendimenti futuri. E' questo oceano di liquidità, sostenuto dalla nuova politica
monetaria, che ha sorretto i fuochi di artificio delle quasi monete private e l'espansione pressoché senza
limiti del mercato dei derivati.
Una dinamica del genere si è ulteriormente approfondita, prima, con la crisi della new economy nel 2000,
poi con le guerre in Afghanistan e Iraq del 2001 e del 2003. Proprio ciò che dava fiato alla speculazione
pareva contemporaneamente attutire gli effetti delle eventuali crisi che si andavano verificando strada
facendo. Lo stesso succedersi di crisi confermava anzi la virtuosità del 'nuovo' capitalismo. Le crisi fuori
dal 'centro' (Messico nel 1994-5, Sud-Est e Est asiatico nel 1997-8, Brasile e Russia nel 1998, Argentina
nel 2001) facevano affluire ancora più denaro nei mercati finanziari dei paesi centrali (e in primo luogo
a Wall Street), rafforzandoli e dando l'impressione di una maggiore 'sicurezza' del mercato dei capitali
statunitense. Le crisi nel 'centro' venivano controllate con relativa facilità (come nel caso della Long
Term Capital Management nel 1998), grazie anche all'inondazione di liquidità. Questa tendenza venne
grandemente accelerata dal collasso delle dot.comnel 2000 e poi dagli eventi dell'11 settembre 2001. Per
dirla con De Cecco, la politica monetaria americana divenne un'appendice di una situazione
sostanzialmente bellica, il che implica una assenza di limiti nel provvedere l'economia con danaro a
basso costo.
Sino al 2007, dunque, la accresciuta resilienza del sistema, che aveva superato anche una sua prima e
significativa crisi generale (quella del 2000-2001), pareva avallare la convinzione che si fosse entrati
nell'era della Grande Moderazione. L'orizzonte pareva quello di una crescita rapida senza inflazione nei
prezzi delle merci, salvo i timori che venivano sul fronte delle materie prime, senza che ci fosse da
preoccuparsi dell'inflazione sui mercati delle attività. Anzi, tutto ciò sosteneva il circolo 'virtuoso' sino a
che i prezzi crescenti sugli immobili espandevano la ricchezza e, con essa, il presunto 'merito di credito'
di debitori che si trasformavano in consumatori su scala allargata.
Per quanto riguarda il terzo e ultimo punto che volevamo approfondire, è bene chiarire che il
consumatore indebitato non corrisponde affatto ad un quadro di benessere, anche se incorpora una
distorsione dei consumi verso l’opulentismo (minor consumo di beni essenziali, maggior consumo di
beni non essenziali). Alcuni lavori importanti avevano già chiarito che il consumatore americano
'sovraconsumava', e il lavoratore americano 'sovralavorava'21. Una testimonianza al Senato di Elizabeth
Warren del maggio 2007 - relativa, si badi, alle classi medie e non agli strati più poveri - chiariva senza
ombra di dubbio che la causa dell'indebitamento, e quindi della spesa in eccesso, stava nel reddito
insufficiente a coprire le spese per l'educazione e mediche in continuo aumento. Per mantenere il
medesimo reddito reale degli anni Settanta, nello stesso nucleo familiare, si deve oggi lavorare più
persone, più ore, con maggiore intensità22. Si è relativamente ridotta la quota del reddito monetario
spesa in beni 'fisici' di consumo, grazie anche alla importazioni di beni a buon mercato dalla Cina. Si
sono però gonfiate altre voci del consumo come l'istruzione, la sanità, l'assicurazione etc.: beni pubblici
sempre più privatizzati e luogo di ricerca di rendite finanziarie.
L’indebitamento è stato per molti, quando non una necessità, l’unica opportunità di difendere il proprio
tenore di vita a fronte di salari reali individuali stazionari se non declinanti. La sussunzione reale del
lavoro alla finanza e al debito corrisponde di fatto ad una accresciuta dipendenza delle condizioni di
riproduzione della forza-lavoro dal capitale in forza di quella che è stata definita una ondata di nuove
enclosures (abbiamo qui una sorta di nuova accumulazione originaria23, o anche una accumulation by
dispossession24).
Tiriamo le fila. Il ‘nuovo’ capitalismo ha avuto il volto trino della finanziarizzazione del capitale, della
frantumazione del lavoro dentro la nuova catena del lavoro transnazionale, della sempre più intensa
concentrazione della politica economica nella politica monetaria. I tre aspetti si sono rinforzati l'uno
con l'altro. Si è così prodotto, almeno per alcuni anni, uno sviluppo capitalistico dinamico, ma
massimamente inegualitario, imperniato sul consumo a debito. Se il consumatore indebitato è stato il
traino della crescita negli Stati Uniti, questi ultimi sono stati a loro volta gli acquirenti finali dei modelli
neomercantilisti: non solo Giappone e Germania (e parte significativa dell’Europa), ma anche e
soprattutto Cina. La coppia risparmiatore maniacale/consumatore indebitato che spiega la crescita nel
'nuovo' capitalismo è stata però al fondo non soltanto fortemente instabile ma anche, in senso proprio,
‘insostenibile’. In fondo, la stessa new economy, fondata sulla interazione tra dinamiche borsistiche e
politica monetaria, era andata in crisi quasi subito, già nei primi mesi del 200025. A quel punto si era
profilato il rischio concreto che il risparmiatore dalla fase 'maniacale' transitasse nella fase ‘depressiva’:
in quella situazione, cioè, in cui le ‘famiglie’ devono ridurre la spesa rispetto al reddito disponibile per
rientrare dal debito privato. Si fece allora di tutto perché l’eventualità non si concretizzasse.
