Prefazione
di Stefano Garroni.
Già a partire dal 1968, chi avesse detto <sono
comunista>, avrebbe detto qualcosa dal significato non chiaro, ma sì
equivoco.
Voglio dire, restando nel confine di casa nostra, che
il dichiarante avrebbe potuto essere, indifferentemente, un militante di Potere
operaio o del Pc d’I, della Quarta Internazionale o di Lotta continua e così
via; avrebbe potuto essere, dunque, portatore di analisi, lotte e prospettive
sensibilmente diverse tra di loro ed anche opposte, per certi versi.
Gli anni successivi, fino a giungere allo sciagurato 1989 e
seguenti, non hanno certo semplificato la situazione, al contrario: oggi più
che mai dire <sono comunista> risulta dare un’informazione pressocché
incomprensibile.
Un merito del libro di Holz è invertire questa tendenza e
dare, invece, un preciso contributo al restituire un senso determinato al
nostro asserto, <sono comunista>.
A tutta prima, l’operazione di Holz sembra un esempio del
classico ‘uovo di Colombo’: comunista, egli dice, è chi si riconosce nell’intera storia
del movimento comunista, appunto.
Sembra posizione troppo ovvia e facile; sennonché, una
caratteristica molto diffusa tra coloro che, oggi, si definiscono comunisti, è
assumere la posizione di chi dice, invece, <fin qui sì, in seguito no>.
Il <fin qui> può variare: può essere la morte di Lenin
o quella di Stalin, può essere il periodo brezhneviano o quello di Gorbaciov,
non importa; ciò che resta è il criterio: la distinzione fra una storia buona ed
una cattiva, un momento dell’ ortodossia ed uno dell’eterodossia,
uno della ‘fedeltà’ ed un altro della ‘caduta’. Ciò che resta, dunque, è una
concezione astratta, ideologica (rigorosamente, moralistica) della storia,
invece che intendere quest’ultima come la scena -l’unica scena-, in cui la
realtà si compie, attraverso le “torsioni e tensioni”, che fanno tutt’uno con l’essenza
stessa di ciò che veramente esiste.
Al fondo di questi due atteggiamenti c’è un’opposizione
fondamentale: l’uno, infatti, è un atteggiamento unilaterale, dunque, dogmatico;
l’altro è critico, dunque, dialettico.
La mossa di Holz, allora, implicita il recupero, la franca
riproposizione addirittura di una precisa prospettiva teorica:
quella della dialettica che, dalla filosofia
classica tedesca (Leibniz, Kant, Hegel) giunge a Marx ed a Lenin.
A questo punto comprendiamo che riconoscersi nell’intera
storia comunista non significa ottusa, bolza, acritica
accettazione/sacralizzazione del <già avvenuto>, ma esattamente
l’opposto.
Significa, infatti, ricostruire la storia comunista come
scena di scarti, dissonanze, difficoltà e contraddizioni reali, effettive; come
succedersi di <situazioni>, di <occasioni date>, in cui
scegliere entro margini, segnati sia dalle caratteristiche dei tempi che dalle
capacità di comprensione. In questa chiave, la storia perde l’unilaterale
caratteristica del <già avvenuto> (che, invece, viene esaltata da certa
ideologia contemporanea che, non per caso, parla di memoria storica),
per riconquistare, al contrario, la dimensione di processo non concluso, in cui
la distinzione tra un ‘prima’ ed un ‘poi’ è sempre inevitabilmente, anche,
arbitraria e convenzionale.
Storia è, infatti, anche il presente -in
cui certe difficoltà e contraddizioni continuano; in cui si rovesciano le
conseguenze di scelte operate in altri contesti; in cui, insomma, il ‘già
vissuto’ s’intreccia inseparabilmente al ‘non ancora determinato’. In questo
senso, recuperare -come Holz sollecita a fare e come appartiene
all’orientamento dialettico- un rapporto critico con la storia
comunista (tutta intera, senza falsificanti, astratte discriminazioni), fa
tutt’uno col porsi criticamente nei confronti degli scenari
politici, sociali, culturali dell’oggi. Già a questo punto possiamo rimarcare
un tratto fondamentale del lavoro di Holz.
Comunisti, oggi è, certamente, un libro politico
nel senso comune del termine. Tuttavia, non è libro volgare, dacché il modo, in
cui Holz imposta il problema politico, immediatamente, è anche fortemente
caratterizzato dal punto di vista teorico. Di qui, anche, la sua sottolineatura
dei meriti acquisiti dal Partito comunista tedesco (DeutscheKommunistische Partei)
per l’attività culturale che ha promosso e che ha saputo imporsi all’attenzione
internazionale, non solo di parte comunista e marxista.
Ma di qui -più a fondo- una particolare continuità, che Holz
stabilisce con la tradizione bolscevica (e di Lenin segnatamente): intendo la
consapevolezza, costantemente presente nella sua pagina, che quello comunista non
è un comune partito.
Non solo per gli interessi di classe che difende; non solo
per gli obiettivi strettamente politici che si pone. Ma sì perché il suo
progetto è quello di operare nel senso di una profonda trasformazione storica
e, dunque, farsi fondamentale strumento di costruzione di un nuovo soggetto
storico-universale: la classe lavoratrice.
E’ ovvio -e Holz lo sa bene-, le classi sociali hanno radici
obiettive nel modo stesso in cui un certo sistema di produzione è costituito -e
per questo aspetto è sensata, poniamo, quell’inchiesta, che vuol giungere ad
una oggettiva descrizione della geografia sociale di una società data.
Tuttavia, classe operaia (o classe lavoratrice)
non è categoria eminentemente sociologica, perché implica la maturazione e
diffusione di una coscienza, così forte teoricamente, da elaborare sia la
critica della ‘grammatica’ costitutiva della società capitalistica, sia le
grandi linee dell’alternativa comunista, come unica risposta ai problemi
fondamentali, che l’umanità oggi conosce. Questo è il tratto
eminentemente bolscevico e leninista.
Il lettore del Che fare? sa bene come Lenin
insistesse nell’assegnare al Partito rivoluzionario dei lavoratori non solo la
funzione di avanguardia di classe, ma anche di avanguardia sociale in
generale. Nel senso che i comunisti debbono riuscire a muoversi in tutte le
contraddizioni, che il capitalismo produce, per mostrare come gli interessi
della formazione sociale capitalistica, giunta ad un certo grado del suo
sviluppo (l’imperialismo), entrino in contrasto radicale con gli interessi generalmente umani.
E’ su questa base che può costruirsi l’egemonia della classe
lavoratrice; ed è su questa base che la successiva dittatura del
proletariato potrà coniugarsi con la vivacizzazione più larga dell’autogoverno sociale.
Il disegno, che Holz fa della società contemporanea -e, si
badi, a partire da un osservatorio importantissimo, dalla Germania, dunque dal
cuore stesso della ‘metropoli imperialistica’-, proprio questo mette in
risalto: l’obiettivo contrapporsi, sempre più radicale e sempre più vicino al
quadro disegnato da Marx, degli interessi dei grandi centri imperialistici, da
un lato, e le esigenze vitali (materiali, morali e culturali) della stragrande
parte dell’umanità odierna, dall’altro.
Costruire la classe lavoratrice significa,
allora, che dall’obiettivo (solo obiettivo) moderno proletariato
deve riuscire a formarsi -mediante esperienze di lotta, ma anche mediante una
consapevole azione culturale, in entrambi le quali il partito sia direttamente
impegnato- quel livello di coscienza teorica e scientifica, che metta in
condizione i lavoratori di proporsi come nuova classe dirigente, in grado di
gestire il grande patrimonio delle forze produttive moderne secondo una
prospettiva sociale e democratica, affatto alternativa rispetto
all’organizzazione capitalistica.
E’ in questo suo impegno che il partito deve riuscire a
coniugare analisi del presente, rapporto critico con la storia e capacità di
organizzazione e di lotta.
I tre momenti sono inseparabili, dacché non è possibile
attività propriamente politica se non orientata, anche, da una consapevolezza
teorica precisa delle tendenze profonde e contraddittorie dell’ attuale imperialismo;
e dacché proprio il sistema imperialistico, anche il più evoluto,
comporta l’ estendersi addirittura di enormi zone di arretratezza.
Cosicché i comunisti si trovano sempre ad operare in un quadro, in cui
raffinato sviluppo ed insuperabile sottosviluppo, esigenze evolute e necessità
elementari coesistono non solo le une accanto alle altre, ma
addirittura le une intimamente intrecciate con le altre.
Ciò significa, tra l’altro, che un carattere sempre più
evidente -e pesantemente evidente- della società imperialistica è la miseria anche
morale, che essa produce, l’imbarbarimento psicologico e culturale che
esso fa coesistere con i più raffinati sviluppi scientifici, ma che comporta un
processo di appiattimento delle coscienze, di perdita di ‘senso’ della stessa
vita quotidiana.
Di qui, ovviamente, l’estendersi di una crisi -certo
materiale, ma appunto anche morale-, che invade settori crescenti
della società contemporanea, sia nelle aree evolute che in quelle
sottosviluppate del mondo.
Altrettanto ovviamente di qui deriva, oggi, ai comunisti
anche il compito di aprire nuovamente dimensioni di ‘senso’, prospettive di
‘significato’, insomma prospettive di civiltà, che non interessano solo i
lavoratori, in quanto settore determinato della società attuale, ma più
generalmente l’ uomo contemporaneo.
Indice:
Prefazione di Stefano
Garroni.
1 capitolo: I fondamenti della
coscienza di sé da parte comunista.
2 capitolo: I fondamenti filosofici
del Partito Comunista Tedesco.
§.1 - Il carattere.
§.2 - La comprensione della storia.
§.3 - La dialettica della natura.
§.4 - Errori passati e prospettive
future.
§.5 - Urgenti compiti, oggi, della
teoria.
3 capitolo: Carattere di un partito
leninista.
§.1 - ll Che fare? di
Lenin.
§.2 - La forza della teoria contro
lo spontaneismo e l’irresponsabilità opportunistica.
§.3 - Rivoluzione nella e contro
la società.
§.4 - Verità e partiticità.
§.5 - Missione storica e
avanguardia della classe operaia.
§.6 - Excursus sulla dottrina del
totalitarismo.
4 capitolo: Lotte di classe.
§.1 - Interessi e coscienza di
classe.
§.2 - Le basi organizzative della
coscienza di classe.
§.3 - Mutamenti nella struttura di
classe e compiti del Partito.
5 capitolo: Il concetto di epoca.
§.1 - La rivoluzione
tecnico-scientifica.
§.2 - Imperialismo e
sottosviluppo.
§.3 - Riforme e rivoluzione.
§.4 - La Rivoluzione d’Ottobre
come segno di una nuova epoca.
6 capitolo: Crisi generale del
capitalismo.
7 capitolo: Modernizzazione o lotta
di classe?
8 capitolo: Riflessioni sul concetto
di situazione politica.
§.1 - Essenza e manifestazione;
connessione e contraddizione.
§.2 - Coscienza della crisi.
§.3 - Negazione determinata.
§.4 - Crisi generale del
capitalismo e Rivoluzione d’Ottobre.
§.5 - Mutamenti nel movimento
mondiale.
§.6 - I problemi umani come
problemi di classe.
§.7 - Problemi del potere.
§.8 - Disintegrazione culturale.
§.9 - Il problema organizzativo.
1° capitolo - I fondamenti della coscienza di sé da
parte comunista.
Dopo il crollo delle società socialiste in Europa orientale,
fra molti militanti, ma anche tra diversi partiti comunisti, si è andata
diffondendo una profonda insicurezza su cosa definisca l’essenza di un PC e su
quali siano i compiti, che i suoi aderenti debbono porsi, se hanno da pensarsi,
appunto, come comunisti. Le molteplici violazioni delle norme
leniniste di partito avvenute nel passato hanno seriamente scosso la concezione
di sé da parte dei militanti; e da molti son stati posti in discussione i
tratti fondamentali di un partito leninista o di un PC di tipo nuovo. Questa
insicurezza ha certamente contribuito a destabilizzare la struttura
organizzativa di partito ed ha reso insicuro lo stesso comportamento dei
militanti; come anche ha introdotto incertezza su come debba esser costituito
il partito, in quelle situazioni dove si rendeva necessario formare nuovi
partiti comunisti. Da tutto ciò nasce la questione di quali debbano esseri i
centrali punti di vista a cui atteneresi nella costruzione di un partito e per
la definizione del suo lavoro organizzativo. Insomma, la questione è: cosa
appartiene al concetto stesso di PC, una volta che un tale partito si desideri
costruire? Quale deve esserne lo statuto e come deve realizzarsi nella vita
stessa del partito?
In qualche modo, gli statuti di un’organizzazione son la sua
Costituzione; negli statuti son fissati i principi e le regole della sua vita
ma anche -e contemporaneamente- son date le linee fondamentali del senso e
degli scopi dell’organizzazione stessa. Uno statuto è qualcosa di più generale
e fondamentale che un programma, il quale indica un certo modo di muoversi,
traducendo gli scopi fondamentali dell’organizzazione nel concreto di
situazioni che mutano e di problemi particolari; i programmi possono e debbono
essere, di volta in volta, riformulati, per adeguarsi alle esigenze degli
svolgimenti storici; negli statuti, invece, è espresso il carattere
epocale di un’organizzazione, il senso e le finalità che ne
definiscono l’essenza.
Che si ponga il problema della considerazione che un PC ha
di sé, proprio questo è frutto della situazione storica. Con la caduta del
sistema degli Stati socialisti e della stessa Unione Sovietica, l’intreccio
delle condizioni politiche mondiali, nel cui contesto un partito si definisce comunista,
è mutato rispetto al periodo precedente. Ciò non significa che siano nella
sostanza cambiati la concezione della storia, sottesa al Manifesto di
Marx ed Engels, e le finalità politiche fondamentali che da quella derivano per
i comunisti: in caso contrario, non si dovrebbe più parlare di comunismo
propriamente, ma di una qualche variante del socialismo -borghese, utopistico,
piccolo-borghese ecc.- , tutte cose da cui, com’è noto, gli autori del Manifesto già
presero nettamente le distanze. Ciò che è vero, piuttosto, è che mutato risulta
l’ambiente politico, entro cui i comunisti -in quanto tali- son chiamati ad
operare: è proprio di qui che nasce la questione di quale forma organizzativa
debba darsi l’azione comunista.
La questione fondamentale per un PC, considerato in se
stesso, è, in primo luogo, quale sia la particolarità, che lo distingue dagli
altri partiti che, in contesti non socialisti, contribuiscono alla vita
politica del paese: in cosa si differenzia da essi? Che cosa rende appunto
comunisti gli aderenti di un PC? Su questo bisogna far bene chiarezza, posto
che un PC non è una mera formazione elettoralistica. Ma già nel porsi della
domanda si mostra una particolarità.
Manifestamente, ad un partito cristiano possono appartenere
persone che, pure, considerano in modi diversi il loro esser cristiani (e,
addirittura, possono aderirvi non cristiani). In cosa consista il cristianesimo
del partito e cosa vi sia di cristiano nel partecipare alla sua attività,
queste, non son cose che risultino adeguatamente precisate né per gli
appartenenti al partito né per la sua dirigenza: appare sufficiente la comune
appartenenza ad una tradizionale non specificata visione del mondo che, pure,
prevede la possibilità di numerose varianti. Un legame di questo tipo sarebbe
altrettanto valido per un PC? E se no, per quale motivo? Dal punto di vista
organizzativo è, qui, in gioco l’ammissibilità o meno di correnti e frazioni, e
per ogni organizzazione (non solo per il PC tedesco[1]) si pone il
problema di quanto le sue strutture ed i suoi fini siano compatibili con quelli
di altre organizzazioni o con il sostegno ad altre organizzazioni da parte dei
propri militanti (penso, ad es., alla conclusione di incompatibilità del
Partito socialdemocratico tedesco[2] in
relazione alla militanza nel VVN[3] e,
poi, dell’Unione degli studenti socialisti[4]. Si trattava,
certo, di precise delimitazioni a sinistra).
Nel proseguo intendo esporre la tesi che gli statuti di un PC
devono precisare cosa ci si debba necessariamente attendere da un militante
comunista, sotto il profilo sia del comportamento che delle fondamentali
concezioni politiche e teoriche generali. Ciò è più di quanto usualmente è
previsto negli statuti dei partiti, costruiti secondo il modello della
democrazia borghese.
Questo qualcosa in più abbisogna di una fondazione; e questa
fondazione deve, anche, mostrare che cosa rende essenzialmente diverso,
dal punto di vista della concezione del mondo, un PC da movimenti
fondamentalistici: il che è importante in quanto, di primo acchito, il fatto
stesso di fissare i contenuti filosofici generali di un partito sembra, di
necessità, caratterizzarlo come totalitario. Comunque, nel caso di
un PC tedesco bisogna badare che gli scopi del partito e i doveri statutari dei
suoi membri siano in accordo con la Costituzione (art. 9, comma 2 e art. 21) e
con la legge sui partiti politici.[5]
Il comportamento politico dei comunisti si definisce per il
fatto che essi hanno una concezione chiara, ma essenziale, delle condizioni, in
cui si è svolto storicamente e si svolgerà lo sviluppo della società umana.
Tale visione della storia offre, in particolare, una spiegazione dell’epoca
presente, dunque, della contemporanea società borghese, caratterizzata dal
rapporto di capitale. Al fondo di ciò stanno le seguenti concezioni:
- gli uomini soddisfano i propri bisogni di vita
mediante la produzione e non, come avviene per gli animali, mediante il
semplice consumo dei beni, che la natura stessa offre;
- mediante la produzione o come conseguenza
dell’organizzazione sociale nascono nuovi bisogni, i quali sollecitano una
nuova produzione e da ciò consegue un continuo sviluppo delle forze produttive;
- questa produzione, in continuo sviluppo e
differenziazione, ha effetti sulla società e, particolarmente, sulla divisione
del lavoro;
- mediante la produzione gli uomini entrano in
relazioni sociali, che divengono sempre più complesse;
- i rapporti di produzione debbono adeguarsi ai
mutamenti, introdotti dai gradi diversi di sviluppo delle forze produttive;
- la produzione basata sulla divisione del lavoro
conduce alla proprietà privata degli strumenti di produzione, da cui nasce la
divisione della società in classi, le quali partecipano in modo disuguale alla
ripartizione del prodotto e della ricchezza sociali;
- dagli interessi di classe derivano
contraddizioni e, quindi, lotte di classe;
- le classi, che traggono vantaggio dagli esistenti
rapporti di produzione, si oppongono al loro cambiamento ed il loro adeguamento
al livello di sviluppo delle forze produttive deve essere imposto con una lotta
politica, orientata contro le esistenti strutture di potere.
Queste tesi fondamentali -derivanti, tutte, dalla prima-
consentono di costruire un modello esplicativo valido per la storia dell’uomo e
viene indicato col terminematerialismo storico. L’elemento di forza di
tale semplice modello esplicativo consiste nel fatto che ad esso, come alla loro
condizione fondamentale, possono esser ricondotti -immediatamente, oppure,
attraverso mediazioni- tutti i più complessi processi storici.
Naturalmente, è in primo luogo attraverso
l’immediata esperienza quotidiana e non per visione teoretica, che si giunge
alla consapevolezza dell’ingiustizia, oppressione e sfruttamento, determinati
dalla società e del modo di produzione e ad assumere un atteggiameno di rifiuto
verso di essi. Marx ed Engels prima di pubblicare il Manifestocomunista,
avevano scritto intorno alla Condizione della classe operaia in
Inghilterra, alla Legge sul grano, alla Legge sui furti
di legna ed alla situazione dei contadini della Mosella. Le esperienze
sulla propria pelle son sempre individuali; che esse derivino da generali rapporti
di produzione e che abbiano alla loro base generali rapporti
sociali (anche se le manifestazioni di ciò risultano diverse caso per caso) è
cosa a cui può giungersi, solo, attraverso un’attività astrattiva, che consente
di connettere teoricamente le esperienze individuali e di scoprire le leggi a
cui queste ultime rimandano. Il fatto è -come diceva Hegel- che non sappiamo
lucidamente ciò che sappiamo comunemente.[6] Ma per
modificare condizioni negative è necessario combatterle alla radice e non
limitarsi alle loro manifestazioni di superficie. Quando in una società si
trovano miseria, ingiustizia e distruzione, bisogna chiedersi cosa vi è di
sbagliato nella costituzione, nella forma di organizzazione di quella società e
come possano essere estirpate le cause del male.
Dandosi esperienze negative circa un’alternativa politica,
si impone la necessità di una chiarificazione teoretica che sappia ricondurre
esperienze e processi alle loro cause. Più è complessa la costruzione sociale,
più specializzata è la produzione, più estesi e vari son gli scambi, più
differenziati sono i bisogni, più complesso risulta ricavare il sistema di
leggi che sta alla base di tutto ciò, con la conseguenza che resta oscuro il
meccanismo dei processi economici e sociali. Quale comune lettore di giornali,
ad es., potrebbe ricavar qualcosa di comprensibile dalle vicende quotidiane
della Borsa? Chi potrebbe decifrare il bilancio di un grande consorzio o il
piano economico interno di un Paese o di una Federazione? Quanto insensata è la
ricerca del diritto difronte alle finezze dell’ordinamento civile! Chi potrebbe
assumere una precisa posizione di fronte ai contraddittori giudizi degli
esperti in materia di distruzione ambientale o circa la valutazione del rischio
in materia di centrali atomiche? Se si volesse far dipendere la competenza
politica del cittadino dalle conoscenze di cui egli dispone -in
materia di economia, di diritto, di scienza, di tecnica, ecc.- per essere in
grado di prendere decisioni avvedute, allora oggi, nell’epoca della rivoluzione
tecnico-scientifica (d’ora in avanti, RTS), la democrazia sarebbe impossibile.
I rappresentanti, invece, degli interessi privati sanno come piegare a loro
vantaggio il coro variegato dei pareri degli esperti.
Quando si parla della teoria come fondamento del
comportamento politico, non si vuol intendere quella conoscenza specialistica,
ormai divenuta imperscrutabile, ma che invade ogni aspetto della vita pubblica
e della specie umana. Nell’ambito della cultura specialistica, lo
spezzettamento del sapere non fa che svilupparsi e ne sorgono esperti di ambiti
sempre più ristretti. Invece, la teoria generale, che è richiesta per guidare
razionalmente e pianificare gli sviluppi sociali, deve saper estrapolare dalla
massa degli accadimenti le forme sincroniche e diacroniche semplici, per
consentire di orientarsi di fronte ad un complesso apparentemente
inestricabile. Politicamente capace è colui, il quale sa ricavare dal flusso
delle informazioni un filo rosso ragionato; non si tratta, però, di avere
un’opinione privata intorno a ciò che accade nel mondo: dacché, agire politicamente significa
agire in comune secondo una ed una stessa idea. E con ciò si intende una teoria
comunemente accettata come valida, dalla quale scaturisca un agire politico
finalizzato, il quale non può risultare dal mèro compromesso fra gli interessi
diversi di individui e di gruppi.
A questo punto si chiarisce cosa renda specifico un PC: esso
non rappresenta gli interessi di gruppi determinati o il momento in cui diversi
interessi particolari trovano una loro conciliazione; piuttosto un Partito è comunista in
quanto punta all’interesse di tutti.
Ma l’interesse di tutti non può ricavarsi dai bisogni e
dagli interessi particolari: piuttosto può esser determinato solo da una teoria
generale, che relazioni ogni singolo con gli altri, in modo da concepire un tutto.
Va da sé che ognuno, in primo luogo, segue i propri
individuali interessi: poiché ognuno ha un determinato posto nella società,
vive particolari condizioni di vita ed ha propri desideri, gli interessi
individuali son affatto differenti e, addirittura, in molte occasioni si
contrappongono gli uni agli altri. Ma, d’altra parte, vi sono interessi comuni:
ad es., il comune interesse di una squadra di lavoratori a rapporti di lavoro
umani; quelli di una comunità a poter respirare aria pulità e bere fresca acqua
potabile, oppure, quello di tutti gli uomini al mantenimento della pace.
Allo scopo di perseguire i comuni interessi, ognuno deve
-per qualche rispetto- sacrificare qualcosa del proprio individuale interesse.
Ma che significa ciò esattamente? E cosa può la società chiedere ai singoli e
questi a quella? Le risposte a tali domande non sono né immediate né
autoevidenti, ché -al contrario- presuppongono che sian comprese le linee
fondamentali dei processi e delle contraddizioni sociali: in una parola, la
comprensione teoretica dell’insieme o universale.
Cerchiamo di comprendere cosa ci autorizza ad affermare che
proprio il materialismo dialettico sia la teoria generale, capace di esprimere
non gli interessi particolari di una classe (o di una frazione d’una classe),
ma risultante invece dalla conoscenza scientifica della totalità sociale e dei
rapporti della società con la natura; che proprio il materialismo dialettico
sia in grado di dirci come armonizzare gli interessi di ognuno, rettamente
intesi, con gli interessi di tutti, della società e del genere umano.
Nel quadro dei rapporti capitalistici di produzione, tutte
le forme della produzione sono sottoposte al capitale. La proprietà degli
strumenti di produzione è mediata dal capitale, cioè, dall’investimento di
capitale. Laddove prima agricoltori, artigiani, commercianti avevano forme proprie
di proprietà e della sua riproduzione e, dunque, costituivano differenti classi
proprietarie (contrapposte a coloro che erano privi di proprietà), lo sviluppo
- a partire dall’industrializzazione- di investimenti tecnologici ad alta
intensità di capitale ha condotto al fatto che proprietari degli strumenti di
produzione possono essere, solo, coloro i quali dispongono del capitale
finanziario necessario. Il capitale investito deve riprodursi maggiorato
(interesse di capitale). Così, da una società in cui molte classi perseguono i
loro particolari interessi dovendone, però, cercare la conciliazione, si è
andata sviluppando una società a due classi, in cui si danno solo i proprietari
degli strumenti di produzione e i lavoratori salariati, che con il loro lavoro
producono il plusvalore [d’ora in avanti, plusvalore], consentendo
così la valorizzazione del capitale. Classi, che precedentemente erano autonome
- come i piccoli artigiani e i contadini-, che possedevano (e, in parte, ancora
posseggono) strumenti di produzione, sempre di più divengono dipendenti dal
capitale: sia nel caso che rappresentino imprese ausiliarie della grande
industria, costrette a regolare le proprie scelte produttive e di investimento
sulle necessità e decisioni tecniche prese da quest’ultima; sia nel caso si
trarri di grandi imprese agricole, dotate di un differenziato parco macchine ma
prive di credito bancario, in mancanza del quale nulla possono produrre né
rinnovare e che son sottoposte, invece, a spese di ammortamento, analoghe a quelle
dell’industria. Tutti gli strati intermedi, che si mantengono in una società ad
alta divisione del lavoro (ad es., nel settore dei servizi), in definitiva,
risultano schiacciati dalla contraddizione fondamentale fra lavoro e capitale
e, così, per la clssificazione della struttura di classe della società restano,
solo, borghesia e proletariato.
I due concetti -di borghesia e di proletariato- nascono,
entrambi, nel 19° secolo. Se non altro nelle metropoli, la borghesia e il
proletariato hanno modificato il loro modo di presentarsi, il loro aspetto.
Oggi, il capitale non si presenta più sotto l’aspetto del proprietario di
fabbrica o del banchiere, come enti sensibilmente presenti, ma hanno assunto,
invece, una forma anonima.
Per parte loro, i proletari -nella maggioranza- non
son più i lavoratori, cacciati nelle viscere delle miniere o immersi nei calori
degli altoforni; piuttosto sono spesso lavoratori altamente specializzati, che
lavorano a macchine assai complesse oppure son impiegati di un terziario in
costante crescita e che non è più in diretto contatto con la produzione. Di qui
nascono problemi circa la coscienza di sé: lo sfruttamento non è più, come un
tempo, avvertibile sulla propria pelle, ché piuttosto la comprensione di sé
come sfruttato pretende una concezione chiara del meccanismo dell’accumulazione
capitalistica e del rapporto di capitale. Resta, comunque, il fatto oggettivo
che la società a due classi è composta da borghesia e da proletariato.
Gli interessi delle due classi nella società capitalistica
son contrapposti. La legge del capitale è di doversi accrescere, di dover
sfruttare per poter realizzare nuovi investimenti, non importa a quale scopo.
L’accumulazione del capitale è lo scopo, che il capitalismo dà a se stesso; il
problema della redditività domina l’uso dello strumento sociale: è questa
necessità che determina gli interessi dei rappresentanti del capitale.
Si tratta degli interessi particolari di un piccolo gruppo
di uomini -proprietari di capitale e managers-, i quali controllano il processo
di valorizzazione del capitale: essi costituiscono la classe dirigente, che
usando tutti i mezzi della visione del mondo debbono portare i dominati ad
accettare quei rapporti di dominio e di sfruttamento. Le loro strategie
teoriche in fin dei conti non sono che strategie di legittimazione degli
interessi particolari della classe dominante -e non sono che questo, anche
quando i sostenitori di quelle teorie le accettano, invece, come verità di
portata universale.
Da parte loro i lavoratori non possono avere che un
interesse di classe: abbattere il dominio degli interessi particolari in modo
che ogni uomo sia, nel pieno senso della parola, libero, ovvero, possa
perseguire i propri interessi non in disaccordo, ma sì in coerente accordo con
l’interesse di ogni altro.
L’interesse dei lavoratori, in quanto classe,
coincide con l’interesse dell’umanità: pace, libertà dal bisogno, cultura,
libero sviluppo individuale e soddisfazione dei bisogni, partecipazione di
ognuno -e non riservata a pochi proprietari di capitale- alla pianificazione e
gestione della vita sociale.
La strategia teoretica della classe lavoratrice è orientata
all’elaborazione e perseguimento di questo interesse generale -non in quanto,
dimentica di sé, si lasci guidare da astratto umanismo, ma perché proprio
questo è il suo particolare interesse di classe.
Solo la visione scientifica del mondo, che non esprime il
punto di vista di qualche interesse particolare, può costituire l’espressione
non sfigurata dall’interesse generalmente umano: posta la configurazione di
classe, che è propria del capitalismo, quella visione scientifica del mondo non
può essere che la visione del mondo dei lavoratori in quanto classe, dunque, il
socialismo scientifico.
Naturalmente, non in quanto teoria elaborata una volta per
tutte in una forma rigida, ma sì in quanto sistema di conoscenze che si
sviluppano, riflettendo lo svolgersi dei processi sociali; in altre parole, in
quanto sistema ‘aperto’, che accoglie ed elabora le esperienze storiche.
Il luogo da cui origina il socialismo scientifico, la classe
lavoratrice come portatrice degli interessi umani, ci autorizza ad assegnare a
questa teoria, in questa epoca, un universale valore di verità, nonostante il
suo carattere certamente storicamente determinato.
Quando una teoria rappresenta la condizione storica, in cui
l’umanità può compiere ragionevolmente un ulteriore passo in avanti nella
direzione della umanizzazione -vale a dire, del superamento del bisogno e dello
sfruttamento verso la libertà; e quando la stessa teoria indica la direzione di
questo ulteriore passo in avanti, allora si può dire che essa è storicamente vera.
La verità è qualcosa di più che la mèra correttezza di una
conoscenza particolare, dell’accordo di un determinato sapere con il proprio
oggetto.
Verità significa cogliere nel pensiero la realtà in modo
tale, che quel pensiero consenta all’uomo di determinare, secondo ragione, il
proprio rapporto con il mondo e con se stesso. In questo senso, la storia del
pensiero è -come voleva Hegel - storia “del progresso nel pensiero verso la
libertà” e, con ciò, anche storia di lotte per l’emancipazione dell’umanità
dalle costrizioni naturali, dall’oppressione dell’uomo sull’uomo, dai
pregiudizi e dall’ignoranza. In ogni nuova fase dello sviluppo storico si
allarga lo spazio delle possibilità -e, dunque, delle libertà- aperto agli
uomini.
Verità storica non significa, dunque, verità neutrale, ma sì
schierata dalla parte del progresso e, quindi, anche con il partito
del progresso. E cosa sia il progresso non ce lo dice questa o quella
opinione arbitraria, ché lo si ricava dal contrasto fra interesse generalmente
umano da un lato e, dall’altro, particolare interesse di una classe, di un
gruppo o, addirittura, di un singolo.
Appunto perché la verità è obiettiva -dunque,
universale e scientificamente determinabile-, proprio per questo deve essere di
parte. (E non è certo un caso se i propugnatori dell’ideologia borghese
spregiano il concetto di verità, dissolvendolo in un pluralismo delle ‘verità’,
con la conseguenza di privare di senso la storia e di ridurre la politica a
terreno di decisioni arbitrarie).
Ma «partiticità» non significa schierarsi acriticamente per
una posizione con cui non si abbia ‘famigliarità’: la posizione, che si prende,
deve mostrare la propria verità mediante la determinazione teorica del
progresso nella situazione sociale contemporanea; deve trattarsi di una presa
di posizione filosofica, capace dunque “di cogliere nel pensiero il
proprio tempo” e di tradurre questo pensiero in comportamenti politici. Un
partito che non si limiti a darsi obiettivi di corto respiro e che non voglia
adeguarsi, opportunisticamente, alle oscillazioni dell’opinione pubblica, ma
che proponga, invece, una conseguente alternativa generale ai problemi,
contraddizioni e crisi della società presente, non può assumere concezioni
preconcette né decretate semplicemente dalla sua dirigenza, ma deve affidarle
ad analisi teoricamente consistenti, elaborarne le conseguenze politiche e
sottoporle costantemente a verifica: deve, insomma, assicurarsi il continuo
rinvio dall’agire politico alla riflessione teorica e da questa, di nuovo, alla
pratica politica. Se non operasse in questo modo, il partito non
corrisponderebbe al particolare ruolo storico della classe che pur pretende
organizzare: la “missione storica della classe lavoratrice”.
Se la polarità sostanziale della partita politica è
sfruttamento o libertà dallo sfruttamento, dominio della borghesia o suo
abbattimento, perseguimento dell’accumulazione capitalistica o
dell’emancipazione umana, allora non si tratta semplicemente di questo o quel
‘miglioramento’ della società presente, ma di qualcosa, invece, che investe la totalità
sociale.
E’ proprio questo che differenzia i comunisti dagli aderenti
ad altri partiti, compresi socialdemocratici ed altri riformatori sociali.
E’ certo che riforme per il migliormento della condizione
umana hic et nunc son sempre cose sensate, poiché la politica si fa
nell’interesse dell’uomo attualmenteesistente; tuttavia, esse non
possono costituire lo scopo di un PC, ma solo un aspetto della
sua lotta che ha obiettivi ulteriori.
Infatti, la questione non è vivere meglio nell’attuale
società capitalistica -e d’altronde sarebbe un’ autentica illusione credere di
potersi liberare in tal modo, cioè attraverso riforme, da contraddizioni, che
appartengono alla sostanza stessa della società capitalistica, che
caratterizzano strutturalmente il sistema dei rapporti capitalistici; il
problema è, piuttosto, quello di un autentico cambiamento del sistema, anche
attraverso la strada delle riforme.
Da una chiara consapevolezza delle contraddizioni fra le due
classi della società capitalistica segue che la caduta della classe dominante
deve condurre al superamento del carattere classista della società, perché non
deve darsi più che una sola classe (dunque, nessuna classe).
A questo punto, lo scopo del PC risulta determinato: esso è rivoluzionario, in
quanto vuol porre termine alla società di classe.
Sul modo di questo passaggio rivoluzionario alla società
senza classi ancora non è stato detto nulla, né era possibile farlo, posta la
stablità dei rapporti di dominio capitalistici, che non consente di
intravvedere, in forma concreta, i modi della sua caduta.
Tuttavia, si può certamente dire che il passaggio al
socialismo presuppone, almeno, l’adesione passiva della maggioranza popolare,
poiché il socialismo non può significare l’imporsi di una nuova classe
dominante, ma piuttosto il ridestarsi dell’uomo nel quadro di una associazione
di liberi cittadini autodeterminantesi.
Naturalmente si tratta di un processo di educazione sociale
di lunga durata e non di qualcosa che si possa raggiungere con un unico atto
rivoluzionario: comunque, il primo presupposto è la disponibilità delle masse a
porsi nella prospettiva di tale sviluppo.
Sarebbe un errore ritenere che la sostituzione di una
formazione sociale mediante una nuova possa ottenersi attraverso l’operare di
una minoranza dirigente anche se, naturalmente, una tale minoranza può porsi
alla testa di un processo ancora non organizzato e giocarvi, appunto, un ruolo
di direzione, come fecero i bolscevichi nella Rivoluzione d’Ottobre. La
disponibilità, però, ad entrare ed a partecipare a tale processo deve esser
largamente diffusa tra le masse, pur in mancanza di una comune, piena
consapevolezza dei suoi scopi finali. La rivoluzione è possibile sempre e solo
in quanto democratica, in caso contrario si tratterebbe di un mèro putch. Nelle
precedenti società di classe, le rivoluzioni si son andate costruendo nei tempi
lunghi, poiché la nuova classe, che puntava alla realizzazione di rinnovate
forme statali dei rapporti di produzione, si svilupparono mano a mano fino a
prendere il potere ed orientare, così, forme e strutture della vita sociale.
La rivoluzione socialista si svolgerà diversamente, perché
non rappresenta una nuova classe che si candidi al posto della attuale classe
dirigente; di necessità segnerà, invece, la transizione a forme di
organizzazione sociale non più classiste. Ora, questo passaggio
-noto col termine di dittatura del proletariato- non significa
l’instaurarsi di un nuovo dominio di classe ma, appunto, l’abbandono di esso.
Ma anche per questo è necessario il sostegno delle masse -in caso contrario,
non si potrà giungere alla trasformazione sociale.
Va da sé che, poste le condizioni di vita e le strategie di
dominio capitalistiche, non ci si può attendere che, tra le masse, sorga
spontaneamente la coscienza non solo della necessità di cambiare questa
società, ma anche di quali siano i fondamenti dell’alternativa ad essa.
L’insoddisfazione, la volontà di liberarsi dai disagi e l’angoscia per
possibili crisi che minaccino l’umanità intera (immiserimento di massa, guerre,
catastrofi ecologiche, manipolazioni genetiche) possono a lungo esser stornate
o fatte giocar l’un contro l’altra, attraverso l’uso ideologico dei media nell’
interesse della classe dominante. Oggi, la conoscenza delle contraddizioni
sociali e delle loro conseguenze politiche richiede un’elaborazione teorica
della realtà ad altissimo livello d’astrazione: portare le masse a tale livello
di attività astrattiva è certo un compito di lungo periodo ma necessario,
perché esse possano -sulla base delle tradizioni di lotta del movimento dei
lavoratori, o per l’insegnamento ricavato da particolari esperienze proprie di
lotta di classe- farsi attive protagoniste della lotta per la trasformazione
sociale.
L’unità politica, che è necessario far crescere tra le
masse, ovviamente non può essere conseguita attraverso un mèro addottrinamento,
piuttosto deve nascere dalla propria esperienza nella e con la società
capitalistica, dal senso dell’ingiustizia e disagio in cui si vive e della
propria impotenza.
Si tratta di esperienze, che tanto più facilmente possono
trapassare da scoraggiate reazioni individuali alla comprensione dei processi
sociali, tanto più entrano in comunicazione, si confrontano e si relazionano
con esperienze di altri: le organizzazioni sociali son il luogo dove una
cultura socialmente consapevole giunge al suo compimento.
I sindacati, che rappresentano gli interessi dei salariati
nel processo di lavoro, giocano in questa prospettiva un ruolo importante: le
lotte sindacali, infatti, sono un primo gradino per una coscienza politica e
sociale -ma. appunto, non sono che un primo gradino. I sindacati hanno il
compito di sostenere, contro il padronato, gli interessi dei lavoratori sul
luogo di lavoro e le loro rivendicazioni di miglioramento sociale; il che
significa che essi operano, sia pure criticamente, nei confini della società
capitalistica; l’elaborazione di una complessiva alternativa sociale non
rientra nei loro compiti; certamente, i sindacati possono inserire nel loro
ambito temi e posizioni socialiste ma questi, altrettanto certamente, non
costituiscono il contenuto delle lotte e della prospettiva sincacali.
