La storia umana è un mattatoio
In una celebre pagina Hegel sviluppa una serie di
considerazioni assai amare e tristi sulla vicenda storica umana, anche se poi –
come è noto - riesce a trovare in essa un processo progressivo ed
emancipatorio. Egli sottolinea l'universale transitorietà, che travolge Stati e
individui, per opera della natura e della volontà umana; osserva che quadri
terribili scaturiscono dalla riflessione sulla storia che possono suscitare in
noi un profondo e inconsolabile cordoglio; conclude che, stante tale analisi
complessiva e sconsolata, la storia umana può definirsi un mattatoio “in cui
sono state condotte al sacrificio la fortuna dei popoli, la sapienza degli
Stati, la virtù degli individui” [1]. Questa pagina di Hegel richiama alla
mente un celebre sonetto del Belli, Er caffettiere filosofo,
scritto nel 1833 (siamo, dunque, nella stessa fase storica anche se in un
contesto differente), nel quale il poeta compara tristemente gli uomini ai
chicchi del caffè che vengono inesorabilmente macinati e che, pertanto, sono
tutti destinati trasformarsi in polvere, finendo annientati nella gola della
morte, nonostante essi si spostino ed entrino in conflitto tra loro [2]. Il
caffettiere si trasforma in filosofo perché, prendendo spunto dalla sua
semplice e quotidiana attività, la cui descrizione sembra addirittura evocare
l'aroma del caffè macinato, trova in essa una splendida metafora concreta con
la quale rappresentare la disperante vicenda umana.
Queste considerazioni di carattere generale scaturiscono
dalla riflessione sull'universale transitorietà, e quindi sulla morte, il cui
pensiero angoscioso avrebbe dato vita alla nozione di al di là, per compensarci
dell'inevitabile dissoluzione, ma ci spingono anche a prendere in
considerazione quelle condizioni sociali e politiche, nelle quali il processo
distruttivo viene incrementato e accelerato con l'impiego della violenza, della
guerra e con l'ausilio di micidiali strumenti sempre più raffinati.
A questo proposito mi sembra utile citare un passo tratto
dal libro Cannibali e re. Le origini delle culture (Milano
1994) dell'antropologo statunitense Marvin Harris, il quale polemizza con
coloro che vedono esclusivamente il lato progressivo della storia occidentale,
potenziato dal carattere misericordioso della religione cristiana. Scrive
Harris: “Come tutti sanno, c'è stata una costante escalation della guerra
dall'epoca della preistoria ad oggi, e cifre record di vittime di conflitti
armati sono state raggiunte proprio da quegli Stati dove il cristianesimo è
stata la religione predominante.
Mucchi di cadaveri lasciati imputridire sul
campo di battaglia non fanno meno effetto di cadaveri smembrati per una festa.
Oggi, che siamo sull'orlo della terza guerra mondiale, non siamo certo in grado
di guardare con disprezzo agli aztechi [che praticavano il sacrificio umano].
Nell'epoca nucleare il mondo sopravvive solo perché ciascun contendente è
convinto che il livello morale dell'altro sia abbastanza basso da autorizzare,
per rappresaglia, l'annientamento di centinaia di migliaia di persone al primo
colpo inferto dall'avversario. Grazie alla radioattività i sopravvissuti non
saranno neppure in grado di seppellire i morti, né tanto meno di mangiarli”(p.
134).
Questo dispiegamento spaventoso della violenza e della
guerra da parte delle potenze europee e da quella statunitense ha coinvolto
tutti i continenti, oltre al nostro, nelle due terribili guerre mondiali (e nel
recente conflitto da cui è scaturito lo smembramento della Jugoslavia), e ha
prodotto la distruzione e la sottomissione di vaste regioni extra-occidentali
con le modalità proprie del colonialismo e del neocolonialismo. E tutto ciò
nonostante gli autori di tali nefandezze si richiamino costantemente ed
enfaticamente ai diritti umani, i quali individuano una serie di diritti
inalienabili, riconosciuti a tutti i membri della specie umana in quanto tali,
la cui elaborazione ha seguito un complesso percorso a cui, nonostante si tenda
ad identificarli tourt court con la civiltà occidentale, hanno
contribuito culture differenti con diversi apporti e la tragica esperienza
della vicenda umana.