Gli sforzi ebbero dapprima successo, grazie al keynesismo di guerra di Bush jr e all’inondazione di
liquidità a basso tasso di interesse di Greenspan, a cui abbiamo accennato in precedenza, ma anche
grazie alla modificazione dei rapporti con l’Asia. Dalla fine degli anni Novanta, lungi dall’importare
capitali, i paesi asiatici che esportavano merci negli Stati Uniti vi esportavano anche i capitali,
rifinanziandone i disavanzi. Vista la dipendenza dal grande mercato americano, non avevano in realtà
altra scelta. E' quella realtà che è stata ideologicamente rovesciata di 180 gradi dalla tesi che ha imputato
gli squilibri globali al c.d. saving glut26.
risparmiatore
Il policy mix inizio millennio vede il war Keynesianism in una forma riveduta e corretta di asset bubble driven
Keynesianism27. La bolla azionaria venne rimpiazzata da un’altra bolla, quella immobiliare, riproducendo
in altra forma un meccanismo molto simile a quello della new economy. Mentre la bolla azionaria si nutriva
anche di venture capital che finanziava un investimento reale in impianti, l'ascesa del prezzo delle case si
scarica quasi integralmente in una impennata dell'indebitamento delle famiglie via mutui e via
collaterale. Dopo la metà del 2003 la ripresa prese velocità, con il ritorno in piena forza del
consumatore indebitato, che ora poteva trasformare la stessa ricontrattazione del mutuo in fonte di
contante. L'indebitamento privato negli Stati Uniti era ora dovuto quasi integralmente alle famiglie,
mentre le imprese non finanziarie divenivano creditrici nette. Una fase di 'profitti senza investimenti':
l’investimento privato ha in effetti ripreso a crescere significativamente solo al tramonto della fase di
crescita, trainato dai consumi.
E' a questo proposito - quello della valutazione del ruolo dell'investimento delle imprese non finanziarie
nel 'nuovo' capitalismo - necessaria una qualche cautela, in verità. In certe fasi e in vari paesi,
soprattutto nella seconda metà degli anni Novanta, l'investimento è cresciuto. In generale, e soprattutto
in alcuni settori del manifatturiero, l'investimento reale ha mostrato una dinamica nettamente più
elevata dell'investimento nominale. Si può avanzare questa ipotesi di lavoro: che l'andamento dei prezzi
relativi sia stato tale da rendere sempre meno costosa l'acquisizione di capitale. Il che significa che la
ristrutturazione delle imprese ha effettivamente aumentato la forza produttiva del lavoro. Questo
momento 'schumpeteriano' del capitale - che è stato legato anche alle innovazioni nel settore delle
comunicazioni e della informazione, oltre che nel trasporto - è stato in larga misura la conseguenza di
un precedente traino delle politiche pubbliche (basti pensare al caso degli Stati Uniti, e al ruolo che
hanno lì avuto le politiche militari e della formazione superiore). La aumentata forza produttiva del
lavoro, in un contesto in cui la produzione non cresceva di pari passo, dava luogo in quei medesimi
settori a ridondanza di lavoratori, e alla loro migrazione altrove, in settori dove la stessa precarietà
deprimeva la produttività. Il punto da cogliere è, comunque, che proprio la natura dinamica del capitale
nella produzione, accoppiata alla svalorizzazione degli elementi del capitale costante, ha fatto sì che il
circuito monetario non si potesse chiudere se non grazie ad una domanda finale crescente, che a sua
volta non poteva venire dagli investimenti privati (come grandezza aggregata monetaria), che ormai
veniva sempre meno dalla spesa pubblica (per le politiche di risanamento del bilancio pubblico), e che
certo non poteva essere sostenuta da un consumo da redditi stazionari se non calanti (per l'attacco al
lavoro e al salario). Di qui il ruolo cruciale del nuovo consumo 'autonomo' e 'a debito' spinto dalle bolle
e dalla politica monetaria.
Anche la seconda bolla, quella immobiliare, ha rischiato di venire alla conclusione molto presto. A
partire dal 2004 la Federal Reserve faceva salire progressivamente i tassi di interesse, e dal 2005-06 i
prezzi delle case iniziarono a cedere. Si misurano qui le contraddizioni della nuova politica monetaria.
L'inflazione era considerata negativa se investiva il prezzo delle merci, non se faceva salire i prezzi delle
attività. La fragilità delle bolle speculative che si succedono indica che la Banca Centrale va perdendo il
controllo sulla propria politica monetaria. Lo stesso criterio dell' inflation targetingdiviene privo di
significato. Di fatto, il controllo dell'inflazione dei salari e dei prezzi delle merci era divenuto
strumentale ad una spinta all'inflazione dei prezzi delle attività finanziarie. Ma nella misura in cui la
capital asset inflationstimolava una crescita trainata dai consumi, e questa a sua volta trascinava la
produzione dei paesi emergenti, la pressione inflazionistica sui prezzi dei beni e servizi tendeva a
riapparire: non in forza di un aumento dei salari ma per una crescita del prezzo delle materie prime, o
per la possibilità per le imprese di gonfiare il grado di monopolio.
La ragione è presto detta. La crescita trainata dalle bolle speculative alle spese dell'investimento ha
stimolato le importazioni dalle economie emergenti, in primisla Cina, la quale invece proprio
sull'investimento ha costruito la sua strategia di accumulazione. Un processo simile ha caratterizzato
l'India, anche se il saggio di crescita di quest'ultima non si è basato sulle esportazioni nette. Entrambi i
grandi paesi asiatici sono grandi acquirenti di materie prime. L'aspettativa che la loro crescita proseguirà
in futuro ha mantenuto elevata la pressione sui prezzi di queste ultime, e ha favorito una loro rincorsa
spinta dalla domanda, certo, ma anche da un movente speculativo. Percontenere queste spinte
all'inflazione dei prezzi delle merci la Federal Reserve, dopo una fase di attesa (che gli viene oggi
rimproverata), non potendo impedire l'aumento delle materie prime che faceva rialzare i prezzi sul
mercato dei beni, ha deciso di intervenire con un ulteriore giro di vite nella deflazione salariale, a cui era
funzionale il classico strumento dell'aumento del tasso di interesse, allo scopo di attutire gli effetti
interni dell'aumento delle commodities. Ma questo rischiava di andare ad inibire il processo 'virtuoso' della capital asset inflation.