Il mutamento del sistema sociale è un
compito politico, che richiede un partito. Il quale, anticipando la
coscienza delle masse, contemporaneamente opera acché tale coscienza, mano a
mano, si sviluppi e consolidi mediante l’elaborazione organizzata
dell’esperienza in e con la società presente, al fine di tradursi, poi, in
comportamento politico: una tale partito costituisce l’ avanguardia delle
masse, il portatore del progresso sociale.
Appartenere all’avanguardia non rappresenta un privilegio né
consente facili allori; coloro i quali anticipano lo sviluppo generale e per
esso si impegnano, debbono come contropartita accettare per lungo tempo il
ruolo di minoranza e, forse, anche di sparuta ed instabile minoranza; debbono
esser disposti al sacrificio di sé ed a tollerare persecuzioni e danni; costoro
debbono sapere che la strada per il successo è cosparsa di arretramenti e
sconfitte.
Il piccolo orizzonte della propria vita, probabilmente, non
consente a chi si sia dato con piena dedizione ad uno scopo di vederlo con l’
ampiezza dovuta: son necessarie forza di carattere e la certezza di muoversi
nel senso del destino dell’umanità. La fermezza e la sicurezza di sé, proprie
dell’avanguardia, son date dal sapere di aver compreso le leggi del progresso
sociale e che, nell’attuale situazione del mondo, solo questa alternativa si
dà: o una razionale organizzazione sociale, libera dal predominio degli
interessi capitalistici; oppure, sconfitta dell’umanità. Come diceva Ernst
Bloch, mai come ora siamo difronte alla scelta: o tutto o nulla.
Conoscer ciò è conoscer la condizione di classe. Lo sviluppo
della coscienza di classe è il compito di un PC. Esso è
l’organizzazione che vede nella lotta politica la lotta di classe e che la
dirige.
Nella lotta di classe si desta la coscienza di classe e si
afferma, anche, la consapevolezza che gli interessi individuali non debbono
prendere il sopravvento nei confronti del comune interesse di classe, che la
solidarietà è il presupposto per il successo da parte di chi è privo di potere
ed è oppresso.
La coscienza di classe include concezioni teoriche e con ciò
non intendo un sapere accademico, ma sì la conquista d’una comprensione della
storia e della società, che rende intelligibili le linee fondamentali ed i
fronti di lotta della politica.
Il PC deve sviluppare al proprio interno forme di vita, che
generino questa unità di conoscenza, atteggiamento e comportamento. I comunisti
possono essere l’avanguardia combattiva della società, se riescono ad essere
anche la sua avanguardia teorica.
Com’è inevitabile, un tale equilibrio non si crea
automaticamente. La dirigenza del Partito deve impegnarsi nella formazione
teorica e produrre materiale a questo scopo; deve stimolare la discussione
interna e deve dar spazio al contributo della base per l’elaborazione tattica e
strategica: il trasferimento alla base della linea politica centrale non deve
ostacolare l’iniziativa periferica, ché la presenza del Partito inizia nel
territorio e nel singolo luogo di lavoro; la stessa coscienza di classe potrà svilupparsi,
solo se le esperienze e gli interessi dei singoli territori e dei singoli
luoghi di lavoro, da contenuti primari di esprienza si evolveranno in coscienza
della società in generale e della prospettiva storica. Nessuna efficace azione
politica è possibile in violazione di tali condizioni.
I comunisti debbono verificarsi nella mediazione dialettica
di particolare e generale: ciò che definisce l’avanguardia non è la sua
capacità di comprender meglio sulla base di una migliore
teoria e visione del mondo; sì piuttosto, la capacità di battersi meglio
e con maggior lucidità sul fronte della vita quotidiana -lucidità che, per
altro, è legata al possedere una visione dell’insieme.
La garanzia statutaria di una democrazia di partito che si
costruisca dalla base è importante nella stessa misura, in cui lo è l’esistenza
di militanti che si impegnino nel lavoro di partito, nella formazione teorica
e, sulla base di ciò, nella partecipazione ai processi decisionali che lo
riguardano. E’ del tutto comprensibile la tendenza a delegare ad una dirigenza
di cui ci si fida le decisioni di partito, invece che partecipare ad esse. In
questo modo, però, si giunge ad un irrigidimento della vita di partito ed alla
costituzione di una unidirezionale struttura di comando, anche quando la
dirigenza del partito non vorrebbe cedere alla ricerca di forme semplificate di
direzione: la dialettica del movimento ‘dall’alto verso il basso’ e viceversa
ha bisogno che ci si impegni per la sua realizzazione, chiama in causa, dunque,
il senso di responsabilità dei comunisti nei confronti del partito a cui
aderiscono: senso di responsablità da cui non bisogna demordere, quali che
siano le difficoltà che possa comportare. Solo a questa condizione, la
necessaria disciplina di partito è una forza e non un impedimento.
Condenso quanto finora detto in cinque tesi:
- il PC è l’organizzazione, che ha come scopo finale il
cambiamento dell’insieme sociale e la costruzione di una nuova formazione
sociale;
- il PC è l’organizzazione di lotta della classe
lavoratrice, che realizza gli interessi umani ed è il luogo, in cui si
costruisce la coscienza di classe, nel momento stesso in cui per quegli
interessi si lotta;
- la coscienza di classe è la forma politica della
concezione del mondo, basata sulla teoria del socialismo scientifico. Questa
teoria, nel suo continuo sviluppo, è una componente imprescindibile della
coscienza di sé da parte comunista;
- il PC, in quanto organizzazione in cui la coscienza di
classe si va costruendo sulla base della più progressista teoria della società
e del rapporto natura-società, è l’avanguardia della classe lavoratrice (e del
progresso sociale) e di ciò dà prova attraverso il suo agire esemplare;
- un PC realizza i propri compiti storici, solo se si
attiene alle regole dette.
Ciò che abbiamo così formulato son condizioni
fondamentali dell’autocoscienza comunista . Chi desidera costruire un
PC e non semplicemente una formazione di sinistra, deve attenersi a tali
condizioni, che -conseguentemente- debbono improntare di sé lo spirito della
‘legge fondamentale del Partito’, dunque, i suoi statuti.
Da tutto ciò ricavo le seguenti conseguenze:
1- il Partito non può stabilire la sua forma organizzativa,
senza indicare i fondamenti teorici di sé in quanto organizzazione e in quanto
soggetto politicamente attivo: quello comunista è il Partito del socialismo
scientifico. Ciò non significa -ché sarebbe dogmatismo e burocratismo-
accettazione in blocco ed applicazione di quella teoria; ma piuttosto che il
Partito si impegna, con la sua esperienza politica e con le conoscenze
scientifiche che acquisisce, allo sviluppo della teoria del socialismo
scientifico -teoria che, d’altronde, deve improntare di sé la sua pratica. In
questo senso, il Partito è responsabile della verità della teoria (contro ogni
forma di opportunismo, di irrigidimento dogmatico e di mèro, scolastico
addottrinamento). Il Partito deve darsi forme organizzative, che consentano ai
militanti di stabilire una relazione diretta ed autonoma con i presupposti
teorici e i fondamenti della visione del mondo del socialismo scientifico. (Non
si dimentichi l’importanza che, per il movimento politico dei lavoratori, ha la
tradizione di iniziative collettive per la formazione culturale: a suo tempo
rappresentò una forza per la socialdemocrazia tedesca il fatto di appoggiarsi
ad una consapevole e diffusa attività culturale tra i lavoratori). La
discussione teorica, la verifica critica ed il confronto di pensieri ed
opinioni devono essere assicurati dagli statuti del Partito e divenire effettiva
pratica della sua vita interna. Presupposto di una discussione ampia, utile e
capace di riflettere teoricamente la situazione esistente è il serio
apprendimento dei concetti fondamentali e dei metodi del materialismo storico e
dialettico. Il Partito non è il luogo di un pluralismo di visioni del mondo, ma
di una varietà di sviluppi della teoria, sotto il profilo scientifico e
pratico-politico, che possono esser controversi, pur avvenendo sulla base di
una comune visione del mondo.
2 - Il Partito non è eminentemente uno spazio di
discussione, ma un’organizzazione volta all’ agire politico: il che implicita
cha sia capace, in tempi determinati, di prendere decisioni. Come
organizzazione della lotta di classe ed in quanto minoranza, posta nella
difficilissima condizione di avanguardia attiva, il Partito non può spezzettare
la propria attività nella forma di molteplici, distinte correnti: una funzione
del lavoro teorico è, anche, quella di unificare le volontà. Ciò significa, che
nel momento della decisione, le possibili divergenti opinioni di singoli o di
gruppi non possono permanere nella loro autonomia: se la verità storica si
realizza (come cercheremo di mostrare) nella forma organizzativa del Partito,
allora la disciplina di partito è un momento della verità e,
dunque, quella disciplina non costituisce una categoria sociologica, ma sì
epistemologica; ciò è vero anche nel possibile caso, in cui le conoscenze di un
singolo siano più avanzate del livello di coscienza raggiunto dal Partito nel
suo complesso. D’altra parte, le crescenti conoscenze acquisite dai suoi membri
(anche singoli), se inserite nelle discussioni interne del Partito, ne elevano
il livello. Insomma, l’istituzionalizzazione della formazione e del dibattito
in ambito teorico e di visione del mondo è una componente imprescindibile per
la vita organizzativa del Partito.
Di qui deriva con tutta evidenza l’opportunità che i
compagni si organizzino per ricercare assieme le conoscenze corrette e non
dividendosi, invece, in frazioni organizzate su piattaforme alternative. (Ciò
vale, anche, per il clima stesso del confronto d’opinione: se l’obiettivo è la
ricerca della verità, inviolabile è il diritto all’errore e chi -secondo gli
altri compagni o la loro maggioranza- è in errore, non va per questo diffamato;
il diritto all’errore, tuttavia, non è diritto al frazionismo o alla
dissidenza).
3 - Il Partito può adempiere alla sua funzione d’avanguardia
se non abbandona l’unità delle sue concezioni politiche: solo a questo patto,
esso ha la forza di convincere altri.
Nella sua azione in quanto minoranza, esso deve mantenere la
propria particolarità quali che siano le alleanze, movimenti e società
cooperative in cui sia presente; come anche deve valutare la propria visione
delle cose - la teoria materialistica storica e dialettica-, quale momento
dell’agire comune. Le alleanze, in realtà, son effettivamente tali, quando
rispettino e diano valore anche alle differenze tra i partners. La diffusione,
d’altronde, della coscienza di classe tra le masse è possibile solo
dispiegandosi l’analisi e la valutazione storico-materialistiche di situazioni
ed eventi.
4 - Un altro punto auto-evidente, è che l’organizzazione di
un partito politico non può basarsi sulla decentralizzazione: un partito non è il
luogo, in cui si coordinano distinti gruppi d’interesse -regionali o locali,
che siano; e ciò vale al massimo grado per un PC, perché la sua unità si
sostanzia nella comunanza delle posizioni teoriche e politiche: la
centralizzazione della direzione politica è l’espressione organizzativa di
questa unità di idee. D’altronde, la direzione centralizzata è legittimata solo
se le decisioni vincolanti, da essa prese (perché è la sola autorizzata a
farlo) e valide per tutto il Partito, risultano da un continuo processo di
discussione e scambio di opinioni ed esperienze, che coinvolge la base del
Partito. La forza della direzione deve corrispondere alla forza della base ed i
comunisti debbono esser riconoscibili per la serietà ed ampiezza del loro
impegno. Ciò non significa, sia chiaro, che essi debbano esser semplicemente
mobilitati e lasciarsi comandare in questo senso; piuttosto significa che i
comunisti hanno da partecipare costantemente allo sviluppo del Partito -e non
solo in occasione dei Congressi, ma nella sua vita quotidiana-, in modo che per
la coscienza del militante impegnarsi od essere impegnato all’interno della
strategia centrale siano una ed una stessa cosa. Un partito ha da esser
centralizzato se vuol essere capace di azione politica, e può essere
democratico solo se l’attivizzazione della base costituisce l’elemento vitale
della sua organizzazione e quando fra l’impegno alla base e l’attività del
partito nel suo complesso vi sia una continua mediazione, data o dal sistema
organizzativo o dalla diretta comunicazione. Vengo alla conclusione.
il PC è il partito della coscienza di classe sviluppata e in
contino sviluppo sul fondamento del socialismo scientifico. Esso organizza la
propria unità pratico-politica e teorica mediante il convergere di una ferma e
dinamica direzione con una base attiva ed educata nella sua volontà. Il PC si
sa responsabile nei confronti della verità storica e del progresso e, per
questo, non è affatto disposto a deviare opportunisticamente da principi
correttamente compresi. Solo la conseguenzialità e correttezza del suo
comportamento offre la possibilità di superare finalmente l’organizzazione
sociale capitalistica e la sua disumanità.
2° capitolo - I fondamenti filosofici del
PC tedesco.
“Il PC tedesco (DKP) basa la propria politica sulla teoria
di Marx, Engels e Lenin... Esso difende il socialismo scientifico contro ogni
tipo di ideologia borghese... Il Partito è impegnato ad applicare in modo
creativo la dottrina di Marx, Engels, Lenin alle condizioni del nostro Paese ed,
in questo modo, a contribuire all’arricchimento del patrimonio di esperienza
del movimento internazionale dei lavoratori.”
Così si legge nel programma che il DKP si dette nel
congresso, svoltosi a Mannheim nell’ottobre 1978. In tal modo il Partito si
presentava come una formazione, il cui comportamento politico non dipendeva dai
mutevoli interessi di altrettanto mutevoli persone, tendenze, maggioranze, né
tanto meno dalle oscillanti preferenze della così detta ‘opinione pubblica’; ma
sì piuttosto come una formazione, la cui politica era determinata da una chiara
comprensione scientifica delle leggi dinamiche della storia, delle
contraddizioni e tendenze di sviluppo della società, delle forze e potenzialità
essenziali del genere umano ed, infine, delle possibilità di realizzare un
ordine di vita umano, perché liberato da sfruttamento ed oppressione.
Chi aderisce al DKP si riconosce in qualcosa di più che in
questo o quell’obiettivo politico, nel quale vede rispecchiati i propri
interessi e nel limite del quale egli resta quella persona privata che già era.
Chi aderisce al DKP, piuttosto, si pone sul terreno di una visione scientifica
del mondo, capace di orientare sia il suo pensiero che il suo agire.
“Criterio politico del DKP e fondamento scientifico della sua
politica è la dottrina di Marx, Engels e Lenin “, si legge nel preambolo al
programma del 1978. E quando lì si scrive “criterio”, il termine va riferito
non solo al Partito in quanto organizzazione complessiva, ma anche ad ognuno
dei suoi militanti: è per questo, d’altronde, che nel programma si pongono
“alte pretese politiche e morali” per ogni comunista. Questo modo di concepire
il Partito non è per caso.
Nell’elaborazione di una strategia politica in vista del
cambiamento rivoluzionario della società, fin dall’inizio della sua azione nel
Partito, Lenin su questo insistette: “senza una teoria rivoluzionaria, non si
dà movimento rivoluzionario”.[7]. Perché?
E’ del tutto chiaro che la difesa dei propri interessi di
base non richiede affatto, come precondizione, un’analisi scientifica della
società; ad es., un piccolo imprenditore può adeguatamente rendersi conto, e ad
essi dedicare la propria personale esistenza, degli interessi, che discendono
dalla sua impresa, della sua dipendenza dalle banche e dalla grande industria,
come anche di quanto sia necessario, invece, che egli riesca a conquistarsi
un’indipendenza propria. Ed egli può, con opportune tattiche e compromessi,
muoversi entro questa contraddizione. Una teoria del capitalismo -che ne mostri
lo sviluppo monopolistico come una necessità derivante dalle leggi stesse del
processo d’accumulazione del capitale- non è affatto necessaria a quel piccolo
imprenditore e, addirittura, potrebbe perfino danneggiarlo nelle sue tattiche.
Il fatto è che superare il rapporto di capitale non fa parte dei suoi
interessi, dato che egli stesso è un capitalista, sia pur piccolo. Le cose
stanno del tutto diversamente per un lavoratore salariato.
I suoi interessi immediati -aumenti salariali, miglioramento
delle condizioni di lavoro, diminuzione della giornata lavorativa-, che egli
vede rappresentati dai sindacati, restano sempre all’interno del capitalismo e
si limitano a contrastare, perfino in modo parziale, la volontà degli
imprenditori. Ma è proprio all’interno del sistema in cui vive, che il
lavoratore non può sfuggire al suo peggior avvilimento -ossia, allo
sfruttamento-; si tratta, infatti, di un sistema basato sull’appropriazione
privata del plusvalore da parte del proprietario del capitale.
Il lavoratore salariato, dunque, per poter prender
conoscenza dei suoi effettivi interessi, è costretto a penetrare a fondo il
modo di funzionamento del sistema, cioè, la legge dell’accumulazione
capitalistica, ed a comprenderne le forme sociali particolari.
Egli deve rendersi conto che l’intera sua condizione
di vita (non solo, dunque, la sua vita lavorativa) è determinata dai
rapporti di produzione, che lo costringono dentro le morse di un meccanismo di
dominio, da cui non può liberarsi se non rigettandolo completamente.
E’ solo attraverso la teoria scientifica che può risultar chiaro a quel
lavoratore che il suo non è un qualche interesse particolare, individuale, di
cui possa ottenersi la soddisfazione attraverso questa o quella modificazione (le
riforme) del sistema; ma il suo è piuttosto l’interesse ad una
trasformazione generale dell’ordine sociale esistente.
Senza questa consapevolezza teorica, il lavoratore salariato
resterà sempre un momento dipendente del rapporto di capitale, pur se in lotta
continua con gli sfruttatori, cioè, i funzionari di quel sistema: insomma, una
vittima offerta alla manipolazione ed all’oppressione.
Una comprensione scientifica della sua condizione di
salariato -quale che sia, poi, la sua propria, particolare situazione- risulta
intollerabile per il lavoratore, che voglia perseguire i suoi veri interessi.
Egli deve riuscire a vedersi come appartenente a quella classe, il cui
sfruttamento è condizione d’esistenza per il capitale, ma che anche rappresenta
la radicale contraddizione interna del sistema capitalistico. L’autoliberazione
della classe dei lavoratori presuppone esattamente questa conoscenza, quale
strumento per orientarne l’azione. Proprio per questo, il Lenin che elabora la
strategia politica della lotta di classe ha indicato nella teoria una
componente interna alla prassi stessa: “Marx... vedeva l’intero valore della
sua teoria nel fatto che essa è «per la sua stessa essenza, critica e
rivoluzionaria». E quest’ultima qualità è, senza alcun dubbio ed
incondizionatamente, propria del marxismo, poiché esso è la teoria
che si dà direttamente il compito di portare a piena luce tutte
le forme di antagonismo e sfruttamento proprie della moderna società, di
seguirne lo svolgimento, di mostrarne il carattere e gli inevitabili mutamenti
di forma; e tutto ciò allo scopo di aiutare il proletariato a porre
fine, al più presto e nel modo più facile, allo sfruttamento.”[8]
Sviluppando ulteriormente la teoria del Partito nel Che
fare? , Lenin si rifà espressamente ad Engels: “Engels riconosce non due forme
della grande lotta socialdemocratica (la politica e l’economica) -come si fa
abitualmente da noi-; ma tre, poiché accanto a queste egli
pone anche la lotta teorica.”[9] ; Lenin
prosegue rinviando, anche, alla prefazione engelsiana a La guerra dei
contadini in Germania.
Qui, come anche in molte altre pagine delle sue Opere,
appare chiaramente come Lenin concepisse le proprie enunciazioni quali
applicazione e adattamento delle posizioni di Marx ed Engels ai contenuti di
una situazione data -in questo senso, Lenin autorizza un uso sensato del
costrutto marxismo-leninismo.
Il leninismo è, infatti, il punto di arrivo di uno sviluppo
del pensiero di Marx ed Engels, poste le esigenze di una politica
rivoluzionaria nella fase imperialistica della formazione sociale
capitalistica, ovvero, in una situazione in cui “nella teoria si deve in primo
luogo vedere una guida all’azione.”[10]
Per sua stessa essenza, il marxismo non è una dottrina
conchiusa, sì piuttosto, proprio in quanto sapere della storia e delle sue
radici nei processi naturali, è esso stesso sottoposto al mutamento storico dei
rapporti sociali e della conoscenza scientifica.
Gli stessi sviluppi della realtà pretendono svolgimenti e
modifiche di quella teoria che, appunto, la realtà riflette e che di essa mette
in luce le possibilità giacenti, allo scopo di indicare obiettivi all’azione.
Insomma, il marxismo è un sistema aperto al futuro.
Nei quarantasette anni che separano la pubblicazione di Das
Kapital (1867) dallo scoppio della prima guerra mondiale (1914), il
capitalismo raggiunse un nuovo stadio di sviluppo, nel quale le sue interne
contraddizioni si approfondirono ma si rafforzò anche, mediante le
organizzazioni politiche del movimento dei lavoratori, la forza antagonistica
al sistema. E’ così che si posero i compiti: a) di cogliere le particolarità di
questa nuova fase, sulla base della corretta analisi dell’essenza del
capitalismo, contenuta nell’opera di Marx e di Engels (teoria dell’imperialismo);
b) di determinare i fondamenti della lotta organizzata della classe operaia (teoria
del Partito); c) di combattere l’infiltrazione nel movimento dei lavoratori
di elementi ideologici borghesi, quali il neo-kantismo e il positivismo; nonché
di rafforzare la valenza metodologica e di orientamento del materialismo
dialettico e storico (teoria filosofica). In tutti e tre gli ambiti,
nella più stretta coerenza con la lezione classica di Marx e di Engels, Lenin
ha saputo elaborare le nuove prospettive, corrispondenti alla situazione
attuale.
Escludere Lenin dal socialismo scientifico, inteso come
costruzione teorica in continuo sviluppo ed attualizzazione, -cosa che, dopo la
caduta dell’Unione Sovietica, è stata sollecitata da parte di alcuni
disfattisti ed, ovviamente, da parte dei nemici di classe-, non
avrebbe altro significato, se non riportare la comprensione del capitalismo
alla sua fase pre-imperialista e, così, annientare le capacità di lotta dei
comunisti. L’espressione marxismo-leninismo ha un senso
preciso, in quanto fissa la continuità fra le prime due fasi dello sviluppo
della teoria, ne sottolinea il carattere aperto e, con ciò stesso, mostra che
il suo sviluppo non è concluso, ma che, ben al contrario, consegue alla
riflessione teorica ed alla sistematizzazione delle nuove fasi della storia. E’
quanto, d’altronde, Marx intendeva, quando parlava di “concreto del pensiero”.[11]
§. 1. Il carattere.
E’ fuori discussione il significato della teoria per una
strategia comunista conseguente. Senza una comprensione teorica della
situazione in cui si agisce, le azioni restano spontanee e limitate agli
interessi particolari ed alle reazioni emozionali dei gruppi, che al momento
operano.
E’ certo che senza spontaneità gli uomini non sarebbero
motivati all’azione; tuttavia, la discussione teorica che coinvolge gli
‘ideologi’ del movimento ha il compito di far emergere al di sotto dei motivi
particolari le leggi e tendenze generali, per poter dare al singolo
comportamento il posto e la finalità che gli spetta entro il complessivo
processo sociale. Si può affermare “che l’ ideologo in generale svolge
effettivamente il suo compito, se riusce ad anticipare il
movimento spontaneo, a mostrargli la strada; se egli comprende prima degli
altri tutti i problemi teorici, politici, tattici ed organizzativi da
risolvere, contro i quali gli ‘elementi materiali’ del movimento spontaneamente
vanno a scontrarsi. E per valutare oggettivamente ‘gli elementi materiali del
movimento’, bisogna rapportarsi ad essi criticamente, rendersi conto dei
pericoli e delle carenze del movimento spontaneo, insomma, riuscire a portare
la spontaneità al livello della coscienza.”[12]
La coscienza stessa è un momento reale d’una situazione
storica ed influenza il processo di mutamento della realtà. Dunque, un’adeguata coscienza
è elemento necessario di un adeguato agire.
Il modo qui espresso di intendere la teoria si differenzia,
fondamentalmente, da quello che è proprio della scienza tardo-borghese.
Quest’ultima fa perno sulla distinzione fra enunciati descrittivi
ed enunciati prescrittivi e sull’affermazione che gli ultimi non
possono esser fondati -cioè, dedotti logicamente-
a partire dai primi.
In altre parole, lo studio della realtà ed in generale il
lavoro propriamente scientifico si limitano a produrre descrizioni di
stati di fatto o di sistemi di relazioni, da cui solo per arbitrio o
‘libera’ decisione potrebbero ricavarsi logicamente scopi e
modi di comportamento: da come la realtà è non si può logicamente
dedurre come la realtàdebba o non debba essere.
Appare chiaro che se la teoria tardo-borghese fosse giusta,
chi ha il potere vedrebbe giustificato, anche, il suo orientare il
futuro secondo i propri interessi: insomma, chi detiene il potere deterrebbe
anche il diritto.
Il principio della scienza tardo-borghese prescinde dal
fatto che ogni realtà include in sé possibilità (effettive possibilità) le
quali, da un lato, son parte della realtà, dall’altro, son implicite in essa e,
dunque, possono e debbono esser previste anche nella descrizione degli
effettivi stati di fatto; ora, è certo che se abbiamo a che fare con possibili
alternative di sviluppo sociale che son implicite nella realtà, allora è vero
che le decisioni da prendere non hanno nulla di arbitrario né di utopico; al
contrario, la scelta tra alternative diverse si lascia ricondurre alle
necessità biologiche e sociali dell’uomo, con gli scopi e i valori che
comportano. Insomma, si tratta di una scelta fondata sulla ragione.
Descrivere una situazione e indicare le decisioni da
prendere e le finalità da perseguire fan tutt’uno nella teoria, posto che
quest’ultima può essere -essa stessa- un momento interno alla prassi. Appunto
questa unità consente una conoscenza, che si verifica e corregge nella pratica.
Ma che si dia una corretta consapevolezza come elemento di
un altrettanto corretto comportamento politico non è partita, che si giochi al
livello della conoscenza individuale. La valutazione di una situazione vale
come linea di marcia per una organizzazione se, almeno nei tratti fondamentali,
è condivisa con piena convinzione dei suoi militanti, tanto da esser pronti ad
impegnarsi nella linea politica conseguente. La teoria non può, dunque, essere
‘decretata’ dagli ideologi, vale a dire dai teorici del Partito, ma deve
svilupparsi ed approfondirsi all’interno del Partito stesso. In questo senso,
ogni attivista di Partito è un “intellettuale organico” della classe
lavoratrice, come diceva Gramsci.
Una tale discussione teorica e un tale processo di
formazione, però, non si svolgono separati dall’azione politica. Nei clubs di
discussione, come anche negli Istituti universitari o di ricerca, fioriscono
questa o quella opinione, corrette o false che siano, si elaborano teorie
intorno a settori di realtà, sempre allo scopo di conseguire “conoscenze pure”.
Ma perché opinioni e teorie possano condurre alla trasformazione rivoluzionaria
della vita e della società, è necessario che si integrino nella prassi politica
e che vengano continuamente sottoposte alla verifica dell’esperienza politica.
Il Partito è il luogo, in cui si realizza questa
compenetrazione di teoria e di prassi, nella stessa misura in cui la vita di
Partito si svolge con l’attiva partecipazione dei militanti; è il luogo, in cui
si impara dall’esperienza, si costruisce la teoria, la si modifica e la si
collega alla pratica ed in cui dalle generalizzazioni teoriche si ricavano
conseguenze politiche. Per la vitalità d’un Partito, in quanto organismo che
opera politicamente, nulla sarebbe più dannoso che il chiudersi nell’immobilità
del dogmatismo. “Noi non consideriamo, in nessun modo, la teoria di Marx come
qualcosa di conchiuso e di indiscutibile; al contrario siamo convinti che essa
abbia fornito solo il fondamento della scienza, che i socialisti debbono
ulteriormente sviluppare in ogni direzione, se non intendono restare indietro
rispetto al corso della vita.”[13]
Il DKP è un Partito marxista-leninista, in quanto si pone
l’obiettivo di realizzare, all’interno del Partito e nella forma di una
attività organizzata, l’unità fra comprensione teorica della realtà, visione
del mondo scientifica da essa ricavata, finalità sociali ed azione politica. Va
da sé che forza ed efficacia di una qualunque organizzazione di Partito
dipendono dal grado di attività dei suoi militanti. Gli statuti di Partito e la
coscienza che esso ha di sè, spesso, presentano dei «devi», che si discostano
dall’effettivo «è» del Partito stesso; quei «devi», però, all’interno
dell’organizzazione di Partito, hanno la funzione decisiva di favorire la
correzione delle deficienze, di promuovere l’attivizzazione dei militanti,
stimolandone il ‘fattore soggettivo’, cioè la volontà, la coscienza, la
disponibilità all’impegno. In particolare, ciò è vero nei periodi di forte
crisi e riflusso del Partito.
Cercar di promuovere l’impegno pratico degli uomini,
certamente, è impresa destinata all’insuccesso, se essi fanno riferimento ad
una moralità astratta. La corretta comprensione di una situazione storica, e
delle possibilità che essa offre, è la premessa di un’azione destinata al
successo: chiamare all’impegno per uno scopo determinato, pretende che quello
stesso scopo venga mostrato come obiettivo realistico e non utopico; in altri
termini, esso deve avere a supporto un’analisi esauriente e penetrante della
situazione di fatto e deve collegarsi ad una concezione strategica realistica.
Ovviamente, ciò non esclude la possibilità di errori (nessun abbozzo teorico
può esser perfetto), che il Partito è chiamato a correggere. Comunque, questo è
un motivo in più a favore di una continua discussione interna al Partito
-basata sulle esperienze acquisite- a proposito della comprensione
che si ha della situazione politica e per far sì che questa metta
effettivamente radici nella coscienza dei militanti: il lavoro teorico
appartiene all’attività politica per come il DKP la intende. Con questa sua
concezione, il Partito si colloca nella tradizione della Terza Internazionale,
dunque, all’interno della concezione leninista di un Partito, che punta ad
un’attività politica né spontaneistica né puramente pragmatica, sì piuttosto
basata su una chiara visione dei complessivi e contraddittori processi sociali,
sulla sicura intelligenza delle leggi e forze motrici della storia.
§. 2 - La comprensione della storia.
Leggi e forze motrici della storia: questa, al primo
sguardo, si presenta agli uomini come un contraddittorio, disordinato e
scomposto succedersi di avvenimenti, determinati dall’arbitrio di singoli
individui e gruppi, dipendenti dalle decisioni dei potenti, insomma un
complicato intreccio di casualità senza senso e di accadimenti densi, invece,
di conseguenze. Insomma, uno spettacolo di cui non sembra proprio sia possibile
trovare una regola razionale.
Il primo fu Hegel a disegnare una teoria filosofica della necessità
interna al corso della storia. Marx ed Engels presero le mosse dal
programma hegeliano, interrogandosi, però, sulle condizioni materiali da cui e
in cui la storia si svolge. La conoscenza delle condizioni materiali e delle
leggi dinamiche dei processi, nei quali siamo coinvolti, consente anche un
attivo intervento, realistico e finalizzato, sul loro svolgimento. La
conoscenza scientifica della storia è il presupposto di un agire politico, che
non nasca da opinioni soggettive o da soggettivi desideri, ma sì da fondamenti
solidi: Marx ed Engels hanno fornito il nucleo di base di una tale teoria della
storia, ovvero ilmaterialismo storico.
In primo luogo, gli uomini sono e restano esseri naturali e
naturali, appunto, sono i loro bisogni primari: aria da respirare, cibo, difesa
dalla violenza naturale e dalle bestie selvagge, sicurezza nell’allevamento
della prole.
Come si vede, si tratta di bisogni che ritroviamo, tutti,
anche nel mondo animale; ma nel lungo processo di “umanizzazione della scimmia”,
l’umanità si è sviluppata fino al punto da non rispondere più alla proprie
necessità con ciò che trovava immediatamente in natura, ma sì producendo essa
stessa ciò di cui abbisognava (e nella quantità in cui ne abbisognava). A
questo punto, l’umanità non si è limitata a riprodurre la propria vita, ma è
giunta a produrre le condizioni stesse della riproduzione: per questo erano
necessari gli strumenti di produzione, per la cui costruzione furono inventati
altri strumenti. In questo modo andò mano a mano costituendosi un sistema,
sempre più complesso e differenziato, di strumenti di produzione, che determinò
continue modificazioni delle condizioni naturali di vita e produsse, anche,
bisogni sempre nuovi.
Il sistema degli strumenti di produzione divenne sempre più
complesso, quanto più si andava articolando sulla divisione del lavoro tra
‘specialisti’ dell’uno o l’altro momento produttivo.
La divisione del lavoro divenne regola e si costituì un
sistema di reciproca dipendenza, che rese sempre più l’uomo un essere sociale.
Per regolare queste relazioni sociali -i rapporti di produzione- si rese
necessario un ordine giuridico, principi morali di comportamento e, pure,
l’istituzionalizzazione di una cultura, capace di garantire l’elaborazione
della crescente esperienza pratica e delle conoscenze scientifiche, sempre più
complesse e differenziate, allo scopo di perfezionare gli strumenti di
produzione ed i mezzi per soddisfare necessità sempre in aumento.
Dalla divisione del lavoro nacque lo scambio dei diversi beni
forniti da produtori differenti; mano a mano che si andava sviluppando la
divisione del lavoro, si sviluppava anche un commercio sempre più emancipato
dai bisogni immediati ed i beni divennero merci da scambiare sul mercato; da
ciò nacque, anche, la proprietà privata.
Chi può contare sulla proprietà degli strumenti di
produzione, acquista potere su coloro i quali, invece, possono solo servire
quegli stessi strumenti con la loro forza-lavoro. Sulla base offerta dal tipo
di rapporti di proprietà si vanno elevando classi sociali, che determinano in
modo differenziato la distribuzione sociale della ricchezza prodotta. Dai
contraddittori interessi di classe si origina la lotta tra le classi e questa
lotta determina il corso stesso dello sviluppo sociale.
“La storia di tutte le società finora esistite è la storia
delle lotte di classe. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della
gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi,
furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta
ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una
trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle
classi in lotta.”[14]
La lotta di classe è la forma politica fondamentale
della storia: ma -come si legge ancora nel Manifesto di Marx
ed Engels- ogni lotta di classe è lotta politica; il contenuto della lotta è
determinato dal sistema economico di produzione e di scambio. Ogni livello di
sviluppo raggiunto dalla forze produttive e dagli strumenti di produzione
assicura alla società tutta -agli sfruttatori come anche agli oppressi- una
condizione di esistenza (anche se ben diverse son le sorti dei signori e degli
schiavi).
“Per poter opprimere una classe è comunque necessario
assicurarle quelle condizioni, che le permettano se non altro di condurre la
sua misera esistenza da schiavo.”[15]
Quando, sotto certi rapporti di proprietà, la capacità
produttiva di una società non è più in grado di offrire condizioni sufficienti
di esistenza ad una grande massa di sfruttati ed oppressi, lo sviluppo delle forze
produttive non rappresenta più un’utilità sociale a cui, sia pure in piccola
parte, anche i dominati partecipino, ma addirittura quello sviluppo viene
ostacolato dai rapporti di proprietà ovvero si ripercuote a danno della
società, è proprio allora che sorge la necessità di mutare l’ordinamento
sociale ed i rapporti di proprietà.
“Abbiamo però veduto che i mezzi di produzione e di scambio
sulla cui base si eresse la borghesia, furono generati in seno alla società
feudale. A un certo grado dello sviluppo di questi mezzi di
produzione e di scambio, le condizioni nelle quali la società feudale produceva
e scambiava, vale a dire l'organizzazione feudale dell'agricoltura e della
manifattura, in una parola i rapporti feudali di proprietà, non corrisposero
più alle forze produttive già sviluppate. Quelle condizioni, invece di favorire
la produzione, la inceppavano. Esse si trasformavano in altrettante
catene. Dovevano essere spezzate, e furono spezzate. Subentrò ad
esse la libera concorrenza con la costituzione politica e sociale ad essa
adatta, col dominio economico e politico della classe borghese. Sotto i nostri
occhi si sta compiendo un processo analogo. Le condizioni borghesi di
produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la moderna società
borghese, che ha evocato come per incanto così potenti mezzi di produzione e di
scambio, rassomiglia allo stregone che non può più dominare le potenze
sotterranee da lui evocate. Da qualche decina d'anni la storia
dell'industria e del commercio non è che la storia della ribellione delle
moderne forze produttive contro i modemi rapporti di produzione, contro i
rapporti di proprietà che sono le condizioni di esistenza della borghesia e del
suo dominio. Basti ricordare le crisi commerciali, che nei loro ritorni
periodici sempre più minacciosamente mettono in forse l'esistenza di tutta la
società borghese. Nelle crisi commerciali viene regolarmente
distrutta una gran parte non solo dei prodotti già ottenuti, ma anche delle
forze produttive che erano già state create. Nelle crisi scoppia una
epidemia sociale che in ogni altra epoca sarebbe apparsa un controsenso:
l'epidemia della sovrapproduzione. La società si trova
improvvisamente ricacciata in uno stato di momentanea barbarie; una carestia,
una guerra generale di sterminio sembrano averle tolto tutti i mezzi di sussistenza;
l'industria, il commercio sembrano annientati, e perché? Perché la
società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa
industria, troppo commercio. Le forze produttive di cui essa dispone
non giovano più a favorire lo sviluppo della civiltà borghese e dei rapporti
della proprietà borghese; al contrario, esse sono divenute troppo potenti per
tali rapporti, sicché ne vengono inceppate; e non appena superano questo
impedimento gettano nel disordine tutta quanta la società borghese, minacciano
l'esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono diventati troppo
angusti per contenere le ricchezze da essi prodotte.”[16]
Queste proposizioni, che traggo dal Manifesto,
possiamo dirle profetiche, dacché valgono come anticipi delle crisi economiche,
dei conflitti bellici mondiali che verranno ed, anche, mostrano le radici di
quei disastri ecologici, che minacciano l’esistenza stessa dell’uomo.
La realtà ha confermato quelle proposizioni con
l’immiserimento di gran parte del mondo che ha comportato la morte per fame di
miliardi di uomini; con la produzione di armi atomiche, biologiche, chimiche,
che mettono in pericolo la sopravvivenza stessa dell’umanità; con il crescente
inquinamento e distruzione dell’ambiente.
“Nella stessa misura in cui si sviluppa la borghesia, vale a
dire il capitale, si sviluppa anche il proletariato, la classe dei moderni
lavoratori, i quali vivono sino a tanto che trovano lavoro, e trovano lavoro
soltanto fino a che il loro lavoro valorizza[17] il
capitale. Questi lavoratori, che sono costretti a vendersi al minuto, sono una
merce come ogni altro articolo di commercio e perciò sono egualmente esposti a
tutte le vicende della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato.” [18]
La contraddizione (Gegensatz) di classe fra borghesia
e proletariato è l’opposizione (Widerspruch) politica determinante della
società capitalistica. E contro tutte le chiacchiere di coloro i quali parlano
di scomparsa, oggi, del proletariato, varrebbe la pena ricordare qual è il
significato del concetto di «proletariato»: “Il proletariato è
quella classe della società, che ricava il proprio sostentamento solo dalla vendita
del proprio lavoro e non dal profitto di un qualche capitale; è quella classe,
il cui benessere o la cui miseria, la cui vita o la cui morte, insomma, la cui
intera esistenza dipende dalla domanda di lavoro, dunque, dalla pura
compra-vendita di tempo di fatica, dalle oscillazioni di una concorrenza che
non conosce freni.”[19]
La forma esteriore in cui si configura il rapporto salariale
cambia col mutare dell’organizzazione del lavoro e dei rapporti fra lavoro
produttivo e lavoro non produttivo; la contraddizione di classe, però, -senza
di cui non potrebbe esistere il rapporto di capitale-, non risulta toccata da
quei mutamenti.