Dobbiamo tenere presente che la Dichiarazione universale dei
diritti umani del 1948, la quale prevedeva libertà di espressione,
partecipazione alla vita politica, diritto alla sicurezza, ad un equo processo
(successivamente integrati da altri diritti, come quello alla tutela dei dati
personali) etc., non fu approvata da tutti gli Stati; è stata recepita nel
corso di circa quarant'anni ed è stata criticata da vari punti di vista (per
esempio, da parte dei paesi islamici che hanno prodotto una loro carta di
diritti); alcuni (i paesi socialisti dell'epoca) hanno sottolineato il suo
carattere giuridico formale, espressione della forma democratica
rappresentativa propria della società capitalistica, e il mancato
riconoscimento dei diritti sostanziali, sui quali si basa la reale
emancipazione in particolare di quei gruppi che si trovano in spaventose
condizioni di oppressione e di emarginazione. Ciò nonostante, si è ritenuto che
fosse assai pericoloso abbandonare questo quadro giuridico internazionale che,
benché sia spesso strumentalizzato per difendere interessi di vario ordine (si
pensi per esempio al ricorso alla ingerenza umanitaria nel caso della
violazione dei diritti umani), individua una serie di diritti generali, che
possono accomunare individui di diversa collocazione sociale ed origine in
un'unica battaglia unitaria, contro ogni tendenza a spezzare in nome del
particolarismo etnico e individualistico tutti i legami unificanti tra i
diversi soggetti. Ed è proprio questa una tendenza ( incentrata sulle
specificità irriducibili di certi gruppi di individui, come per esempio le
donne o le minoranze etniche) che è sostenuta consapevolmente o
inconsapevolmente da tutti quelli che hanno polemizzato in maniera sbrigativa
contro le grandi organizzazioni (partitiche o sindacali), perché insensibili
alla “differenza”; in particolare, essa è in auge negli studi umanistici, anche
se i processi del mondo reale ci mostrano come stia avanzando l'omologazione e
come faccia strame delle difformità tanto invocate. In tale fenomeno si
dispiega un movimento dal carattere duplice: enfatizzare le differenze per promuovere
la frantumazione, integrare le entità frammentate e disgregate in un progetto
di dominio, nel quale queste ultime non hanno nessun peso e non possono
esercitare nessun protagonismo effettivo.
Se uno dei caratteri della società capitalistica nella sua
fase coloniale e neo-coloniale sta effettivamente nella lacerante
contraddizione tra la politica fondata sulle guerre di rapina, scaturite dal
conflitto tra i diversi Stati imperialistici, e il costante richiamo al tema
dei diritti umani, allo scopo di suscitare il consenso e l'accettazione di tale
aberrante comportamento, è opportuno riprendere un'opera recentemente
riproposto da una casa editrice italiana (Ombre corte).
Il Discorso sul colonialismo di Aimé
Césaire
Nel suo Discorso sul colonialismo, pubblicato
per la prima volta a Parigi nel 1950, la cui lettura è oggi quanto mai
raccomandabile, infatti, Aimé Césaire, l'intellettuale caraibico, saggista e
poeta, denuncia la contraddizione lacerante tra la politica perseguita dalle
potenze coloniali e i valori che allo stesso tempo esse proclamano quale loro
indiscutibile fondamento e da cui scaturiscono il diritto alla vita, alla
proprietà, alla resistenza contro l'oppressione etc.
Riflettendo sul carattere aporetico della civiltà coloniale
europea e sul suo processo agonizzante di declino, egli fa una serie di
affermazioni che vale la pena di riportare e sulle quali mi sembra opportuno
riflettere, perché sono dense di significato e straordinariamente attuali nel
nuovo scenario internazionale, in cui il processo di decolonizzazione è stato
completamente ribaltato. Egli scrive: “Una civiltà che gioca con i propri
principi è una civiltà moribonda” (2010: 45). Soffermandosi poi sulle questioni
che a suo parere sono state create dalla stessa società europea, ma che non è
in grado o non intende risolvere, aggiunge: “Una civiltà che sceglie di
chiudere gli occhi di fronte alle questioni cruciali è una civiltà compromessa”
(Ibidem). Egli individua tali problemi nella questione del proletariato
e in quella coloniale ossia, sostanzialmente, nel carattere profondamente
asimmetrico della società capitalistica che si fonda sulla pratica dello
sfruttamento interno e di quello esterno, generando povertà, miseria,
esclusione, marginalità.
Ma ci sono, a mio parere, altre considerazioni illuminanti
nell'opera di Césaire che ci aiutano a comprendere sia la psicologia
dell'oppresso-colonizzato sia quella del colonizzatore, mostrando come certi
eccessi – spietatezza e crudeltà – non sono fenomeni collaterali o episodici,
ma del tutto collocabili nella logica dell'oppressione-colonizzazione, la quale
non può dare che questi tragici frutti. Infatti, egli scrive con una forte vena
polemica: “Tra colonizzatore e colonizzato vi è spazio soltanto per le corvée,
l'intimidazione, la pressione, la polizia, la frusta, lo stupro, le colture
obbligatorie, il disprezzo, la diffidenza, l'insolenza, la sufficienza, la
rozzezza, masse avvilite ed élite decerebrate. Nessun contatto umano, ma
rapporti di dominazione e di sottomissione, che trasformano l'uomo
colonizzatore in pedina, in ausiliare, in sentinella e l'uomo indigeno in
strumento di produzione” (2010: 55). E a proposito del colonizzatore e della
sua trasformazione nel processo di conquista ed oppressione aggiunge: “...la
colonizzazione... disumanizza anche l'uomo più civilizzato... l'azione
coloniale, l'impresa coloniale, la conquista fondata sul disprezzo dell'uomo
indigeno, e giustificata da questo disprezzo, tende, inevitabilmente, a
modificare anche colui che la intraprende. Il colonizzatore, per salvaguardare
la propria buona coscienza, si abitua a vedere nell'altro la bestia [corsivo
mio], si allena per trattarlo da bestia, e tende obiettivamente a trasformarsi
lui stesso in bestia. È quest'azione, questo effetto boomerang della colonizzazione
che è importante segnalare” (2010: 53).