Un aumento del tasso di interesse tende a rendere fragile il processo di indebitamento crescente su cui
si basa l'inflazione dei prezzi delle attività-capitale, tanto più se il clima di fiducia ha indotto a finanziare
a breve le posizioni a lunga28. Ci si è cullati per qualche tempo nell'illusione che non fosse così. I
prolungati boom azionario e immobiliare erano stati trainati dai guadagni in conto capitale. Di qui la
speranza degli operatori che la crescita del costo del finanziamento potesse essere compensata
dall'ulteriore apprezzamento speculativo dei valori delle attività. L’esplosione dei mutui subprime, e la
conseguente inclusione delle famiglie povere alla finanza, è stato un tentativo per mantenere in vita la
bolla immobiliare. Nel frattempo, le stesse autorità di politica economica continuavano a nutrire fiducia
in un doppio miracolo. Il primo era che i nuovi strumenti finanziari sempre più complessi
(‘cartolarizzazione’, ‘derivati’, ‘impacchettamenti’ etc.) riducessero il rischio, mentre si limitavano a
diffonderlo e a renderlo più opaco. Il secondo era che grazie alla magia della finanza tossica fosse
possibile indirizzare il risparmio dei paesi emergenti verso i paesi avanzati caratterizzati da disavanzi
sistematici delle loro partite correnti.
Il doppio miracolo era in realtà un doppio imbroglio. Quando la crisi dell’estate 2007 è scoppiata essa
non soltanto ha prodotto la transizione del risparmiatore dalla fase 'maniacale' a quella 'depressiva'. Essa
ha anche determinato il blocco delle relazioni di debito-credito tra operatori sui mercati bancari e
finanziari, e ha mostrato come gli squilibri globali non solo permanevano ma trasmettevano
velocemente la crisi da un angolo all'altro del pianeta. La fantasia dello ‘sganciamento’ del resto del
mondo dagli Stati Uniti si è così rivelata una illusione. I grandi esportatori, tra cui la stessa Cina, non
potevano non risentire del crollo del consumatore indebitato negli Usa. D’altra parte, per paesi come la
Cina il drastico rallentamento della crescita è stato l’equivalente di un ‘atterraggio duro’: tra la fine del
2008 e il 2009 più di 20 milioni di lavoratori hanno perso il lavoro e sono dovuti tornare nelle
campagne. Altri paesi emergenti, come molti dell’America Latina, sono andati per qualche tempo in
crisi quando i capitali li hanno abbandonati, alla caccia della ‘sicurezza’. Così, di rimbalzo, l’Europa,
privata dei mercati di sbocco esterni per il proprio neomercantilismo, non ha potuto che andare a picco
assieme agli Stati Uniti.
Gli Stati Uniti hanno in effetti funzionato come il mercato dove veniva consolidata la posizione
neomercatilista dell'Europa. Tre decadi di stagnazione europea, con una crescita relativamente bassa e
alta disoccupazione permanente, sono stati mitigati solo dalle esportazioni nette di alcuni paesi dell'area
(Germania, Scandinavia, Austria e Italia, in minor misura Francia) verso il mercato americano. Le
esportazioni nette europee si sono giovate delle bolle in Russia e della rivalutazione reale delle valute
brasiliana e argentina. Invece l'Europa ha un disavanzo esterno crescente con l'Asia. La Russia e
l'America Latina sono collassate nel 1998-2000, dopo di che sono tornate al loro ruolo classico di
esportatori di materie prime, grazie al quale anch'esse godono di un surplusnei confronti dell'Europa.
E'per questo che gli Stati Uniti sono stati la più grande, ricca, permanente e stabile area di realizzazione
netta per l'Europa, e in particolare per l'eurozona. Questo fatto, assieme alla stagnazione dell'area,
spiega non solo l'impatto, sia pure ritardato, della crisi americana sul continente europeo, ma spiega
anche perché i surplus finanziari europei ottenuti grazie alle esportazioni nette sono stati
massicciamente reinvestiti nella carta 'tossica' dei derivati e delle speculazione, in assenza di una più
vivace dinamica degli investimenti.
La trasmissione della crisi è avvenuta non solo via caduta delle esportazioni (che ha colpito duramente
alcuni paesi manifatturieri, tra cui l'Italia: il secondo esportatore di manufatti dopo la Germania). Essa è
avvenuta anche per una via direttamente finanziaria (l'Europa è stata anzi forse colpita per prima a metà
2007). A questo si deve aggiungere lo sgonfiamento della bolla immobiliare, particolarmente
significativa in alcuni paesi, e dunque anche della domanda che essi provvedevano ad altri paesi dell'area
(p. es., Spagna, Irlanda e Inghilterra). I tre canali di trasmissione che abbiamo individuato, assieme allo
sfaldarsi di quella situazione per cui gli squilibri auto-alimentantisi finivano con lo stimolare una
dinamica di sviluppo e/o con l'inibire i meccanismi di riaggiustamento, danno conto della violenza della
crisi che colpisce l'Europa.