Un compito della teoria -che nella prassi del confronto
politico si rafforza e verifica- è render visibile la lotta di classe per
portarla alla coscienza, nonostante tutti i mascheramenti prodotti
dall’ideologia borghese: è questo il modo per far nascere la coscienza di
classe.
§. 3 - La dialettica della natura.
Alcune correnti filosofiche che, ingannandosi, si richiamano
a Marx (ad es., la così detta Scuola di Francoforte, oppure i “filosofi della
prassi” o gli esistenzialisti di sinistra) ritengono che la dialettica sia la
struttura dei processi che nascono dall’attività dell’uomo nella storia e che
sia legata essenzialmente al fatto che il soggetto si rapporta a se stesso e
pone liberamente i suoi scopi: il presupposto è che l’uomo sia distinto radicalmente
dalla natura e ad essa contrapposto.
Concepire in questo modo la particolare posizione dell’uomo
nel mondo significa abbandonare il principio fondamentale dell’unità materiale
del mondo stesso e, dunque, abbandonare il materialismo.
Tutti i fenomeni di questo mondo sono espressioni di una
stessa realtà materiale, che si articola in complessi sviluppi e
differenziazioni di livelli: ognuno di questi livelli ha proprie specifiche
leggi dinamiche, le quali, però, vengono a costituire un insieme di interconnessioni.
Anche la natura non-umana definisce un sistema, costruito
dall’interazione dei suoi elementi e nel quale, dunque, ogni elemento si lega
all’altro, in modo più o meno diretto: proprio la crisi ecologica ci ha reso
consapevoli di tale sistema di reciproche dipendenze in ambito naturale.
L’uomo, che opera sulla natura come soggetto libero, senza
conoscere o senza tener in conto le interconnessioni naturali, provoca disastri
non solo per la natura, ma anche per se stesso: anche per questo, non è
possibile più consentire che il gioco degli interessi particolari, così densi
di conseguenze di grande estensione, possa continuare a svolgersi
all’insegna del principio dell’ economia borghese «laissez-faire,
laissez-passer».
In realtà, la dialettica della natura è immediatamente anche
momento della dialettica sociale.
In quanto essere naturale, l’uomo ha bisogni,
che soddisfa ed amplia in quanto essere sociale; in quanto essere sociale è
dotato di un arco di possibilità determinate dalla natura e che, dunque, lo
qualificano come essere naturale. La dialettica sociale della lotta
di classe e del rapporto fra essere e coscienza corrisponde alla dialettica di
natura e società nell’ interscambio dell’uomo con la natura” (Marx) e questa, a
sua volta, presuppone la dialettica della natura (Engels), in quanto
universalità delle forme dinamiche della materia: se astratto dalla
fondamentale sua relazione con una visione del mondo dialettico-materialistica,
il materialismo storico resta come sospeso in aria.
L’unità di una visione del mondo scientifica della natura e
della società costituisce il fondamento dell’agire politico e della
comprensione, che i comunisti hanno di sé: questi, infatti, non possono prender
coscienza del loro ruolo nella storia, se non intendono l’interna connessione
universale (Goethe).
§. 4 - Errori passati e prospettive future.
Quando, nel suo programma del 1978, si assumeva il compito
di “approfondire fra gli operai e gli altri lavoratori la consapevolezza della
propria collocazione di classe e l’inconciliabile contraddizione fra i propri
interessi di classe e gli interessi di potere e di profitto del grande
capitale”, il DKP si ricollegava alle consapevolezza di Marx, Engels e Lenin
circa il significato di una comprensione teorica della storia per una corretta
prassi rivoluzionaria.
Ma nei venti anni successivi della sua attività fino alla
caduta delle società socialiste, il DKP ha acquisito anche una corretta
comprensione di sè? Ha realizzato il suo compito di sviluppare la coscienza di
classe attraverso la lotta politica di classe, in modo da garantire a quella
stessa coscienza sicuri fondamenti teorici, almeno nell’ambito delle forze, che
il Partito può organizzare? Uno sguardo retrospettivo sui 25 anni di storia del
Partito e la considerazione dei compiti futuri non possono prescindere da
questa domanda -anche se non si può dare un’ unica risposta a
tale domanda. Torniamo, ancora una volta, al congresso programmatico di
Mannheim 1978.
Il Partito, rifondato dopo lo scioglimento del DKP imposto
dalla legge e che si riunisce a Mannheim, ha 10 anni e si tratta di un decennio
(1968-78) ricco di svonvolgimenti politici, che accompagnano la crisi
dell’ordine imperialistico fino ad allora imperante e la costituzione di un
nuovo ordine per l’ultimo quarto di secolo.
La politica del roll back contro l’Unione
Sovietica e la minaccia rappresentata dalla superiorità nucleare delle Potenze
occidentale, entrambe, sono fallite. La fase del ‘cauto commercio’ (?),
che iniziò con la cosiddetta ‘ politica di distenzione’ dell’era Brandt,
sottintendeva l’uso della dipendenza economica dai paesi capitalistici, per
acuire le contraddizioni interne dei paesi socialisti, fino a farne un’arma
controrivoluzionaria. Dall’ideologia del ‘socialismo dal volto umano’ fino alla
KSZE (?), si svolse un’intera gamma di strategie
controrivoluzionarie nei confronti dei paesi socialisti.
Nello scontro sociale di questi anni il giovane DKP ha
saputo conquistarsi un posto, in particolare radicandosi in una vasta alleanza
anti-imperialistica nel movimento per la pace, anche se spesso pagando, come
prezzo, necessario di anteporre le attività richieste da questo movimento agli
scopi propri del Partito, talvolta anche sottovalutando -errore in cui,
d’altronde, è caduta anche la DDR, la quale era attratta eminentemente dalla
possibilità di un più ampio riconoscimento internazionale- i pericoli impliciti
nella nuova “Ostpolitik”.
In tale situazione - in cui lo spazio di movimento politico
del Partito era ridotto da condizioni esterne-, il lavoro teorico si è
dimostrato fattore essenziale della stabilità interna e dell’efficacia esterna
del DKP. E’ ben difficile che un altro PC del mondo Occidentale abbia saputo
condurre, con mezzi tanto scarsi, una così ampia attività di ricerca
scientifica ed abbia prodotto tante pubblicazioni. Gli studi, i materiali e i
convegni dell’ Istituto di studi e ricerche marxiste (IMSF), - le pubblicazioni
dell’editrice Marxistische Blätter, - gli scritti di solidali autori comunisti
negli Studien zur Dialektik dell’editrice Pahl - Rugenstein o
di altre imprese editoriali hanno largamente testimoniato l’impegno
scientifico-culturale dei comunisti ed ampliato la loro influenza, ben oltre
l’ambito strettamente comunista. Tra i lavori dell’ IMSF voglio ricordare gli
annuari e resoconti - sull’occupazione operaia, - sul mutamento del movimento
dei lavoratori, - sulla tipologia della crisi degli anni 80, - sul modo di vita
dei salariati, - sulla teoria marxista della personalità, - sulla Rivoluzione
francese e sull’odierna teoria della rivoluzione, - e l’importante volume per
il Centenario di Marx. Dei trenta volumi degliStudien zur Dialektik ricordo
il volume collettaneo su Antonio Gramsci, - quello sulla filosofia dal punto di
vista cosmopolitico e sul socialismo scientifico, - l’altro sulla filosofia
come difesa del tutto della ragione, - lo studio di W. Rügemer
sull’antropologia filosofica e - le ricerche di H. Bert Reuvers
sulla Filosofia della pace. Insomma, l’attività scientifica dei
marxisti nella Repubblica federale è stata ampia e di rilievo. Questo, per
quanto riguarda il bilancio positivo.
Ma ad esso si contrappone il fatto che l’apporto teorico,
auspicato e richiesto dall’organizzazione di Partito, solo in piccola parte
riuscì a tradursi in pratica politica, capace ad un tempo di rispondere
efficacemente alle urgenze delle cose, ma anche di avere un respiro più largo;
in tal modo la qualità della ricerca filosofica e scientifica restò
parzialmente inutilizzata e sempre più si distanziò dalla pratica politica
quotidiana del Partito.
Anche per le esigenze che nascevano dalla lotta per la pace,
si ebbero sottovalutazioni e ritardi nella promozione di altri movimenti
democratici: ad es., il movimento per la difesa dell’ambiente ed, in parte,
quello femminile.
Per quanto il DKP sia stato il primo partito ad impegnarsi
praticamente e ad elaborare un programma in cui venivano delineate strategie
classiste di lotta per la difesa dell’ambiente, tuttavia il Partito lasciò ai
Verdi la lotta per mantenere le fondamentali condizioni naturali della vita. Il
DKP fece da battistrada nella lotta in difesa degli interessi delle lavoratrici
ed, espressamente, collegò strettamente la questione femminile alla più
generale lotta di classe; tuttavia, per la specificazione -pur necessaria-
della questione sessuale, la politica del Partito incontrò qualche difficoltà
in seguito all’attività del movimento femminista: in generale si può dire che
il Partito -giustamente fermo nel sottolineare il ruolo centrale della classe
lavoratrice per il progresso sociale-, abbia in qualche misura sottovalutato il
significato dei cosiddetti ‘nuovi movimenti sociali’ ed anche la loro capacità
di attrattiva per i comunisti stessi.
Certamente questi ritardi hanno contribuito a che,
nonostante l’impegno del partito a combattere le posizioni non marxiste che
venivano dai ‘nuovi movimenti sociali’, queste riuscissero, invece, ad influenzare
parzialmente lo stesso Partito, come chiaramente si vide alla fine degli anni
80. Presso i (militanti) ‘più nuovi’ si fecero strada tendenze ad abbandonare
posizioni classiste nella lotta per la pace; il rapporto dialettico tra
problemi di classe e problemi dell’umanità fu abbandonato, isolando così
unilateralmente questi ultimi; rispetto alla questione ecologica si
presentarono punti di vista da filosofia della vita e, rispetto alla questione
femminile, si affermò la tendenza ad oscurarne gli aspetti politici, riducendo
tutto ad un mèro scontro fra sessi: a questo punto, risultò inevitabile la
rottura con la parte del Partito, che si manteneva, invece, su posizioni
rivoluzionarie.
Le molteplici radici dei ritardi e debolezze politiche
mostrate dal Partito nonostante i risultati da esso ottenuti in ambito
concettuale e teorico, richiedono un’accurata indagine, che certo non può esser
fonita in un semplice articolo: qui è possibile, solo, indicare un orientamento
gravemente erroneo.
In Germania, come dovunque in Occidente, i comunisti hanno
fatto esperienza quotidiana di quanto forte sia ancora il capitalismo e quanto,
nelle metropoli del capitale, esso sia capace di legare le masse a sé anche con
l’aiuto di molteplici strumenti ideologici -e tutto ciò, nonostante
l’approfondirsi della crisi generale ed il sempre nuovo manifestarsi di
conflitti e contraddizioni. Bisogna riconoscere, tuttavia, che il Partito, nel
valutare la situazione politica, si è lasciato guidare dalla convinzione -che
era dell’Unione Sovietica, ma anche degli altri Paesi socialisti, compresa la
DDR-, secondo cui il campo socialista era ormai divenuto la forza determinante
dello sviluppo storico mondiale, mentre le Potenze capitalistiche si trovavano,
invece, sulla difensiva.
In realtà, chi avesse fatto attenzione alle differenze dei
livelli di produzione e di partecipazione al commercio mondiale, avrebbe potuto
convincersi del contrario.
La politica mondiale socialista avrebbe dovuto esser
orientata contro il capitalismo dominante -e
questo nella difficile condizione di dover costringere l’avversario alla
coesistenza pacifica e, contemporaneamente, di portare avanti la costruzione
del socialismo.
Questa era la situazione dell’Unione Sovietica dopo la
Rivoluzione d’Ottobre: troppo frettolosamente convinti che ormai il
socialismo avesse -per così dire- la vittoria in tasca, si ritenne
anche che fosse possibile, senza pericolo per il socialismo, cooperare
utilmente con le metropoli capitalistiche ed aumentare, così, la propria
partecipazione al commercio internazionale; da ciò derivarono gravi errori
nella gestione dei labili equilibri della coesistenza e della concorrenza
internazionale.
In questo contesto, il DKP non è stato capace di tradurre in
autonome formule politiche i risultati della sua esperienza pratica e delle
conoscenze teoriche acquisite, né dunque di farle pesare nella generale
strategia del movimento comunista.
Autocriticamente dobbiamo dire che l’essersi orientato su
prospettive di politica internazionale deformate è una delle ragioni
principali, per cui il DKP non è stato capace di mobilitare più ampliamente la
popolazione tedesco-occidentale, né, quindi, di usare in modo adeguato le
potenzialità esistenti; ciò, è ovvio, rese difficile battere i pregiudizi
anticomunisti, diretti principalmente contro l’Unione Sovietica e la DDR, alle
quali per altro il DKP dimostrava giustamente la sua propria completa
solidarietà.
Certamente, questa solidarietà sarebbe apparsa assai più
plausibile a coloro i quali, pur non essendo comunisti, erano però orientati
criticamente contro il capitalismo -e, così, avrebbe rappresentato un ben
maggior sostegno allo stesso socialismo di fatto esistente-, se fosse riuscita
a tematizzare in modo più incisivo l’incertezza del confronto fra capitalismo e
socialismo e le contraddizioni e debolezze, che da ciò derivavano al sistema
socialista.
L’immagine di superiorità che diffondeva la propaganda
sovietica ha causato, certo, più di un danno ideologico; ben più utile sarebbe
stato, invece, un atteggiamento critico -per quanto, ovviamente, solidale.
Fino a che esiste il capitalismo come rapporto di
produzione, la lotta di classe non può conoscer fine. Nelle condizioni della
produzione capitalistica non esiste alcuna spontanea solidarietà fra i
lavoratori, fra gli sfruttati: chi deve vendere la propria forza-lavoro
sottostà alle leggi di concorrenza del libero mercato.
“Di quando in quando gli operai vincono, ma solo in modo
effimero. Il vero risultato delle loro lotte non è il successo immediato, ma
l’unione sempre più estesa degli operai... Questa organizzazione dei proletari
in classe, e quindi in partito politico, viene ad ogni istante nuovamente
spezzata dalla concorrenza che gli operai si fanno fra loro stessi. Ma essa
risorge sempre di nuovo, più forte, più salda, più potente.”[20]
Per quanto difficile possa essere sul momento comprenderlo a
fondo, è vero tuttavia che ogni sconfitta del movimento dei lavoratori, sia a
livello nazionale che internazionale, apporta nuove esperienze nella lotta
contro il capitale, forgia nuove armi per questa stessa lotta.
Oggi la disillusione è grande - almeno tanto grande, quanto
lo fu la speranza che la Rivoluzione d’Ottobre avesse significato
un’irreversibile mutamento nel corso della storia.
Ma dis-illusione significa, anche, superamento dell’illusione.
E noi ci siamo ingannati circa le possibilità del capitalismo di trovare, sia
pure nella crisi più profonda, i modi per assicurarsi nuova vita.
Eppure la crisi non è stata tolta di mezzo: la stessa
permanenza del capitalismo significa produzione di nuova crisi e
l’approfondirsi delle contraddizioni distruttive: quelle diagnosi di Marx ed
Engels, che si volevano invecchiate e false, tornano invece -e proprio con i
nuovi sviluppi- di sorprendente attualità.
Proprio le sconfitte subite apprendono alla classe
lavoratrice l’impossibilità di procedere, senza conflitti, nella direzione di
una società a misura d’uomo; che non si dà la possibilità di ‘dialogo
imparziale’ tra sfruttatori e sfruttati; che è un incommensurabile autoinganno
immaginare la possibilità di un capitalismo ‘portatore di pace’. Ogni passo in
avanti, al contrario, non può che presupporre una lotta di classe contro il
nemico, dura e richiedente sacrifici.
§. 5 - Urgenti compiti, oggi, della teoria.
Quali sono i problemi principali, a cui dobbiamo applicarci
teoricamente, per dare una base solida alla prassi?
1 - La borghesia è riuscita a rendere la loro storia
qualcosa di estraneo per gran parte dei comunisti, ottenendo così di
distruggere l’identità epocale del movimento comunista. E che a ciò la
borghesia sia riuscita è, ovviamente, un problema di egemonia
ideologica. D’altra parte è vero che noi siamo comunisti, nella misura in
cui ci riconosciamo parte e risultato della intera storia del movimento
rivoluzionario dei lavoratori -con il suo eroismo, i suoi successi, ma anche con
tutti gli errori e delitti, che ci si può attendere in una tale “lotta per la
vita o la morte” (Hegel).
Lo snodo principale nella storia del movimento
rivoluzionario è dato dalla Rivoluzione d’Ottobre, in cui la classe lavoratrice
ha saputo conquistarsi la vittoria politica contro un intero mondo nemico ed
iniziare, anche, la costruzione di una società socialista.
Questi son punti fermi, pur se le non risolte contraddizioni
interne nella fase di costruzione del socialismo e la potenza del nemico
esterno, alla fine, hanno portato alla sconfitta di questo primo tentativo.
Resta che la classe lavoratrice, guidata dal PC, ha di fatto
dimostrato che, pur in condizioni certamente sfavorevoli, è capace di ottenere,
lottando, effettivi progressi - l’impoverimento, dopo la contro-rivoluzione,
dei Paesi un tempo socialisti non fa che sottolineare la portata delle
conquiste, che erano state realizzate.
Tuttavia, non possiamo difendere la nostra eredità, se non
ci impegnano a spiegare, con lo strumento dialettico offertoci dal materialismo
storico, quelle stesse obiettive contraddizioni interne, che hanno portato al
crollo. La solidarietà emozionale e la difesa morale -per quanto parti
integrali del nostro comportamento, della nostra soggettività e del nostro
slancio rivoluzionario- certamente non bastano.
Dobbiamo distinguere, infatti, tra moralità personale e
strutture storiche sovra-personali, se non vogliamo precipitare in quel ‘punto
di vista del cameriere’, di cui Hegel con disprezzo diceva; il quale punto di
vista comporta la riduzione della politica alle categorie della vita personale:
alla coscienza del borghese, noi dobbiamo invece contrapporre
quella del cittadino!
Un’analisi storico-materialistica della nostra stessa vicenda
come storia di un’aspra lotta di classe internazionale, ci garantisce la nostra
identità di comunisti.
Identità, che comprende entro di sé Marx, Engels, Labriola,
Gramsci, Lenin, Stalin e Mao; identità che -come vuole la dialettica- è
identità di identità e non-identità. Solo con una critica fondata
teoreticamente possiamo acquisire la forza di riconquistare l’iniziativa
strategica.
2. Diciamo con nettezza che la Rivoluzione d’Ottobre non fu
un errore storico, pur se avvenne in condizioni di immaturità e arretratezza.
Per chiarire quale significato paradigmatico abbia la Rivoluzione d’Ottobre,
dobbiamo comprendere che il capitalismo del XX° secolo possedeva sufficienti
risorse e possibilità di sviluppo, da sopravvivere nel lungo termine alla crisi
generale provocata dalla prima guerra mondiale. Non esiste, però, una ‘fine
della storia’, come vorrebbero farci credere certi filosofi borghesi; e poiché
la storia va oltre l’attuale fase di dominio universale del capitale, la nostra
epoca resta quella del passaggio dal capitalismo al socialismo (oppure -in
alternativa- alla barbarie, come opportunamente chiariva la Rosa Luxemburg). Ma
poiché il capitalismo oggi -come nel 1917/18- è sufficientemente forte,
ricorrendo sia alla repressione che alla manipolazione ideologica, da
affermarsi contro le forze rivoluzionarie, permane, di nuovo come nel 1917, la
possibilità che la catena si rompa in un qualche suo anello debole, vale a dire
in un Paese che, per quanto arretrato, presenti tuttavia contraddizioni aspre
ed esplicite.
Ma qualunque rivoluzione, oggi, non potrebbe che essere
tendenzialmente socialista: infatti, in nessun paese sviluppato esiste più la
possibilità che si determini una rivoluzione borghese, capace di confermare che
al socialismo si può arrivare solo attraverso la società borghese.
Detta in altre parole, ogni rivoluzione borghese renderebbe il paese in cui
avvenisse, diponibile non ad una fase di sviluppo capitalistico proprio, ma sì
oggetto di sfruttamento per l’accumulazione capitalistica delle Potenze
imperialiste: a partire dal 1945 abbiamo acquisito molti esempi di ciò.
Non è improbabile che, anche nel futuro, la società che
passerà dal capitalismo al comunismo, dovrà aver compiuto -così come l’Unione
Sovietica del 1917- un salto da un capitalismo quasi coloniale al socialismo,
con tutte le contraddizioni -economiche, istituzionali, ideologiche-
conseguenti.
Da ogni rivoluzione -che avverrà o da quella che, oggi,
ancora può resistere (com’è il caso di Cuba) alla pressione del capitalismo-
chiamato in causa è l’intero movimento comunista mondiale: non solo per
solidarietà, quanto piuttosto per una concezione internazionalistica
della lotta di classe, libera da ogni interclassismo, perché questo non altro
significa se non la vittoria della classe dominante.
Mi sembra evidente che una rivoluzione, dovunque avvenga,
può garantire se stessa solo costruendo un regime che, almeno in certi tratti
essenziali, sia socialista; altrettanto evidente mi appare che ciò è possibile,
solo, attraverso la dittatura del proletariato. Nella quale, però, si
nascondono pericoli di deformazioni -e nel passato ne abbiamo sperimentato
esempi precisi-, per evitar i quali è necessaria una teoria dell’organizzazione
dello Stato e della società in Paesi, che vengono alla rivoluzione senza esser
passati attraverso un regime di Stato di diritto, qual è proprio di società
borghesi pienamente sviluppate.
Ché, infatti, un conto è passare da un sistema borghese del
diritto ad uno socialista; tutt’altro è, invece, passare a quest’ultimo,
partendo da livelli giuridici pre-borghesi.
Per quanto possa aver un peso decisivo la particolarità
delle situazioni, tuttavia, esattamente quella particolarità storica nasconde
in sé il pericolo di scadere in un pragmatismo opportunistico, il cui
contrappeso può esser rappresentato dalla elaborazione teorica di precise
condizioni formali della legalità socialista.
3 - Sia l’esperienza storica cha abbiamo
accumulato, sia la conoscenza dialettica delle contraddizioni strutturali di ogni costruzione
sociale ci apprendono, entrambe, che la lotta di classe continua anche durante
il processo di costruzione del socialismo -lotta di classe, che le minacce
esterne ovviamente acuiscono. Sia Stalin che Mao hanno sottolineato questo lato
della dialettica storica.
Anche dopo che siano stati instaurati rapporti socialisti di
proprietà, per un lungo periodo di tempo continuano ad agire sugli uomini
orientamenti, attese e scale di valore pre-socialisti.
Il potere della coscienza non gioca solo a favore della
rivoluzione, ma sì anche a vantaggio dell’aperta controrivoluzione e della
resistenza passiva ad essa (altrimenti, fenomeni come Krusciov e Gorbaciov
risulterebbero incomprensibili).
Ogni teoria della costruzione del socialismo -e noi per
poterci dare obiettivi credibili abbiamo, certo, bisogno della critica del
capitalismo ma, appunto, anche di una teoria del socialismo- deve riuscire a
precisare gli aspetti qualitativi nuovi della lotta di classe, quando il
problema sia difendere il potere politico conquistato dal proletariato.
Prima della rivoluzione noi combattiamo un sistema di potere
esistente, ma dopo la rivoluzione noi dobbiamo assumere il potere allo scopo di
costruire una società priva di dominazione e, poste le crescenti resistenze
interne ed esterne, il potere statale non può privarsi dell’arma della
repressione: questa, appunto, era la situazione, in cui si trovava l’Unione
Sovietica fra le due guerre e questa è una contraddizione che, in situazioni
analoghe, si ripeterà.
Da parte nostra dobbiamo attrezziarci, anche teoreticamente,
ad affrontarla, se non vogliamo commettere gli stessi errori, che son stati
compiuti durante il primo tentativo di costruzione del socialismo.
E’ evidente che ogni società socialista che si svilupperà in
un ambiente capitalistico ostile dovrà prepararsi a respingere atti di
sovversione e di aggressione: regola aurea della sua azione politica e della
sua pianificazione economica sarà non lasciarsi dettar condizioni dal nemico
(la compressione del socialismo mediante le conclusione del Ksze (?), obiettivo
dell’Occidente oggi apertamente confessato, a suo tempo fu sottovalutata).
L’unità politica della direzione statale socialista, la
rimozione delle basi economiche delle strutture classiste ed un attento
processo d’educazione sono momenti irrinunciabili d’un programma di
trasformazioni di lungo periodo.
Ma su questo bisogna aver le idee chiare: la trasformazione
verso il socialismo può esser raggiunta solo se ad essa collabora la
maggioranza del popolo. E ciò significa: partecipazione crescente dei cittadini
all’attività dello Stato, forme democratiche che dal basso vadano verso l’alto,
espansione degli istituti d’autogoverno, coinvolgimento dei lavoratori nella
direzione delle imprese, ecc.
Molto di ciò la Costituzione sovietica prevedeva, ma solo in
parte fu effettivamente realizzato: il fatto è che, però, la democratizzazione
della società costituisce un tutto e, dunque, deve improntare di sé ogni ambito
dell’esperienza collettiva.
La contraddizione tra fini stabiliti e loro realizzazione
non sta, in primo luogo, nella coscienza degli attori politici, ma nello
squilibrio obiettivo, che segna ogni epoca di passaggio da una formazione
sociale ad un’altra e che, naturalmente, si riflette anche nella coscienza
degli uomini; è questa una contraddizione che può esser risolta da un’adeguata
riflessione teorica.
Chiaramente, la libertà del confronto teorico è un
presupposto in vista del superamento di tali contraddizioni e per rinvenire le
strategie pratiche, attraverso cui giungere alle adeguate forme
d’organizzazione sociale.
Ma altrettanto è chiaro che gli scontri frazionistici per il
potere mettono in pericolo la già precaria stabilità raggiunta dal regime e,
pure, sono un aiuto certo -per quanto involontario- al nemico.
L’unità del Partito -dunque, della forma in cui si
organizzano le forze rivoluzionarie- è una condizione della sua capacità di
agire. Va da sé che la costruzione di una società nuova è un percorso che
prevede la possibilità di varianti: di qui l’altrettanto possibile presentarsi
di dissensi all’interno del Partito. Solo un alto livello teorico può garantire
che quei dissensi non si traducano in lotte frazionistiche, ma sì in dibattiti
da risolvere con argomenti.
La fondatezza di questa prospettiva è data dal fatto che,
nel contesto della nuova società, il problema nella sostanza non è come
realizzare compromessi fra interessi diversi, ma piuttosto come
giungere a decisioni, da cui derivino norme di comportamento coerenti con
la stessa natura profonda della società in questione.
Nella prospettiva della costruzione di una nuova società, il
modello del parlamentarismo borghese non è proponibile; nella costruzione
dell’Unione Sovietica, un grave limite, foriero di autentiche sciagure, fu
rappresentato dal fatto che le strutture di potere mediante cui esercitare la
dittatura del proletariato furono, a dir così, assunte ‘naturalmente’ e per
questo presero forme burocratico-poliziesche. Non avendo avuto il dibattito
sull’ordinamento costituzionale effettive radici nella vita sovietica, la
stessa Costituzione del ‘36 restò qualcosa di astratto e inefficace.
4. Nel tentativo di costruire il socialismo, i comunisti si
trovarono nella condizione di procedere al progressivo raggiungimento della
nuova società, immediatamente, per via puramente pratica, partendo solo dalla
critica al capitalismo.
Oggi, dopo il fallimento del primo tentativo di costruzione
del socialismo e per rettificare gli errori compiuti, i comunisti abbisognano
non solo di una critica del capitalismo, ma anche di delineare, sia pure a
larghi tratti, il profilo fondamentale d’una società socialista e del suo modo
di funzionare -e ciò anche allo scopo di battere l’argomento, secondo cui il
nostro progetto è già stato sconfessato dalla storia.
Per chi pensi dialetticamente risulta chiaro che la nuova
qualità si va definendo solo mediante la “negazione determinata” della
formazione superata: il che significa che l’analisi strutturale dell’attuale
capitalismo e delle sue interne contraddizioni è un presupposto per rispondere
ai problemi posti dal passaggio al socialismo.
Abbiamo bisogno di una teoria dell’economia politica
nell’attuale capitalismo, che sia capace di dire a cosa porti il fatto che
l’accumulazione del capitale venga perseguita con crescente rapidità e che, nello
stesso tempo, il potere d’acquisto delle masse diminuisca nelle metropoli,
mentre nei Paesi dipendenti progredisce un impoverimento assoluto che, ormai,
colpisce la metà del genere umano.
Il fatto, inoltre, che l’accumulazione avvenga sempre di più
nella forma di operazioni finanziarie e non per effetto della crescita della
produttività sta a segnalare un nuovo stadio della crisi.
Quali nuove forme dinamiche ha assunto, allora, la
contraddizione fra capitale e lavoro ed in quali istituzioni sociali si
manifesta?
Quali effetti ha la contraddizione, che necessariamente si
va approfondendo, fra economia capitalistica e condizioni ecologiche di
sopravvivenza?
Quali sono le strategie che assume la spoliticizzazione, il
cui effetto è mettere la sordina sulla lotta di classe?
Quali forme d’organizzazione deve promuovere la classe
lavoratrice, per contrapporsi all’internazionalizzazione del capitale? Ecco le
molte domande, a cui poche risposte son state date finora.
Quello che è certo è che tali risposte non possono esser
ricavate dalla casualità della lotta politica quotidiana, dacché richiedono,
invece, concezioni teoriche, che consentano una comprensione della realtà non
per via di mère descrizioni fenomeniche, ma sì attraverso elaborazioni
categoriali.
5. Oggi la coscienza gioca un ruolo quanto mai importante
per il movimento rivoluzionario, se consideriamo l’opacità e la frammentarietà
di dati empirici, con cui la realtà si presenta a noi; o se badiamo
all’impenetrabilità di quelle strutture, che sembrano dare un corso
inevitabilmente determinato ai processi sociali ed, infine, se abbiamo a mente
la funzione deviante ed ingannatoria dell’ ‘industria culturale’.
Coscienza significa “tensione del concetto”
volta a cogliere la complessità delle mediazioni al di sotto dell’immediato
apparire; ma significa, anche, scelta di quel punto di vista di classe, a
partir dal quale la lotta deve esser combattuta; infine, coscienza significa,
anche, proiezione della consapevolezza del generale sui contenuti degli
interessi e dei vissuti soggettivi.
Senza quell’ “algebra della rivoluzione” di cui diceva
Herzen, l’immediatezza delle esperienze di vita condurrebbe ad un castrante
pluralismo soggettivistico; come d’altro lato è vero che se non riuscisse a
tradursi nella particolarità delle situazioni, quella stessa “algebra” si
inaridirebbe in vuoto schematismo.
La via regia della dialettica si muove nei due sensi: la
visione individualizzante del soggetto umano vien sollevata all’altezza
dell’universalità del concetto, trovando nel punto di vista di classe il
proprio superamento, dunque, conferma e negazione ad un tempo; da parte sua,
l’universalità del concetto si mostra e realizza nell’unicità dell’esistenza
individuale.
“La via in su e la via in giù son la stessa via”, diceva
Eraclito; ma quella via va percorsa nei due sensi -appunto, in su e in giù-,
perché si realizzi la dialetticità del vero, l’unità di teoria e prassi.
Nella sconfitta, la parte più consistente e solida del DKP
si è mantenuta e riorganizzata: che questo nucleo possa tornare a costituire
l’avanguardia combattiva della classe lavoratrice, dipende dal suo riuscire a
battersi per una nuova società (socialista), senza illusioni ma anche senza
disfattismo. Al fine di determinare gli scopi e la strada per raggiungerli,
senza sbandamenti opportunistici, è necessario il rigore della teoria, del
materialismo storico, della dialettica, del marxismo-leninismo. Poichè né la
coscienza di classe né la solidarietà fra i lavoratori si danno e conservano
spontaneamente ma, al contrario, per potersi sviluppare e consolidare
richiedono una conoscenza generale della condizione della classe. La teoria,
dunque, la visione scientifica del mondo, giocano un ruolo centrale,
determinante, ineludibile: è solo sul terreno di una comune visione del mondo
che la classe lavoratrice può superare la propria frantumazione, prodotta dal
capitalismo stesso.
Quindici anni dopo il congresso di Mannheim, con le tesi
programmatiche accolte nel 1993 (di nuovo a Mannheim), la DKP è tornata a
posarsi sul terreno della visione del mondo della classe lavoratrice. Nel suo
statuto il Partito si è impegnato “a contribuire dal punto di vista
organizzativo alla precisazione ed ulteriore sviluppo del socialismo
scientifico ed a far sì che i comprovati risultati di questo lavoro scientifico
contribuiscano a determinare la sua volontà.” (art. 3). La volontà dei
militanti sollecita il Partito a verificarsi, praticamente e teoricamente,
nell’adempimento di questo suo impegno: il socialismo non ci cadrà in grembo,
ma deve esser conquistato da un agire, che abbia alla base conoscenze e
concezioni scientificamente corrette.
3° capitolo - Carattere d’un partito leninista.
Nel Che fare? -opera decisiva per definire
la teoria del Partito-[21],
Lenin elabora il tema dell’unità fra orientamento scientifico-filosofico e
strategia politica come forma essenziale e principio organizzativo di un PC. A
circa un secolo di distanza le tesi leniniane sono ancora di somma attualità,
perché non si confrontano solo con i problemi organizzativi e di linea politica
di un Partito frantumato in tante formazioni locali e, per lo più, costituito
di un piccolo nucleo centrale intorno al quale ruotavano simpatizzanti con
deboli legami organizzativi; ma in generale e prima di tutto quelle
tesi fanno i conti con la tendenza a contenere l’orizzonte del lavoro politico
nella piccola dimensione locale, nelle iniziative a corto raggio, nell’ambito
immediatamente sindacale, senza dunque proiettarlo su dimensioni di più ampio
respiro.
Quelle attività di base son destinate a sboccare in un
orientamento riformistico, se non vengono integrate da elaborazioni teoriche e
processi di formazione culturale, legati ad un’analisi complessiva della
società e se non vengono, in questo modo, ricavati dalle e collegati alle
contraddizioni fondamentali della società capitalistica ed al quadro storico
complessivo della lotta di classe.
L’argomentazione di Lenin - in primo luogo orientata sulla
situazione del POSR-, tuttavia, ha valore per l’intero movimento
rivoluzionario, dacché le tendenze riformistiche da lui criticate (promosse in
primo luogo dagli scritti di E. Bernstein), in ogni tempo hanno indebolito
politicamente il movimento dei lavoratori ed immiserito la sua forza d’urto
contro il sistema capitalistico nella prospettiva di una linea tattica, volta a
ritocchi e miglioramenti del sistema stesso. In questo modo, la
socialdemocrazia finiva con l’essere una forza che, dal’opposizione,
contribuiva alla stabilizzazione della società borghese (in piena
corrispondenza col parlamentarismo inglese, in cui l’opposizione è, appunto,
“l’opposizione di Sua Maestà”). Si tratta, insomma, di una linea che, a dir
così, si arrotola in se stessa, poiché manca della concezione, teoreticamente
fondata, di una nuova società.
§ 1. Il “Che fare?” di Lenin.
Lenin ha criticato la corrente socialdemocratica non solo
avendo in mente la Russia, ma anche in generale il riformismo di fine secolo
(egli cita espressamente E. Bernstein per la Germania e Millerand per la
Francia).
“La socialdemocrazia non può che trasformarsi da partito
della rivoluzione sociale in partito democratico per le riforme sociali.
Bernstein ha circondato questa rivendicazione politica con un’intera batteria
di «nuovi» argomenti e considerazioni abbastanza ben concatenati. Si negava la
possibilità di dare un fondamento scientifico al socialismo e di dimostrare
che, dal punto di vista della concezione materialistica della storia, esso è
necessario ed inevitabile; si negava il fatto della miseria crescente, della
proletarizzazione e dell’inasprimento delle contraddizioni capitalistiche; si
dichiarava inconsistente il concetto stesso di scopo finale e
si respingeva categoricamente l’idea della dittatura del proletariato; si
negava l’opposizione di principio tra liberalisno e socialismo; si negava la teoria della
lotta di classe, che sarebbe inapplicabile in una società rigorosamente
democratica, amministrata secondo la volontà della maggioranza, ecc.”[22]
E’ in questo contesto che si colloca il chiarimento di quale
sia il carattere di un Partito marxista e la determinazione delle sue forme
organizzative e di lotta nelle condizioni della Russia zarista.
E’ alla trattazione di questi temi che Lenin dedica il Che
fare? ed in particolare al “carattere e contenuto principale della
nostra agitazione politica; dei nostri compiti organizzativi e della
costruzione di una combattiva organizzazione panrussa, che sorga nello stesso
tempo da parti diversi.”[23]
La struttura dello scritto ne riflette lo scopo: i primi tre
capitoli si occupano dei caratteri fondamentali del Partito; il quarto della
concreta forma organizzativa; il quinto dei compiti organizzativi più
ravvicinati.
In apparente contraddizione con lo scopo immediato, la
discussione di principio, svolta nella prima parte, occupa più spazio delle
altre due messe assieme e abbraccia tre dei cinque capitoli; questo squilibrio
ha, per Lenin, un significato metodologico centrale: come leggiamo nella
prefazione: “E’ ora indubbio che la diversità delle opinioni sul modo di
risolvere questi tre problemi si spiega in misura molto maggiore con
l’opposizione radicale di due tendenze nella socialdemocrazia russa che non con
una divergenza su questioni di dettaglio.”[24]
Neppure è difficile rendersi conto del fatto che l’energia
con cui, nel testo, vengono messe in discussione decisioni politiche attuali,
anch’essa, presuppone un preciso atteggiamento metodologico -o, strategico, per
dirla col linguaggio della politica-, il quale deriva dalla forte
consapevolezza dell’unità di teoria e prassi.
La teoria non è mèra riproduzione ed interpretazione del
dato, ma sì anticipa norme di comportamento, adeguate a modelli sistematici
della realtà ed a prospettive finalistiche, le cui radici stanno nelle
possibilità che si lasciano ricavare dai modelli «reali», perché inerenti
all’effettuale. Il procedimento di Lenin consiste nel ricavare dall’analisi
particolare teorie che pretendono di valere ad un alto livello di generalità.
Tale procedura esemplifica quella che chiamerei deduzione dialettica.
Essa si esercita non solo su una difficoltà da indagare
ulteriormente, ma sì anche su una contraddizione, espressa da due correnti
interne alla socialdemocrazia russa e rispetto alla quale è necessario
decidere.
Questa contraddizione vien riportata al suo fondamento
teoretico ed, esattamente, alla opposizione tra opportunismo e cosidetto
dogmatismo; in fine si mette in luce come questa contraddizione riguardi in
generale il movimento operaio internazionale.
“Infatti, non è un mistero per nessuno che nella
socialdemocrazia sociale contemporanea si sono formate due tendenze e che la
lotta fra di esse ora si accende e arde di vivida fiamma, ora si smorza e cova
sotto la cenere di importanti «risoluzioni di tregua». In che cosa consista la
«nuova» tendenza che tratta «criticamente» il «vecchio» marxismo «dogmatico»,
Bernstein lo ha detto, e Millerand lo ha mostrato con
sufficiente chiarezza.”[25]
Che tale contraddizione non sia solo generale ma anche
necessaria, lo si ricava dalle condizioni in cui nasce il movimento dei
lavoratori.
Lo organizzazioni del proletariato sorgono dalla convergenza
degli interessi dei lavoratori, in particolare, dall’interesse di rafforzarsi
per lottare contro uno sfruttamento ed un’oppressione, sperimentati vissuti e
sentiti in prima persona.