Con queste parole Césaire descrive con grande sottigliezza
la disumanizzazione che si realizza nelle relazioni coloniali e di dominio, che
tante immagini ci documentano drammaticamente, spiegandoci con acume che, se
non consideriamo e trattiamo gli altri come appartenenti alla nostra stessa
specie e per questo dotati dei nostri stessi diritti, neghiamo in noi la
necessità di rispettare tali diritti, che diventano pertanto un che di effimero
ed aleatorio. Ma, in seguito a tale processo, dettato più che dalla riflessione
da una scelta pratico-politica, si annulla ogni rapporto di comunanza con
l'altro, si cancella ogni comun denominatore e si scatena ciò che con
espressioni assai antiche può definirsi homo homini lupus o bellum
ommnium contra omnes, con il conseguente ritorno allo stato di natura, in
cui non opera ancora alcuna regolamentazione sociale. E' interessante osservare
che in tale contesto, in cui tutto l'accento è posto sulle differenze intese
come irriducibili e inconciliabili, possano fare presa certe forme religiose –
in particolare quelle monoteistiche - le quali, nonostante abbiano talvolta
pretese universalistiche, operano di fatto come elemento costitutivo
dell'identità, la cui perdita o messa in discussione è spesso intesa come
trionfo del caos sull'ordine conosciuto e considerato tranquillizzante.
Per queste sue caratteristiche e contraddizioni, a parere
dell'intellettuale caraibico, la civiltà coloniale europea è un organismo
profondamente barbarico, nonostante le sue pretese di aver portato avanti il
progresso civile e intellettuale dell'uomo. E anche il riconoscimento dei suoi
crimini è sempre un fatto parziale, circoscritto e orientato a non mettere in
discussione la sua vera natura. Infatti, se ci soffermiamo sulla politica di
sterminio portata avanti dai nazisti in Europa nel corso della Seconda Guerra
mondiale, possiamo osservare che nel senso comune e nei mass media, che
identificano l'olocausto con la Shoah (catastrofe), essa ha avuto come oggetto
esclusivamente gli ebrei, dimenticando i rom, i dissidenti politici (in
primis i comunisti), le popolazioni sovietiche, i disabili etc. E ciò
ovviamente non è casuale, giacché lo Stato di Israele costituisce un baluardo
della politica occidentale nel Medio Oriente, disastrato da decenni di guerre
sanguinose, e che non sembrano veder soluzione.
Ma secondo Césaire c'è ancora di più, giacché tale
riconoscimento parziale dei crimini commessi oscura crimini analoghi con i
quali si è inflitta la distruzione e la morte ai popoli di colore e non europei
nella fase coloniale e in quella contemporanea (si pensi per esempio al Vietnam
e alle conseguenze dell'uso dell'agente arancio). Nelle parole
dell'intellettuale caraibico tale misconoscimento dimostra che il borghese
umanista e cristiano del XX secolo, atterrito e sconcertato dai campi di concentramento
nazisti “...porta dentro di sé un Hitler, nascosto, rimosso”, al quale non
perdona “...il crimine in sé, il crimine contro l'uomo” – come dovrebbe fare se
fosse conseguente con i suoi principi - “ma il crimine contro l'uomo bianco, e
il fatto di aver applicato all'Europa quei procedimenti colonialisti che sino
ad allora erano riservati esclusivamente agli arabi di Algeria, ai coolie
dell'India e ai neri dell'Africa” (2010: 49).
Tale atteggiamento razzista viene fuori, in particolare, se
analizziamo come i mass media dominanti si soffermano, con insistenza
quotidiana, sul terrorismo islamico senza ricostruire il processo della sua
formazione, focalizzandosi soprattutto sulle vittime occidentali e trascurando
la vicenda tragica delle vittime non occidentali spazzate via dai tanti
conflitti, che si sono susseguiti negli ultimi decenni, tra i quali spicca
ovviamente quello tra i gli israeliani e i palestinesi.
Se ha ragione Césaire, il borghese umanista e cristiano fa
appello ai diritti umani per darne però un'applicazione parziale che non metta
in causa il passato coloniale e il presente neo-coloniale, sui quali è stata
costruita la supremazia politica e sociale della società capitalistica, senza
rendersi conto che tale visione unilaterale, scaturita da una precisa politica
di dominio, anche culturale e ideologico, e di accaparramento inconsulto delle
risorse altrui, sta generando forze dirompenti che egli non è in grado di
controllare; lo scatenamento di tali forze non facilmente addomesticabili porta
inevitabilmente con sé disastri che possono travolgere anche lui e tutto il suo
mondo “civile”.
Note
- Lezioni sulla filosofia della storia, vol. I, Firenze 1961, p. 68, pubblicate postume nel 1837.
- http://www.gennarocucciniello.it/gc/la-commedia-umana-di-g-gioacchino-belli-gli-intellettuali-er-caffettiere-fisolofo-22-gennaio-1833/
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