Queste medesime considerazioni mettono pure in evidenza come avessero torto quei commentatori che
alla metà del 2007 prevedevano il verificarsi, in Italia, di un nuovo 1992, sulla base di squilibri nelle
partite correnti che si sarebbero presto tramutati in attacco alla finanza pubblica, e che pure oggi
rivendicano di aver visto giusto. Come osservammo allora, non era pensabile una crisi di un paese
significativo all'interno dell'eurozona senza che saltasse la moneta unica, e senza che i meccanismi di
sterilizzazione degli squilibri fossero infranti. Ma, come anche dicemmo allora, ciò non significava
affatto l'irrilevanza degli squilibri delle partite correnti, e tanto meno che una crisi finanziaria e reale, e
anche della finanza pubblica, fossero fuori questione. Semmai, la crisi avrebbe investito l'intera Europa,
come abbiamo già detto, "di rimbalzo", per effetto dello tsunami prodotto dalla crisi inevitabile di quel
'nuovo' capitalismo che abbiamo qui analizzato. A quel punto, non solo altri paesi prima di noi
sarebbero stati sotto attacco (bastava comparare lo stato dello Spagna e quello dell'Italia), ma
soprattutto ad essere a rischio sarebbe a quel punto stata l'intera area e la medesima moneta unica. E'
quello che sta avvenendo29.
Il modello di ‘nuovo’ capitalismo che si è descritto sinora è stato un modello di forte attivismo30. Lo
Stato, la politica, non si sono mai ritirati. Il neoliberismo è stato certo liberista contro il lavoro, contro il
welfare, a favore della finanza. Non è stato affatto liberista su altri terreni. Ha tutelato i monopoli; ed ha
praticato alla grande i disavanzi del bilancio pubblico, quando ciò è parso conveniente. Ha gestito la
ridefinizione dei diritti di proprietà, e la privatizzazione dei beni comuni. Su queste questioni,
nell’ultimo decennio, e a parte voci isolate, l’unica alternativa in campo è stata purtroppo costituita da
quello che altrove abbiamo suggerito di chiamare il ‘social-liberismo’, che corrisponde a ciò che nei
paesi anglosassoni viene definito 'terza via'. Liberalizzazioni accoppiate a ri-regolamentazioni terrebbero
sotto controllo le imperfezioni della concorrenza, mentre la compressione dei disavanzi pubblici
libererebbe risorse per una crescita temperata dalla redistribuzione. Lo stesso social-liberismo ha finito
con il pensare di poter cavalcare il capitalismo dei fondi pensione e le liberalizzazioni finanziarie.
Abbiamo vissuto - almeno in Europa, e certo in Italia - un 'ciclo economico-politico’ di alternanza di
governi neoliberisti e social-liberisti, che può essere descritto in poche battute. La destra va al governo.
Pratica in pieno la politica ‘neoliberista’, trovandosi contro ‘moderati’ e ‘radicali’. Intanto spende e
spande, creando voragini nella finanza pubblica: e nel caso italiano, accelerando il declino del paese. Ad
un certo punto, viene sostituito dal centro-sinistra che si allea con quella parte della sinistra che va al
governo. Ma, si sostiene, purtroppo non vi è più niente da redistribuire, la priorità è risanare il debito
pubblico. Se si vuole praticare un po’ di redistribuzione, e favorire lo sviluppo, la crescita delle imposte
deve essere addirittura maggiore. La politica fiscale è ancora più dura di quella richiesta dal rispetto dei
parametri di Maastricht. Si determina a questo punto un progressivo sfaldamento. Ogni dissenso
interno, ogni conflitto sindacale viene visto dai ‘moderati’ come un sabotaggio alle politiche di sviluppo,
mentre la sinistra della sinistra grida al tradimento contro la sinistra al governo. Magari ci si era illusi che
il ‘movimento’ avrebbe spostato la coalizione a sinistra. Di sicuro, la sinistra al governo si limita ad
essere passivamente reattiva. La frantumazione che ne consegue non aiuta a modificare lo stato delle
cose. Si estende un conflitto e un disagio sociale sempre più forte, ma a destra. Il centro-sinistra
collassa. E il ciclo riparte, in una spirale al ribasso.
Viste queste premesse, ci si sarebbe potuti aspettare un social-liberismo più vivace ed aggressivo di
fronte al collasso del 'nuovo' capitalismo, ma in realtà il social-liberismo è stato spiazzato dalla crisi ben
più del neoliberismo: in fondo, credeva alla stabilità della nuova configurazione capitalistica, di cui si
trattava di temperare gli eccessi,più del suo antagonista. Per questo il social-liberismo è stato spiazzato
dalla crisi ben più del neoliberismo. L'idea che la stabilità e la sostenibilità del ‘nuovo’ capitalismo
potessero essere semplicisticamente delegate ad una maggiore e aggiornata ‘regolazione’ dei mercati non
faceva i conti con le contraddizioni macroeconomiche e sociali che abbiamo sottolineato a più riprese
in questo scritto. Lo stesso si deve dire di quegli approcci critici che si sono in sostanza limitati ad
avanzare richieste redistributive (sul piano salariale o di un reddito sganciato dal lavoro) o a favore di
una politica fiscale più espansiva (p. es., la stabilizzazione del debito pubblico). Come se il meccanismo
di produzione del plusvalore fosse nella sostanza stabile, o non risolvesse a suo modo il problema della
realizzazione. Gli uni si illudevano sulla 'dinamicità' della nuova configurazione capitalistica, gli altri
avevano una lettura 'stagnazionistica' cieca alle novità sul terreno della finanza e del lavoro.
E' vero che il neoliberismo è stato sconfitto nell’ideologia da laisser faireche ha diffuso a piene mani nei
decenni passati. E' dunque vero che siamo in presenza di una crisi di legittimazione del ‘liberismo’. Ma,
come abbiamo mostrato, il neoliberismo reale tutto è stato meno che liberista. L'ideologia proclamata
non ha affatto corrisposto alle politiche economiche praticate prima della crisi. E ancor meno a quelle
messe in campo durante la crisi.