Ma, appunto, le esperienze e i sentimenti vissuti -nel loro
contenuto- rimandono al caso singolo o, al più, alla somma dei casi singoli:
laddove manchi la generalizzazione, che proviene da una teoria della società
come un tutto, la questione si riduce al cercar rimedio ad un danno sentito
come tale e, dunque, politicamente ne conseguono solo riformismo, opportunismo,
trade-unionismo.
Il carattere del movimento dei lavoratori vien definito dal
livello di astrazione, al quale si comprendono ed articolano gli interessi
della classe lavoratrice: è per questo che Engels indicava la classe
lavoratrice come l’erede della filosofia classica tedesca. Ovviamente, le
astrazioni della teoria presuppongono l’esperienza dell’oppressione, dato che
-e Kant lo diceva- se in mancanza di concetto le rappresentazioni sono cieche,
a loro volta vuoti sono i concetti senza le rappresentazioni.
§. 2 - La forza della teoria contro lo spontaneismo e
l’irresponsabilità
opportunistica.
Quella tra opportunismo e dogmatismo è un’opposizione che,
sorgendo dalla pratica politica, si riflette in ambito teorico e, così, si
media con la prassi. Nella misura in cui si trasferisce sul terreno
della teoria, la prassi risulta allora determinata da decisioni teoriche.
Il pluralismo delle opinioni -introdotto mediante lo slogan della ‘libertà di
critica’-, nel momento della decisione, risulta del tutto inadeguato poiché vi
è solo una verità scientifica.
“Chi fosse effettivamente convinto di aver fatto progredire
la scienza rivendicherebbe non la libertà delle nuove concezioni di coesistere
accanto alle vecchie, bensì la sostituzione di queste con quelle.”[26]
Per quanto importante e necessaria sia la varietà degli
approcci alla verità quando si discutono concezioni e teorie, altrettanto è
indispensabile il convergere unitario in un risultato del conoscere
scientificamente fondato -il quale, ovviamente, resta sempre provvisoriamente
vero e, dunque, superabile ma, nel momento della decisione pratica, può esservi
solo una opinione e non una pluralità di pareri.
Assicurarsi la corretta conoscenza è, dunque, un compito
necessario alla vita stessa dell’organizzazione proletaria: fa parte della
natura stessa di una tale organizzazione che la discussione conduca, in fine,
ad una sola teoria valida e praticamente impegnativa.
Per dimostrare la validità generale di tale tesi, Lenin
ricorre all’esempio della situazione russa: qual è il ruolo che gioca la teoria
nello sviluppo del movimento russo dei lavoratori? La conclusione a cui Lenin
giunge è che senza il lavoro teorico “uno sviluppo soddisfacente del
movimento non era possibile.”[27]
L’impossibilità di prescindere da una elaborazione teorica
dalle solide fondamenta nei principi, ecco qualcosa che Lenin ha ribadito in
più di un’occasione: “Senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento
rivoluzionario. Non si insisterà mai abbastanza su questa idea in un momento in
cui la predicazione in voga dell’opportunismo va a braccetto con l’entusiasmo
per le forme più anguste di attività pratica... Adesso vogliamo semplicemente
far osservare che soltanto un Partito guidato da una teoria d’avanguardia può
svolgere la funzione di combattente d’avanguardia... Engels riconosce non
due forme della grande lotta socialdemocratica (la politica e
l’economica) -come si fa abitualmente da noi-, ma tre, poiché accanto a
queste egli pone anche la lotta teorica.”[28]
Queste non sono mère dichiarazioni.
E’ vero piuttosto che il valore della teoria può ricavarsi
dalla particolarità storico-politica e dalla costituzione stessa del movimento
dei lavoratori. Il quale può raggiungere il proprio scopo -cioè, la liberazione
della classe lavoratrice e, così, il superamento di ogni società classista,
solo se si pone quell’obiettivo appoggiandosi allo strumento della scienza
dialettica, che è, poi, il modo stesso per individuare quali siano
le strade da percorrere.
L’importanza della teoria deriva dal carattere particolare
della lotta di classe proletaria, che è formulato nella terza, ottava e
undicesima “Tesi su Feuerbach”.[29] Ed,
ovviamente, di tanto è imprescindibile la teoria, d’altrettanto la pura
spontaneità va respinta.
Com’è naturale, presupposto d’ogni movimento rivoluzionario
è la spontanea resistenza allo sfruttamento ed all’oppressione da parte di chi
ne fa immediata esperienza: la ribellione contro le macchine, la resistenza dei
tessitori della Slesia, scioperi e dimostrazioni operaie, in cui trova sfogo il
rancore accumulato, tutti questi sono esempi di manifestazioni spontanee di
lotta di classe; da esse si ricava che il proletario è cosciente non solo della
propria individuale situazione ma, anche, d’appartenere ad una stessa classe;
ciò di cui ancora manca è la coscienza della posizione e ruolo della classe
lavoratrice come un tutto -coscienza, d’altronde, che può esser conquistata
solo mediante astrazioni e generalizzazioni, che assicurano la mediazione
sociale delle particolarità.
In definitiva, la spontaneità, non salita ancora al livello
della riflessione teorica, è una condizione necessaria, pur se non sufficiente,
della lotta di classe rivoluzionaria.
“Ciò prova che, in sostanza, l’«elemento spontaneo» non è
che la forma embrionale della coscienza. Anche le rivolte
primitive esprimevano già un certo risveglio di coscienza. Gli operai perdevano
la fede secolare nella saldezza del regime che li opprimeva, comiciavano... non
dirò a comprendere, ma a sentire la necessità di una resistenza collettiva e
troncavano decisamente la sottomissione servile all’autorità. Ma tuttavia ciò
era molto più una manifestazione di disperazione e di vendetta che una lotta.
Gli scioperi degli anni novanta rivelano bagliori di coscienza molto più
numerosi: si pongono rivendicazioni precise, si calcola in anticipo il momento
più conveniente, si discutono i casi e gli esempi noti di altre località, ecc.
Se le rivolte erano semplicemente sollevazione di gente oppressa, gli scioperi
sistematici esprimevano già embrioni di lotta di classe, ma embrioni soltanto.
Presi in sé, quegli scioperi erano una lotta tradunionistica, ma non ancora
socialdemocratica, annunciavano il risveglio dell’antagonismo tra operai e
padroni, ma gli operai non avevano e non potevano ancora avere la coscienza del
contrasto irreconciliabile fra i loro interessi e tutto l’ordinamento politico
e sociale contemporaneo, cioè la coscienza socialdemocratica.”[30]
La spontaneità si orienta su quegli interessi che,
immediatamente e caso per caso, vengon sentiti; si muove, dunque,
essenzialmente nel limite dell’ economicismo e non va oltre
l’orizzonte del miglioramento di questa o quella condizione di vita e di
lavoro; è sì volta al cambiamento sociale, ma solo nel senso di combattere
particolari situazioni di ingiustizia.
Con ciò la spontaneità resta dentro i confini di quei
rapporti generali di potere, che rendono possibili le singole situazioni
d’ingiustizia, contro cui pur si lotta. Quando l’attività politica si confina
entro il solo miglioramento di situazioni particolari, con ciò stesso accetta
il vincolo degli schemi ideologici, che supportano l’esistente ordine sociale.
Come scrive Lenin, “ogni culto della spontaneità nel
movimento operaio, ogni trascuratezza circa la funzione dell’«elemento
cosciente», della funzione della socialdemocrazia significa -lo si voglia o no-
un’aumentata influenza dell’ideologia borghese sugli operai.”[31]
§. 3 - Rivoluzionari nella e contro la società.
Il fatto che l’ economicismo sia interno
all’ideologia borghese dominante ha pure conseguenze sulla forma
logico-scientifica. La società borghese produce da sé la contraddizione
radicale tra capitalisti e proletari ed esiste nella forma di questa
contraddizione radicale, come elementi strutturali di se stessa e del suo
sviluppo storico. Finché l’attività politica della classe lavoratrice si limita
a rappresentare la propria contraddizione radicale alla classe capitalistica
come interna alla società borghese -dunque, ad intenderla come contraddizione
di interessi parziali-, si mantiene sul terreno di quella società, in cui gioca
e giocherà sempre il ruolo della vittima sacrificale.
Nel limite dell’economicismo, l’ideologia borghese, quale
espressione della coscienza che di sé ha la società borghese e quale strumento
per la perpetuazione di essa, resta l’universale entro cui si mantiene anche
l’ideologia proletaria del tradunionismo e del riformismo: la conseguenza è che
l’ideologia proletaria vien snaturata a modo particolare di quella borghese.
Lo “sviluppo spontaneo del movimento
operaio fa sì che questo si subordini all’ideologia borghese...il movimento
operaio spontaneo è tradunionismo, è purosindacalismo, e
traduzionismo significa appunto asservimento ideologico degli operai da parte
della borghesia. Perciò compito nostro, compito della socialdemocrazia, è lottare contro
la spontaneità, deviare il movimento operaio dalla tendenza spontanea
del tradunionismo a rifugiarsi sotto l’ala della borghesia e avviarlo sotto
l’ala della socialdemocrazia rivoluzionaria.”[32]
Ma nella misura in cui i lavoratori si concepiscono solo
come articolazione interna della società borghese, non possono sottrarsi alla
coscienza spontanea dei loro interessi come mèri
interessi particolari, per i quali ci si batte solo con mezzi sindacali,
che non vanno oltre l’orizzonte della stessa società borghese.
La sua coscienza spontanea non consente al lavoratore di
cogliere il carattere radicale dell’opposizione tra sfruttati e sfruttatori,
tra produzione sociale ed appropriazione privata; né dunque di comprendere che
quell’opposizione può esser tolta, solo, superando ogni forma classista di
società.
L’inserimento razionale dell’interesse parziale entro quello
sociale complessivo richiede una costruzione teorica, di cui la scienza offre
gli strumenti. Tale scienza, tuttavia, si è sviluppata nel grembo stesso della
società borghese e l’impiego dei suoi strumenti nella lotta di classe
proletaria -la qual cosa comporta un mutamento qualitativo della scienza
stessa- ha da essere realizzato da scienziati, formatisi all’interno delle
scienze borghesi.
“Abbiamo detto che gli operai non potevano ancora avere una
coscienza socialdemocratica. Essa poteva esser loro apportata soltanto
dall’esterno. La storia di tutti i Paesi attesta che con le sue sole forze la classe
lavoratrice è in grado di elaborare soltanto una coscienza tradunionista, cioè
la convinzione della necessità di unirsi in sindacati, di condurre la lotta
contro i padroni, di cercar di ottenere dal governo determinate leggi
necessarie ai lavoratori, ecc. La dottrina del socialismo scientifico, invece,
è cresciuta dalle teorie filosofiche, storiche, economiche che furono elaborate
dai rappresentanti colti delle classi possidenti, gli intellettuali.”[33] In
questo modo è posto il problema del carattere di classe della scienza.
Le dottrine scientifiche sono astrazioni teoriche circa
problemi reali (Sachproblem), che si pongono in epoche determinate dello
sviluppo scientifico e sociale. Queste astrazioni sono legate allo stadio
raggiunto dallo svolgersi di quei problemi, il quale a sua volta è condizionato
dalla società.
Le astrazioni scientifiche -come capita per la formulazione
di leggi scientifico-naturali o di regole matematiche-, possono essere adeguate
alla materialità del problema, anche se risultano distorte dalla prospettiva
ideologica entro cui la società si pone i problemi. Per quanto, dunque, possano
rimandare a stati di fatto effettivi (Sachverhalt), le ideologie non ne
offrono tuttavia modelli (Abbild) adeguati.
§. 4 - Verità e partiticità.
La deformazione ideologica si opera in seguito alla
pressione dei bisogni ed interessi, che una teoria scientifica serve; ma, se
ben compreso, l’interesse della classe lavoratrice in quanto sta nel
superamento in generale di una società classista, comporta anche il superamento
di quei parziali interessi di classe, che conducono a deformare la stessa
scienza. In questo senso, cioè considerando la particolare collocazione storica
(dunque, anche storico-scientifica) della classe lavoratrice, non si dà
propriamente un’ideologia di tale classe, perché i casi son due.
O i lavoratori non sono ancora coscienti della loro
posizione di classe e, quindi, sono anch’essi portatori di un’ideologia
borghese e si battono per loro interessi parziali,interni alla
società borghese.
Oppure, i lavoratori giungono a prender coscienza della loro
situazione di classe, ed allora pervengono ad una scienza, la socialista, che
non è più affètta in generale da parzialità di interessi.
Con scienza socialista si intende una
scientificità, che non rinuncia in nulla al rigoroso rapporto con il vero ed al
rispetto, dunque, dei criteri di verità, ma che è caratterizzata dalla partiticità
socialista e, proprio per questo, da obiettività ed indipendenza da
interessi parziali.
Per la prima volta, la scienza socialista raggiunge quel
livello di sviluppo nei diversi ambiti del sapere scientifico, per cui non ha
più rilievo la dipendanza dallo scontro fra interessi, deformanti in quanto
parziali.
Tuttavia, la stessa scienza socialista si sviluppa solo
nello scontro con le posizioni ideologiche della scienza borghese; nella sua
prima fase, essa è la teoria del proletariato che, all’interno della società
borghese, combatte la sua lotta di classe; nella seconda fase, la scienza
socialista è la teoria della dittatura del proletariato, impegnato nella
transizione ad una società comunista e, dunque, priva di classi.
Usando un linguaggio comune e non tecnico, Lenin contrappone
all’ideologia borghese quella socialista e per caratterizzare il carattere
sovrastrutturale di qualsiasi teoria, osserva che “in ogni società
contrassegnata da contraddizioni di classe, non può darsi ideologia che si
collochi al di fuori o al di sopra delle classi.”[34]
In quanto la cosiddetta “ideologia socialista” assume quale
contenuto delle sue teorie scientifiche l’interesse del proletariato e, dunque,
la prospettiva di una società priva di classi, di nuovo per la prima volta
nella storia della scienza, può essere ad un tempo l’ideologia di una classe e,
però, esser libera dalle deformazioni indotte dalla parzialità degli interessi.
Ciò perché l’interesse di classe del proletariato coincide con quello
dell’umanità in generale. Di qui la distinzione, che opera Lenin.
“Dal momento che non si può parlare di un’ideologia
indipendente, elaborata dalle masse operaie nel corso stesso del loro
movimento, il problema si può porre soltanto così: o ideologia borghese o
ideologia socialista.”; ma consideriamo anche l’illuminante nota posta di Lenin
a questa stessa pagina: “ ciò non significa che gli operai non partecipino a
questa elaborazione. Essi, tuttavia, vi partecipano non come operai, bensì come
teorici del socialismo, come i Proudhon e i Weitling, in altre parole, solo in
quanto riescono ad impadronirsi in varia misura delle conoscenze del proprio
secolo ed a farle progredire. Ma perché gli operai vi riescano più
spesso è necessario avere la massima cura di elevare il livello della loro
coscienza in generale, è necessario che essi non si segreghino nei limiti
artficialmente ristretti delle «pubblicazioni degli operai», ma imparino a
padroneggiare sempre di più le pubblicazioni in generale.”[35]
Chiaramente, qui, Lenin si muove dal punto di vista di una
continuità nella storia della scienza, che ci mette di fronte al compito di
concepire il rapporto fra scienza borghese e scienza socialista in termini sia
di collegamento che di cambiamento di terreno.
Il “sapere di un’epoca” è un tutto connesso, ma che include
anche contraddizioni, nel senso che queste ultime si svolgono, comunque,
all’interno dell’orizzonte, circoscritto dall’autocoscienza scientifica di una
certa era: in altre parole, quelle contraddizioni sono compossibili,
ovvero, tutte “contemporaneamente possibili”, possono, tutte, coesistere l’una
accanto all’altra. Infatti, se quelle contraddizioni fossero tali da impedire
ogni unitarietà dell’autocoscienza scientifica, la scienza stessa cadrebbe in
una crisi tale, da richiedere una nuova autocoscienza o comprensione di sé.
La contraddittorietà del capitalismo ha trovato subito
un’espressione scientifica nella teoria borghese classica della dialettica:
l’hegeliana Fenomenologia dello spirito, ad es., disegna il
“sistema della scienza”, che è proprio della società borghese; mentre la Filosofia del
diritto -sempre di Hegel- analizza la struttura
sociale, che sta alla base di quel sistema della scienza. Il passaggio al
socialismo si compie quando queste contraddizioni interne alla società borghese
son divenute non più compossibili. L’ideologia socialista si distingue da
quella borghese in quanto mette chiaramente in luce come l’intollerabilità
delle contraddizioni segni la caduta del sistema sociale ed in quanto fa della
teoria il perno dell’azione politica, vale a dire ciò che rende possibile una
prassi, legata alla comprensione della società. Ciò significa che la scienza
socialista non si differenzia da quella borghese per
il criterio formale di scientificità, ma sì per il suo contenuto e per la
sua interna, strutturale capacità di connessioni dinamiche. Per due aspetti, in
particolare, va sottolineata questa differenza strutturale e di contenuto.
In primo luogo, la scienza socialista, da un lato, individua
i processi, che producono -all’interno di uno stesso sistema- contraddizioni
radicali ed incompatibili, fino alla caduta del sistema-; dall’altro lato,
però, sa dare di essi una esposizione scientifica e, dunque, in questo senso,
sa connetterli sistematicamente: in altre parole, oggetto della scienza
socialista à il rapporto fra connessione e caduta.
In secondo luogo, la scienza socialista assume l’agire
finalizzato del soggetto della lotta di classe -in particolare l’attività del
Partito rivoluzionario- quale effettivo fattore codeterminante della realtà -la
quale ultima, dunque, vien descritta come un sistema di riflessione, nel quale
i singoli elementi agiscono l’un sull’altro e sanno rappresentarsi.
Ciò significa che la scienza sviluppatasi entro la società
borghese trova il proprio posto all’interno di quella socialista e che le sue
asserzioni son misurate nel loro grado di validità proprio dal modo, in cui si
collocano all’interno della scienza socialista, se quest’ultima procede
criticamente ed ordina e “supera” i risultati scientifici del pensiero
borghese.
In altre pareole, la nascita delle categorie del pensiero
borghese dev’esser concepita come un momento del suo porsi entro il sistema
della scienza socialista. Vale, dunque, quanto Lenin cita favorevolmente da
Kautsky: “Infatti, la scienza economica contemporanea è, al pari della tecnica
moderna, una condizione della produzione socialista, e il proletariato, per
quanto lo desideri, non può creare né l’una né l’altra: entrambe sorgono dal
processo sociale contemporaneo.”[36]
Di qui deriva che la coscienza teorica del proletariato,
capace di analisi genetico-strutturali, non può -giusta la posizione del
proletariato- nascere spontaneamente dall’esperienza della lotta economica
(nell’ambito della quale, gli interessi dei lavoratori sono un’articolazione
del sistema capitalistico). Quella coscienza, piuttosto, può costituirsi solo
come riflessione scientifica sull’insieme del processo sociale. Ancora una
citazione da Kautsky, che troviamo in Lenin: “Il socialismo, come dottrina, ha
evidentemente le sue radici nei rapporti economici contemporanei, al pari della
lotta di classe del proletariato, e deriva, al pari di quest’ultima, dalla
lotta contro la miseria e dall’impoverimento delle masse generate dal
capitalismo; ma socialismo e lotta di classe nascono l’uno accanto all’altra e
non l’uno dall’altra; essi sorgono da premesse diverse.”[37]
§. 5 - Missione storica e avanguardia della classe
operaia.
Sapere che la lotta di classe ha un’origine propria,
indipendente dalla coscienza teorica della situazione di classe e che conosce
forme di svolgimento, spontanee e prive di riflessione teorica - tutto ciò ha
grande rilievo per valutare il ruolo del Partito.
Nello sviluppo storico del genere umano, la classe
lavoratrice occupa una particolare posizione di enorme rilievo; quando,
infatti, essa -che è l’unica ad opporsi al capitale (della borghesia, della
classe capitalistica)- riesce a togliere il potere dei capitalisti -dunque, ad
abbattere il rapporto di capitale-, poiché non esistono più altre classi, nello
stesso momento essa supera la società di classe in quanto tale.
Insomma, la classe dei lavoratori dà inizio ad una nuova
fase della storia umana: quella delle società senza classi e, dunque, quella in
cui l’esperienza sociale umana si nutre di e produce problemi qualitativamente
nuovi.
Certamente, ciò richiede un lungo periodo di transizione,
nel quale pesano ancora sopravvivenze della società classista, che solo poco a
poco possono esser tolte.
Dato che la sua vittoria può produrre questa svolta epocale,
chiamo missione storica della classe lavoratrice la
funzione, che essa può (o non) svolgere nella storia appunto.
Per quanto retorica possa suonare, tale espressione non va
intesa né moralisticamente, né in senso puramente agitatorio. Infatti, essa si
limita a descrivere la situazione storica come realtà della
contraddizione radicale fra lavoro salariato e capitale; contraddizione, il suo
superamento contiene l’ effettiva possibilità di concludere la serie
delle società di classe in generale -e si badi che la contraddizione lavoro
salariato/capitale può esser tolta solo ad opera del primo, dato che il
rapporto di capitale presuppone il lavoro salariato e senza di questo non
potrebbe esistere.
E’ certo che quella descrizione promuove una sollecitazione
pratica ad attuarne la possibilità implicita: la conoscenza dello stato di
fatto contine in sé, effettivamente, questa conseguenza politico-morale, la
quale -lo si comprende facilmente- è tutt’altro, però, che un “vuoto dover
essere” (Hegel).
Comprendere quale sia il significato obiettivo della
missione storica della classe lavoratrice, toglie alla lotta per il socialismo l’impronta,
soggettiva, di mèra aspirazione corrispondente alla particolarità degli
interessi dei lavoratori salariati o delle vittime sacrificali del ‘progresso’
capitalistico - il che poi significa che il socialismo non può essere il
risultato di un riequilibrio di interessi parziali, ottenuto mediante le
tecniche della democrazia parlamentare borghese. Quest’ultima è esattamente la
concezione riformistica, che di necessità rifiuta la filosofia della storia di
Marx ed Engels e, di conseguenza, il materialismo storico.
Per la prima volta nella storia delle società di classe, la
classe lavoratrice ha la possibilità di aprire all’ulteriore storia umana una
prospettiva nuova: questo è il senso filosofico della critica marxiana
all’economia politica. Non si può accettare questa critica e rifiutarne il
significato filosofico, né si possono accettare solo singoli aspetti della
analisi marxiana del processo sociale, lasciandone cadere altri: la struttura
fondamentale di una teoria, che esprime concettualmente la storia a partire dal
processo di produzione e riproduzione della vita umana, non si lascia
spezzettare in frammenti a seconda del bisogno.
La categoria «missione storica della classe lavoratrice» ha
la propria collocazione all’interno di una teoria del tipo appena descritto ed
è, quindi, una parte insopprimibile della concezione marxiana della storia.
Ma poiché la classe lavoratrice non è spontaneamente
cosciente della sua missione storica (non si tratta, infatti, di un semplice
contenuto d’esperienza, ma piuttosto di un’elaborazione categoriale dei
contenuti di esperienza, insomma di un «concreto del pensiero»), per la
realizzazione di tale missione è necessario un portatore del processo di presa
di coscienza e della strategia politica, da essa ricavabile.
Questo portatore può assumere, solo, la forma di
un’organizzazione, poiché deve riuscire ad assicurare un processo di presa di
coscienza da parte di individui, non però mediante un’attività educative di
singoli, ma sì attraverso attività e discussioni collettive, che giungano fino
al livello della generalizzazione teorica. I membri più coscienti della classe
lavoratrice -dunque, una parte solo di essa- costituiscono l’ avanguardia, ovvero
la punta avanzata di un processo storico di sviluppo.
Essere avanguardia non significa avanzar pretese di comando.
Significa, piuttosto, collocarsi nei punti più pericolosi della lotta di
classe.
Più pericolosi, poiché l’avanguardia deve prender
posto nella lotta di classe, in quanto piccola minoranza, in anticipo sulle
masse e, perciò, è il settore destinato ad offrire il maggior numero di
vittime.
Più pericolosi, perché è possibile che, alla prova
dei fatti, l’avanguardia scopra di aver sopravvalutato le possibilità di lotta
e che di ciò debba pagare il prezzo.
Più pericolosi, perché l’avanguardia può
trovarsi sempre nella situazione dell’isolamento e, quindi, di chi è lasciato
in asso. Insomma, la posizione di avanguardia non è un privilegio, ma sì un
gravoso impegno e, spesso, un autentico sacrificio.
Lenin non ha inteso in modo diverso il ruolo d’avanguardia
del Partito, né lo si può intendere altrimenti, se si comprende cosa significhi
sul serio «punta avanzata».
Punta avanzata, infatti, non è il comandante di
un’esercito, ma piuttosto l’unità di prima linea, chiamata ad affrontare per
prima il nemico, ad infliggergli le prime perdite e, così, aprire la strada
agli attacchi da parte del grosso del proprio esercito. D’altronde, anche
usando «avanguardia» nel senso artistico ed intellettuale, in tale espressione
non è inclusa una funzione di comando, ma sì, collocandosi al vertice del
progresso culturale, la funzione, invece, di proporre e metter a prova il
nuovo, di elaborar concetti, imprimere impulsi e scoprire inediti orizzonti.
Dal punto di vista, poi, dell’organizzanione sul terreno della lotta di classe,
«punta avanzata» significa: offrire fondamenti teorici e guidare operazioni
strategiche, che preparino la strada ad un movimento di massa, mostrandogli la
direzione.
La coscienza di classe si sviluppa nell’intreccio di teoria
ed azione politica ed è appunto questa unità di prassi e teoria, che un PC deve
realizzare in sé per guidare esemplarmente le masse, se punta, effettivamente,
a raggiungere il proprio obiettivo -che è quello di fungere da fermento per il
processo di presa di coscienza di classe, di organizzazione di lotta di classe,
nella prospettiva della missione storica della classe lavoratrice.
§. 6 - Excursus sulla dottrina del totalitarismo.
Dall’inizio della ‘guerra fredda’, la dottrina del
totalitarismo è uno degli strumenti privilegiati, a cui ricorre la demagogia
anti-comunista degli ideologi borghesi, con l’obiettivo -anche- di consolidare
la socialdemocrazia nel ruolo di difesa della società capitalistica. La caduta
dell’Unione Sovietica e degli altri Pesi socialisti est-europei è servita come
ulteriore alimento all’accusa volta al regime (“stalinista”) socialista d’esser
gemello del fascismo. Questa falsificazione storica -che s’appoggia su
superficiali analogie- ha prodotto notevoli sbandamenti.
Anche comunisti, che pur intendono contrapporsi a quella
ottenebrante strategia, non sono tuttavia riusciti a sottrarsi alla dottrina
del totalitarismo, mettendone in luce le forme argomentative. Sennonché, coloro
i quali si fanno imporre i temi dalla propaganda ideologia borghese intorno al
totalitarismo, contraddicendo le proprie intenzioni, finiscono con
l’accogliere, all’interno di una strategia che vorrebbe esser di difesa,
esattamente la prospettiva del nemico: infatti, accettano di mettere
immediatamente a raffronto fenomeni funzionali diversi, dimenticando che chi si
pone, in tal modo, sullo stesso terreno voluto dal nemico, ha già perso a metà
la battaglia.
Nelle scienze sono ammesse forme di confronto, che rimandano
alla struttura di cose diverse.
Si può, ad es., mettere a raffronto la burocrazia
dell’Impero cinese, della Prussia e dell’Unione Sovietica e ritrovare analogie
nel modo di organizzare i pubblici affari. Ma con ciò ancora non si è detto
nulla circa il sistema statale.
Sistemi costruiti diversamente, essenzialmente differenti
l’un dall’altro e con diverse finalità, tuttavia, possono esibire analogie
funzionali. La biologia ci apprende cose circa gli organismi, la sociologia
circa le società; il confronto di sistemi sostanzialmente differenti mostra la
loro incomparabilità, dacché mostra che è errato pretendere di
rapportarli l’uno all’altro sulla base di superficiali analogie funzionali. A
nessuno storico può venire in testa di stabilir raffronti -o, se si vuole,
paralleli- tra Cesare, Napoleone e Mussolini.
Il socialismo nel processo della sua costruzione ed il
capitalismo nella fase della sua maturazione, in linea di principio, non sono
confrontabili. Poiché, in primo luogo, il confronto dovrebbe avvenire fra
il primo socialismo ed il primo capitalismo, per porre in relazione
corrispondenti situazioni storiche epocali. Ma la non confrontabilità
risulterebbe anche sotto l’aspetto funzionale.
La Ginevra di Calvino, la Francia di Richelieu.
l’Inghilterra di Cromwell erano certamente assai diverse dall’Unione Sovietica
dopo la Rivoluzione d’Ottobre e che sotto questo o quell’aspetto vi potessero
essere fenomeni analoghi non toglie nulla alla loro sostanziale differenza.
Ancora più rilevante è, però, questa ulteriore considerazione.
La struttura del socialismo è determinata dal fatto di
porre, in luogo dell’appropriazione e accumulazione privata del capitalismo,
l’appropriazione ed uso sociali del plusvalore.
L’essenza del socialismo è operare per favorire
l’amancipazione di un uomo che si sviluppa multilateralmente; mentre il
capitalismo persegue l’obiettivo dell’emancipazione di individui che si
scambiano merci, come fattori della vicenda del mercato.
Scopo del socialismo è il superamento dello sfruttamento e
dell’oppressione; quello del capitalismo, invece, è la continuazione della loro
esistenza.
Tutto ciò che avviene nel socialismo serve a scopi e si
inserisce in un ordine, che sono tutt’altri che quelli del capitalismo.
Posta la non confrontabilità per principio del potere
statale socialista (in costruzione) e delle forme di dominio capitalistico (il
quale ha raggiunto nel fascismo il vertice della disumanità, ma anche il
borghese “Stato di diritto” include la sua brava dose di inumanità), il nostro
interrogativo diviene, invece, quali forme non socialiste -addirittura, opposte
per essenza al socialismo-, nel corso della nascita e sviluppo della società
socialista, sono confluite, o si sono in essa compiute: questo è il tema
del dibattito sugli errori, deformazioni e delitti nel socialismo -è una
discussione che va condotta a fondo, in modo che noi si possa apprendere dalla
storia per poter costruire il futuro. Attenendoci strettamente alle conoscenze
ed ai metodi del materialismo storico, possiamo spiegare e comprendere -senza
ricercare attenuanti, né scusanti- ilperché di quanto è avvenuto:
la storia ben compresa ci rende liberi per il futuro.
Nella prospettiva di una tale spiegazione e comprensione, le
forme fenomeniche sono semplici indizi -pur se terribili indizi (come le tante
vittime innocenti)-, che non dovrebbero esser rimossi, ma appunto usati come
indizi per arrivare alle cause ricercate. Come è stato possibile che in una
società -che si pensava destinata a realizzare i diritti dell’uomo e che si
poneva l’obiettivo di assicurarne la liberazione- i mezzi per raggiungere tali
obiettivi siano stati così spesso con essi contradditori? Quali presupposti
materiali ed obiettive contraddizioni, inerenti alla transizione dal regime
zarista al socialismo, hanno dato origine a tale antinomia?
Se ci poniamo queste domande, non stiamo più sul terreno
propostoci dai teorici del totalitarismo, i quali non riescono a spiegare ma,
solo, descrivono fenomeni.
Noi, al contrario, fondiamo il nostro interrogarci sul
diritto che abbiamo alla nostra storia, nei confronti della quale siamo
responsabili: ci poniamo, insomma, sul nostro terreno e non su quello
dell’avversario. Senza trascurare di interrogarci intorno a cose come i Gulag,
possiamo chieder conto ai rappresentanti del capitalismo dei milioni e milioni
di vittime, che hanno richiesto e richiedono su scala mondiale le guerre, il
colonialismo, la fame. Interrogarci sulla nostra storia significa interrogarci
su ciò che abbiamo fatto di sbagliato e sul prezzo che abbiamo pagato in vista
di un futuro migliore.
Nel caso del capitalismo, però, non è vero che
esso sbagli, quando scatena guerre e produce miseria e
dipendenza: infatti queste son tutte cose, che gli appartengono per essenza.
Perchè il capitalismo stesso è falso.
La questione nodale, che ci consente di abbandonare le false
comparazioni e di metterci, invece, sulla giusta prospettiva, è quella della
democrazia.
Gli ideologi borghesi riempiono la nozione di democrazia con
i contenuti della democrazia borghese ed anche il confuso ed ambiguo richiamo
all’ hegeliano “superamento” non cambia nulla a questo fatto: infatti,
“superare” nel senso di “conservare” dovrebbe identificarsi con “divisione dei
poteri, parlamentarismo, pluralità di partiti concorrenti...”, insomma, con lo
Stato di diritto.
E’ naturale che nel socialismo non tutte le conquiste della
società borghese debbano esser gettate a mare: ma altrettanto è vero che
bisogna ben distinguere tra conquiste che valgano solo per l’ordine borghese ed
altre che abbiano invece un significato storico per l’umanità in generale. Il
concetto di “Stato di diritto” non può semplicemente essere identificato col
formalismo del nostro ordinamento borghese del diritto: che tutti gli atti
amministrativi debbano essere legittimi rispetto al diritto, mi sembra norma
ben sensata e parimenti mi sembra lo sia che istituzioni statali e di Partito
risultino ben distinte.
Al contrario, parlamentalismo e pluralità dei partiti mi
sembrano piuttosto un ridurre la vita sociale a ricerca continua di compromessi
fra gruppi che hanno interessi diversi, in modo tale che chi più ha filo meglio
riesce a tessere la sua propria, particolare tela.
Insomma, si tratta di qualcosa di completamente diverso rispetto
ad una società, che punta a realizzare il solidarismo di uomini liberi:
autodeterminazione ed integrazione dell’uomo entro il pianificato processo
sociale generale, forse, trovano migliore realizzazione in un sistema di
consigli.
L’ordinamento giuridico degli Stati socialisti segnò
effettivi progressi democratici al livello del vivero quotidiano (diritto del
lavoro, legislazione famigliare,....?), anche se certi diritti politici
restarono invischiati nel gioco formale delle società borghesi. A ciò dovrebbero
riflettere coloro, i quali si abbandonano facilmente all’equivoco di
confrontare sistemi sociali diversi.
Il punto è cosa s’intenda per democrazia. Forse la
sceneggiata delle nostre campagne elettorali, dominate dai mass-media e da
slogans privi di senso e contenuto? Forse l’impotenza dei parlamenti nazionali
in Europa di fronte al parlamento di Bruxells? Oppure l’influenza dei grandi
potentati economici nell’attività legislativa?
Tutte queste son ‘conquiste’ della democrazia borghese,
fortemente radicate nella struttura della società borghese e non deformazioni
ad essa apportate dal capitalismo.
Nessun socialista ha, oggi, elaborato adeguatamente il
quadro di una futura società socialista -ed, in effetti, farlo avrebbe
dell’utopico.
Tutti noi dobbiamo impegnarci in questo compito, ma in
stretto legame con la battaglia politica per il socialismo; tuttavia
sicuramente è vero che, dal fatto che la democrazia socialista non sia stata
realizzata, non dobbiamo ricavare la necessità di attestarci sulla democrazia
borghese. Dobbiamo difendere la democrazia contro tutti i tentativi di
appiattirla sulla difesa degli interessi capitalistici; sappiamo, tuttavia,
che, nel socialismo, dovrà riempirsi di nuovi contenuti, che dovremo darle
nuove forme, in modo che si tratti effettivamente di democrazia,
dunque, di potere del popolo.
4° capitolo - Lotta di classe.
Politici e scienziati borghesi non amano sottolineare che
viviamo in una società di classe. Lo stesso termine «classe» è piuttosto lasciato
all’uso da parte della corporazione dei sociologi; i quali, per altro,
preferiscono parlare di «strati sociali» o di società «livellata sul ceto
medio». Questa resistenza ad usare perfino un concetto classico della scienza
sociale, ovviamente, non è casuale e non è da escludere che si tratti di
un’allegia terminologica, che segnala un problema sociale. Forse i politici
usano come alibi il fatto che i sociologi abbiamo messo in cantina la dottrina
della lotta di classe?
Senonché, spesso, proprio in cantina si rinvengono
dimenticati capolavori, che la corporazione si ostina a non valutare. Ma
appunto questa perseveranza nell’ evitare ilconcetto di classe
diviene, per il critico attento, segno che la società di
classe continua ad esistere.
Naturalmente, ciò che conta è un uso scientificamente
corretto del concetto di classe: è facile, infatti, abbattere uno spauracchio,
che sia stato precedentemente costruito proprio in vista dell’abbatterlo; ed è
questo, d’altronde, il modo in cui oggi procedono molti critici, che vogliono
dimostrare l’insignificanza storica, ormai, del marxismo.
«Classe» -nel senso di classe sociale,
-dacché esiste ovviamente anche il concetto logico di classe o
quello che serve a classificare le automobili-, in primo luogo, è un concetto economico.
Il 3° volume del Capitale doveva terminare
con una esposizione della struttura di classe della società capitalistica,
dunque, con la definizione della sua essenza di classe; Marx però non ha potuto
portare a termine questa parte conclusiva della sua opera, che ci resta, solo,
sotto forma di frammento dell’ultima sezione; tuttavia, ne risulta
un’introduzione assai ricca, che mostra come il concetto di classe si rapporti
alla formazione sociale ed economica.
“I proprietari della semplice forza-lavoro, i proprietari
del capitale e i proprietari fondiari, le cui rispettive fonti di reddito sono
salario, profitto e rendita fondiaria, in altre parole, gli operai salariati, i
capitalisti e i proprietari fondiari, costituiscono le tre grandi classi della società
moderna, fondata sul modo di produzione capitalistico.”[38]
Proseguendo, tuttavia, Marx chiarisce che le classi non si
giustappongono l’una all’altra in modo netto, in quanto esistono tra l’una e
l’altra forme equivoche e di passaggio; inoltre Marx mostra come gli
appartenenti alla classe dominante leghino a sé le classi dominate, al fine di
consolidare la propria condizione.[39]:
in altre parole, chi appartiene obiettivamente alla classe dei lavoratori
salariati può, tuttavia, sentirsi soggettivamente solidale con la classe
capitalistica. Si tratta di un problema, che si lega a quello dell’analisi
della «falsa coscienza».
Il concetto di classe ha una dimensione politica,
immediatamente connessa al suo contenuto economico. Le classi in senso
economico legandosi necessariamente l’una all’altra in una stessa comunità, per
quanto contraddittoria, ed agendo l’una sull’altra, ecco che mostrano, anche,
una dimensione politica. Collocandosi le classi nella dimensione politica, la lotta
di classe risulta uno scontro che si gioca, anch’esso, sul terreno politico.
Poiché la struttura di classe non sta solo a indicare una differenziazione
funzionale e di proprietà ma rimanda anche ai rapporti di
proprietà, ecco che diviene rivelatrice di un sistema di potere. Una gran parte
dei comportamenti, condizionati dal punto di vista di classe, della classe
dominante servono a edificare e mantenere il sistema di dominio, che le
garantisce il potere. La concentrazione del potere nell’articolazione delle
istituzioni democratiche, il mantenimento dei privilegi culturali, la garanzia
di una giustizia conforme agli interessi di classe, la manipolazione
dell’opinione pubblica mediante il controllo dei media: questi sono alcuni
degli strumenti di cui si serve il potere, per mantenere il sistema dato.
Già da quanto detto ricaviamo eclatanti segni a conferma che
non è proprio il caso di parlare di “livellamento delle differenze di classe”:
chi sostiene tale livellamento fa sempre riferimento alla partecipazione di
singoli al benessere generale -fenomeno che, per altro, è circoscritto alle
metropoli. A ciò si aggiunga che il disfacimento sociale, che caratterizza
anche i Paesi ricchi, rende il discorso sul livellamento ancor meno credibile,
anche se, rispetto all’abbassamento dei livelli di vita, il limite di guardia
non sia stato ancora raggiunto. Ma quando si parla di classi non è di questo
che esattamente si tratta.
Dal punto di vista politico, la questione è quella del
diverso grado di integrazione degli uomini nel processo sociale, come
conseguenza della loro diversa collocazione economica.
Chi appartiene alla classe dominante può e deve
identificarsi con la società, che gli garantisce un alto livello di
auto-determinazione ed auto-realizzazione: per molti aspetti, egli può dire
d’esser libero quanto vuole.
Al contrario, chi appartiene alla classe dominata resta -in
gradi e quantità diverse- escluso dalla possibilità di contribuire a plasmarla
ed ha tanto poche occasioni di auto-determinazione ed auto-realizzazione,
quante gliene concede l’ordinamento sociale esistente. In conclusione, egli è
libero quanto può.
Una classe dominante che voglia mantenersi tale deve
impedire che quella dominata prenda parte senza limitazioni alla vita sociale,
vale a dire partecipi anche all’uso del potere.
Vi è sempre una “lotta di classe dall’alto”, ovvero condotta
con strumenti che ne occultano la brutalità: di tanto ha successo una classe
dirigente, di quanto riesce ad occultare questa forma “dall’alto” di lotta di
ed a evitare, in tal modo, che venga provocata una lotta di classe dal basso.
Il prodigioso raffinamento conosciuto nella nostra epoca dagli strumenti
d’influenza ideologica, consente, come mai era avvenuto nel passato, di
mascherare la realtà della lotta di classe. D’altra parte è noto come pratiche
di mascheramento della lotta di classe -con l’ausilio in particolare della
religione istituzionalizzata- si siano avute in ogni tempo.
§. 1 - Interessi e coscienza di classe.
Tuttavia, sempre vi sono - e vi sono state- continue
esplosioni degli ingorghi di malcoltento per le ingiustizie, legate alle aperte
contraddizioni sociali ed alle riproducentisi situazioni di emarginazione,
oppressione e sfruttamento. A partire dalle ribellioni degli schiavi
nell’antica Roma, dalle sollevazioni plebee nei Comuni medievali, dalle guerre
contadine all’inizio dell’epoca moderna fino a giungere alla resistenza dei
tessitori della Slesia, abbiamo una ricchissima e documentata serie di esempi
di aspre lotte di classe. Le ideologie occultanti, di cui la classe dirigente
si serve allo scopo di assicurarsi l’egemonia anche sulla coscienza delle
classi sottoposte e, dunque, perché esse stesse accettino gli esistenti
rapporti sociali, sempre si scontrano ad un certo punto con limiti insuperabili,
che ad esse oppone l’effettiva, immediata esperienza. Anche le momentanee
concessioni sociali, che alimentano, presso i dominati, l’illusione ideologica
del riformismo e dell’opportunismo politico, possono ottenere solo una
momentanea integrazione degli sfruttati entro l’ordine sociale esistente.
Esiste sempre il momento, in cui la contraddizione sociale radicale esplode.
Tuttavia, l’esperienza dell’emarginazione e dello
sfruttamento non fa -da sola- il concetto della
condizione di classe.
La «coscienza ribelle» reagisce ad una situazione
particolare di oppressione, senza vederne le relazioni ed interdipendenze con
le forme generali di movimento e di esistenza del tipo di società e, dunque,
con le altre particolari situazioni di oppressione, che ne derivano.
Di contro alla spontanea insoddisfazione e critica, che si
legano alla contraddizione vissuta, all’oppressione e sfruttamento di cui si fa
esperienza, un’educata coscienza di classe sa comprendere tutto ciò come
manifestazioni di una connessione sistematica essenziale, alla cui base c’è un
modo d’appropriazione del prodotto sociale.
Come abbiamo visto, Lenin ha distinto con chiarezza la
coscienza di classe dalla spontanea articolazione dei particolari
interessi di classe. Lo stesso concetto di classe è una generalizzazione
teorica, che presuppone l’astrazione dalle casuali forme di manifestazione
della vita sociale e la formulazione dei tratti essenziali del processo di
socializzazione.
La coscienza di classe è “l’autocoscienza” di un soggetto
storico universale, che non può essere concepito semplicemente come sommatoria
o media statistica di individuali soggetti psicologici. Piuttosto, ogni
soggetto individuale, poiché astrae le proprie generalizzazioni teoriche dalle
particolari prospettive della sua esperienza, va di nuovo ricondotto alla
coscienza di classe, come all’universale di cui rappresenta solo una delle
particolarità.
Nella teoria, questo divario può esser superato, ma certo al
prezzo di riempirlo di contenuti, che diminuiscono la presenza delle esperienze
individuali - l’atteggiamento di “distacco dalla vita” e il dogmatismo, che
inclina verso forme burocratiche di realizzazione, con le sue istruzioni e
soluzioni astratte, tutto ciò sta a dire che la teoria si è separata
dall’esperienza.
D’altra parte, la traduzione della teoria nella pratica
quotidiana si lega sempre all’inevitabile rimpicciolimento e deformazione
prospettici che vengono dal punto di vista dell’esperienza
individuale, a cui la teoria è ricondotta nella sua applicazione. Ciò produce
gli sbandamenti soggettivistici nell’attivismo dei singoli, non
adeguatamente mediato dall’organizzazione.
Il processo di costruzione della coscienza di classe va
condotto, correndo il rischio di questi due pericoli di snaturamento. Si tratta
della coscienza, costruita sul piano teorico, di un “complessivo lavoratore
sociale” -dunque della coscienza universale di una “persona astratta”, che
trova espressione nelle “persone naturali”.
§.2 - Le basi organizzative della coscienza di classe.
La coscienza di classe e il suo volgersi nella pratica non
va concepita come quell’ “astuzia della ragione” che, secondo Hegel, si afferma
dietro le spalle degli individui in quanto “spirito oggettivo”, assumendo la
forma irrazionalmente reificata di un “destino storico” feticizzato (ma
d’altronde questo è un limite insuperabile per la coscienza borghese della
storia). La coscienza di classe, invece, ha bisogno che si operi continuamente
la mediazione fra i contenuti di coscienza individuali della persona naturale e
l’universale coscienza di classe del lavoratore sociale complessivo. Tale
processo di mediazione presuppone un terreno su cui costruirsi
ed i cui risultati possano precipitare in una teoria unita alla prassi,
continuamente sottoposta ad arricchimenti e mutazioni, proprio perché non si
arresta il processo di mediazione.
Il ‘terreno’ di cui dicevo è l’organizzazione politica della
classe lavoratrice in lotta. L’organizzazione svolge la propria attività sulla
base dell’esperienza dei suoi membri, impegnati nell’applicare e nello
sviluppare la teoria scientifica, la quale generalizza le esperienze sotto le
categorie della totalità sociale; teoria sacientifica che può, dunque, essere
descritta come costituzione dell’insieme sociale, attraverso la formulazione
delle leggi essenziali della socializzazione. Il carattere politico-economico e
filosofico di una tale teoria si inferisce dai compti, che essa si dà.
In ogni singolo membro dell’organizzazione, la teoria vale
come ingrediente della sua prassi, ma nel senso che solo mediante l’attività
politica organizzata essa può darsi la completezza di un tutto. E’ mediante il
Partito che gruppi di individui possono assumere come risultato astratto la
teoria, che altri hanno costruito su base d’esperienza, e dare ad essa una
realizzazione nella prassi, mediante una solidarietà che può essere efficace,
anche là dove non si diano le immediate condizioni d’esperienza.
In realtà, la solidarietà stessa diviene generale contenuto
d’esperienza nell’organizzazione e mediante l’organizzazione; ed è proprio così
che le astrazioni della teoria possono penetrare nella prassi. Insomma, la
solidarietà nella lotta è un momento essenziale della coscienza di classe, così
come lo sono le azioni in cui tale solidarietà prende corpo. Naturalmente, tali
azioni presuppongono l’esistenza di una determinata base comune d’esperienza e
debbono avere un effetto chiarificatore, per produrre realmente quell’esito.
Là dove esiste un movimento dei lavoratori, forte e ricco di
tradizioni, son presenti anche modelli solidaristici di comportamento, che
sanno persistere pure al di là di azioni sbagliate. Il livello della coscienza
di classe è pure condizionato dallo stadio storico d’esperienza di lotta di
classe.
Tutte le azioni di lotta di classe del proletariato nella
società borghese nascono da una posizione, che certamente è povera di diretti
strumenti di potere, ma su cui invece fa affidamento la classe dominante, che
s’appoggia sul suo strumento, lo Stato. Sul terreno della lotta di classe -di
cui la resistenza armata è, per i rivoluzionari, l’ultima ratio- tanti sono gli
strumenti di cui lo Stato può giovarsi, quanti sono quelli di cui è priva la classe
lavoratrice.
Sempre la violenza è lo strumento primo, di cui si servono
gli organi dello Stato; al proletariato -in quanto componente necessaria della
società borghese- è offerta la possibilità di bloccare il funzionamento della
società borghese, negativamente, mediante lo sciopero e, positivamente,
conquistando posizioni particolari di potere.
Certamente la società capitalistica è potente; però, è anche
vulnerabile. La forza, che un’organizzazione orientata alla lotta di classe può
contrapporre al potere organizzato dello Stato, sta nella disciplina dei suoi
militanti.
Da solo, il singolo lavoratore è impotente; in quanto classe
-ovvero, in quanto parte rilevante della classe, dunque, in un’azione di
massa-, il lavoratore è imbattibile, dacché sarebbe tolto il sistema stesso, se
venisse tolta una condizione necessaria della sua esistenza. Ora: la massa per
principio invincibile è tanto vulnerabile, quanto lo sono gli individui in essa
riuniti; infatti, per risultare vittoriosa, la lotta di classe richiede vittime
individuali e, dunque, disponibilità al sacrificio; l’inasprimento della lotta
di classe fino al confronto violento ha senso, se gli individui in essa
impegnati assumono -e non episodicamente- tale disponibilità al sacrificio! Ciò
implica, naturalmente, un alto livello di coscienza di classe, intelligenza e
morale combattiva, le quali risultano dalla disciplina, che nasce da un lungo
lavoro di maturazione.
Da ciò non si cava, è ovvio, che la disciplina diviene
necessaria solo al momento della sollevazione rivoluzionaria, mentre prima non
è che un mèro ‘esercizio’; è vero, piuttosto, che, proprio nei lunghi periodi
di scontri parziali e continui all’interno della società borghese, la
disciplina è il presupposto per far sì che le esperienze e i livelli
individuali di coscienza possano mediarsi e, così, elevarsi a coscienza di
classe.
Se è vero che l’attività politica organizzata è il luogo in
cui si costituisce la verità storica della coscienza di classe, allora è vero,
anche, che son necessari il rifiuto delle azioni individuali, spontanee, ed il
loro ricondurle invece, alla totalità del piano strategico; nonché
la disponibilità ad un impegno che importa sacrifici, pure nelle minute
attività, le quali, poi, non sono che il lato individuale dell’impegno
collettivo.
In questa disciplina, di cui il singolo si fa carico, si
disegna l’aspetto formale della coscienza di classe, così come il suo contenuto
materiale deriva dalla rielaborazione teorica delle esperienze individuali.
§. 3 - Mutamenti nella struttura di classe e compiti del
Partito.
Resta da esaminare se -posti i mutamenti avvenuti nella
struttura sociale dei Paesi ad alto sviluppo industriale- siamo ancora
autorizzati a parlare di classe lavoratrice e di proletariato.
La sociologia borghese contesta tale pretesa, citando le
forme diverse in cui si realizza il modo di vita dei lavoratori salariati.
Senonché, «classe» non è concetto interpretabile ad arbitrio.
Di essa vi è, al contrario, una definizione scientifica che,
prendendo le mosse dalla caratterizzazione datane da Marx e che abbiamo
precedentemente citato, distingue le classi sulla base dell’appropriazione o
non-appropriazione del plusvalore.
Capitalista è chi si appropria in forma privata
il plusvalore prodotto socialmente; al proletariato, invece, (o
alla classe lavoratrice) appartengono tutti coloro, che ciò non
fanno e che possono solo vendere la propria forza-lavoro; questo vale, quale
che sia la classificazione in cui il lavoratore venga collocato dalla
sociologia, quali che siano gli ‘strati intermedi’ che essa distingue.
I cambiamenti strutturali, le nuove professionalità o i
nuovi strati sociali prodotti dai mutamenti nella forma delle forze produttive,
tutto ciò resta, comunque, inscritto entro la cornice dei rapporti capitalistici
di produzione, dunque, dell’appropriazione privata del plusvalore per effetto
della proprietà privata degli strumenti di produzione; si tratta, insomma, di
modicazioni interne ad una società, già definita nella sua intima spaccatura di
classe.
Ciò significa che se pure è vero che la contraddizione di
classe continua a determinare la struttura fondamentale della società, tuttavia
è necessaria un’attenta analisi, che sappia riconoscere i sotto-gruppi interni
alla classe lavoratrica, ma anche ricondurli all’insieme del processo sociale
di produzione e di scambio.
Naturalmente ciò non sta a dire che sia scomparsa la
contraddizione reale tra capitale e lavoro salariato; va sostenuto, piuttosto,
che, oggi, essa ha assunto aspetti assai più impersonali e anonimi, tanto da
non poter più esser immediatamente avvertita.
L’autentico problema è, piuttosto, come sia possibile
ricostruire una combattiva coscienza di classe -che comprende, sappiamo,
solidarietà e disciplina-, a partire da gruppi, interni alla massa dei lavoratori
salariati, la cui coscienza tende ad accentuare le differenze delle condizioni
particolari.
Tanto meno unitarie son le condizioni di vita della propria
posizione di classe, tanto più rilievo acquista la generalizzazione teorica
che, partendo pure da esperienze ed interessi diversi, giunge comunque ad una
coscienza sociale sistematica, in cui i differenti punti di partenza trovano la
possibilità di una ricomposizione unitaria.
Per la ricostituzione della classe come fattore politico, il
lavoro teorico è doppiamente necessario: in primo luogo, per l’elaborazione di
modelli d’interpretazione di alto livello di generalità, che risultino da una
fitta rete di mediazioni basate sull’esperienza; in secondo luogo, per
assicurarsi un metodo, che consenta la larga diffusione di massa di tale
conoscenza teorica, dunque, per garantire una vasta attività di propaganda e
agitazione, che si leghi all’esperienza dello sfruttamento e dell’oppressione,
ma che sappia, anche, riferirsi centralmente ai conflitti attuali, collegandoli
ai fini politici di mutamento del sistema. Conflitti sindacali, iniziative di
cittadini ed altre iniziative di lotta fungono, in questa prospettiva, da punto
di partenza.
A questo punto, la questione della formazione della
coscienza di classe in vista d’una cosciente unità politica torna al tema
dell’organizzazione, la quale può offrire il terreno su cui si costruisce
proprio quel processo di formazione.
L’organizzazione della lotta di classe richiede l’esisteza
di un Partito, basato su una coscienza di classe, elaborata teoreticamente a
partire dal socialismo scientifico. Un tale Partito deve fungere da punto di
cristallizzazione e da perno dell’opposizione al sistema dominante.
Quella del Partito non è una mèra questione di sociologia
dell’organizzazione, che possa esser affrontata in questo o in un altro modo: è
piuttosto un aspetto centrale della consapevolezza storica.
Se la nostra è e deve essere l’epoca del passaggio dal
capitalismo al socialismo, dacché altrimenti si fallirebbe l’obiettivo dello
sviluppo e dell’umancipazione umani, allora il Partito, cosciente di questo
carattere epocale, è quello che conduce al superamento politico della mancanza
di libertà, propria di qualunque società di classe; è, insomma, il
portatore della verità storica del nostro tempo.
5° capitolo - Il concetto di epoca.
Il carattere di un’epoca non è deciso da un singolo evento
politico, per quante ripercussioni questo possa avere sulla vita dei
contemporanei. Undici anni dopo la decapitazione di Carlo I d’Inghilterra
(1649), gli Stuarts tornarono dall’emigrazione e restaurarono la monarchia
assoluta per quasi trent’anni: eppure, ciò restò solo un’episodio all’interno
del “secolo delle rivoluzioni borghesi”. Non altrimenti avvenne nel 1815 con la
Restaurazione guidata da una classe dirigente piena d’odio per le sconfitte subite,
ma impotente a cancellare gli effetti dell’avvenuta Rivoluzione francese. Il
tempo del feudalesimo era irrimediabilmente concluso e, nonostante le
sconfitte, il trionfo della borghesia risultava inarrestabile: industrie,
ferrovie, Istituti bancari rappresentavano forze storiche assai più incisive di
qualunque potere statale in mano alla Santa alleanza, dacché determinavano il
modo di produzione della nuova era e richiedevano, per il proprio sviluppo, un
nuovo ordine sociale e nuovi rapporti di produzione.
Il carattere di un’epoca è determinato dalla produzione
sociale e dalla riproduzione della vita civile che essa consente. Quali forze
produttive sono a disposizione di un’epoca? In quali modi e forme di
organizzazione lavorativa, dello scambio e della distribuzione esse sono usate?
Quali forme proprietarie e giuridiche ciò comporta? Quali interessi -concordi
e/o contraddittori- generano i rapporti di produzione dominanti? Come si
mediano i differenti scopi individuali nell’orizzonte degli interessi collettivi
di classe, in cui si esprimono le contraddizioni fondamentali di un’epoca?
Queste son le domande a cui dobbiamo rispondere, se vogliamo
renderci conto non degli eventi episodici e superficiali, ma sì delle tendenze
fondamentali di un’epoca. Ciò che avviene in questo o quel punto temporale o
spaziale costituisce indizio di un significato, che l’occhio esperto
dell’indagatore deve scoprire, se il suo intento è cogliere le forze generali,
che operano sotto la superficie.
Il materialismo storico è il metodo per condurre una tale
indagine; così come lo scarto -fra sviluppi delle forze produttive e resistenza
opposta ad essi dai rapporti di produzione- è la chiave per determinare il
carattere di un’epoca.
§. 1 - La rivoluzione tecnico-scientifica.
Nella nostra epoca, il fattore determinante della produzione
materiale è dato dalla “grande industria” -come Marx aveva già visto più di
cent’anni fa (cf. Das Kapital, 1. XIII).
Il rimpiazzo della forza lavorativa umana con le forze della
natura; la sostituzione di un’attività, ormai divenuta routine, con l’impiego
consapevole della scienza e l’accelerazione del ritmo e intensità del lavoro,
in modo tale che tale aumento sistematico ed “ogni perfezionamento del
macchinario si trasformi in strumento per succhiare una quantità maggiore di
forza-lavoro”[40] -,
ecco, nel fondo, la descrizione adeguata a render conto di quel processo di
sviluppo tecnico del capitalismo, che conduce fino all’automazione ed
all’elaborazione dei dati.
Dalla fine del XVIII° secolo, un’ingegneria tecnica sempre
più raffinata ha legato scienza e produzione, in modo tale che la crescita
dell’una implicita la crescita dell’altra.
La scienza stessa è divenuta una delle principali forze
produttive, a ritmi di crescita sempre più accelerati e giungendo a conquiste
conoscitive sempre più spettacolari. Le conoscenze in tal modo acquisite non
solo hanno conquistato un’estensione, che va ben al di là della portata di un
singolo intelletto; ma anche sono riuscite a penetrare nella struttura profonda
della realtà materiale (fisica delle particelle, biologia molecolare,
tecnologia genetica, psicoformacologia, ecc.).
Senonché, a questa prodigiosa estensione e capacità tecnica
delle scienze particolari non si accompagna una visione generale del mondo e
della società, che consenta al singolo di entrare in relazione con il tutto.
Le conoscenze scientifiche vengono valorizzate in funzione
degli scopi individuali dei proprietari degli strumenti di produzione e ciò,
naturalmente, ha conseguenze anche rispetto al modo di orientare lo sviluppo
scientifico.
Al momento attuale, il posto dei singoli capitalistici è
stato accupato dalle concentrazioni di capitale, dai consorsi e dalle società
finanziarie, che perseguono i loro scopi particolari con forze e
possibilità ancora maggiori.
Avvenuta questa sostituzione -dell’individuo capitalista con
il consorzio-, le finalità particolari divengono sempre più esclusivamente
quelle dell’accumulazione capitalistica, perché con le società anonime
risultano tolti anche gli scopi privati, ma nel senso di personali,
che il singolo capitalistica tuttavia aveva.
La legge che ha retto, per due secoli circa, la rivoluzione
industriale, naturalmente, continua a valere -ed è la legge, appunto,
dell’accumulazione del capitale.
Il capitale privato investito deve produrre plusvalore, in
modo che ne risulti un profitto da convertire, anche, in nuovi investimenti. E’
in questo modo che i capitali finiscono col contrapporsi ai loro stessi
proprietari, in quanto “valore valorizzantesi”, ovvero in quanto “feticcio
nella sua forma più pura”.[41]
In questa sua astratta coazione all’autovalorizzazione, il
rapporto di capitale diviene il più concreto -e più estraniato- modo
di vita sociale dell’uomo all’interno della società borghese, che si imprime
-direttamente o indirettamente- su ogni manifestazione della vita sociale. Una
conseguenza è che i progressi della RTS, invece che risolversi in strumenti per
la liberazione umana dalla costrizione esterna, si riducono a mezzi
dell’aggiogamento umano alle finalità autonome della valorizzazione del
capitale.
Valorizzazione del capitale significa continua crescita
della produttività, quale che sia lo scopo e il contenuto della produzione. Ma
significa, anche, continuo sorgere -manipolato!- di nuovi bisogni, che possano
portare alla messa in circolo di merci, capaci d’assicurare sufficienti
profitti.
Non appartiene ai comunisti assumere acriticamente questa
continua espansione di bisogni, promossa dal principio della valorizzazione del
capitale o accoglierla addirittura come criterio per valutare i progressi dello
standard di vita delle masse.
Esattamente un grave errore, che caratterizzò la concezione
dello svuluppo fatta propria dal XX Congresso del PCUS, fu di presentare come
obiettivo socio-economico il superamento -in un tempo quale che fosse- dello
standard di vita degli USA. Assumere questa finalità, infatti, implicava il
sottomettersi al meccanismo d’una produzione mercantile sempre crescente e così
sostituire i valori comunisti con l’ideologia piccolo-borghese del consumismo.
Il progresso in una società comunista implicita il
superamento dell’estraniazione umana nel feticismo mercantile e il dispiegarsi,
invece, dei valori dell’autorealizzazione umana, la quale trova adeguata
espressione non solo negli standards di consumo, ma anche nella struttura
stessa del modo di vivere.
Proprio il progresso tecnico, capace di sottrarre sempre più
l’uomo all’oppressione del lavoro e di assicurargli una quota sempre maggiore
di tempo libero (cioè, tempo non impiegato nell’immediata riproduzione della
vita), consente l’espansione delle capacità ed attività umane, la
differenziazione degli interessi e l’elaborazione di nuovi contenuti di vita.
Il passaggio ad una nuova cultura, fondata sullo sviluppo multilaterale delle
persone, è la chance che si offre ad un’epoca, in cui le forze
produttive hanno raggiunto livelli, in grado di consentire all’intera umanità di
emanciparsi dai bisogni materiali.
Va da sè che si faccia in modo d’assicurar la crescita dei
bisogni materiali: in ciò consiste, appunto, la strategia volta ad assicurare
la continua espansione della produzione mercantile, che è la stessa forma
d’esistenza del capitalismo. Senonché, ben presto si mostra che tale
unilaterale strategia di sviluppo produce insuperabili contraddizioni nel
generale modo di vita umano.
La rapidità delle innovazioni tecnologiche porta con sé
l’etica del rapido esaurirsi dei modi del consumo. Ogni produzione, inoltre, deve
riprender l’avvio da materie che si trovano in natura; ogni consumo di materia,
però, dà origine a scarti, che hanno da esser rigettati nell’ambiente naturale.
La RTS che avviene all’insegna della valorizzazione capitalistica, per il
nostro ambiente naturale, costituisce un danno sotto due aspetti: esaurisce
risorse e distrugge le condizioni fisiche, chimiche e biologiche degli
equilibri ecologici, che poi son ciò che garantisce la sopravvivenza stessa
della vita. I possibili benefici della RTS, all’interno del capitalismo, si
rovesciano in maledizione per l’umanità: la crisi ecologica è una
conseguenza dell’ordinamento economico-politico in cui viviamo.
(Anche gli Stati socialisti, sotto la pressione della
concorrenza col capitalismo all’interno del sistema capitalistico mondiale,
dovettero cedere a questa costrizione -d’altronde, tutti i deboli
economicamente sono soggetti alle leggi economiche dalla “grande industria”).
§. 2 - imperialismo e sottosviluppo.
Nella forma che le vien data dal processo di valorizzazione
del capitale, la RTS determina il volto del nostro mondo. Con le sue nuove
produzioni, essa dà l’impronta anche al tipo di sviluppo di Paesi che, con
grande fatica e lentezza, debbono riuscire ad integrarsi al livello di sviluppo
degli Stati industrializzati.
Perché la produttività di una moderna industria possa
realmente contribuire allo sviluppo delle masse di un Paese, è necessario che
il momento di partenza del processo già si collochi ad un determinato livello
di sviluppo, per quanto modesto, e che sia caratterizzato da un certo standard
di vita: in caso contrario, non si potranno trasformare miserabili in
forza-lavoro qualificata e in consumatori.
Le strategie capitalistiche di sviluppo -orientate,
sappiamo, non allo sviluppo dell’uomo, ma sì alla valorizzazione del capitale-
non sono in grado di assicurare quelle necessarie condizioni di partenza; solo
programmi di solidarietà -e nel lungo periodo- possono superare l’arretratezza
tecnologica ed operare le adeguate trasformazioni di rapporti e modi di vita (già
presenti all’interno dei Paesi sviluppati), che corrispondono al processo di
sviluppo d’una generazione. L’attesa di vantaggi a corto o medio termine
possono condurre ad una politica di investimenti, che in realtà riproduce uno
scarto fra una ristretta cerchia, capace di godere dei vantaggi del progresso,
e masse sempre più immiserite e, così, determinare una crisi, che investe
centinaia di milioni, miliardi forse, di uomini dei Paesi poveri. Il
capitalismo non dispone affatto degli strumenti per dare una soluzione umana al
problema del sottosviluppo.
La limitatezza delle risorse e degli sbocchi commerciali, a
disposizione d’una ulteriore espansione del capitale, non fanno che
approfondire una contraddizione radicale interna al capitalismo.
Le guerre di concorrenza, fin dal suo sorgere, appartengono
al capitalismo; la vittoria dei più forti sui più deboli porta con sé processi
di concentrazione. Oggi, l’incrocio di concorrenza e concentrazione ha condotto
alla formazione di tre blocchi, che costituiscono superpotenze economiche: gli
USA con i loro satellici; la Comunità europea, segnata dalle pretese egemoniche
della Germania ed, in fine, il blocco Giappone/Sud-est asiatico.
Le divisioni tra questi tre gruppi si fanno ogni giorno più
manifeste e mostrano i segni di possibili conflitti. Dal punto di vista
politico, questi conflitti già danno occasione a numerose piccole guerre
“indirette”: la Guerra del Golfo per il controllo del petrolio; la dissoluzione
della Jugoslavia attraverso una sanguinosa guerra civile manovrata
dall’esterno; gli scontri fra Armenia e Azerbaijan; la guerra in Cecenia; le
aggressioni contro la Libia, Cuba; in molti altri luoghi del mondo,inoltre, si
minacciano o addirittura si svolgono già altri scontri militari.
Dissolta l’Unione Sovietica e, con ciò, il cosiddetto
equilibrio mondiale delle due “Superpotenze”, il mondo si è fatto meno sicuro.
Sullo sfondo delle “piccole” guerre si profila la rivalità
tra i “Grandi” ed il fantasma di una futura guerra tra loro. All’interno del
capitalismo non c’è modo di unificare l’espansione capitalistica, ché sempre
essa comporta conflitti tra i diversi gruppi capitalistici e le strutture
politico-statuali che li sorreggono. Il capitalismo non è apportatore
di pace.
La situazione mondiale -caratterizzata da problemi globali,
quali la crisi ecologica, l’impoverimento massivo e le minacce alla pace-
scaturisce dal carattere espansivo del capitale nella sua attività di
auto-valorizzazione su scala universale. Questa fase del capitalismo si chiama
imperialismo e la valutazione che Lenin ne dette è, nella sostanza, ancor oggi
valida -in particolare dopo la provvisoria vittoria riportata sul socialismo.
I problemi globali son la manifestazione d’una acuta crisi
del sistema capitalistico, che giunge a render possibile addirittura
l’auto-annientamento dell’umanità. La stessa strutturazione essenziale
dell’economia capitalistica -valore che si valorizza o capitale che si
incrementa- si contrappone ad una possibile soluzione di questi problemi.
Ogni intervento sul sistema, che sia orientato a curare
questo o quel particolare cancro particolare, che qua e là si rivela, è
destinato a mostrare tutta la sua insufficienza e, in definitiva, si condanna
al fallimento, sino a quando non venga rimossa la causa profonda di quegli
stessi mali -vale a dire, la coazione sistematica all’accumulazione di
capitale. Presupposto del dominio sulla crisi è la modifica del sistema dei
rapporti di produzione.
§.3 - Riforme e rivoluzione.
Cambiamenti d’un sistema si compiono solo dopo un lungo
periodo di elaborazione. Prima che abbia successo la rottura rivoluzionaria, si
snodano molti piccoli passi riformistici, volti ad edeguare un sistema inadatto
alle condizioni della propria sopravvivenza. Questi passi sono i primi segni di
un ‘passaggio’ più radicale, quando vengano concepiti ed usati come fasi
inziali di più profondi cambiamenti.
Ovviamente, ciò non significa che le riforme siano superflue
o addirittura indesiderabili, per il loro parziale esito stabilizzatore;
giungere a questa conclusione sarebbe dar prova di frettolosità estremistica,
dimentica della dialettica di quantità e qualità.
La nuova qualità -dunque, anche la nuova forma politica di
organizzazione dei rapporti di produzione- non nasce per esplosione improvvisa,
se così si può dire, dal seno stesso della vecchia società. Ha bisogno, invece,
di molti piccoli cambiamenti, capaci di mettere progressivamente in forse
l’unità sistematica della società in questione: ha bisogno, dunque, di molti
interventi, che introducano in questo o quel punto la nuova qualità. Mediazione
e rottura sono i due rovesci di una stessa medaglia, i due lati di uno stesso
processo.
Ma il rovesciamento o la rottura non nascono ‘da soli’; al
contrario, richiedono sempre soggetti operanti, che quel rovesciamento o
rottura vogliano, che per essi si battano e li preparino.
L’ideologia riformistica si contenta dei cambiamenti interni
al sistema esistente e dà così l’illusione di poter in tal modo combattere
quelle deficienze, che son proprie, invece, del sistema come un tutto e in
quanto tale: è in questo modo che il riformismo finisce col farsi puntello del
sistema.
Un ruolo stabilizzatore non lo hanno le riforme in quanto
tali, ma sì l’ideologia delle riforme (il riformismo), dacché
smorza la volontà rivoluzionaria e giunge a sancire l’esistente fino al punto
di comprimere ogni impulso rivoluzionario.
Lo sviluppo storico, tuttavia, segue sue proprie leggi:
l’umanità non vuol precipitare nel baratro e, dunque, spinge per nuovi
sviluppi, fino all’abbattimento dei rapporti esistenti.
Quest’ultimo risultato consegue ad un lungo e continuo
processo di mutamento sociale; ma il passo politico decisivo per l’ingresso nel
nuovo regime sociale è il mutamento del potere, ossia l’abbattimento rivoluzionario del
potere d’una classe.
Non lasciamoci ingannare dall’abuso, che il linguaggio
corrente oggi fa del termine ‘rivoluzione’: ogni paio d’anni, assistiamo ad una
‘rivoluzione’ -ad es., nella moda, col variare della lunghezza delle gonne; nel
mercato, con l’introduzione di un qualche nuovo prodotto -per non parlare della
‘rivoluzione’, che l’ultimo libro pubblicato regolamente segna rispetto alla
concezione del mondo! Le rivoluzioni effettive sono, invece,
rare e coinvolgono l’intera società, in tutte le sue manifestazioni.
Un’effettiva rivoluzione disgrega l’esistente formazione
sociale e comincia a far emergere il modello fondamentale di una nuova; a monte
però di quel disgregarsi c’è un lungo processo, nel corso del quale la vecchia
società comincia a mostrare crepe e segni di decadenza. Dall’altra parte è vero
che al primo abbozzo di una nuova formazione sociale si richiedono ancora
numerosi cambiamenti, perché un nuovo ordine si stabilisca effettivamente.
I mutamenti rivoluzionari non sono eventi improvvisi ed
eccezionali, da cui sorga bell’e fatto il nuovo; al contrario, richiedono un
lungo periodo di lotte -dunque, di vittorie e sconfitte, di innovazioni e di
ricadute all’indietro.
Nel corso di questo lungo e complesso processo, però, vi è
un momento, in cui i mutamenti introdotti appaiono con piena chiarezza in tutta
la loro portata: è allora che ci si accorge che si è realizzato un mutamento di
formazione sociale.
Son questi momenti, che fungono da segnale del fatto che si
è entrati in una nuova epoca, che una rivoluzione è avvenuta e che essa dà il
tono al’intera epoca.
§. 4 - La Rivoluzione d’Ottobre come segno di una nuova
epoca.
La crisi del capitalismo, che scaturisce dall’acuirsi
devastante delle sue interne contraddizioni, è un fenomeno secolare: per la
prima volta, si manifestò nell’insieme della prima guerra mondiale.
In questa prima esplosione della crisi generale, la sconfitta
militare portà al crollo della Russia zarista -nella quale andava svolgendosi
ancora il processo di industrializzazione, ma in cui, anche, le masse popolari
non avevano alcuna esperienza di lotta politica democratica, sia pure un senso
borghese.
La borghesia, per altro relativamente poco sviluppata, non
fu in grado di rispondere agli impetuosi colpi del movimento operaio e
contadino con gli strumenti di una democrazia borghese funzionante, che si
contrapponesse alla dittatura zarista: per questo fu trascinata nel suo stesso
crollo.
L’«anello più debole» della catena imperialistica si ruppe;
proprio l’immaturità delle condizioni, in questo caso, rese possibile la
rivoluzione socialista.
Se in alcuni casi, la rivoluzione è stata l’acme o la
conclusione di un lungo processo di sconvolgimenti radicali (si pensi al 1789
francese o alla Rivoluzione borghese del 1848), l’Ottobre del ‘17, invece, fu
-e ciò vale anche per i primi anni dell’Unione Sovietica- il punto di avvio del
processo mondiale di passaggio dal capitalismo al socialismo; essa non fu il
frutto di mutamenti storici già realizzati: piuttosto, segnalò
il primo ingresso in nuovi territori della storia;
non sancì l’avvenuta vittoria del proletariato, ma sì l’inizio della
lunga lotta per una società mondiale priva di classi, contro un avversario
storicamente superato, ma ancora potente.
Con la Rivoluzione d’Ottobre inizia l’epoca del processo
rivoluzionario, in cui il capitalismo sarà superato e la RTS sarà posta al servizio
dell’uomo e non della valorizzazione del capitale.Trionfo e caduta del’Unione
Sovietica sono stati una prima fase di questa epoca; noi -che, ora,
viviamo all’interno di un capitalismo apparentemente vittorioso ma, in realtà,
dalle contraddizioni sempre più aspre ed acute-, siamo entrati in una seconda
fase dello stesso processo.
La Rivoluzione d’Ottobre ha dato l’indimenticabile
prova che gli sfruttati e gli oppressi -quelli che, oggi, vengon chiamati i
deboli e gli esclusi- hanno la forza di ribellarsi. Essi sono in grado di
edificare il loro proprio Stato, la loro propria società e di imporre limiti ad
un potente nemico.
Fu l’Unione Sovietica ad abbattere il fascismo; fu essa ad
assicurare la retrovia dei movimenti anti-colonialistici di liberazione
nazionale; molte concessioni ai lavoratori negli stessi Paesi capitalistici,
d’altronde, furono fatte proprio per la paura, che incuteva l’alternativa
socialista. Insomma, “lo spettro del comunismo” ha turbato effettivamente
l’animo dei potenti.
Tuttavia, il primo sistema sociale socialista è stato
sconfitto.
Le sue basi economiche erano troppo deboli per poter vincere
il confronto col sistema capitalistico, portando avanti contemporaneamente
l’edificazione del sistema sociale sovietico.
La prosecuzione del processo rivoluzionario dopo la
Rivoluzione d’Ottobre, nelle condizioni di persistente arretratezza tecnologica
e di accerchiamento politico-militare, comportò a poco a poco deviazioni dagli
scopi rivoluzionari.
In luogo della libera associazione dei produtori, si ebbe il
progressivo rafforzarsi di un apparato burocratico, senza il quale non era
possibile costruire il gigantesco Stato sovietico; il Partito non era più
l’avanguardia del progresso sociale, ma sì chi esercitava effettivamente la
funzione statuale e finì in tal modo col trasformarsi in un reale strumento di
potere, invece che essere il mezzo collettivo, attaverso cui potesse costruirsi
la volontà sociale.
Il Partito non riuscì ad essere il medio per l’integrazione
delle masse in una complessa struttura d’istituzioni d’autogoverno. In questo
modo, sempre più i singoli si rendevano autonomi dalla responsabilità verso la
vita sociale e nel momento della crisi venne a mancare la prontezza necessaria
alla difesa ed al rinnovamento della società socialista.
Ciò significa, forse, che la Rivoluzione d’Ottobre è stata
nel suo complesso un fallimento? Oppure, che sia stata una sciagura, in quanto
ha avuto come conseguenza il discredito dell’idea socialista?
Chi fraintendendo in modo sostanziale la Rivoluzione
d’Ottobre la considera come stravolgimento del socialismo, non solo formula
tali domande, ma anche risponde loro affermativamente.
Chi ritiene, invece, che la Rivoluzione d’Ottobre fu
l’aurora di una nuova epoca mondiale e non il suo crepuscolo, non ha bisogno di
negare il corso del sole, solo perché, al crepuscolo, il cielo si è oscurato.
Gli obiettivi per il futuro prossimo dell’umanità, che
furono posti sia dal Manifesto comunista che dal Programma bolscevico,
non hanno perso il loro contenuto.
L’aumentato sviluppo delle forze produttive, entro la pelle
del capitalismo ed operando le sue leggi d’accumulazione, conducono alla
distruzione dei presupposti ecologici della vita umana ed alla cancellazione ad
opera dell’imperialismo di parte dell’umanità e delle cultura (non solo nel
cosiddetto terzo mondo, ma anche nelle metropoli, sotto forma
d’immiserimento mentale e fisico di coloro i quali patiscono gli effetti della
cosiddetta «società dei due terzi»).
Ecco perché la risposta al capitalismo è data dalla lotta
rivoluzionaria per un ordine sociale alternativo, il socialismo, -non a causa
della Rivoluzione d’Ottobre, ma sì in quanto lotta di classe, che si riproduce
dall’interno stesso del capitalismo, persistendo ed acuendosi le sue
contraddizioni radicali.
Alla vigilia dell’Ottobre rosso, nei materiali per la
ristesura del Programma del partito bolscevico, Lenin formulò questa legge
epocale: “ Il grado eccezionalmente alto di sviluppo del capitalismo mondiale
in generale, la sostituzione del capitalismo monopolistico alla libera
concorrenza, la creazione da parte delle banche e delle associazioni
capitalistiche di un apparato per disciplinare socialmente il processo di
produzione e di ripartizione dei prodotti, il carovita e l’oppressione della
classe operaia che si accrescono con lo sviluppo dei monopoli capitalistici, le
gigantesche difficoltà della lotta economica e politica della classe operaia,
gli orrori, le calamità, le devastazioni, le atrocità generate dalla guerra
imperialistica: tutto questo converte il capitalismo, giunto al suo attuale
grado di sviluppo, nell’era della rivoluzione proletaria socialista. Quest’era
è già incominciata.” [42]
Si badi: Lenin scrive che “l’era” è cominciata e non
semplicemente è venuto “il momento”. Egli era consapevole, quindi, che si
trattava di una lunga fase dello sviluppo storico mondiale.