Il fatto è che i neoliberisti hanno compreso - in ritardo, certo: ma prima di quasi tutti gli altri, e certo
prima dei social-liberisti - che lo sviluppo ‘di bolla in bolla’ si stava tramutando in una crisi sistemica
dispiegata. Hanno saputo a questo punto innovare nella loro azione anticiclica. Sono andati ben oltre la
Banca Centrale come prestatore di ultima istanza sul terreno della politica monetaria: sino ad azzerare i
tassi di interessi a breve, a prefigurare la regolazione degli stessi tassi di interesse a lunga, a procedere
all’acquisto senza limiti di titoli di Stato. Si è passati dai salvataggi al finanziamento diretto delle banche
di investimento; dall’acquisto di titoli tossici alla ricapitalizzazione garantita direttamente o
indirettamente dall'operatore pubblico; dal fornire una assicurazione di ultima istanza e pressoché
illimitata alla finanza al concentrare pressoché integralmente nella Banca Centrale il canale del credito.
Non ci si è fermati lì. Di fronte all’urgenza della crisi, si è abbandonata ogni rigidità, sino a fare spazio al
ritorno dell’intervento diretto dello Stato.
Siamo, di nuovo, tutti ‘keynesiani’, almeno in un certo senso. Non ci riferiamo solo alla rivalutazione
della spesa statale in disavanzo e alla almeno temporanea indifferenza rispetto alla esplosione potenziale
del debito pubblico. Ci riferiamo anche al fatto che, a fronte del rischio di un collasso generale, si è per
lo meno iniziato a parlare di una sorta di vera e propria programmazione di un nuovo grande ciclo di
investimenti. E' vero, certo, che la moneta profusa a piene mani alla finanza ha fatto esplodere i
disavanzi pubblici, e che, passata la fase acuta della crisi, ciò ha spinto a comprimere la quota dei
disavanzi pubblici destinata all'economia reale e al lavoro: come se il maggior debito pubblico non fosse
dovuto all'eccesso di debito privato. Come è pure vero che subito dopo si è passati a rilanciare ovunque
la linea di una compressione del welfare e della spesa sociale, aggravando l'attacco al settore pubblico, e
che nel privato si procede più di prima con riduzione dei salari, mano libera alle imprese su tempo e
organizzazione del lavoro, ulteriore precarizzazione del mercato del lavoro. Resta vero però che per
almeno un biennio, e ancora se ne sente l'eco, più la crisi si andava aggravando, più l’armamentario del
vecchio New Deal veniva saccheggiato senza troppi problemi, e non dai social-liberisti ma dai
neoliberisti.
La lezione del Grande Crollo, almeno in questo senso, è stata appresa, e forse addirittura superata. La
Federal Reserveormai agisce non solo come prestatore di ultima o di prima istanza, ma anche come market
makerdi emergenza e prestatore di unica istanza. Intanto, il sistema bancario e finanziario, salvato e
assicurato a spese della collettività, sfrutta i bassi tassi di interesse per ottenere facili guadagni (e
ricapitalizzarsi), senza finanziare davvero la produzione reale. Una economia a due velocità, con
l'economia reale praticamente ferma, e la cui presunta ripresa, dove c'è, è sinora dipesa più dalla tenda
ad ossigeno dell'intervento pubblico e dalla ricostituzione delle scorte che da una autonoma vitalità.
In un articolo rimasto giustamente famoso, pubblicato agli inizi degli anni Settanta, Joan Robinson
aveva sostenuto che la teoria economica del Novecento aveva attraversato due crisi. Le ragioni della
prima, rimandavano al Grande Crollo degli anni Trenta. L'argomento di Keynes contro la vecchia teoria
ortodossa era fondato sulla tesi che la situazione normale di una economia capitalistica di libero
mercato non fosse il pieno impiego ma un equilibrio con disoccupazione di lavoratori e macchine per
insufficienza di domanda: effettiva situazione che non può che incancrenirsi se le imprese hanno
successo nell'ottenere riduzioni di salario. La seconda crisi scoppiò invece, sostiene la Robinson, non
esclusivamente sull'inconsistenza logica della teoria della distribuzione neoclassica. C’era dell’altro e di
ben più rilevante, perché la crisi nella distribuzione degli anni Sessanta e Settanta esplodeva
essenzialmente per l’inaccettabilità della composizione della produzione.
"La prima crisi – scriveva l’economista inglese – era nata dal crollo di una teoria che non era in grado di
specificare il livello dell'occupazione. La seconda nasce da una teoria che non sa spiegare il contenuto
dell'occupazione […] ora che siamo tutti d'accordo che la spesa pubblica può mantenere l'occupazione,
dobbiamo discutere sulla destinazione della spesa". Insomma, continuava sarcastica: "tutto il guaio
nasce da una semplice distrazione: quando Keynes è entrato nell'ortodossia ci si è dimenticati di
cambiare quesito, e discutere a che serve l'occupazione" (p. 111). Nel frattempo, "sono stati i cosiddetti
'keynesiani' a convincere uno dopo l'altro i presidenti degli Stati Uniti che non c'è niente di male in un
disavanzo del bilancio, e a permettere che il complesso militare-industriale ne traesse vantaggio" (pp.
108-109). Era chiaro in quegli anni, e in fondo nel discorso stesso della Robinson, che la rimessa in
discussione della distribuzione reddito e della composizione della produzione aveva a che vedere con la
rinnovata forza del mondo del lavoro, conseguenza anche delle politiche di pieno impiego. Il
capitalismo del Novecento stava in effetti vivendo una seconda crisi sistemica, la crisi del 'fordismo'32.