§. 5 - Vittoria o sconfitta: una partita ancora aperta.
E’ col 1917 che si è aperta l’era della rivoluzione
proletaria. Ma anche rivoluzioni, che son giunte al culmine di uno sviluppo
storico-sociale, non si sono svolte senza sconfitte.
La Grande Rivoluzione francese del 1789 ratificò il
passaggio alla società borghese, che dopo più di un secolo mediante cambiamenti
al livello dei rapporti di produzione fu portata a termine; e tuttavia con il
Congresso di Vienna del 1815 -dopo la sconfitta militare di Napoleone-, per
un’intera generazione, le potenze della Restaurazione riuscirono ad imporre di
nuovo la monarchia assoluta, mediante la “santa alleanza” con lo Zar, con
l’Imperatore austriaco e con il Monarca prussiano. Per questo bisogna dire che
la Rivoluzione del 1789 fallì e che naufragarono i suoi ideali? In nessun modo.
Lo sviluppo dal faudalesimo al capitalismo ed alla
democrazia borghese fu solo ritardato, ma non arrestato.
I maggiori spiriti del tempo, anche durante la reazione,
continuarono ad apprezzare la Grande Rivoluzione: un personaggio dalla statura
di un Hegel -per altro calunniato come “filosofo dello Stato prussiano”- era
solito brindare il 14 luglio, giorno anniversario della presa della Bastiglia.
La Rivoluzione d’Ottobre è quella soluzione di
continuità, da cui storicamente ha inizio l’attuale epoca della storia
dell’uomo. A partire dall’Ottobre rosso comincia la lotta per l’emancipazione
dalla società borghese, poichè il superamento della proprietà privata degli
strumenti di produzione e dell’appropriazione privata del plusvalore prodotto
socialmente (insomma, la logica negazione determinata del
capitalismo), con il primo tentativo di costruzione d’una formazione sociale
socialista, ha trovato una sua determinata concretizzazione storica. Va da sé
che proprietari privati e direttori d’imprese non hanno mancato di contrapporsi
a tale tentativo e non significa certo cadere nel disfattivo affermare che
essi, posta la grande superiorità materiale su cui potevano fare affidamento,
erano perfettamente in condizione di vincerla la battaglia.
Altrettanto certamente è un successo storico il fatto che
coloro che hanno cominciato la costruzione di una società socialista, non solo,
siano stati capaci di resistere per settant’anni e di conquistarsi un effettivo
ruolo mondiale, ma che siano anche riusciti, in molti ambiti, a costruire
modelli funzionanti di un nuovo insieme sociale. Questo è un successo che
neppure la provvisoria rivincita del capitalismo può cancellare, dacché son
stati prodotti esempi effettivi, che operano nella coscienza e possono motivare
il comportamento politico.
La realtà è che il progresso nella storia non si compie in
modo lineare, ma sì pagando il prezzo di sconfitte, anche, e di arretramenti;
tuttavia, la storia è pure, come Hegel diceva, “progresso nella coscienza della
libertà”: il che significa che quanto è stato una volta conquistato non è più
dimenticato dagli uomini, ma continua ad operare nel “dominio della
rappresentazione”.
Per tutti questi motivi è dalla Rivoluzione d’Ottobre che
inizia l’epoca del passaggio dal capitalismo al socialismo. L’esito di questo
passaggio, però, non è scontato: può riuscire, ma anche può fallire; è certo,
comunque, che il suo successo presuppone che si lotti per la nuova società,
dato che i proprietari capitalistici debbono contrapporsi ad ogni mutamento dei
rapporti di proprietà, poiché l’essere sempre più soggetti al feticismo della
valorizzazione del capitale, per essi, acquista l’aspetto del profitto.
Solo la classe, che non si appropria del plusvalore -dacché
si limita a produrlo-, non ha il minimo interesse a che continui
l’accumulazione di capitali; solo questa classe può cambiare il sistema, senza
entrare in contraddizione con se stessa.
Coloro i quali vendono una forza-lavoro, da cui altri
ricavano profitto, non hanno alcuna ragione di legare i propri interessi a
quelli della difesa del capitale privato; debbono solo prender coscienza della
loro condizione di classe e coglierne la radicale contraddizione con l’epoca
presente.
La crisi del capitalismo è inscritta nel suo stesso sistema
economico ed il trionfo su tale crisi è una questione di classe:
insomma, la nostra epoca è tale, per cui o si ha fuoriuscita socialista dalla
crisi o non si ha affatto fuoriuscita.
Abbiamo tutti i motivi per non dimenticare i colpi sparati
dall’incrociatore Aurora, con cui iniziò la Rivoluzione d’Ottobre.
Come poteva dire Goethe a proposito delle cannonate di Valmy (quando i soldati
rivoluzionari francesi misero in fuga l’armata interventistica
austro-prussiana), anche noi possiamo asserire: qui abbiamo l’inizio di un
nuovo tempo. Le cannonate dell’Aurora inaugurarono una nuova epoca,
al cui termine l’umanità o avrà dato a se stessa un nuovo
ordinamento sociale, oppure avrà perso se stessa.
Con questa alternativa ben presente ai nostri occhi,
possiamo continuare a vedere nella Rivoluzione d’Ottobre il segno d’una
speranza, ma anche di un dovere: quello della lotta internazionale per i
diritti dell’umanità.
6° Capitolo - Crisi generale del capitalismo.
L a caduta del sistema socialista nell’Europa dell’est e il
trionfo del capitalismo, come vittoriosa formazione sociale apparentemente
stabile, hanno condotto al fatto che una serie di categorie
storico-materialistiche per la comprensione della storia e dell’epoca siano
state abbandonate in quanto giudicate inservibili.
Questo disfattismo teoretico significa che una costruzione
propriamente concettuale è stata demolita senza un’effettiva verifica critica,
ma semplicemente sulla base dell’apparenza esteriore.
La conseguenza è che si è, così, riconosciuta anche
l’egemonia ideologica dell’avversario e si sono abbandonate posizioni
strategicamente importanti al livello della visione del mondo.
Non infrequentemente tale arretramento è stato giustificato
con il fatto che nel passato scienziati socialisti son caduti nell’errore di
generalizzazioni grossolane ed hanno usato in modo inadeguato, se non
addirittura falso, categorie discutibili, ottenendo così il risultato di
discreditarle. Che tale giustificazione testimoni piuttosto di un’insicurezza
soggettiva e non abbia validità logica lo si puà mostrare con un semplice
paragone: chi se la sentirebbe di affermare che la sottile costruzione
intellettuale di un Tommaso d’Aquino perda, essa, di valore, per l’appiattimento
che subisce all’interno dell’insegnamento religioso?
Le categorie dialettiche denotano sì una realtà e la
descrivono; ma lo fanno in modo tale, da lasciar trasparire, anche, la funzione
che hanno nella prospettiva di una teoria dell’«insieme», orientata alla prassi
e finalizzata a guidare il comportamento -funzione, che appunto quelle
categorie possono avere, se e solo se vien riconosciuta la loro intima
connessione con la teoria in questione. Estrapolate da tale connessione ed
utilizzate isolatamente, esse perdono ogni capacità di significare la realtà e
si capovolgono in strumenti di auto-accecamento -come dimostra ampiamente la
storia del pensiero e delle visioni del mondo.
Perché una teoria continui ad esser vitale è sempre
necessario -lo diceva Hegel- che si rinnovi la “tensione del concetto”. La
conclusione è che il lavoro in ambito teoricoè un
compito ineludibile per coloro, i quali puntano ad un agire politico,
supportato dalla conoscenza scientifica del mondo.
Naturalmente, il lavoro nella teoria implicita che il
contenuto concettuale si modifichi, modificandosi la realtà -la capacità di
arricchirsi e di modificarsi è, forse, ciò che indica se un concetto continua a
valere come forma del pensare, oppure se ha cessato di esser qualcosa di
utilizzabile. Far sì che al livello dei concetti e della teoria il movimento
della realtà trovi una propria, adeguata espressione è una pratica quotidiane
delle scienze, che ha nella filosofia il suo riflesso.
Tra le formule discreditate, che giocano un ruolo centrale
nella teoria storico-materialistica contemporanea, c’è quella della “crisi
generale del capitalismo”.
Bisogna riconoscere che spesso questa formula è stata usata
come un cliché, che mal nascondeva l’incapacità di analizzare ed
elaborare a livello concettuale i processi determinati, in cui quella crisi si
manifesta ma che consentono, anche, la riproduzione e perfino il consolidamento
dei rapporti capitalistici di produzione. Parlare della crisi generale del
capitalismo era divenuto quasi il ricorso ad una formula magica, con cui si
cercava di sottrarre ad ogni dubbio la vittoria del socialismo, pur
se questa richiedeva ancora sacrifici e non era affatto scontata. Usata come
incantesimo propiziatorio, che libera il pensiero dalle contraddizioni in cui
noi stessi siamo invischiati, quel modo di caratterizzare l’epoca impediva
l’approfondimento teorico dei processi in cui si snoda la crisi sociale e
rendeva impossibile un agire politico, capace di incidere su quegli stessi
processi.
Innanzi tutto, teorici marxisti caddero nell’errore d’un
eccesso d’ottimismo nel valutare la forza del socialismo nella sua prima fase
di costruzione: in questo modo si giunse a considerare l’esistenza stessa del
campo socialista un essenziale fattore determinante la crisi
generale del capitalismo.
Ma i fattori effettivamente determinanti la crisi di un
sistema debbono esser ricercati in quei fenomeni, che nascono dal suo interno,
dalla sua stessa essenza; fattoriesterni, infatti, divengono
determinanti, solo nel caso in cui un sistema, per il suo stesso mantenimento,
risulti troppo unilateralmente dipendente dalla coesistenza
con e dall’aiuto di potenze esterne. Proprio questa dipendenza dall’esterno
tende a divenire un interno fattore destabilizzante.
Da parte loro, i Paesi capitalistici non dipendevano
unilateralmente dalla coesistenza e cooperazione con i Paesi socialisti: ben al
contrario, il loro sistema poteva perfettamente prescindere da tale coesistenza
o cooperazione ed, anzi, era in grado di sopportare perfino scontri militari
(sia pur contenuti al di qua del confronto mondiale fra Potenze atomiche); e
tutto ciò era stato, per altro, dimostrato dalle guerre in Corea e in Viet-nam
e, ancor più ampiamente, dalla «guerra fredda» con la conseguente corsa agli
armamenti, che poi non era altro se non una continua preparazione alla guerra e
perfino quasi una sua prima fase.
Senonché, dopo il 1956 i Paesi socialisti divennero in
crescente misura dipendenti dalle prestazioni economiche e, in seguito al
processo apertosi con la Conferenza per la sicurezza e la collaborazione in
Europa, anche dagli interventi politici delle Potenze capitalistiche, nonché
favorirono lo sviluppo di ineguali relazioni economiche con le strutture
egemoniche del capitalismo mondiale. E tutto ciò progressivamente divenne non
un effetto della crisi dei Paesi socialisti, ma addirittura momento del loro
stesso sviluppo.
Bisogna liberarsi dall’idea che la crisi generale del
capitalismo vada definita mediante la correlazione con il sistema socialista:
infatti, i tratti caratterizzanti quella crisi devono esser ricercati
nell’essenza del processo di socializzazione capitalistico e, in definitiva,
nell’inasprirsi della sua contraddizione fondamentale, quella, cioè, tra
capitale e lavoro.
Ciò significa che dobbiamo rinunciare alla categoria di crisi
generale del sistema capitalistico ? Oppure che essa manchi di un
qualunque senso effettivo, che possa e debba esser conservato, una volta
liberata quella categoria dal suo appiattimento? Non dice proprio nulla della
situazione del sistema sociale, in cui viviamo e che -apparentemente con nuove
forze- continua a dar l’impronta di sé al mondo intero, ad influenzare le
condizioni della riproduzione di Paesi non capitalistici -come la Cina e il
Viet-nam- o precapitalistici -come in Africa-?
Una formazione sociale, -che produce oggi distruzioni
ambientali, guerre, impoverimento di massa e svuotamento di senso della vita
umana-, come altrimenti potrebbe essere caratterizzata se non da un concetto,
che esprime il divorzio radicale fra scopi e realtà sociale ed il rompersi
stesso del tessuto sociale?
Quella di crisi generale del capitalismo è una categoria
storica, che ci dice che le sue contraddizioni interne -sulle quali poteva
ancora esser esercitato un controllo nella fase di sviluppo del sistema
sociale-, oggi, nella sua fase matura, non generano altro che scompensi gravidi
di pericoli tra le condizioni d’esistenza dell’umanità.
Crisi generale significa che le
contraddizioni capitalistiche hanno ormai assunto forme, che derivano dal loro
intrecciarsi, influenzarsi e incastrarsi l’un nell’altra, generando così un
sistema, in cui caoticamente i singoli elementi entrano in conflitto l’un con
l’altro.
La categoria in questione non appartiene al vocabolario
marxista, quale si trova nelle opere di Marx e di Lenin; e ciò perché le
manifestazioni di una crisi generale del capitalismo sono
apparse, solo, nella sua fase imperialistica con l’acuirsi profondo delle sue
contraddizioni interne.
Quando Lenin parla di crisi del capitalismo si riferisce
alla prima guerra mondiale ed alle acuite contraddizioni economiche che ne
erano la conseguenza, nonché alle contrapposizioni politiche fra Stati
capitalistici.
Certamente in Lenin vi sono numerose indicazioni circa il
fatto che “l’imperialismo è entrato in un’epoca di crolli giganteschi e di
violente decisioni e crisi militari a livello di massa”, di cui il 1918 poteva
esser diagnosticato come solo l’inizio[43] .
Inoltre, in una comunicazione al Comitato esecutivo del Comintern, nel 1920,
Lenin elencava una serie di decisioni, che caratterizzavano in tal senso la
situazione, sempre ovviamente nel contesto del quadro internazionale.[44]
Il concetto di crisi restò, comunque, confinato all’ambito
economico-politico ed usato, solo, in riferimento a situazioni spazialmente
circoscritte.
Anche Stalin, nel 1925, disse con tutta chiarezza che la
disgregazione del capitalismo non ne imperiva, tuttavia, un ulteriore sviluppo,
anche se ciò avrebbe comportato la creazione di relazioni, che avrebbero reso
più acute le contraddizioni basilari del capitalismo; Stalin parlò, perfino, di
una fase di stabilizzazione del capitalismo.[45]
Per la prima volta nel 1934, analizzando nel rapporto al
XVII Congresso del Partito la crisi capitalistica del momento, Stalin disse che
si trattava della crisi più seria, che aveva ormai investito tutti i Paesi
capitalistici senza eccezione, esattamente perché “la crisi industriale
cresceva sulla base della generale crisi del capitalismo.”[46]Comunque,
neanche in quell’occasione, si chiariva cosa comportasse l’aggettivo generale.
Dall’insieme risulta che la combinazione di crisi
industriale ed agricola per il mantenimento di altri prezzi delle merci ne
costituiva un aspetto essenziale, così come il montare del fascismo e del
pericolo di guerra; Stalin, comunque, ammoniva, sulla scorta di Lenin, a non
considerare la crisi della borghesia come priva di vie d’uscita.[47]
“Crisi generale del capitalismo” non significa che il
sistema sociale capitalistico si trovi in una processo di auto-dissolvimento,
ma solo che le conseguenze delle sue interne contraddizioni saranno scaricate
sempre più pesantemente sulle masse. Il capitalismo non crolla da sé per la sua
crisi, ma se -e solo se- le masse si costituiscono come soggetto alternativo,
come forza che lotta per un nuovo ordinamento sociale.[48]
Ma cosa distingue, dunque, quella ‘generale’ dalle crisi
cicliche, che hanno accompagnato ed accompagnano tutto lo sviluppo del
capitalismo e che son l’espressione stessa della dinamica delle sue
contraddizioni interne?
Il passaggio ad un’attività economica che si estende sul
piano mondiale -in particolare, l’attività del capitale finanziario- ha come
conseguenza l’esplodere più facile e rapido di crisi regionali; è questo che
cosegue dall’universalità economica, che si costituisce col mercato mondiale.
La reciproca dipendenza delle economie nazionali, ma anche
dei singoli settori economici, fa crescere la possibilità di esser colpiti
dalla crisi del sistema, i cui meccanismi di ricaduta si svolgono, in una
crescente dimensione, spontaneamente (“naturalmente”), ad opera delle leggi del
libero mercato.
Di qui la necessità, al fine di gestire la crisi all’interno
del sistema, di far ricorso ad Istituzioni ed a strumenti, che riescano ad
introdurre momenti di direzione e di sistematicità (ad es., gli interventi delle
Banche centrali sul mercato finanziario, per il controllo dei cambi), allo
scopo di attutire gli scossoni che volta a volta si determinano.
Ma quando un sistema non può più funzionare sulla base delle
sue proprie leggi strutturali ed ha bisogno, invece, di ricorrere a strumenti
che quelle leggi contraddicono, allora esso dà prova della sua
instabilità e riesce a conservare un’apparenza di stabilità solo per produrre
nuove contraddizioni (le quali, a loro volta, genereranno nuova instabilità ad
un livello crescente, e così via).
Non è dubbio che un simile ordinamento economico è in grado
di conservarsi a lungo nel tempo -se non altro quando può fare affidamento su
grandi riserve di ricchezza sociale e quando non incontra, al proprio interno,
un nemico combattivo. In ultima istanza, però, esso si mantiene, solo, facendo
gravare, via via maggiormante, sugli strati più deboli del sistema sociale il
costo dei tentativi di equilibrare le proprie contraddizioni: un risultato di
ciò è l’inasprimento delle interne distanze sociali. Tuttavia, questo è, per
quanto fondamentale, solo un aspetto -quello economico-
della crisi del sistema.
Tale crisi in tanto può essere generale, in
quanto dall’ambito dei rapporti di produzione, le contraddizioni si espandono
fino ad investire il complesso della vita sociale.
L’aggravarsi delle crisi economica dal punto di vista degli
interessi della classe dominante ben presto si accompagna allo smantellamento
delle strutture politiche equilibranti, che dovrebbero assicurare l’integrazione
degli sfruttati e dominati all’interno del sistema. In luogo di una sia pur
limitata partecipazione al potere politico, mediante istituzioni democratiche,
va sempre più affermandosi la subordinazione ad istanze amministrative, fino
all’instaurazione di un autentico ordine statale poliziesco e di un
imperscrutabile, anonimo meccanismo di regole e di sistemi di controllo.
Non più organi statali sottoposti a limiti costituzionali,
ma sì aumentato ruolo del potere finanziario in decisioni, che riguardano
direttamente la vita dei cittadini (ad es., a proposito dell’installazione di
impianti tecnicamente rischiosi; di piani commerciali; di strategie di ricerca;
di investimenti, con le connesse implicazioni occupazionali, ecc.).
La crisi della democrazia è un aspetto
essenziale della crisi del capitalismo e, di qui, estensione della corruzione,
della perdita di rispetto per l’ordinamento giuridico, di una insicurezza
giuridica progressivamente crescente.
Se, all’interno, la dimensione politica della crisi economica
assume l’aspetto della crisi della democrazia, all’esterno invece, assume
quello di un carattere sempre meno pacifico delle relazioni internazionali.
La connessione di espansione economica e militare, di crisi
economica e di avventure armate è talmente sotto gli occhi di tutti, che non va
neppure dimostrata: la guerra non è che la forma manifesta della crisi del
capitalismo in epoca imperialistica.
L’abbattimento o lo svuotamento dei diritti democratici,
l’estendersi in ambito politico della crisi economica, tutto ciò consegue
all’inasprimento delle interne distanze sociali, che -a loro volta- sono il
frutto di una gestione della crisi nell’interesse della classe dominante.
Questo trasferimento dei guasti della crisi significa abbassamento dello standard
di vita in alcuni Paesi, aumento dello sfruttamento della forza-lavoro, aumento
crescente della disoccupazione e, per quanto possibile, esportazione
dell’immiserimento in Paesi poso sviluppati.
Regressione sociale, abbandono della gioventù, crescita della
criminalità e del tasso di violenza quotidiana, immigrazione con conseguenti
difficoltà di inserimento: ecco altre conseguenze della crisi
sociale.
Così la società perde la sua capacità di integrare. Gli
individui vengon ricacciati nel chiuso e nell’isolamento della loro
individualità; si disgregano i legami familiari e comunitari, dacché vengono a
mancare scopi generali, capaci di legare e responsabilizzare; sempre più misere
si fanno le attese per il futuro ed il singolo non vede più la possibilità di
un proprio ruolo positivo nella costruzione dell’insieme sociale.
Sollecitazioni privatistiche isolano sempre di più dalla vita pubblica; la
stessa identità personale si fa problematica e si finisce col ricercar
sicurezza aderendo a sette o piccoli gruppi, anche passando ripetutamente dagli
uni agli altri.
Tutto l’insieme dei valori che orientano la vita si disgrega
e ciò che resta è la vuota parola libertà, all’interno di un
realtivismo pluralistico e scettico, nonché la facile disponibilità alla
rinuncia a qualsivoglia opinione in nome della novità, dell’ innovazione.
Ma esattamente il disperdersi di qualunque visione del mondo
costituisce il presupposto della manipolazione delle coscienze, che si
sostituisce all’autonoma capacità di giudizio critico: è così che la crisi
sociale diviene, anche, crisi del senso stesso
della vita. Tale perdita di senso porta con sè anche il dissolversi delle
tradizioni culturali, che fanno da tessuto connettivo di una società.
Costumi, stili di vita, coscienza storica, contenuti
culturali illanguidiscono e vengono sostituiti da mode, che rapidamente si
esauriscono -mode, che ovviamente non sono in grado di dare agli uomini stabilità
e consistenza di concezione della vita.
Con l’abbandono di obiettivi culturali di fondo, anche la
scuola scade a luogo in cui si accostano l’uno all’altro apprendimenti
particolari che, però, non hanno più un’anima, un punto di riannodo, che sia
capace di dar loro un senso; e così il pensiero non è più in grado di
comprendere e ordinare, all’interno di una visione sistematica, la massa sempre
crescente delle scoperte e innovazioni, che son prodotte dalla RTS. A questo
punto, la crisi culturale diviene anche crisi delle
capacità tecniche, per soddisfare i nostri bisogni e per strutturare il
nostro rapporto con la natura.
Ed ecco come il cerchio si chiude: sotto la pressione della
legge fondamentale del capitalismo -la necessità dell’accumulazione capitalistica-,
il crescente sviluppo delle capacità tecnico-scientifiche conduce ad un
perturbamento dei rapporti naturali, gravido di pericoli per le stesse
condizioni della vita umana.
Lo sfruttamento spontaneo delle risorse naturali non solo
modifica lo stato biologico della terra (ad es., abbattimento di foreste o
perdita di risorse d’acqua), ma, anche, muta le condizioni stesse dell’
illimitata produzione dei beni della civiltà (ad es., mediante il dannoso
inquinamento atmosferico, il buco dell’azono e l’ accumulo di residui
inquinanti).
Per la prima volta nella storia, si mostra oggi una
fondamentale contraddizione naturalistico-dialettica del
capitalismo: quella tra crescita economica e disastro ecologico. Questa è,
appunto, la crisi dei rapporti fra uomo e natura o crisi ecologica.
Il concetto «crisi generale del capitalismo» acquista tutto
il suo senso solo sulla base di quanto abbiamo detto; si tratta di una
categoria, che appartiene alla storia delle formazioni sociali.
Se ogni formazione sociale conosce periodi di crescita (quando
lotta contro una preesistente formazione, in via di decadenza), di maturazione (quando
il suo sviluppo coincide con le richieste progressive dell’umanità) e di decadenza (quando
si contrappone con la sua forma di sviluppo a finalità sociali umanistiche), il
capitalismo -la cui forma di sviluppo è quella delle crisi cicliche-, una volta
entrato nella fase della sua decadenza, non conosce più crisi in quanto momenti
di passaggio ad un più alto livello d’organizzazione del sistema produttivo, ma
sì in quanto momenti di disgregazione delle condizioni complessive
della vita sociale e, così, è lo stesso sistema capitalistico, che taglia
l’erba sotto i piedi a quelle che sono le condizioni della sua riproduzione.
Di conseguenza, la crisi non è più solo una generale crisi
economica, una crisi dell’ordinamento economico (che potrebbe esser valutata
ancora come ciclica e, dunque, destinata ad esser superata); sì piuttosto è la crisi
generale del sistema sociale. Essa ne abbraccia tutte le manifestazioni ed
opera guasti in progressione. Questi sono i segni caratteristici di tale
situazione:
- crisi economica;
- crisi politica della democrazia fino a forme di fascismo;
- crisi politica fino a possibilità di guerra;
- crisi sociale;
- crisi di senso;
- crisi culturale e d’orientamento;
- crisi delle capacità tecniche;
- crisi ecologica.
E’ chiaro come i vari momenti di questa crisi generale
agiscano l’un sull’altro, sulla base delle fondamentali contraddizione e crisi
economiche.
Nella stessa misura in cui quello di crisi è un concetto
economico - “la crisi ha origini interne, nei modi di produzione e quindi di
scambio, e non in fatti politici e giuridici...”[49]-,
esso deve ampliarsi a concetto, che designa un’intera epoca storica e non si
chiude nel ristretto ambito economico, poiché “è difficile nei fatti separare
la crisi economica dalle crisi politiche, ideologiche ecc., sebbene ciò sia possibile
scientificamente, cioè con un lavoro di astrazione.”[50]
E’ appunto l’amalgamarsi dei vari momenti della crisi, che
la rende una determinata fase storica dello sviluppo capitalistico e, dunque,
la eleva a crisi generale.
Insomma, l’espressione «crisi generale del capitalismo» ha
un senso teoricamente preciso, da cui una teoria materialistica della storia
non può facilmente prescindere, qualora non voglia sottrarsi al compito di dare
una caretterizzazione complessiva della fase attuale del capitalismo.
Che questa fase non sia necessariamente di breve durata e
che non comporti l’automatico crollo del capitalismo ed il passaggio al
socialismo, Lenin lo ha già detto con estrema chiarezza.
“Compagni, siamo così giunti alla questione della crisi
rivoluzionaria, che costituisce il fondamento della nostra azione
rivoluzionaria. E qui bisogna indicare anzitutto due errori molto diffusi. Da
un lato, gli economisti borghesi presentano questa crisi come un semplice
fenomeno di «irrequietezza», secondo l’elegante espressione degli inglesi.
Dall’altro, i rivoluzionari si ingegnano talvolta di dimostrare che la crisi è
assolutamente senza sbocco. Questo è un errore. Nessuna situazione è
assolutamente senza sbocco. La borghesia si comporta come un rapinatore
sfrontato, che ha perduto la testa, fa una sciocchezza dopo l'altra, aggrava la
situazione e affretta la sua rovina. Tutto questo è vero. Ma
non si può «dimostrare» che la borghesia non abbia assolutamente alcuna possibilità
di addormentare una minoranza di sfruttati con qualche concessione e che non
riesca a schiacciare questo o quel movimento, questa o quella insurrezione di
una parte degli oppressi e degli sfruttati. Sarebbe pura pedanteria,
significherebbe baloccarsi con le parole e le idee, cercare di «dimostrare» in
anticipo che la situazione è «assolutamente» senza sbocchi. In
questo e in altri problemi del genere una «dimostrazione» effettiva può venire
soltanto dalla pratica.”[51]
La pratica -vale a dire l’organizzazione e la
mobilitazione delle masse, che sono le vittime della crisi; la formazione di un
soggetto collettivo, che si assuma il compito di battere questa società
produttrice di crisi. E questo è un compito lungo, che non va mai dismesso.
7° capitolo - Modernizzazione o lotta di classe?
E’ una giusta osservazione che “la critica sociale non è mai
riuscita ad armarsi con tanta rapidità, come nei momenti di crisi sociale”. E
certamente, la coscienza che il sistema economico-sociale capitalistico ha
prodotto di se stesso non ha mai offerto lo spazio ad una critica sistematica
di principio.
“Un pragmatismo, incapsulato entro gli eternizzati confini
dell’economia di mercato e della democrazia” ha sempre dominato le teorie di
provenienza borghese, così come le molteplici varianti del revisionismo e
riformismo socialdemocratici - a partire da Bernstein, fino ad arrivare a Karl
Schiller, Helmut Schmidt ed Oskar Lafontaine (per tacere del tutto
dell’ideologia di retroguardia, che domina la dirigenze del PDS[52]).
Una critica radicale al sistema capitalistico in quanto
tale, invece, poteva scaturire da una contrapposizione radicalmente
dialettica (cioè, capace di pensare lanegazione determinata del
capitalismo), giungendo, così, ad una “differenza rispetto al tutto” (Th.
Adorno).
Non è questo il momento di soffermarsi sugli errori e sui
punti dubbi, che caratterizzano le “teorie critiche”[53].
Dopo tutto, anche quando polemizzavano con grande veemenza politica contro la
realtà sociale del “socialismo realmente esistente” e svolgevano argomentazioni
anti-comuniste, quelle teorie potevano vivere per il fatto che vi era stata la
Rivoluzione d’Ottobre, che aveva dimostrato la possibilità storica di
un’alternativa al capitalismo e che tale alternativa era -almeno come tendenza-
politicamente realizzabile; insomma, quelle teorie vivevano poiché il fatto
stesso che la Rivoluzione vi fosse stata offriva possibilità d’ulteriori
sviluppi.
Inoltre, il sistema degli Stati socialisti -per quanto in
maniera incompleta- costituiva una forza politica a livello mondiale, la quale
-con la sua sola esistenza- riusciva ad avere un’influenza tutt’altro che
trascurabile sui processi sociali delle metropoli capitalistiche e, più ancora,
dei Paesi del Terzo mondo liberatisi dal colonialismo.
E’ anche vero, tuttavia, che l’esistenza dell’Unione
Sovietica e del <campo socialista> faceva organicamente parte -col ruolo
di contropotere o antitesi- del concetto di attuale crisi sociale o,
più specificamente, di crisi generale del capitalismo: per quanto ciò fosse del
tutto corretto dal punto di vista descrittivo, era tuttavia falso dal punto di
vista concettuale.
Concettualmente falso, poiché la crisi generale del
capitalismo era, invece, da intendere come, costitutivamente, la
manifestazione esteriore delle contraddizioni interne del sistema
capitalistico, nella fase di sviluppo della RTS, cioè del rivoluzionamento
delle forze produttive. Le difficoltà esterne dovevano valere, invece, solo
come fenomeno aggiuntivo.
La scomparsa dell’antitesi -cioè del <campo
socialista>- e l’estendersi del dominio capitalistico ormai senza alcun
impedimento su tutto il sistema mondiale degli Stati, lascia i principali
critici del sistema senza più argomenti.
Gli stessi ideologi della “terza via” vedono dissolversi la
loro tematica, esattamente perché non esistono più le due vie tra le quali
inserire la loro prospettiva.
Insomma, il concetto di crisi, assunto del tutto
empiricamente, non è più utilizzabile. E chi se la sentirebbe di dichiarare al
vincitore, in un confronto mondiale senza lotta, che proprio la sua vittoria è
un momento della crisi, se si considera l’epoca nel suo insieme? Chi volesse
così mettere le cose sulla testa (o forse anche sui piedi), dovrebbe essere un
maledetto dialettico, dato che il common sense si compiace di
parlare di “fine della storia”. Robert Kurz, invece, non ha paura di porsi sul
piano delle sottigliezze dialettiche.
Egli non intende accettare “la condanna della teoria in
senso forte” e neanche vuol limitarsi a lamenti; egli vuole piuttosto lacerare
il manto della superficie e superare l’apparenza fenomenica, per riuscire, così,
a cogliere strutture e connessioni, che gli consentano di spiegare i processi;
il suo interesse epistemologico lo spinge ad andare fino in fondo: - la sua
mancanza di riguardo nei confronti della limitatezza sociologica mi risulta in
effetti simpatica; ciò non di meno son costretto a contraddirlo.
Proprio per il fatto che condivido parzialmente i suoi
giudizi, temo proprio che la strada della verità richieda che quegli stessi
giudizi non restino senza replica: verità parziali non sono ancora una verità
-e, perfino, facilmente si capovolgono in mancanza di verità; nella
contraddizione si costruisce la concezione dell’insieme. Tenterò, ora, di
condensare sotto forma di tesi alcuni punti di vista di Kurz (pur rischiando,
così, di impoverirli), allo scopo, poi, di farne risultar con chiarezza le
antitesi.
1. Tesi: Il capitalismo ed il
socialismo (di Stato) finora avutisi, entrambi, sono momenti di un’epoca, la
cosiddetta <modernità>. Quest’ultima è determinata dalla rivoluzione
tecnica, la quale -dalla fine del XVIII° secolo- ha prodotto una crescente
accelerazione nello sviluppo di un’esperienza tecnica sempre più produttiva. Il
periodo compreso tra il 1789 e il 1989 va caraterizzato come quello della
dinamicizzazione del capitalismo. Nel corso di questo processo sempre di più la
crescente produttività e accumulazione di capitale ha consentito la
sostituzione di lavoro umano con strumenti scientificamente elaborati.
Ha ragione Kurz quando sottolinea che ogni formazione
sociale conserva in sé per lungo tempo elementi della formazione precedente e
che, prima del proprio trapasso, contiene, anche, elementi della formazione
sociale successiva. Ha anche ragione quando sottolinea che le varie fasi di una
stessa formazione sociale non son tra loro divise da confini netti, ma che
invece presentano momenti di aggancio dall’una all’altra. Il carattere di
un’epoca, dunque, può essere fissato solo mediante l’astrazione teorica della
sua essenza e solo la dialettica di essenza e parvenza consente di coglierne
movimenti e tendenze.
L’essenza del capitalismo è l’accumulazione del capitale.
“L’accumulazione o produzione su scala crescente... diviene... una necessità
per ogni capitalista individuale. Il continuo accrescimento del suo capitale
diviene condizione per la sua stessa conservazione.”[54]
Il capitale è effettivamente tale solo nelle mani del
capitalista, il quale -per necessità strutturale- non può far altro che
reinvestire il plusvalore ottenuto in vista di un’ulteriore produzione di
plusvalore. “Tutti i metodi per la produzione di plusvalore sono, anche, metodi
per l’accumulazione e, a sua volta, ogni ampliamento dell’accumulazione è un
mezzo per lo sviluppo di quei metodi.”[55]
All’interno del capitalismo, è certamente contraddittoria
rispetto al sistema una pianificazione sociale che, tra l’altro, destini il
plusvalore alla soddisfazione delle necessità sociali, ovvero, una
pianificazione che non lo utilizzi necessariamente in vista della produzione di
ulteriore plusvalore. L’immediato abbattimento di ogni progresso sociale e
prestazione culturale dello Stato socialista, dopo l’annessione della DDR (come
d’altronde è avvenuto in ogni Stato ex-socialista), fornisce di ciò abbondanti
esempi.
Allo stesso modo, in cui ciò mostra che gli Stati socialisti
potevano prevedere una divisione del prodotto del lavoro sociale sottratta alla
legge capitalistica della “riproduzione su scala allargata” e, dunque, ad una
accumulazione sempre riproducentesi.
Non è dubbio che il prezzo da pagare era il ritardo della
produttività nella concorrenza con il sistema capitalistico, nel quale le
esigenze del reinvestimento di capitale privato debbono prevalere sulla
crescente soddisfazione dei bisogni sociali.
Quella dei due sistemi non era, però, la concorrenza tra
sfere di circolazione e consumo, isolate l’una dall’altra e, dunque, non
significava l’astratto confronto fra ricchezze sociali.[56]
Vi era, piuttosto, un intreccio a livello di mercato
mondiale, il quale ultimo -per parte sua- funzionava solo sulla base delle
leggi capitalistiche, che imponevano, dunque, la propria norma anche sulle
possibilità di concorrenza delle economie socialiste. Del tutto
indipendendemente dall’handicap di partenza -di cui dice la Tesi 3-,
le società socialiste non erano assolutamente in grado di affrontare una
concorrenza secondo le regole del gioco capitalistico: avrebbero dovuto
adeguare il proprio commercio estero a condizioni, contraddittorie rispetto al loro
proprio sistema di distribuzione del plusvalore.
E’ anche giusto dire che, dal 1917 al crollo del socialismo,
non si può parlare di coesistenza fra sistemi sociali contraddittori, ma
ugualmente consolidati; la situazione, piuttosto, era descrivibile come
esistenza di una società socialista in costruzione (con tutte le difficoltà e
contraddizioni del periodo di transizione), all’interno di un sistema mondiale
organizzato capitalisticamente, di cui la prima rappresentava certo un momento
contraddittorio, nel quadro, tuttavia, di una persistente egemonia del
capitalismo.[57]
Una ideologia legittimante, che mascherava il processo di
costruzione del socialismo, con tutte le lotte implicite, spacciandolo per
realizzazione già avvenuta del socialismo stesso (in tal modo non potendo,
ovviamente, spiegarne gli aspetti di immaturità, di debolezza e di squilbrio),
non era certamente in grado di assicurare una comprensione dialettica della
situazione mondiale.
Analogamente, fu messa del tutto da parte la costruzione di
una coscienza politica, quale necessario presupposto per una democrazia che si
costituisse nella lotta di classe; fu, invece, favorita l’ affermazione di una
visone del mondo, che puntava sull’addottrinamento e sull’uniformizzazione.
Ciò premesso, sussumere immediatamente sotto la categoria di
moderno sia il capitalismo che il socialismo (di Stato) significa porsi fuori
da una concezione dialettica del processo storico.
Il fatto che la formazione sociale a cui noi apparteniamo
sia sempre (anche dopo la Rivoluzione d’Ottobre) capitalistica, non
esclude, ma addirittura include - in forza della figura
logico-dialettica di quell’ universale che non coincide mai con le sue proprie
figure[58]-
il costituirsi internamente del suo stesso opposto; né impedisce che
l’universale contenga in sé tale opposto, fino a che quest’ultimo non si
rafforzi tanto da dar luogo ad una nuova formazione sociale.
Dunque, tale universale, come diceva Hegel, contiene sé e il
proprio opposto: ed, appunto, analogamente il capitalismo nella fase sviluppata
della propria contraddittorietà interna contiene se stesso (nella varietà delle
proprie forme) ed il proprio opposto, cioè il socialismo.[59]
Il concetto di <modernità> è troppo grossolano e
generico per riuscire ad esprimere adeguatamente il movimento sociale e
politico mondiale successivo alla Rivoluzione d’Ottobre. E ciò perché tale
concetto si limita allo stadio dello sviluppo delle forze produttive e del modo
di produzione (compresa la sovrastruttura ideologica), ma non riesce ad
abbraccaire quello dei rapporti di produzione.
2. Tesi: il movimento dei
lavoratori fa parte della modernità. I suoi scopi ed il loro (parziale)
raggiungimento son elementi dell’economia capitalistica come sistema. Ogni
vittoria del movimento dei lavoratori ha comportato una conferma ed un
ulteriore sviluppo del capitalismo, in quanto stimolo a realizzare nuovi
livelli di modernizzazione. Proprio perché teorico della classe lavoratrice,
Marx lo è anche della modernizzazione e, dunque, si colloca all’interno del
capitalismo; e ciò mentre la sua critica radicale della <forma-valore>
anticipa, invece, una alternativa storica.
Il punto di partenza di questa tesi è triviale: è noto,
infatti, che -per la loro stessa natura- capitalisti e proletari sono figure,
reciprocamente condizionantesi, interne al capitalistico, nel quale lavoro
salariato e capitale rimandano l’uno all’altro, essendo gli elementi centrali
del sistema produttivo.
“Nella stessa misura - si legge nel Manifesto di
Marx ed Engels- in cui si sviluppa la borghesia (dunque, il capitale), si
sviluppa anche il proletariato, la classe dei moderni lavoratori, i quali
vivono finché trovano lavoro e trovano lavoro, fin tanto che il capitale si
accresce.”[60]
Se la modernità la si definisce come l’epoca della
formazione sociale capitalistica (che si va costruendo a partire dal tardo
feudalesimo e che trova compimento nelle rivoluzioni borghesi del XVII° e
XVIII° secolo), allora è ben certo che il movimento dei lavoratori sia parte
della modernità.
Il costituirsi stesso della classe dei lavoratori salariati
appartiene al processo di industrializzazione; il miglioramento delle condizioni
materiali di vita dei lavoratori sta in una stretta connessione con il
progresso tecnico, anche se senza lotta dei lavoratori di certo non si sarebbe
avuto né si avrebbe attualmente.
Se tutto ciò è corretto, non lo è, invece, mettere
semplicemente insieme classe capitalistica e classe lavoratrice nei rapporti
capitalistici di produzione, in modo da ridurre la classe lavoratrice a mèro
coagente delle crisi economiche capitalistiche.
Indiscutibilmente, il lavoratore salariato è anch’esso
articolazione e, in questo senso, protagonista del sistema capitalistico, che,
mediante il salario, gli dà la possibilità di vivere e riprodursi e non c’è
“gran rifiuto”, che possa liberare il lavoratore dalla sua dipendenza dal
sistema (come sognava, invece, H. Marcuse)[61]
Il fatto che lavoro salariato e capitale stiano in un
rapporto contraddittorio insanabile -per quanto ciò possa momentaneamente non
apparire- , sia pure in altro modo, è confermato dallo stesso Kurz nella Tesi
4. E’ questa una condizione oggettiva che fa tutt’uno con la immanente
costrizione all’accumulazione di capitale, cioè con l’appropriazione privata di
plusvalore.
La classe lavoratrice, da un lato, con il suo fare sollecita
l’accumulazione ma, dall’altro, è ciò che si oppone contraddittoriamente alla
stessa accumulazione. Nei momenti culminanti della crisi, tale opposizione si
manifesta appieno e può assumere la forma dell’antagonismo politico. La
politicizzazione della contraddizione sociale raggiunge la sua pienezza solo in
connessione con una crescente consapevolezza delle condizioni di nascita e di
svolgimento della crisi; è importante sottolineare che ciò non richiede
necessariamente una corretta, adeguata conoscenza, dacché anche una
consapevolezza in qualche modo falzata può avere esiti politici, pur se -è
ovvio- nella prospettiva di finalità e secondo un orientamento falsi. La
politicizzazione, dunque, si collega a forme di interazione e di organizzazione
sociali, in cui si costruisce la coscienza e può nascere un potere collettivo.
Certamente, in quanto “teorico della classe lavoratrice”,
Marx ha riflettuto organicamente su questi processi, che comportano mutamenti
sistematici nella classe e nelle forme d’organizzazione del movimento. Non è
giusto, dunque, sostenere che, in Marx, la teoria economica della forma-valore
non si leghi organicamente al programma politico della lotta di classe. Né è
corretto concepire la teoria leniniana del Partito o quella gramsciana dell’
“intellettuale organico” come deviazioni dalla concezione marxiana: si tratta,
piuttosto, rispettivamente di una sua ulteriore elaborazione nella fase
rivoluzionaria e di un suo riadattamento in condizioni, invece, di
controrivoluzione.
Sembra a me che Kurz rielabori lo status storico (e, direi,
filosofico-storico) del movimento dei lavoratori in una falsa prospettiva
sociologistica, legata al concetto di modernizzazione; operazione, questa, che
non può esser supportata dalla così detta evidenza della “scomparsa del
proletariato” nelle metropoli capitalistiche.
La contraddizione, infatti, tra capitale e lavoro salariato
non è superata ma ha, solo, mutato le proprie forme (dal che, certamente,
deriva la necessità di nuove strategie per la costruzione della coscienza di
classe). Ma, inoltre, quella contraddizione si ripropone su un nuovo terreno,
nella forma di uno scarto tra crescente aumento della produttività nelle
società industrialmente evolute ed immiserimento crescente nei Paesi arretrati.
Già Marx colse questa contraddizione quale inevitabile
conseguenza della sottomissione del lavoro al dominio del capitale nello
sviluppo delle forze produttive: “Le legge, secondo cui una massa sempre
crescente di strumenti di produzione può esser messa in movimento da una massa
analogamente decrescente di lavoro umano -grazie al progresso nella
produttività del lavoro sociale- ... determina che all’accumulazione del
capitale corrisponda un’accumulazione della miseria.”[62]
E che, in questo processo, il proletariato sia, ad un tempo,
protagonista dei rapporti di produzione capitalistici ma, anche, loro elemento
antagonistico, è quanto Marx sottolinea, in critica a Proudhon, dando una
formulazione dialettica dei rapporti di produzione: “Di giorno in
giorno diviene sempre più chiaro che i rapporti di produzione in cui vive
la borghesia non hanno un carattere unitario e semplice, sì piuttosto duplice.
Che quegli stessi rapporti, in cui si produce la ricchezza, si produce anche
miseria; che nel quadro dei rapporti in cui le forze produttive si sviluppano
senza difficoltà, si sviluppa anche una forza repressiva; che quegli stessi
rapporti in tanto possono produrre la ricchezza borghese -dunque, la ricchezza
della classe borghese-, in quanto continuamente distruggono la
ricchezza del singolo borghese ed in quanto aumentano
costantemente il numero dei proletari.”[63]
3. Tesi: La storia dell’Unione
Sovietica dopo la Rivoluzione non è quella di un tentativo (insufficiente) di
costruzione del socialismo; s^ piutosto la storia della modernizzazione di un
Paese arretrato, per ricongiungersi, mediante la pianificazione statale, all’economia
di mercato.
Certamente è vero che, al momento della Rivoluzione
d’Ottobre, i rapporti economici e politico-sociali, come anche il livello
culturale di massa (si pensi all’analfabetismo!), non erano maturi per il
passaggio al socialismo, partendo da uno sviluppo capitalistico solo iniziale e
segnato, per altro, dall’impronta dell’assolutismo zaristico-feudale; in
nessuna misura quelle condizioni corrispondevano, per altro, alle premesse
obiettive, che per un tale passaggio postula la teoria marxista.[64]
Non ci soffermeremo, qui, a discutere i motivi, per cui si
ebbe tuttavia la Rivoluzione e per cui addirittura vinse. E’ comunque fuori
discussione che, dopo la Rivoluzione, il primo, dominante compito del regime
sovietico era perseguire una strategia di industrializzazione e innalzamento di
livello tecnologico, che fosse capace di superare l’arretratezza del Paese e di
elevare progressivamente il livello culturale di massa; si aggiunga a questo la
necessità di attrezzate lo Stato per la difesa da aggressioni militari esterne.
Si tratta di obiettivi, che furono raggiunti -ma pagando un grande prezzo.
Rientra in quel prezzo anche la rinuncia ad alcune finalità,
essenzialmente proprie del socialismo (ad es., una concezione non borghese
della democrazia), e la loro sostituzione con una dittatura dispotica e
paternalistica (allo scopo di non sviluppare a dismisura la discussione delle
posizioni di Robert Kutz, tralascio qui la pur necessaria analisi differenziata
del periodo che, con falsificante personalizzazione, vien detto stalinismo).
E’ unilaterale e, dunque, falso ridurre alla
categoria generale di modernizzazione tutto il processo, che
iniziando dal 1917, arriva fino allo scoppio della seconda guerra mondiale. Le
strategie basate sull’imperativo del raggiungimento degli obiettivi
costituivano, solo, un aspetto essenziale della costruzione dell’Unione
Sovietica ed erano, naturalmente, imprescindibili per poter cominciare la
costruzione di uno Stato, fondamentalmente orientato verso il socialismo. La
sincerità di questo scopo non potrei porla in questione: un’indicazione di ciò
è iol tono della Costituzione del 1937.
Ma già con i primi Decreti del governo risoluzionario del
1917 non solo si cominciò ad assicurare la proprietà comune degli strumenti di
produzione, ma anche ad organizzare servizi sociali in modo adeguato ad una
prospettiva socialista e capace di contribuire alla sua progressiva
realizzazione. Lo stesso vale per aspetti importanti dell’ordinamento
giuridico, ad es., il diritto del lavoro.[65]
La specificità della società sovietica si mostra
adeguatamente nel fatto che dovette raggiungere livelli di sviluppo, che
appartengono propriamente alla formazione sociale capitalistica, ma dovette
farlo nel corso del passaggio al socialismo.
I problemi politico-economici e le contraddizioni
specifiche, che comporta un tale ‘salto’ di fasi storiche intermedie, non sono
stati oggetto di riflessione teorica né in Unione Sovietica né altrove. Va da
sè che un tale studio sarebbe fondamentale per comprendere le particolarità del
primo tentativo di costruire una società socialista, nel contesto -per di più-
di un mondo dominato dal capitalismo, e per far emergere le cause del suo
fallimento finale.
Dà maggiore importanza a tale compito il fatto che analoghi
problemi si pongono in tutte le società socialiste, che sono sorte dopo la 2°
guerra mondiale in regioni arretrate del mondo (Cina, Nord-Corea, Viet-nam,
Cuba).
4. Tesi: Si può caratterizzare
la fase attuale del capitalismo con la crescita della produttività e la
conseguente diminuzione di forza-lavoro umana, ché viene da quella sostituita.
La crescente efficienza degli strumenti tecnici, in conseguenza della cosiddetta
RTS, consente un aumento del plusvalore insieme con la diminuzione del costo
del lavoro. Oggi, il capitale è solo in minima parte orientato allo
sfruttamento del lavoro astratto, per cui va considerata obsoleta la tendenza
all’espansione imperialistica.
Con questa tesi - dalla valutazione del socialismo quale si
è avuto finora, delle sue cause e del suo fondamento teorico, passiamo al
giudizio sulla situazione attuale. E’ certa la sensatezza del modo in cui Kurz
caratterizza il capitalismo attuale -che, per altro, corrisponde all’analisi di
Marx, che abbiamo precedentemente visto. Quando Kurz scrive che il capitalismo
“non ha solo la tendenza a nutrire con tutta la forza-lavoro del mondo la sua
astratta e redditizia macchina economica, ma anche quella opposta a sostituire,
pressato dalla concorrenza in produttività, la forza-lavoro umana con strumenti
prodotti dalla scienza”, questo non è altro che il modo attuale di funzionare
della legge, “per la quale la sovrappopolazione relativa -o esercito industriale
di riserva- equilibria ampiamente l’accumulazione.”[66]
Tanto meno il plusvalore reinvestito deve coinvolgere
l’<esercito industriale di riserva>, tanto più cresce la miseria di
quanti vivono del loro salario.
“L’accumulazione della ricchezza da un lato equivale,
dunque, ad accumulazione di miseria, ad angoscia per il lavoro, incertezza,
abbrutimento e degradazione morale dall’altro.”[67]
Oggi noi ci troviamo nel bel mezzo di questo passaggio ad
una nuova fase del capitalismo, che è resa possibile dalla RTS; la distruzione
di forza-lavoro vivente che ciò comporta si dispiega in momenti come: la
riduzione razionale di posti di lavoro, la disoccupazione strutturale nei Paesi
industrialmente avanzati e l’immiserimento di massa, in quegli altri Paesi, che
sembravano essere in via di sviluppo.
“... tutti i mezzi per lo sviluppo della produzione si
capovolgono in mezzi di dominio e di sfruttamento del produttore, mutilano
l’operaio facendone un uomo parziale, lo avviliscono a insignificante appendice
della macchina, distruggono con il tormento del suo lavoro il contenuto del lavoro
stesso, gli estraniano le potenze intellettuali del processo lavorativo nella
stessa misura in cui in quest’ultimo la scienza viene incorporata come potenza
autonoma...”[68]
Il lavoratore vien derubato delle sue proprie forze, che poi
son proprio quelle senza di cui il capitalismo non potrebbe esistere, senza le
quali non potrebbe realizzare la propria valorizzazione.
Con ragione, a proposito di questo sistema Kurz parla di
“autocontraddizione logica”, così come Marx parlava di “carattere antagonistico
dell’accumulazione capitalistica”:[69] infatti,
sempre più lavoratori vengono eliminati dal processo produttivo, e così
diminuisce la capacità d’acquisto dei consumatori, di cui pur abbisogna la
produzione mercantile per la realizzazione del plusvalore e per un’ulteriore
accumulazione di capitale.
Le crisi periodiche di sovrapproduzione, caratteristiche del
capitalismo, in tal modo si trasformano in una continua crisi strutturale, che
solo momentaneamente può essere occultata, sostituendo l’espansione mercantile
con quella
del capitale. E’ ben pensabile che per un lungo periodo l’equilibrio tra accumulazione di capitale e la riproduzione della massa di lavoratori espropriati della loro forza-lavoro venga assicurato da misure quasi-socialiste, all’interno di un sistema di potere fascistico nell’interesse dei grandi capitalisti. Con ciò ovviamente la contraddizione radicale dell’accumulazione capitalistica non viene fatta scomparire ma solo ritardata.
del capitale. E’ ben pensabile che per un lungo periodo l’equilibrio tra accumulazione di capitale e la riproduzione della massa di lavoratori espropriati della loro forza-lavoro venga assicurato da misure quasi-socialiste, all’interno di un sistema di potere fascistico nell’interesse dei grandi capitalisti. Con ciò ovviamente la contraddizione radicale dell’accumulazione capitalistica non viene fatta scomparire ma solo ritardata.
In ogni caso, l’accumulazione capitalistica è orientata allo
sfruttamento delle risorse naturali (materie prime, fonti di energia, ecc.).
Con ciò non comprendo, però, il motivo per cui il capitalismo dovrebbe
“disamorarsi dell’imperialismo”: il capitalismo cercherà sempre di tener
saldamente nelle sue mani tutto ciò, che possa servire come risorsa; da ciò la
necessità di mantener soggette le popolazioni locali.
Tuttavia anche un crescente impoverimento delle masse non
riuscirà ad assicurare la tranquillità necessaria alle condizioni
capitalistiche di produzione, per via dei fenomeni migratori e dei turbamenti
sociali: lo stesso dominio imperialistico dovrà estendere il proprio dominio su
scala e problemi finora sconosciuti. Con tutto ciò possono di nuovo formarsi
masse di sfruttati, oppressi o di privati d’ogni diritto, che si muovano contro
il sistema imperialistico.
La globalizzazione delle contraddizioni proprie del
capitalismo e della corrispondente forma di riproduzione del capitale e della
forza-lavoro produrrà, anche, nuove condizioni per un’internazionalizzazione
della lotta di classe -come già, di fatto, possiamo cominciare a vedere.[70]
5. Tesi: L’accumulazione del
capitale avviene mediante operazioni, per cui una quota-parte del valore
prodotto viene consumato in quanto <costo di produzione>. Tale
quota-parte, in seguito alla modernizzazione del capitalismo, verrà sempre di
più spostata a) dal denaro alla natura, b) dal presente al futuro, c) dai
profitti -del capitalista- alle spese -degli sfruttati; e così il sistema stesso
si taglierà l’erba sotto i piedi.
Ci soffermeremo brevemente su questa tesi. Giusta è la
descrizione della condizione di fatto; questa, però, non è tale da indicare una
qualche modifica essenziale e strutturale del capitalismo, sì piuttosto un suo
estremizzarsi.
La produzione capitalistica è sempre orientata ad elevare la
parte della produzione, che non costa nulla; ed esattamente a questo fine “essa
può solo assicurare uno sviluppo di tecniche e combinazioni del processo
sociale di propduzione che, contemporaneamente, distruggono la fonte stessa
della ricchezza.”[71]
Così come questo valeva agli inizi del capitalismo per
l’accaparramento, in qualunque modo ed al prezzo migliore, delle materie prime
necessarie alla produzione o allo sfruttamento massimo della terra, il problema
si è oggi in varie forme inasprito, in seguito alle ricadute distruttive
sull’ambiente naturale della produzione industriale e dell’utilizzo stesso di
prodotti dell’industria, nonché per l’accumulo di scorie dannose. La crisi
ecologica è un momento della crisi generale del capitalismo.[72]
Non bisogna tuttavia pensare che l’instaurazione dei
rapporti socialisti di produzione comporti automaticamente il superamento della
crisi ecologica, poiché, anche nel quadro di tali nuovi rapporti, potrebbe
esser ricercato un aumento della ricchezza sociale in tempi rapidi, proprio
attraverso l’intenso sfruttamento della natura; comunque, resta vero che solo
nel quadro di una coordinamento socialmente pianificato di bisogni e scopi,
dunque in una società socialista, possono essere armonizzate, facendo del tutto
astrazione da interessi particolari, le esigenze della produzione e quelle
della sopravvivenza stessa della natura. La critica dell’economia politica del
capitalismo, come anche la sistematica della economia politica del socialismo,
richiedono una teoria dialettica della natura e del rapporto uomo-natura. Ciò
che può esser detto a proposito dei costi di produzione sulla natura, vale
anche come anticipo sul futuro.
Possiamo parlare di danneggiamento delle future condizioni
naturali (per es., mutamenti climatici come conseguenza del disboscamento
massiccio, buco dell’azono); di esaurimeno delle risorse naturali (patrimonio
fondiario, riserve d’acqua) o, infine, di aggravamento delle condizioni
finanziarie delle future generazioni (indebitamento statale).
L’eccessivo sviluppo di questo processo e la mancanza di un
piano generale, capace anche di vincoli e restrizioni, fa sì che il ‘normale’
comportamento dei capitalisti divenga progressiva auto-distruzione del sistema.
Insomma, lo stesso principio (lo scarico dei costi di
produzione sugli sfruttati) opera come interna negazione delle condizioni di
riproduzione del capitale; d’altronde, abbiamo già avuto occasione di parlare
dell’eliminazione della forza-lavoro umana dal processo di produzione: di qui,
l’evidenza del carattere autocontraddittorio del capitalismo, già da Marx, in
quanto critico dell’economia politica, messo in piena luce anche nelle forme
del suo svolgimento storico.
Concludendo, ritengo che la descrizione dei fenomeni fatta
da Kurz possa esser compresa fino in fondo solo mediante la teoria marxista e,
così, possa tradursi in alternativa politica al capitalismo. Veniamo ora
all’ultima tesi di Kurz, qualla per così dire programmatica.
6. Tesi: La crisi del
capitalismo è indice di un rifiuto del sistema mercantile. E’, di fatto, giunto
storicamente ad esaurimento il principio dell’economia monetaria, cioè, dello
scambio dei beni attraverso un equivalente generale, il quale parifica -in
quanto valori semplicemnete- beni, che son destinati a soddisfare necessità
differenti e fa di un valore astratto, per sè sussistente -il denaro- il medio,
che ne consente lo scambio nel processo di distribuzione. Al posto del mercato
deve nascere una organizzazione sociale della distibuzione dei beni,
corrispondenti alle necessità sensibili.
Qui vediamo dove si va a parare, quando la critica di Marx
all’economia poliica non viene intesa come teoria dello svolgimento storico
della società umana a partire dai primordi fino al capitalismo (ed oltre, in
prospettiva), ma sì -da un lato-, in senso riduttivamente economico, come una
critica della forma-valore, e -dall’altro- come una teoria sociologica della
modernizzazione, del tutto distinta dalla critica economica.
La crisi del capitalismo, in realtà, segna un momento di
gravissimo pericolo per l’esistenza stessa del genere umano. Il mercato è il
medio, in cui si compie il processo di accumulazione del capitale secondo la
formula D - M - D’[73].
Se da questa formula togliessimo il medio, cioè il mercato, il denaro
perderebbe ogni sua funzione -poiché tale funzione consiste, appunto, nel
permettere l’ingresso nel circuito dello scambio di beni, considerarti
astrattamente dal loro valore d’uso e proprio così trasformandoli in merci. [74]
Senza denaro, dunque, non vi sarebbero merci; senza merci
non vi sarebbe mercato e senza mercato non vi sarebbe accumulazione di
capitale. Ma è vero che le cose stanno semplicemente così? No, non è
vero.
La “divisione delle risorse secondo bisogni sensibili” è il
principio di un’economia di semplice sussistenza: essa può funzionare in un
accettato sistema di bisogni relativamente semplice, che ogni membro della
società puà avere facilmente di fronte agli occhi anche nelle sue
specificazioni più minute. Già società antiche di più ampia dimensione e dotate
di una sviluppata divisione del lavoro abbisognavano di un ben diverso
meccanismo di scambio..
“Giuseppe il nutritore”, che nei sette anni grassi riempì i
depositi del Faraone e che, quindi, potè distribuire a tutti secondo le loro
necessità nei sette anni di carestia, è una figura utopistica; Talete, invece,
che si serviva della speculazione per ricavare un profitto dalla raccolta delle
olive, è la realtà.
Certamente, meno che mai la moderna società di massa rende
possibile la semplice allocuzione delle risorse. Come che possa essere pensata
e organizzata la società, che succederà lla distruzione del capitalismo (ed a
patto che, nel frattempo, l’umanità non sia scomparsa), essa, comunque, non
potrà evitare di ricorrere al mercato come meccanismo regolatore la
distribuzione dei beni, servendosi di un astratto strumento che misura
l’utilità sociale, sia esso chiamato denaro o altrimenti.Gli sviluppi storici
sono irreversibili, ma è anche vero che la storia non si arresta nel suo corso.
Non il valore né il plusvalore rappresentano il male del
modo capitalistico di produzione, ma piuttosto l’appropriazione privata di
quest’ultimo ed il fatto che la produzione e la distribuzione non abbiamo altro
scopo che l’autoconservazione.
“La circolazione del capitale è scopo a sé, dato che la
valorizzazione del valore esiste solo all’interno di questo movimento, che si
rinnova in continuazione. Dunque, il movimento del capitale è privo di misura.”[75]
La “negazione determinata” del capitalismo
auto-contraddittorio non sta nell’abbattimento della complessità e
diversificazione del sistema dei bisogni, con la produzione e la distribuzione
che ad esso corispondono. Piuttosto la si trova, quelle ‘negazione’, nello
spezzare la continua riproduzione dell’accumulazione di capitale e
nell’orientare la produzione sociale secondo responsabilità sociali, secondo
finalità umane e naturali a corto e lungo raggio.
Si tratta di un compito certo economico e politico, ma anche
morale. Il quale, per giunta, non può esser perseguito a dir così dietro le
spalle dell’individuo, ma sì partecipando egli pienamente ad un impegno
politico collettivo organizzato, il cui scopo sia quello di costruire una
volontà ed una cultura comuni.
Non è dubbio che costruire tale comune volontà e cultura
implicita una forma di democrazia ben diversa rispetto a quella tradizionale,
basata su Parlamento e pluralità di partiti. Come si possa rappresentare una
tale nuova democrazia diverrà, tuttavia, una questione concreta, solo allorché
all’ordine del giorno vi sarà l’abbattimento dei rapporti capitalistici di
produzione.
7° capitolo: Riflessioni sul concetto di situazione
politica.
Un’importante tappa nella storia culturale dell’umanità si
ebbe quando, con l’elaboraione dei fondamenti del materialismo storico -dunque,
con la teoria di Marx, Engels e Lenin-, per la prima volta si rese possibile
una concezione scientifica, capace di abbracciare la totalità dell’epoca
presente (della società borghese, cioè) ma, anche, dello sviluppo storico in
generale. Il vantaggio del marxismo consiste, appunto, nel potersi basate su
una tale concezione.
Questo è qualcosa di cui dobbiamo prendere appieno
coscienza, quando ci confrontiamo con l’esperienza, in particolare dopo la
caduta delle società socialiste e la perdita conseguente di tutta una serie di
coordinate teoriche pur necessarie ad orientarci.[76]
Il senso di ciò è che non possiamo volgerci a considerare
cosa vogliamo perseguire e conseguire nel futuro, se non prendiamo le mosse da
una serie di considerazioni, sia pure destinate ad esser riesaminate, che
abbiamo a loro oggetto non solo il nostro futuro, ma sì anche il nostro
passato.
Va da sé che la nostra autocoscienza non può prescindere
dall’analisi di ciò, che profondamente ha determinato lo scacco del primo
tentativo di realizzare società socialiste -quali che siano i limiti di
superficialità e inaccuratezza con cui, oggi, spesso si discute di queste cose.[77] E’
altrettanto chiaro che parte di tale riflessione è, anche, se il
marxismo -vale a dire, ciò da cui prendiamo le mosse, in quanto socialisti
scientifici- riesca o no a superare quella prova cruciale che è data, appunto,
dalla crisi delle società socialiste.
Nostro problema centrale -in quanto organizzazione, ma anche
in quanto individui- è quello dell’identità del comunista (identità, di cui
inevitabilmente fa parte l’intera nostra storia di Partito, comprendendo in
essa anche tutti gli errori fatti). Non possiamo, infatti, cavarcela, pretendendo
di appartener sempre alla tradizione del movimento comunista ma,
contempraneamente, scrollandoci di dosso i nostri errori; tutto al contrario,
dobbiamo vederci in continuità col movimento comunista, con le sue grandi luci
e le sue drammatiche ombre.
E’ una comprensibile conseguenza psicologica della nostra
sconfitta che oggi la ricerca degli errori stia per noi al primo posto e che
assuma anche l’aspetto dell’ autoaccusa. E’ vero, però, che troppo facilmente
questa ricerca degli errori si risolve in una autocondanna, con qualche
masochismo, di insufficienze individuali ed in una valutazione strutturalmente
negativa dell’organizzazione di Partito (fino a poco prima accettata senza
discussdione alcuna). Il tutto termina, poi, con il render responsabile una
sola -demonizzata- persona o un sistema di arbitrarie deformazioni: la
parola-chiave di questo modo di fare i conti con la nostra storia à stalinismo.
Tutto ciò mi appare falso, sul piano teorico, e indegno, sul
piano umano.
Teoreticamente falso, perché in tal modo si salta a piè pari
un’analisi storico-materialistica dei motivi profondi che, nel processo di
costruzione dell’Unione Sovietica, hanno condotto ai crimini politici e morali
dell’epoca staliniana; contemporaneamente si rimuovono, anche, dal quadro di
questa fase rivoluzionaria i gigantischi risultati, in qualche modo legati al
Terrore, che hanno consentito di gettare le basi per una generalizzata
sicurezza materiale e sviluppo culturale delle larghe masse.
Indegno dal punto di vista umano, perché noi, membri del
Partito e coattori -più o meno attivi e consapevoli- del processo, è come se
volessimo nasconderci dietro le spalle di qualcuno.
Noi ci siamo voluti portatori di una rivoluzione; dunque,
noi dobbiamo farci carico e prendere piena coscienza di tutte le manifestazioni
di questa rivoluzione nella totalità delle sue manifestazioni: nelle sue
speranze e nei suoi limiti, nei suoi successi e nelle sue sconfitte.
Solo se saremo capaci di analizzare con piena chiarezza
teorica, senza alcuna forma di ignavia morale e di fiacchezza piccolo-borghese
il nostro passato, saremo anche in condizione di evitare nel futuro la
ripetizione degli errori.
§. 1 - Essenza e manifestazione; connessione e
contraddizione.
Riflessioni, che abbiano lo scopo di definire la situazione
attuale o, per dirla filosoficamente, che vogliano elaborare il concetto delle
situazione in cui ci troviamo, ci appaiono particolarmente necessarie perché,
in tutti i colloqui, discussioni ed anche confronti teorici in cui ci
impegnamo, è come se esperienze ed impressioni -spesso aneddotiche e
soggettive- venissero da noi considerare sufficienti a cogliere effettivamente
la storia e il concetto della situazione del nostro movimento. Insomma, succede
che al posto di un’esatta valutazione ed elaborazione concettuale abbiamo,
invece, sentimenti, impressioni ed aneddoti.
Conquistarsi il concetto di una situazione implicita
distinguere tra essenza della situazione stessa e suoi modi di manifestarsi.
Quei fenomeni che appartengono alla superificie o quelli, che possono aver
costantemente accompagnato l’esperienza personale nelle diverse fasi di
sviluppo delle società socialiste, dobbiamo imparare a distinguerli
rigorosamente dai grandi processi sociali e dalle loro contraddizioni, dei
quali i detti fenomeni non sono che modi di manifestazione. Insomma, dobbiamo
riuscire a determinare le contraddizioni, non a partire dai fenomeni, ma sì dai
processi strutturali.
L’obiettivo di determinare il concetto d’una situazione
comporta anche, pare a me, non limitarsi all’analisi di questo o quel singolo
momento, sì piuttosto cercare di cogliere la connessione dei momenti.
Questo cogliere la connessione dei momenti -in effetti, di
un’enorme quantità di momenti, dato l’inevitabile orizzonte mondiale della
ricerca- non è certo operazione che un singolo possa condurre a termine; al
contrario c’è bisogno che vengano intrecciate prospettive diverse:
quella dell’ economia politica, della teoria della cultura, della
filosofia, delle scienze storiche e sociali.
In terzo luogo, se intendiamo elaborare dialetticamente il
concetto d’una situazione, dobbiamo prender le mosse dalle contraddizioni
obiettive, che caratterizzano la situazione in questione.
Una situazione storica mondiale non è, in effetti, qualcosa
di compatto ed omogeneo; piuttosto va intesa come il luogo di contraddizioni,
che si scontrano l’un con l’altra; ciò che specifica un’epoca sono,
esattamente, le contraddizioni che essa conosce ed il modo in cui si rapportano
l’una all’altra -modo che è descrivibile mediante la logica dialettica.
Ora, che ci riesca -anche sulla base delle osservazioni
precedenti- di garantirci un concetto dell’attuale situazione -nel senso della
differenza tra essenza e manifestazione sua e della conoscenza delle
connessioni come anche delle contraddizioni obiettive-, è una condizione perché
sia possibile elaborare una strategia politica per gli ulteriori sviluppi
storici, nei quali per altro, in quanto soggetti politici, siamo già implicati.
Per strategia politica si ha da intendere non la costruzione
di finalità che crescano pragmaticamente l’un sull’altra, ma sì l’elaborazione
di uno scopo a lungo termine, dal quale possano ricavarsi anche le mosse
tattiche, che situazioni determinate pretendano. Un’ultima annotazione.
E’ sostanzialmente un’ovvietà dire che possiamo darci una
tattica -se si vuole, una pragmatica dell’agire quotidiano- solo a patto di
possedere una strategia di lungo periodo, teoreticamente fondata.
Quest’ovvietà -che, appunto, si comprende da sé-, nel
passato, è stata più volte misconosciuta e, addirittura, è successo spesso che
prospettive strategiche teoreticamente giustificate siano state elaborate post festum,
al solo scopo di legittimare decisioni tattico-pragmatiche già prese.
Ma, appunto, questo va ben fissato: ecco una pratica che non dovrebbe più
trovar cittadinanza nel nostro movimento. Ed è chiaro che nel dir ciò mi
rivolgo non tanto a coloro i quali si limitano a riflettere su queste cose in
ambito seminariale, quanto a coloro che si impegnano attivamamente nel fare
politico.
§. 2 - Coscienza della crisi.
Quali sono, dunque, i fondamentali momenti determinanti, dai
quali prender le mosse o, se si vuole, in quale epoca viviamo della storia del
mondo?[78]
La definizione dell’epoca, come quella del passaggio dal
capitalismo ad una formazione sociale liberata dal capitalismo stesso, è del
tutto indipendente dal fatto che si dia o meno un sistema di società
socialiste, che costituisca un campo operante al livello politico mondiale.
Nessuna formazione sociale, inoltre, permane immutata ed
inerte nelle sue strutture sociali e ideologiche. Lo stesso capitalismo attuale
non è più quello dei suoi inizi; dal tempo in cui Marx compose Das Kapital ad
oggi, il capitalismo ha conosciuto non solo modifiche al livello delle sue
manifestazioni, ma sì anche cambiamenti, che riguardano aspetti di fondo del
processo di produzione. Ciò è vero, tuttavia, senza che si sia modificato ciò
che rende il capitalismo appunto tale.
In altri termini, il sistema che realizza l’essenza del
capitalismo, conosce sì una svolta storica -in una con lo sviluppo delle forze
produttive-, senza, però, che risulti superata la contraddizione fondamentale
tra capitale e lavoro. Pur restando il capitalismo quello che è, tuttavia è
possibile un suo ulteriore sviluppo.
Se ci muoviamo dal punto di vista dialettico, quindi, se
riconosciamo che le interne contraddizioni del sistema sono anche le
forze, che ne sollecitano lo sviluppo, allora diviene pronosticabile con
sicurezza che queste contraddizioni raggiungeranno quel certo punto temporale e
causeranno quelle tali trasformazioni strutturali, che comportano la
dissoluzione del sistema ed il passaggio ad un’altra formazione sociale.
Non per caso mi son finora espresso in termini così generici
senza parlare esattamente di socialismo come alternativa; ed ho così fatto allo
scopo di chiarire che per determinare le tendenze alla modificazione della
formazione sociale in cui viviamo, non è sufficiente il mèro fatto della
modificazione.
Modificazione è termine insufficiente, dacché non dice in
che senso o direzione la modificazione avvenga -anche l’annichilimento, ad es.,
è una forma pensabile di essa.
Ciò che noi, oggi, con particolare insistenza, chiamiamo i
<problemi globali> (la questione ecologica, il problema dell’esplosione
demografica, dell’immiserimento massivo del Terzo mondo e dell’inaridimento di
intere regioni del mondo), implicitano la catastrofica possibilità della
scomparsa dell’umanità o, almeno, della civiltà umana.
Da ciò si ricava che non è auto-evidente che da quella
formazione sociale, così foriera di pericoli disastrosi, che è il capitalismo,
si possa pervenire ad un’altra formazione sociale, che abbia superato le
contraddizioni radicali della prima; è possibile, infatti, che quelle
contraddizioni condocano, invece, l’intero genere umano alla catastrofe.
A mio parere, questa consapevolezza della (possibile)
catastrofe è un momento fondamentale della coscienza attuale e credo che ciò
valga, anche per quanti non ne hanno una chiara immagine teorica.
Il generale disagio, che caratterizza il nostro momento
storico e che, dunque, non è proprio solo di noi socialisti ma che ha assunto,
addirittura, i contorni di un dato della psicologia sociale nei Paesi
capitalisticamente evoluti, mostra con chiarezza che la minaccia di una
catastrofe, che coinvolga l’umanità intera, è -più o meno confusamente, con
forza maggiore o minore- avvertita generalmente ed è percepita come un riflesso
della condizione storica.
Per lungo tempo questa consapevolezza d’una minaccia, di una
catastrofe, ha assunto la forma del pericolo di una guerra nuclerare fra i due
campi politici contrapposti e, dunque, di un disastro capace di coinvolgere
l’umanità tutta.
Nella stessa misura in cui, dopo la dissoluzione del campo
socialista, non vi è più una grande potenza politica alternativa al sistema
capitalistico nel suo insieme, mi pare che la questione di una possibile guerra
mondiale nuclerare non occupi più il davanti della scena.
Ciò non toglie che quello di garantire la pace resti un
problema che si pone in modo acuto, anche se in termini nuovi: contraddizioni e
problemi, che generano conflitti regionali -e periferici, se consideriamo le
cose dal punto di vista delle metropoli-, i quali, però, non rapresentano più
un’immediata minaccia per il genere umano.
Ciò su cui voglio soffermarmi è la misura, in cui i guasti
ecologici siano conseguenza di tali conflitti e quale minaccia generale per il
genere umano rappresentino.
Sembra a me, infatti, che, al momento, la consapevolezza
della catastrofe, che caratterizza il nostro tempo, sia alimentata in assai
grande misura da problemi come quello ecologico, dell’esplosione demografica e,
sia pure ancora in misura minore, dalla possibilità che precipiti una crisi
della produzione mercantile.
Il modo in cui -per dirla con Hegel- si sviluppa nel nostro
tempo “il sistema dei bisogni”, particolarmente nelle metropoli capitalistiche,
contiene in sé la tendenza ad un crollo catastrofico. E ciò perché, allo scopo
di soddisfare bisogni che vanno sempre più crescendo, si sviluppa continuamente
una produzione di beni, che perde progressivamente di senso e che ha in sé la
conseguenza di rompere l’equilibrio uomo-natura.
§. 3 - Negazione determinata.
Dunque, molteplici punti critici nel nostro presente; e si
tratta, in questo caso, di un presente che non ha la corta durata di un
decennio, dacché quei punti critici hanno le loro radici nelle tendenze
fondamentali della dinamica sociale contemporanea.
E’ per ciò che mi pare tutt’altro che falso affermare che ci
troviamo in una fase storica di passaggio: quella in cui il capitalismo va
sempre di più scontrandosi con i proprio confini essenziali in quanto “fattore
di civilizzazione”, e si caccia invece sempre più in un rapporto insuperabile
di contraddizione con il processo di sviluppo storico umano.
Se è vero che ci troviamo di fronte al bivio - da un lato il
passaggio ad una nuova situazione catastrofica per l’umanità; dal’altro la
possibilità di sviluppare una soluzione alternativa- e se ci atteniamo ad un
punto di vista dialettico, comprendiamo bene come la possibile alternativa non
debba avere caratteri arbitrari. Le alternative storicamente possibili,
infatti, non costituisco una sorta di spazio neutro in cui si possa ad arbitrio
scegliere l’una o l’altra di esse: al contrario, le alternative ad una
situazione storicamente determinata hanno la forma di ciò che, con Hegel, si
chiama “negazione determinata”. Ciò significa che una situazione data non è
semplicemente negata, ma sì lo è in un modo determinato.
Nel caso delle leggi dinamiche e strutturali del
capitalismo, la negazione determinata è stata elaborata dal materialismo
storico.
Se sono i rapporti di produzione e, ancora più
esplicitamente, i rapporti di proprietà a definire una formazione sociale,
allora l’alternativa al rapporto di capitale ha il tratto determinato del
superamento della proprietà privata degli strumenti di produzione, sostituita
dalla proprietà sociale: questa è la negazione determinata della
formazione sociale capitalistica.
Da ciò ricavo che il socialismo, comunque venga pensato
(perché, certamente, la forma che ha assunto nel corso del suo primo tentativo
di realizzazione non ha il valore d’un paradigma ed altre forme son pensabili),
è comunque -sulla base di principi rigorosi sia logicamente che
metodologicamente- l’unica alternativa e negazione determinata, appunto, della
società capitalistica.
Da quanto sopra si ricava che la nostra epoca è quella del
passaggio dal capitalismo al socialismo, per quanto quest’ultimo appaia al
momento sconfitto. Solo il passaggio al socialismo ha la forma della negazione determinata ed
in questo si differenzia da tutte le altre possibili negazioni -in particolare
da quella generale negazione, che coincide col disastro dell’umanità intera.
Queste son considerazioni di natura logica, dacché hanno a che fare con la
forma generale della storia; certamente non sono tali da contenere analisi
particolari della formazione sociale, ma ciò perché hanno lo scopo, appunto, di
chiarirne l’andamento essenziale.
§. 4 - Crisi generale del capitalismo e Rivoluzione
d’Ottobre.
Insomma, sembra a me che possiamo effettivamente definire la
nostra epoca come quella del passaggio dal capitalismo al socialismo, in quanto
sua negazione determinata. Ma, certo, esiste anche l’altra alternativa.
Ovviamente, se definiamo in tal modo la nostra epoca, siamo
per ciò stesso autorizzati a parlare di crisi del capitalismo. Ed in effetti il
capitalismo vive una crisi fondamentale rispetto ai temi, che ho ricordato.
D’altro lato è vero che, finora, abbiamo commesso l’errore
di non spiegare adeguatamente la crisi generale del capitalismo, sostenendo che
prima o poi sarebbe crollato. Le cose, però, non sono così semplici.
Infatti, noi sappiamo, grazie a Marx, che la <crisi> è
la forma stessa del movimento del capitale, cosicché, di primo acchito, la
crisi generale del capitalismo è il terreno stesso della sua esistenza e della
sua continuazione.
In altre parole, la sua crisi generale non conduce
necessariamente né automaticamente al crollo dello stesso capitalismo, come
forse si attendevano gli stessi Stati socialisti.