Gli inizi del nuovo secolo hanno visto riemergere, a partire dalla crisi dei subprime, lo spettro del Grande
Crollo. La crisi sistemica si è per ora mutata in una Grande Recessione ma promette di essere uno
spartiacque altrettanto significativo della crisi degli anni Trenta e della crisi degli anni Settanta, e di
corrispondere ad una vera e propria 'terza crisi' della teoria economica - la prima della prima decade del
nuovo millennio. Le teorie economiche a disposizione non paiono infatti in grado di dare conto
adeguato di come finanziarizzazione e precarizzazione si siano rinforzate l'un l'altra: prima
destrutturando il mondo del lavoro, poi dando vita a un 'nuovo' capitalismo e ad una 'nuova' politica
economica in grado di battere la tendenza stagnazionistica. In questo nuovo mondo, la nozione stessa
di pieno impiego è stata ridefinita in modi tali da rendere letteralmente indicibile la messa in questione
del 'cosa' e del 'come' produrre (ma sempre più anche del 'quanto'). Dentro la nuova morfologia
capitalistica è però risuscitata in altra forma l'instabilità finanziaria, degenerando al punto che i nuovi
processi si sono alla fine rivelati insostenibili. La comprensione di questa realtà sfugge non soltanto agli
approcci del mainstream anche alla variegata galassia degli approcci eterodossi33. Né la risposta alla crisi
può consistere nel far risorgere l'armamentario classico del keynesismo.
Per quel che riguarda il mainstream, un buon esempio della difficoltà di comprensione del capitalismo
contemporaneo viene dai contributi recenti di Paul Krugman34. Le sue proposte di politica economica
per rispondere alla crisi possono apparire alquanto radicali, e si sono in effetti spinte sino a sostenere un
massiccio intervento pubblico in disavanzo, e persino una nazionalizzazione del sistema bancario per
un arco esteso di tempo (se non vi piace il termine nazionalizzazione, ha scritto Krugman, chiamatela
pure pre-privatizzazione). La Grande Recessione continua però ad essere per Krugman pur sempre una
'eccezione'. La sua griglia teorica si colloca tra una ripresa qualificata della vecchia Sintesi Neoclassica e
il moderno imperfezionismo. In questo modo resta del tutto fuori dal suo orizzonte l'intelligenza delle
novità del capitalismo contemporaneo (come l'appiattimento della curva di Phillips, o l'orizzontalismo
dell'offerta di moneta per il tramite della regola di Taylor, o la capital asset inflation) come preliminari al
nuovo ruolo attivo della politica monetaria dentro lo stesso neoliberismo. Per questo Krugman non
comprende le fondamenta teoriche del 'nuovo consenso' e neppure il 'pragmatismo' conseguente che ha
retto la politica economica. E' più interessante il recente volume di Joseph Stiglitz35 che comprende
come si sia costituito negli ultimi decenni un 'compromesso', che va dal real business cycle approach
sino a quella parte dell'approccio New Keynesians che sottolinea le imperfezioni sul mercato dei beni e
del lavoro piuttosto che nell'analisi della banca e della finanza. Epperò anche Stiglitz non presenta una
analisi adeguata dell'ascesa e del declino del 'nuovo' capitalismo, non ne individua le contraddizioni
interne e l'insostenibilità, il nesso intimo tra nuova forma della finanziarizzazione e mutamento nelle
condizioni della classe lavoratrice. Tanto meno va più a fondo nel proporre una alternativa di politica
economica.
Se ci volgiamo alle interpretazioni alternative, vediamo che esse resuscitano gli aspetti forse più obsoleti
del keynesismo, del ricardismo e del marxismo. La lettura probabilmente più diffusa della crisi la
riconduce ad una versione del sottoconsumismo36. Si tratterebbe, in fondo, dell'inevitabile esito di un
'mondo di bassi salari'. L'accento è qui sugli effetti sulla domanda del deterioramento della distribuzione
del reddito a danno del mondo del lavoro in corso da alcuni decenni. In ambito marxista ortodosso si
resuscita la caduta tendenziale del saggio del profitto. Nel primo caso, si riconduce la crisi di oggi agli
anni Ottanta, nel secondo (almeno) agli anni Sessanta. Tutto ciò non può spiegare in un colpo solo la
bassa crescita dopo la controrivoluzione neoconservatrice di Thatcher e Reagan, il 'nuovo' capitalismo
dei Novanta, il ritorno della instabilità finanziaria nel centro capitalistico dell' ultimo decennio, la crisi
sistemica di oggi. E certo non tiene conto di quello che è stato nei fatti il neoliberismo. Occorre invece
mobilitare una analisi che parta non dal sottoconsumo e dalla distribuzione ma dalla finanza e dalla
produzione (non solo nella loro contraddittorietà ma nella reciproca funzionalità. Una interpretazione
unitaria che sia in grado di dar conto tanto della ascesa quanto del crollo del 'nuovo' capitalismo.
Alcuni spunti possono venire da due eretici del marxismo e del keynesismo come Sweezy e come
Minsky. Per Sweezy, in particolare nei suoi scritti con Magdoff degli anni Settanta e Ottanta sulla
Monthly Review, il capitalismo americano era caratterizzato dalla stagnazione e dall'indebitamento,
quest'ultimo era soprattutto indebitamento privato, e ciò tendeva a rendere le banche sempre più
fragili37. La catena causale va dal capitalismo monopolistico all'indebitamento. Il capitalismo degli
oligopoli genera internamente una tendenza alla capacità inutilizzata, ed è proprio lo scarto tra domanda
effettiva e potenziale produttivo a spingere il settore privato a sostenersi grazie a un debito crescente.