Ben al contrario, almeno nelle metropoli -che hanno un ruolo
decisivo per valutare lo stato di salute del sistema-, il capitalismo appare
essere immediatamente una formazione sociale in piena fioritura.
E tale appare, poiché esso crea una grande massa di
ricchezza sociale; ha saputo dare un enorme contributo al processo della RTS ed
in nessun modo è entrato nella fase della decadenza finale.
Notoriamente, abbiamo finora dedicato ben poco lavoro
teorico alla differenza tra concetto di crisi generale e forme di vita
all’interno di questa crisi generale e di qui son derivati alcuni errori di
valutazione circa la forza del sistema capitalistico. Per l’esattezza storica
va aggiunto che il DKP non ha sostenuto la tesi dell’imminente crollo del
capitalismo.
Se, dunque, il capitalismo, nonostante la sua crisi
generale, si dimostra vitale ed anche tenendo conto della sconfitta degli Stati
socialisti, ribadisco in forza di principi fondamentali che viviamo nell’epoca
del passaggio dal capitalismo alla sua negazione determinata, vale a dire il
socialismo, e che il sistema capitalistico, a partire dalla prima guerra
mondiale, è entrato nell’epoca della sua crisi.
In connessione con questo modo di definire l’epoca storica
va adeguatamente valorizzata l’apparizione delle prime società socialiste, vale
a dire l’evento della Rivoluzione d’Ottobre. Certamente, il socialismo come
forma statale -costruitosi, prima, nell’Unione Sovietica e, poi, in tutto il
campo socialista- è crollato; rispetto a tutta una serie di conquiste del
socialismo, in particolare riguardo ai rapporti di proprietà, nei Paesi
ex-socialisti si è ampiamente tornati indietro. I rapporti capitalistici di
proprietà sono stati restaurati non solo là dove -come è il caso per i cinque
nuovi Länder della Repubblica federale di Germania- è avvenuta un’ annessione,
ma anche negli altri Stati che, in quanto indipendenti, avrebbero potuto
prendere una o l’altra strada particolare di sviluppo sociale.
Tuttavia -questo è il mio parere-, l’esito negativo dello
Stato sovietico, la decomposizione dell’Urss e poi del campo socialista, con il
processo di restaurazione che ne è derivato, nulla hanno tolto al peso storico della
Rivoluzione d’Ottobre e all’importanza sua per il giudizio da dare della nostra
epoca.
La Rivoluzione d’Ottobre in quanto tale -ma, pure, i
mutamenti che essa ha determinato nella coscienza delle masse, come anche nelle
strutture socio-politiche del capitalismo stesso-, è all’origine di un immenso
impulso verso lo sviluppo politico e sociale del nostro secolo.
Sotto la pressione della concorrenza tra i sistemi, il
capitalismo è stato costretto a tutta una serie di progressi sociali, di cui
pure conteneva la possibilità. L’esistenza per ottant’anni di un forte campo
socialista, depositario di aspettative -bene o male realizzate che fossero-,
significava, per il capitalismo e per le sue contraddizioni, un enorme,
oggettivo sostegno alle forze riformistiche, che operavano per modifiche
migliorative -sociali e strutturali- interne al sistema.
I grandi risultati che, dal 1917 ad oggi, hanno ottenuto i
sindacati nelle metropoli capitalistiche nell’interesse dei lavoratori, avevano
a monte e confermavano la possibilità di un’alternativa di sistema, da cui il
capitalismo doveva guardarsi e da cui ha saputo guardarsi: per poter vincere
nella concorrenza tra i sistemi, il capitalismo dovette ammantarsi di tutta una
serie di attrattive sociali.
Per dir la cosa con la terminologia filosofica di Lenin e di
Gramsci,[79] in
tanto la borghesia potette mantenere la propria egemonia -far sì, questo
significa, che i suoi valori conservassero la capacità di imporsi-, in quanto,
date le condizioni della concorrenza tra i due sistemi, seppe fare una serie di
concessioni, opportune a quello scopo.
Tutto ciò appartiene alla dialettica reale del processo
storico; ed anche per questo ritengo che la Rivoluzione d’Ottobre fu, nel
nostro secolo, un evento epocale, della cui importanza né dovremmo dubitare, né
consentire che si dubiti. E ciò del tutto indipendentemente da come sono state
costruite le società socialiste, nel quadro di grandi contraddizioni e
debolezze.
Il significato, però, della Rivoluzione d’Ottobre non ha,
solo, questa dimensione materiale; ma sì, anche, uno spessore culturale.
Quella Rivoluzione fu un evento tale, da determinare grosse
ripercussioni dal punto di vista delle concezioni generali, al livello del
mondo intero -come si comprende bene, se si studiano ad es. gli sviluppi
culturali degli anni Venti in diretta connessione con la Rivoluzione d’Ottobre.
E’ innegabile, comunque, che quelle ripercussioni si estesero per tutta la
cultura dei decenni successivi.
Insomma, anche indipendentemente dai suoi effetti
storico-materiali, la Rivoluzione d’Ottobre fu un evento centrale, in quanto
componente strutturale della coscienza del nostro secolo e fonte ispiratrice di
valori sociali e storici.
§. 5 - Mutamenti nel movimento mondiale.
Cosa significa per il movimento comunista internazionale
questo modello della Rivoluzione d’Ottobre in relazione al crollo delle società
socialiste? Già, perché esiste un movimento comunista internazionale, non
limitato affatto alle sole metropoli capitalistiche.
Dopo la Rivoluzione d’Ottobre, il movimento comunista
internazionale -e ciò va considerato tra i suoi grandi risultati storici- si
trovò di fronte all’inderogabile compito di appoggiare la prima società
socialista in costruzione, la giovane Unione Sovietica, e di impegnarsi per la
sua sopravvivenza e stabilità sia interna che esterna. Con la vittoria del
fascismo, in molti Paesi europei il sostegno all’Unione Sovietica divenne
l’impegno principale. Per il movimento dei lavoratori la lotta contro il
fascismo si identificò con quella per la sopravvivenza dell’umanità dalla
barbarie ed in tale lotta i comunisti seppero immolarsi nelle prime file. La
lotta contro il fascismo faceva tutt’uno con quella per il sostegno e
rafforzamento dell’Unione Sovietica.
In tale contesto mondiale, vi fu un momento perfino, in cui
per certi versi il movimento comunista dovette subordinarsi alla strategia di
sopravvivenza del primo Stato socialista.
Si può certo dire che da tale situazione derivarono
deformazioni nel movimento internazionale ed, anche, nella lotta di classe si
reintrodussero interessi nazionali, che favorivano la politica estera e la
stabilità interna dell’Unione Sovietica. Insomma, si possono indicare le
contraddizioni che nascevano da quella situazione.
Ciò che non si può dire, invece, è che tale orientamento del
movimento internazionale vada attributito a colpa di diktat sovietici, di
Stalin o di chi altri si voglia, il cui scopo era di piegare gli interessi
internazionali a quelli della potenza sovietica.
Dal momento della Rivoluzione d’Ottobre e della fondazione
dell’Unione Sovietica, era logicamente necessario che assicurare le condizioni
di sopravvivenza di questo Stato divenisse l’impegno centrale del movimento
comunista internazionale; in tutto il periodo del confronto tra i due sistemi
sociali antagonisti, questa situazione è continuata ed è stata fonte per noi di
difficoltà, poiché naturalmente il campo socialista, che si andava costruendo pur
fra contraddizioni ad esso proprie, assunse forme diverse e si dette differenti
caratteristiche istituzionali, che certo non erano previste nel programma
ideale socialista e che non dovevano trovare necessaria applicazione nello
sviluppo pur socialista di altri Paesi. Tuttavia, il campo socialista esisteva
e noi eravano, ovviamente, con esso solidali, né è dubbio che ciò fosse
corretto ed inevitabile, sia politicamente che logicamente. Ora la situazione è
cambiata alla radice e ciò rappresenta una nuova determinazione della nostra
epoca.
Il movimento comunista internazionale è ricaduto, per così
dire, in una situazione analoga a quella, che precedeva la Rivoluzione
d’Ottobre e quali sviluppi ciò comporti lo abbiamo visto, ad es., con le
decisioni dell’ONU in occasione della Guerra del Golfo: gli interessi immediati
del capitale sono spacciati per interessi della comunità mondiale e quali
espressione degli stessi diritti umani.
Sia detto di passata, non è certo mia intenzione dare
un’immagine trasfigurata del ruolo giocato dal presidente irakeno Saddam
Hussein: egli non è certo un campione della libertà del Terzo mondo; ben al
contrario.
Il fatto, però, che l’ONU - secondo la sua Carta
costitutiva, un’organizzazione per la pace- abbia, all’unanimità e con il
sorprendente sostegno dell’Unione Sovietica, consentito, non solo, una cosa
come questa guerra contro l’Irak, ma anche che fossero gli Usa a condurla in
porto, ebbene ciò sta a dire chiaramente quanta capacità gli interessi
particolari del capitalismo hanno, oggi, di imporsi.
Il movimento comunista internazionale ha, oggi, a che fare
con un sistema di metropoli capitalistiche, che dominano il mondo: gli Usa, la
Comunità europea in via di formazione, il Giappone, anche se in tali metropoli
le stretegie molto differenziate dei grandi gruppi economici, solo in parte,
sono coordinate, poiché, in parte, sono invece fortemente in contrasto l’un con
l’altra.
Il mondo intero è sottoposto al dominio comune di queste
metropoli capitalistiche che, però, si scontra con la resistenza delle proprie
vittime.
L’alternativa di cui ho parlato, la negazione determinata
del capitalismo, è qualcosa per cui bisogna riprendere a lottare e per la quale
abbisognano movimenti organizzati, che coinvolgano direttamente le masse
popolari dei diversi Länder, a partire dai loro particolari interessi.
Un altro problema è che, al momento, nel nostro Land non
riusciamo a mettere im movimento masse popolari: resta che la situazione
internazionale è, oggi, tale che, di nuovo, il movimento comunista deve entrare
in scena muuovendosi, prima, sul terreno della lotta di classe nazionale e
regionale, per poi far crescere il movimento di massa nel senso dello scontro
di classe internazionale.
§. 6 - I problemi umani come problemi di classe.
Al tema della lotta di classe è dedicata la mia ulteriore
osservazione. Dopo l’ineffabile libro di Gorbaciov dedicato alla Perestroijka,
si è spesso affermato che i problemi umani non hanno contorni di classe, sono
neutri dal punto di vista di classe.
I grandi problemi umani - quello della pace nel mondo; del
mantenimento delle condizioni naturali necessarie alla vita umana ed
all’equilibrio ecologico; quello dello sviluppo del Terzo mondo; della
sconfitta della fame e del rispetto dei diritti umani, ecc.-, che restano
insoluti a causa delle contraddizioni interne del capitalismo e che
caratterizzano l’epoca politica che viviamo, nella loro essenza, derivano dalla
struttura di classe della società capitalistica.
In tutte le formazioni sociali, i problemi fondamentali che
le caratterizzano, ovviamente, riguardano l’umanità intera ed, in questo senso,
sono promeni umani generali; ciò non toglie che, per la loro struttura e per la
loro forma, siano sempre specifici dal punto di vista di classe.
Ciò significa che quando oggi abiamo di fronte problemi
generalmente umani che debbono essere risolti, quando la continuazione della
specie ha bisogno d’esser garantita, quei problemi non possono essere avviati a
soluzione da un programma d’intervento, neutro dal punto di vista di classe e,
solo, genericamente razionale.
L’appello al mèro valore morale, politicamente, conta ben
poco ed ha assai scarsi effetti: solo nel quadro della lota di classe, i
problemi umani possono esser avviati a soluzione.
E’ a questo punto che possiamo precisare il ruolo
essenziale, che i comunisti hanno da giocare in questa battaglia.
Quando parlo di problemi e di lotta di classe, prendo le
mosse dal concetto generale di classe, quale lo abbiamo ereditato dalla
tradizione marxista: “Con il termine <classe> si indicano gruppi umani,
che si distinguono per il posto che occupano nel sistema storicamente
determinato della produzione sociale, per il rapporto con i mezzi di produzione
(per lo più fissato dalle leggi), per il ruolo giocato nell’organizzazione
sociale del lavoro e, di conseguenza, per il modo e la quantità di
partecipazione alla ricchezza sociale. Le classi sono gruppi di uomini, alcuni
dei quali possono appropriarsi del lavoro altrui per il posto determinato, che
occupano nel sistema dell’economia sociale.”[80]
Nel loro Dizionario filosofico, Klaus e Buhr
aggiungono: “ciò che essenzialmente differenzia le classi è il posto che
occupano nel sistema storicamente determinato della produzione sociale e,
quindi, per il loro rapporto con gli strumenti di produzione.”[81]
Le classi si definiscono per l’appropriazione del
plusvalore: capitalisti son coloro i quali si appropriano del
plusvalore sotto forma di profitto privato; alla classe lavoratriceappartengono,
invece, coloro i quali producono il plusvalore mediante l’erogazione del loro
lavoro.
Questa generalissimo definizione delle classi si colloca sul
piano astrattamente teorico; ma la condizione di classe vive nelle determinate
forme di esistenza, con cui gli uomini partecipano di fatto al processo di
lavoro e di valorizzazione del capitale: in questo senso, qualcosa è
effettivamente cambiato nella realtà.
Le condizioni esterne in cui gli appartenenti alla classe
dei lavoratori -vale a dire la grande massa degli uomini- producono il
plusvalore non sono più le stesse di un secolo fa -come d’altronde non lo sono
le forme dello sfruttamento.
Lo stesso concetto di classe, d’altronde, non ha più dalla
parte sua l’evidenza che aveva all’inizio del movimento dei lavoratori ed
all’epoca delle grandi lotte sindacali della fine del secolo scorso.
Almeno nelle metropoli capitalistiche, i rapporti di
sfruttamento sono velati e, dunque, non riescono ad imporsi con piena evidenza
alla coscienza. In conseguenza di ciò, la coscienza di classe -che a suo tempo
apparteneva alla gran parte dei lavoratori- attualmente non è più posseduta
dall’insieme di quegli stessi lavoratori.
Insomma, per quanto la gran massa degli uomini appartenga
alla classe lavoratrice, tuttavia non ha coscienza di questa sua condizione.
Come riplasmare la coscienza -questo è un obiettivo, a cui dovrà volgersi la
nostra ricerca teorica ed attività d’agitazione; ma anche è questione che si
lega agli obiettivi processi di sviluppo negli stessi luoghi di lavoro. Ciò che
fin d’ora possiamo dire è che il concetto di classe deve riempirsi di contenuti
di coscienza e di esperienza vissuta, nuovi rispetto a quelli che potevano
esser propri dei lavoratori negli anni Venti. Questi son compiti, che abbiamo
di fronte a noi.
Tuttavia, non ritengo che il concetto di classe sia divenuto
superfluo: ciò che è mutato è l’insieme delle forme in cui si manifesta e
specifica; forme, che spetta a noi studiare.
§. 7 - Problemi del potere.
Indubbiamente è vero che il sistema di potere capitalistico,
oggi, si presenta alla coscienza in modi assai meno trasparenti che nel passato.
I meccanismi di dominazione a cui siamo sottoposti si son fatti anonimi e
astratti. Il lavoratore non vede più un oppressivo padrone in fabbrica, al
quale possa contrapporsi; lo stesso poliziotto per la strada non è più per noi
uno sbirro o un ‘celerino’, se proprio non ci scontriamo con lui in una
manifestazione. Tutt’altra era la situazione al tempo della legislazione
anti-socialista; i meccanismi di potere son divenuti non immediatamente
visibili.
A rigore, anche il manager di un’impresa, che persegue e
realizza gli interessi del capitale, è solo un momento dell’anonimo processo
della valorizzazione del capitale: non è più l’immediato proprietario del
capitale, che intasca direttamente il profitto. Ciò significa che l’alto grado
di astrazione degli odierni processi sociali richiede una capacità di
penetrazione teorica, ben maggiore che in periodi precedenti; ma ciò significa,
anche, che il movimento comunista può sottrarsi, ancor meno che nel passato,
alla necessità di legare intimamente la propria politica alla comprensione
scientifica e all’ulteriore elaborazione del socialismo scientifico: gli
attuali anonimi rapporti di sfruttamento e di potere possono esser chiariti,
solo a condizione che ci si sappia muovere ad un alto livello di astrazione.
E si badi che quando dico <astrazione> non intendo,
solo, ricerca scientifica, ma proprio il livello del pensiero astratto,
che può essere garantito, solo, da una formazione teorica, che sia parte
organica dell’impegno formativo dell’organizzazione politica.
Non è dubbio che ci troviamo, oggi, in condizioni più
difficili di quelle conosciute dalle generazioni precedenti; nel XIX secolo e
nella prima metà del XX, le strutture formative di Partito avevano a che fare
con masse, che desideravano -in vista della loro liberazione- di impossessarsi
degli strumenti teorici e che avvertivano con forza il bisogno di cultura.
Al contrario, oggi, le masse sono uno spazio pressocché
tutto coperto dell’influenza della classe dirigente, attraverso l’azione dei
mass-media. La paradossale accoppiata di disinformazione e di sovrabbondante
offerta delle più disparate <notizie>, prive di significato e
falsificate/falsificanti, riesce a costituire un sottofondo di ‘distrazione’ e
incultura, contro il quale dobbiamo lottare con scarsi e inadeguati mezzi -in
un ambito, inoltre, in cui non è più possibile muoversi contro ben definiti e
riconoscibili nemici: già nel 1968, lo slogan <espropiare Springer!> non
era più adeguato alla situazione reale; i portatori del processo di uniformizzazione
della coscienza di massa non son più singoli individui, singoli rappresentanti
del capitale: piuttosto, bisogna parlare di anonimi processi gestiti dai
mass-media, i quali conducono ad ottenebrare e distrarre la coscienza degli
sfruttati.
Tale perfetta strategia manipolatoria non si esplica, solo,
mediante la politica dei media, ma sì anche attraverso quella ‘costruzione’ dei
dati, che l’attuale tecnologia consente e che costituisce una forma di dominio,
capace di sfuggire completamente all’osservazione.
§. 8 - Disintegrazione culturale.
Ho gà detto qualcosa dei problemi, in cui -a seguito delle
sue proprie contraddizioni sociali- si invischia il capitalismo. Ho parlato
dell’immiserimento di intere regioni del mondo, che costituisce una
contraddizione radicale per il capitalismo, in quanto tale sistema dovrebbe,
invece, impegnarsi nella produzione di ricchezza sociale, in una sempre
crescente disponibilità da parte dei consumatori di merci, proprio allo scopo
di garantire l’accumulazione di capitale. E’ chiaro, dunque, che si tratta di
una sua contraddizione radicale.
Una contraddizione, invece, di cui non abbiamo ancora
parlato -ma che vale la pena se non altro di accennare, giusta l’importanza che
ha per la nostra scientifica visione del mondo-, è questa: la tarda società
borghese non è più in condizione di fornire una cultura, nel senso di una
visione del mondo integrante: si danno, certo, piccoli domini culturali
‘regionali’ che giacciono l’uno accanto all’altro; si dà un assai variegato
pluralismo, che a tutta prima fornisce l’immagine di una ricchezza culturale ma
che, in realtà, vanifica la funzione stessa della cultura -che è quella di
consentire all’uomo di orientarsi nel mondo. Nessun oriantamento, infatti, è
possibile di fronte ad una varietà di alternative offerte, tutte poste sullo
stesso piano e parificate in quanto a valore.
Il senso di tutto ciò è che, alle contraddizioni di cui ho
già parlato, se ne aggiunge un’altra: quella della decomposizione dell’attività
culturale nel capitalismo che, sotto l’apparenza di una grande dovizia
culturale, in realtà non ha altro effetto se non quello di disorientare e di
disgregare ogni visione del mondo: la consapevole politica di un irrazionalismo
frantumante vale come un autentico segno del nostro tempo.[82]
Al contrario, i marxisti possono offrire una visione del
mondo ben definita, che è il presupposto di una mobilitazione della volontà
politica.
Ciò va sottolineato anche pensando a quei politici
riformisti, i quali ritengono di poter costruire un partito delle riforme
sociali, pur in mancanza di una visione del mondo, che funga da bussola d’
orientamento!
Al contrario, è del tutto evidente che un partito, che voglia
essere strumento politico del cambiamento sociale, richiede anche una visione
del mondo unificante e che non può, certo, risolversi in un club per confronti
pluralistici.
Nessuna società può esistere, se non si basa su un certo
accordo rispetto alla visione del mondo, senza condividere valori, scopi e
senza comuni speranze. In assenza di tutto ciò, la società si riduce a pura
anarchia.
In ogni epoca della storia sociale, la classe dominante fa
sì che anche i dominati condividano i suoi valori, le sue norme ed i suoi
criteri di senso, insomma, che riconoscano come propria la sua visione de
mondo: ottenere un tale consenso fa parte delle condizioni stesse del potere ed
è ciò che noi chiamiamo egemonia.
I contenuti ideali non possono essere imposti mediante
violenza: essi riescono a diffondersi solo mediante accettazione;
insomma, hanno da esser condivisi, per quantoillusori siano
obiettivamente e per quanto risultino, dunque, da processi di
manipolazione.
Se la contraddizione fra professioni di senso e valore, da
un lato, ed effettività della vita sociale, dall’altro, apparisse con
chiarezza, l’intero edificio dell’egemonia ideologica crollerebbe come un
castello di carta.
Abbiamo detto precedentemente che la società borghese, a
causa delle sue reali e trasparenti contraddizioni, non è più in grado di
fornire un’unificante visione del mondo; piuttosto, tale società si affida
all’anarchia culturale, che va soto il nome di ‘pluralismo’, per offrire un
succedaneo della visione del mondo. Qui -in questo sbriciolarsi della coscienza
comune, che è un presupposto strutturale dell’egemonia- va individuato un punto
assai vulnerabile del sistema di potere.
Noi marxisti, invece, possiamo offrire una visione del
mondo, capace di raccogliere, nella prospettiva di un fondamentale modello
comune, processi naturali, sociali e sistemi di valori e finalità umane. Questo
è un decisivo nostro punto di forza.
E tanto maggiore è la nostra forza, quanto meno ci lasciamo
invischiare in concessioni e compromessi ideologici con le deboli produzioni
filosofiche del pensiero tardo-borghese -anche se ciò significa confinarci per
un certo tempo nel ruolo di minoranza ed assumere posizioni, che restano
isolate nell’ambiente culturale dato.
Appunto perché gli uomini cercano chiari punti di
orientamento nel mondo, la coerenza della visione del mondo marxista è un punto
di forza, anche politica, ed il lavoro teorico è un fattore decisivo per il
nostro successo futuro.
§. 9 - Il problema organizzativo.
Con ciò siamo giunti all’ultimo punto, che resta brevemente
da trattare, ovvero, quello delle conseguenze organizzative delle nostre
considerazioni; infatti, non ci siamo qui riuniti per avere una discussione
seminariale sulla situazione storica mondiale allo scopo di poter dire, alla
fine con soddisfazione, “ecco come stanno le cose!”: il nostro scopo, invece, è
trarre conclusioni operative da quanto diciamo. Le nostre, insomma, sono
riflessioni teoriche, a cui siamo non comtemplativamente, ma politicamente
interessati: noi ci manteniamo fermi al postulato dell’unità teoria-prassi.
Posta la situazione che abbiamo delineato, quali ne sono le
conseguenze organizzative per un movimento socialista, comunista?
Secondo Hans Luft due sono i binari lungo i quali bisogna
muoversi; il primo corre entro i confini dell’esistente società capitalistica:
è il binario lungo il quale si muove un partito come il PDS, che ha una
presenza parlamentare ed opera, attenendosi a margini di manovra interni alla
società capitalistica -per cui possiamo lasciar cadere la domanda di quanto
effettivo spazio di manovra le forze dominanti possano lasciargli.
Naturalmente, un partito deve lottare, con la migliore
efficacia possibile, all’interno dell’ordine sociale esistente, confrontandosi
con i processi sociali che in esso si svolgono, nell’interesse degli quanti il
partito rappresenta e vuole indirizzare. Insomma, il partito deve sapersi
muovere su un terreno, che noi diciamo ‘sindacale’ oppure riformistico. Questo
è del tutto chiaro.
In una situazione non rivoluzionaria, il binario delle
riforme interne al capitalismo è l’unica linea poliica possibile ai comunisti
-il che significa un oscuro, quotidiano ed instancabile lavoro politico, il
quale però certamente non conduce là dove è lo scopo ultimo della nostra
azione. Questo si capisce da sé.
Ciò che, invece, non si capisce da sé è l’attenersi
contemporaneo al secondo binario, quello della nostra volontà rivoluzionaria.
Al fondo di ogni attività riformatrice, interna a questa
società; sottesa ad ogni tentativo di limitare il dominio della classe
dirigente e le pratiche disumane del capitale, deve comunque restar desta la
consapevolezza che non si tratta di migliorare questo o quell’aspetto della
società attuale per ottenere finalmente che tutto sia in ordine; piuttosto,
l’obiettivo è rovesciare questa società.
L’apparente successo del capitalismo non deve farci
dimenticare che viviamo nell’epoca della sua disintegrazione e superamento. Il
che significa: al di sotto dell’interno processo dei piccoli, continui
cambiamenti -che riconosciamo nella società ed a cui contribuiamo-, deve
mantenersi la consapevolezza che questa società in quanto tale -così come essa
è- né può essere mantenuta in piedi attraverso le riforme, né varrebbe la pena
di mantenerla in piedi ma che, piuttosto, il compito è ‘togliere’ questa
società mediante un’altra, la socialista, che dell’attuale è la negazione
determinata.
Fin quando si vive in una fase di piccoli cambiamenti e di
riforme e finché la necessità politica impone di contenere in questi limiti la
lotta, è un problema di formazione teorica quello di mantener desta negli
aderenti ad un partito rivoluzionario (che, però, non ha da dirigere alcuna rivoluzione)
la coscienza di quale sia l’effettivo scopo ultimo, insomma, di quale sia il
radicale mutamento sociale che si persegue; è suo compito far avvertire
costantemente lo scarto fra la pratica politica quotidiana e l’obiettivo di
lungo periodo -ma non solo lo scarto, sì anche la sua intollerabilità.
Liberiamoci da ogni illusione: in una fase storica di
riforme, la prospettiva politica, che realisticamente si offre alle masse, è
solo quella <socialdemocratica>. Riuscire a mantenr viva la tensione interna,
che può condurre la politica riformistica dei piccoli passi all’accoglimento di
più radicali finalità rivoluzionarie - e riuscire a far ciò, senza lasciarsi
invischiare nelle maglie del riformismo- è un compito dell’avanguardia, la
quale, facendosi forte della propria chiarezza teorica, può riuscire a divenire
quel punto di coagulo, in cui sempre più possano raccogliersi uomini, sulla
base del crescente approfondirsi delle contraddizioni interne alla società
presente.
Mantenersi avanguardia non sporcata da compromessi, anche al
prezzo di restare per lungo tempo minoranza numericamente insignificante, è
compito storico di un PC.
Una linea teorica combattiva è momento ineliminabile della
politica dei comunisti. Il superamento del capitalismo mediante una società
alternativa dev’essere, in ogni caso, l’obiettivo strategico, che funga da
presupposto per quanti, vivendo e soffrendo in questa società, si impegnano
-tatticamente- nella ricerca di mutamenti e correzioni da apportare pur
all’interno di questa stessa società.
Si tratta di una lotta, che si dispone su vari piani.
L’esperienza fatta delle strutture burocratiche ed anti-democratiche, presenti
nei Paesi una volta socialisti, ha condotto spesso ad una raffigurazione
idealistica della democrazia parlamentare borghese ed a considerare le sue
istituzioni come l’unico scenario della lotta politica.
Al contrario, noi dobbiamo vedere nella democrazia
parlamentare borghese, per come essa è nata e per come si è trasformata, la
forma di organizzazione statuale, che corrisponde agli interessi dei gruppi di
potere; dobbiamo renderci conto che, nell’ambito di tale democrazia,
l’universale partecipazione dei cittadini alla vita dello Stato non costituisce
affatto il momento decisivo.
I grandi Stati -nei quali ogni cinque anni i cittadini si
recano alle urne a scegliere i loro rappresentanti (in realtà, già designati
nelle liste di partito)- rappresenta solo un minimo livello di coinvolgimento e
partecipazione dei cittadini alla formazione della volontà poliica. In Paesi
coma la Svizzera e l’Olanda la situazione muta di poco, solo di poco.
In Svizzera, perché esiste anche la diretta democrazia
referendaria che, ora, -sotto la pressione della Comunità europea, che potrebbe
avocare a sé molte funzioni- corre il pericolo di essere revocata (e si sta
lavorando in questo senso).
All’interno di questa forma di ordinamento, vi è stata
finora la possibilità di promuovere iniziative dal basso; come anche una
democrazia comunale eccezionalmente ben funzionante, dato che -a confronto dei
grandi Stati centralistici-, in Svizzera, i comuni hanno una gamma di
competenze ben più ampie. Non è questa, però, la regola della democrazia
borghese; lo è, invece, quella degli Stati fortemente centralizzati, dato che
-ovviamente- non sono situazioni eccezionale che possono fornire i criteri di
valutazione di tale democrazia.
Piuttosto, bisogna osservare come tale democrazia funzioni
in grandi Stati, quali la Germania, l’Inghilterra, la Francia, l’Italia, gli
Usa, dove i processi decisionali si volgono anonimamente ed il potere dei
grandi gruppi sfugge ad ogni controllo.
Da quanto detto ricaviamo che quella parlamentare e borghese
non offre certo un modello di democrazia partecipativa.
Oltre a ciò, va detto che la democrazia parlamentare è
sottoposta costantemente al potere della burocrazia ministeriale.
I parlamentari ed i ministri non sanno pressocché nulla di
tutte le complessità in materia di amministrazione e di attività legislativa:
chi effettivamente ha in mano la produzione di leggi e, dunque, è in condizione
di influenzare i processi sociali è la burocrazia ministeriale, che nel
migliore dei casi è supportata da esperti, il cui punto di vista politico non
ha alcuna importanza. Come si vede, tutto ciò non ha nulla a che spartire con
la partecipazione democratica.
Credo che la democrazia parlamentare venga valorizzata come
medio per la costruzione di una volontà generale e, dunque, come lo scenario
della lotta politica degli oppressi, quando la si concepisce come la forma di
movimento della libertà politica.
La battaglia -che noi, da comunisti, dobbiamo condurre- ha
da cominciare con lo sviluppare poco a poco una coscienza di classe, a partire
da quei punti, in cui si riannodano con chiarezza i conflitti di questa
società; ciò non significa solo lottare per la soluzione di questo o quel
conflitto, ma anche -e più ancora- legare a ciò un ampliamento della
consapevolezza che ogni conflitto determinato non è altro che un aspetto
particolare, in cui si esprime una più ampia connessione sociale e che solo dal
modo in cui si inserisce in questa più ampia connessione il problema
particolare riceve il suo senso. Non si tratta solo di combattere, ad es.,
questa o quella progettata istallazione atomica, ma sì un’intera prospettiva
politica. Naturalmente la singola lotta è pur giusta, ma più ancora lo è
legarla alla lotta contro l’insieme dei rapporti sociali a cui rimanda.
Per poter fare ciò, abbiamo bisogno di una valutazione
teorica della situazione storica, in cui ci troviamo; in altre parole, abbiamo
bisogno di un Partito consapevole sul piano teorico e di lottare in modo
organizzato.
La linea politica ed i suoi obiettivi non possono essere il
frutto dell’opinione personale di questo o di quello; naturalmente, gli
obiettivi della lotta debbono essere discussi, ma perché la volontà politica
possa acquistare forza è necessario che si traduca in organizzazione politica.
Per evitare equivoci: non sto parlando di una forma
organizzativa con tutte le deformazioni, apportate da un apparato burocratico e
che noi, purtroppo, ben conosciamo; sto parlando, piuttosto, di un autentico
PC, capace di condurre la lotta di classe, il cui apparato sia sottoposto al
controllo dei militanti.
Insomma, un Partito democratico che, però, non si diluisca
in un pluralistico club di discussori, ma che sia piuttosto dotato di una
sicura capacità orgnizzativa e di lotta, sulla base appunto della sua interna
democrazia.
Pur in quanto piccola minoranza -come in questa società
siamo-, non possiamo sottrarci al compito di dare una precisa forma organizzata
al nostro fare politico, se vogliamo riuscire ad essere il punto di coagulo di
più larghi movimenti sociali ed il riferimento di un più ampio numero di
persone.
In breve, abbiamo bisogno di un Partito marxista e
leninista.
(domenica 12 aprile 1998).
[1] - D’ora
in avanti, DKP -secondo la sigla tedesca.
[2] - D’ora
in avanti, SPD - secondo la sigla tedesca.
[3] - Unione
dei perseguitati dal regime nazista.
[4] - D’ora in
avanti, SDS -secondo la sigla tedesca.
[5] - “Sono
proibite tutte le associazioni, le cui finalità e la cui pratica siano
contrarie alle leggi dello Stato o che si orientino contro l’ordinamento
costituzionale o contro la comune convivenza.” (Art. 9); “I partiti cooperano
alla costruzione della volontà politica del popolo. La loro fondazione è
libera. Il loro ordinamento interno deve essere coerente con i principi
democratici. I partiti debbono render pubblico conto della provenienza dei loro
mezzi. Sono incompatibili con la Costituzione quei partiti che, per i loro
scopi o per il comportamento dei loro aderenti, finisco coll’arrecare
pregiudizio od a sospendere il libero ordinamento democratico o a
minacciare l’esistenza stessa della Repubblica federale di Germania.” (Art.
21).
[6] - Cerco di
rendere così in italiano il ‘gioco’ consentito dal tedesco: “was bekannt
ist, ist noch nicht erkannt”, anche se, letteralmente, sarebbe più
opportuno tradurre: non conosciamo (erkennen) ciò a cui siamo abituati,
con con cui abbiamo famigliarità (bekennen).
[7] - Lenin, Opere,
vol. 2: 346.
[8] - Lenin, Opere,
vol. 1: 333.
[9] - Lenin, Che
fare?, Torino Einaudi 1971: 28.
[12] - Lenin, Opere,
vol. 5: 322.
[13] - Lenin, Opere,
vol. 4: 206).
[14] - K.
Marx - F. Engels, Manifesto del PC, Napoli Laboratorio politico
1994: 37.
[21] - v. il
volume 5 dei Lenins Werke (d’ora in avanti, LW).
[46] - SW.
13: 254.
[47] - SW.
13: 266.
[48] - LW.
31: 215.
[49] - A. Gramsci, Quaderni
dal carcere. III, Torino 1975: 1756.
[50] - A. Gramsci,
l.c.
[51] - LW. 31:
216.
[52] - Il Partico
Democratico per il Socialismo, costituitosi dopo lo sfaldamento del campo
socialista europeo.
[53] - In
proposito rimando ai miei precedenti lavori: Tendenze e correnti nel
neomarxismo, Monaco 1972; L’avventurosa ribellione. Movimenti
protestatari borghesi in filosofia, Dartmandt e Neuwied 1976; “Pensiero
metafisico” in La nuova sinistra dopo Adorno, a cura di W.
Schoeller, Monaco 1969; “La dissoluzione del concetto” in Marxismo e
movimento dei lavoratori, a cura di F. Deppe, W. Gerns, H. Jung,
Francoforte sul Meno 1980.
[56] - Confronto
che, se fatto correttamente, dimostrerebbe che il livello di vita nella DDR non
era essenzialmente inferiore rispetto a quello della Repubblica federale,
ovviamente se nel conto vengono messe tutte le prestazioni sociali dello Stato
socialista. Ma quello stesso confronto diviene una cosa astratta, quando si
paragonano sistemi di bisogni, che erano strutturalmente differenti. Cf. H.
Jung ed altri, Repubblica federale tedesca e Germania democratica:
confronto di due sistemi sociali, Colonia 1971.
[57] - H. H. Holz, Sconfitta
e futuro del socialismo, Milano Vangelista 1994: 113ss.
[58] - E’ ciò che
Hegel chiamava übergreifendes Allgemeine, cioè un universale che ha
con se stesso e con il proprio opposto un rapporto, analogo a quello di una
<classe>, che comprende in sè (senza risultarne con ciò
esaurita) una <sotto-classe propria>.
[59] - Importante,
qui, considerare la nozione di contraddizione, elaborata da Mao Tzedong,
all’interno di una tradizione dialettica cinese. Cf., il mio Contraddizione
in Cina, Monaco 1970, ristampa di “La
contraddizione oggi”, compreso in Streitbarer Materialismus,
Quaderno 17, maggio 1993: 127ss.
[60] - MEW. 4:
468.
[61] - Per la
critica alla prospettiva del “gran rifiuto”, cf. il mio L’avventurosa
ribellione, op. cit.
[62] - MEW.
23: 674s.
[63] - Qui Marx
mette in forma concreta quanto già Hegel diceva nella sua Filosofia del
diritto §. 182ss; ad es., in §. 195, così si legge: “La tendenza della
condizione sociale all’indeterminata moltiplicazione e specificazione dei
bisogni, dei mezzi e dei godimenti, la quale, come altresì la differenza tra
bisogni naturali e di civiltà, non ha limiti - il lusso- è un aumento, appunto,
infinito della dipendenza e della necessità...”; in §. 185: “La società civile,
in queste antitesi e nel loro intreccio, offre, appunto, lo spettacolo della
dissolutezza, della miseria e della corruzione fisica e etica, comune ad
entrambe.”
[64] - Cf. il mio,
già cit., Sconfitta e futuro...
[65] - Cf. W.
Hofmann, Stalinismo ed anticomunismo, Berlino 1956.
[66] - MEW. 23:
675.
[67] - ivi.
[68] - MEW. 23:
674.
[69] - ivi: 675.
[70] - Cf. GF.
Pala,”Marcato, internazionalizzaione del lavoro e internazionalismo proletario”,
in Topos 1-1933.
[71] - MEW. 23:
530. Sugli aspetti economico-politici del rapporto con la natura, cf. il mio
articolo in Marxistische Studien 1-1982: 155ss.
[72] - Cf. H.H.
Holz, “Crisi generale del capitalismo ?!”, in Marxistische Blätter 4-1993: 50
ss, “Materialismo storico e crisi ecologica” in Dialektik 9, “Uomo, natura e
ambiente nell’Opera di F. Engels”, in Marx - Engels- Stiftung, Quaderno 5
-1986.
[73] - D - M - D’
sta per denaro - merce - denaro con un surplus.
[74] - La merce
(M) si scambia con denaro (D), il quale a sua volta compra nuova merce: di qui
la formula M - D - M.
[75] - MEW. 23:
167.
[76] - Per tutto
ciò rinvio al mio “Riflessioni sul concetto di situazione politica”, in Marx -
Engels -Stiftung, Teorie politiche marxiste nel
mutare degli sviluppi storici, Bonn 1991: 7ss.
[77] - Cf. il mio
già cit. Sconfitta e futuro...
[78] - Cf.
Wolf-Dieter Gudopp-von Behm, “Note sui problemi dell’epoca”, in Marxistische
Blätter 4-1991: 76ss. ed, inoltre, “La misura dell’epoca” in Scritti
dell’ Associazione Scienza e socialismo, Frankfurt/Main 1991.
[79] - cf. Antonio
Gramsci. Prospettive attuali della sua filosofia, a cura di G.
Prestipino ed H.H. Holz, Pahl-Rugenstein-Verlag, Bonn 1991.
[80] - LW. 29:
410.
[81] - G. Klaus -
M. Buhr, Vocabolario filosofico, vol. 1, Leipzig 1974: 618.
[82] - Cf. il mio
“Segni dell’anti-Illuminismo”, in Enciclopedia della filosofia borghese
del 19 e 20 secolo, a cura di M. Buhr, Leipzig 1988: 44ss; ed anche il mio
“Contro il nuovo irrazionalismo” in Scritti per un umanismo scientifico,
a cura di J. Schleifstein e E. Wimmer, Frankfurt/Main 1981: 19ss.
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