L'espansione dei prestiti non era dovuta ad una espansione dell'economia ma alla riduzione dei tassi di
crescita. Già nella seconda metà degli anni Settanta i due autori osservano come quei prestiti stessero
divenendo uno strumento per fare denaro a mezzo di denaro. Si scommetteva sulla capacità futura di
recuperare il capitale anticipato, anche se il finanziamento era più a breve termine rispetto
all'investimento. Un altro fenomeno che Magdoff e Sweezy individuavano tempestivamente già
all'inizio degli anni Ottanta era la crescita del rapporto tra indebitamento dei consumatori e reddito
disponibile.
Per i due marxisti americani la tendenza sistematica alla stagnazione caratterizza l'economia statunitense
dalla Grande Crisi in poi, ma è sempre stata controbattuta da delle controtendenze. La principale, dopo
il New Deal, era stata costituita dal keynesismo militare e di guerra, che aveva esteso i suoi effetti non
soltanto al Giappone e all'Est asiatico ma anche all'Europa attraverso la mediazione del piano Marshall
e della NATO. In effetti, la NATO è stata descritta dall'ultimo Charles Kindleberger come, di fatto, una
prosecuzione permanente del Piano Marshall. E per quel che riguarda l'Est Asiatico, la crescita del
Giappone o il decollo capitalistico della Corea del Sud o di Taiwan sarebbero incomprensibili senza la
spesa pubblica mobilitata da Washington, e concentrata sull'Asia, grazie a ben due guerre, quella di
Corea e quella del Vietrnm. E' convinzione dei due autori che dagli anni Sessanta e Settanta in poi la
controtendenza principale (e meno compresa dall'analisi economica) stesse però divenendo un'altra,
ovvero proprio l'estensione della struttura debitoria e finanziaria, con una dinamica esplosiva di crescita
di gran lunga superiore a quella dell'economia reale. Forse anche per questo, Magdoff e Sweezy, pur
critici dell'orientamento keynesiano, hanno mostrato da subito interesse alla riflessione di Hyman
Minsky.
Per Minsky il capitalismo tende a far degenerare la stabilità in instabilità38. Quando la prosperità va
avanti da un po’ di tempo, le posizioni degli operatori da coperte si fanno più coraggiose, e divengono
speculative. Al rischio economico si affianca così il rischio finanziario, che può concretizzarsi
nell’aumento dei tassi di interesse o nella riduzione dei prezzi delle attività. Quando il boom degenera in
bolla e l’euforia diviene irrazionale, si intrattengono posizioni ultraspeculative e ci si indebita nella
speranza di guadagni eccezionali (aumento del corso delle azioni, rivalutazioni degli immobili, ecc.) che
soli possono giustificare l’investimento. Quando la crisi scoppia l’alternativa è secca: o deflazione da
debiti, che dà vita ad un Grande Crollo come nel 1929-1933, o intervento della Banca Centrale come
prestatore di ultima istanza, affiancato da un intervento di spesa pubblica in disavanzo che sostiene i
profitti monetari.
Nell'impostazione originale di Minsky le variabili chiave sono la domanda di investimenti privati in
capitale fisso e il suo finanziamento da parte di banche e intermediari finanziari. Qui iniziano i
problemi39. Se dal punto di vista della singola impresa l’investimento può richiedere un indebitamento
crescente, l’investimento aggregato darà luogo a profitti corrispondenti. Non è affatto detto, dunque,
che il leverage del settore delle imprese non finanziarie aumenti. È questo un punto che discende
dall’insegnamento di Kalecki, autore che lo stesso Minsky include nelle sue riflessioni nel corso degli
anni Settanta, quando il suo schema di ragionamento è ormai definito. Si potrebbe essere tentati di
replicare rilevando come l'indebitamento sia effettivamento esploso con la finanziarizazione degli ultimi
decenni. Abbiamo però osservato che questo indebitamento è stato soprattutto delle famiglie e delle
imprese finanziarie, non delle imprese 'produttive'. E' questo un punto su cui Sweezy e Magdoff sono
stati probabilmente più preveggenti di Minsky, anche se le riflessioni di quest'ultimo sul money manager
capitalism e sulla securitisation sono tasselli importanti della comprensione della nuova realtà40. A ciò si
deve aggiungere che la stessa capital asset inflation tipica del capitalismo dei fondi è stata per lungo tempo
un elemento stabilizzante della posizione debitoria delle imprese non finanziarie. Lo stesso 'nuovo'
capitalismo ha visto mutare radicalmente la natura della banca, svanire la tendenza alla stagflazione per
la pressione dei salari, emergere un ruolo attivo della politica monetaria nella gestione della domanda.
Siamo in un mondo che non comprenderemmo senza Minsky, ma che è ormai oltre Minsky41. Così
come l'intreccio tra indebitamento e politica economica, tra finanza e valorizzazione del capitale, va
oltre l'approccio originario di Magdoff e Sweezy.
La necessità di una diversa politica economica
L'economia eterodossa mostra i suoi limiti non solo sul terreno del rapporto tra moneta e produzione
(dove la stessa teoria del circuito monetario sembra vivere una fase di stasi, a guardare almeno dagli
scritti dei suoi più giovani esponenti), ma anche su quello della costruzione, ideale e pratica, di una
diversa politica economica. E' qui che la riflessione di Minsky si rivela ancora attuale in un aspetto che
non è molto ripreso nella recente ripresa di interesse sui suoi scritti. Ci riferiamo alla necessità di un
intervento pubblico che vada ben oltre il keynesismo della spesa pubblica in disavanzo o la Banca
Centrale come prestatore di ultima istanza42. Se queste misure sono opportune come risposta immediata
alla crisi, esse sono del tutto inadeguate a definire un modello di economia più equa e meno instabile.
Era questa l'opinione di Minsky già al tempo della seconda crisi della teoria economica, quando la
stagflazione era per lui il costo delle misure prese per evitare la deflazione da debiti. E' questa una
conclusione da confermare al tempo della terza crisi della teoria economica.
Il terreno della politica economica, lo abbiamo rilevato più volte, è un terreno massimamente ambiguo.
Per chi voglia fare critica della teoria economica e critica pratica del capitalismo, è il terreno del nemico,
perché non può non essere anche il luogo della gestione del capitale. Si può accettare la sfida nella
misura in cui si producono squilibri che rafforzino il lavoro contro il capitale. Il che significa anche che
un discorso sulla politica economica non può che derivare da due preliminari livelli dell’analisi: da un
lato, una disanima credibile del capitalismo che si ha di fronte; dall’altro lato, l’individuazione corretta
delle linee di politica economica con cui ci si deve scontrare. E' quello che abbiamo provato a fare nelle
pagine che precedono. Sui due livelli, si deve dire, la sinistra, come gli economisti che vi hanno gravitato
attorno, è in grave ritardo. Ha proposto più letture alternative, ma tutte povere, del capitale sino
all'estate del 2007; ha poi, dopo l'estate del 2007, letto la crisi attraverso le lenti del sottoconsumismo o
della caduta tendenziale del saggio di profitto. Non ha insomma saputo vedere i caratteri distintivi del
neoliberismo, e la specificità della crisi con cui è crollato il 'nuovo' capitalismo. Ha ridotto la politica
economica dominante al solo corno del neoliberismo, visto per di più come liberismo tout court, più o
meno radicale. E gli ha opposto una alternativa il cui asse primo è stato nella sostanza redistributivo:
dalla rivendicazione spesso astratta di un incompatibilismo salariale al reddito di esistenza. Sul terreno
della politica monetaria, ci si è talora limitati all'appoggio ad una spesa pubblica in disavanzo (con
qualificazioni solo generiche) e alla richiesta di bassi tassi di interesse. In qualche modo,
paradossalmente, si tratta di politiche che sono venute, sì, ma da destra.
La politica monetaria di fornitura illimitata di liquidità a bassi tassi di interesse non è però oggi
sufficiente per almeno due ragioni. Perché nelle fasi di grave crisi può determinarsi una trappola della
liquidità. E perché la scommessa moneta oggi - moneta domani non è sostenibile fuori dal riprodursi
artificioso di una persistente spinta ultraspeculativa. Lo si vede nella doppia velocità che caratterizza
l'economia attuale: mentre il settore finanziario è in vigorosa ripresa grazie ai salvataggi orchestrati da
Summers, Geithner e Bernanke, l'economia reale è sostanzialmente piatta. Il meccanismo trainato dalle
bolle pare insomma al capolinea. In questa situazione l'inevitabile ristrutturazione nei processi
capitalistici di lavoro determina aumenti di produttività (maggiore intensità e maggiore forza produttiva
del lavoro) che si scaricano in una riduzione dell'occupazione. E' proprio l'accoppiata di deflazione
salariale e espulsione di lavoratori dalla produzione a poter essere all'origine di un ritorno della
depressione. D'altra parte la politica fiscale che si dovrebbe mettere in campo non può limitarsi a una
politica di disavanzi di bilancio sic et simpliciter, come il caso giapponese conferma. Si richiederebbe non
una politica di generico sostegno della domanda, ma un intervento massiccio nella quantità e mirato
nella qualità. Che è quanto in effetti sosteneva Minsky.
Minsky è in questo erede della parte migliore del New Deal. La sfida è quella di integrare ripresa della
domanda e riforma strutturale: nazionalizzazione della banca e della finanza, da un lato, spesa diretta
dello Stato in grado di attivare nuovi processi di lavoro, dall'altro, come elementi permanenti e non
temporanei. La socializzazione degli investimenti si prolunga in una socializzazione dell'occupazione.
L'una e l'altra presuppongono oggi una socializzazione della moneta e della finanza43. Investimenti
pubblici che migliorino la produttività del sistema, nel lungo orizzonte temporale che solo lo Stato può
intrattenere. Un piano del lavoro con lo Stato che direttamente si fa garante di una piena occupazione,
stabile e di qualità. Banche e finanza ricondotte a public utilities. L’indirizzo concreto della spesa pubblica
e dell’occupazione contano, così come conta il comando sul denaro. Non mancano certo gli obiettivi
che potrebbero dare corpo ad un intervento statale di questo tipo: dalle infrastrutture alla
riqualificazione ambientale, dalla mobilità e i trasporti all’energia, dalla salute alla educazione, dai servizi
pubblici alla assistenza agli anziani; e si potrebbe continuare. Un keynesismo ‘strutturale’, se si vuole,
che non separa intervento sulla domanda e intervento sull'offerta, e che riporterebbe la discussione alle
questioni sollevate dalla Robinson.
Dopo il ciclo neoliberista si può dubitare però che ci si possa ancora cullare nella illusione - che è stata
tipica della sinistra keynesiana ieri, e del postkeynesismo oggi - che si tratti di una questione di politica
economica, e non invece di una questione politica tout court. Una questione, per di più, che non può
essere pensata come separata dalle condizioni in cui versa il lavoro, non solo nella distribuzione ma
nella stessa produzione diretta. Non si capisce la crisi, e non se ne esce, se l'oggetto d'analisi non è il
capitale come rapporto sociale di produzione, nelle sue trasformazioni. Se dunque l'orizzonte non va
ben oltre qualsiasi keynesismo, per divenire ripresa critica e originale dell'approccio marxiano: fuori da
ogni sterile ortodossia, certo, ma pure fuori da ogni confusione con il sottoconsumismo o con orizzonti
distributivi in sostanza ricardiani. La scienza economica deve tornare ad essere, in senso pieno, una
teoria critica. E l'immaginazione programmatica non può che nascere e crescere in rapporto organico
con i movimenti sociali di contestazione dell'ordine presente delle cose.
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