Uno scenario importante dello scontro interimperialistico in atto si sta in questo momento giocando nella realizzazione di alcuni grandi trattati sovranazionali in cui la strategia statunitense punta a realizzare l’accerchiamento della Cina, la subordinazione dell’Ue e l’isolamento della Russia, con tutta una serie di conseguenze nel processo di ulteriore subordinazione della classe lavoratrice in tutto il mondo.
L’obiettivo statunitense nella formazione del Ttip e del Ttp è quello di realizzare una concentrazione imperialistica capace di imporre le sue norme a livello mondiale e di accerchiare il principale concorrente cinese.
Accordi di libero scambio, barriere non tariffarie e Isds
Lo scontro interimperialistico fra i principali attori (Usa,
Ue, Cina, Russia) si va sempre più delineando attraverso un processo di
potenziale “concentrazione imperialistica” attorno ad alcune aree
imperialistiche sovranazionali. Scontro a livello transnazionale con un grande
processo di ricollocazione della divisione internazionale del lavoro. Le trattative
relative al Transatlantic trade and investment partnership (Ttip) e
al Trans-Pacific partnership agreement (Tppa) sono espressione
rilevante di questo scontro. Per comprenderne la reale portata e gli obiettivi
questi accordi vanno collocati all’interno della strategia statunitense di
scontro con la Cina.
Il Ttip ha come obiettivo di realizzare l’unione di due
delle economie più ricche al mondo e delle rispettive aree valutarie, quella
del dollaro e quella, maggiormente in difficoltà, legata all’euro. Le
consultazioni Usa-Ue sono iniziate più di due anni fa, ma lo scontro
interimperialistico all’interno dello stesso Ttip è forte, nonostante gli Usa
abbiano cercato di sfruttare il momento di debolezza dell’Ue per la
realizzazione di un progetto che torna soprattutto a loro vantaggio. Le
trattative sono segrete e condotte dai funzionari della Commissione europea e
da quelli del Ministero del commercio statunitense con le lobby delle grandi
multinazionali.
Gli obiettivi finali del Ttip (e dello speculare Tppa) sono
riassumibili fondamentalmente in tre punti principali:
1. Eliminazione delle barriere tariffarie (dazi
doganali)
Il Ttip punta a realizzare una zona di libero scambio
riguardante 800 milioni di persone e corrispondente a circa la metà del pil e
un terzo del commercio mondiale. Ora come ora Usa e Ue hanno un forte grado di
interdipendenza economica. In particolare l’Ue con oltre 500 milioni di
abitanti e un reddito medio annuo pro capite di 25.000 euro è la più importante
economia mondiale e il più grande importatore di manufatti e servizi con
maggior volume di ide mondiale. Inoltre l’Ue è il principale investitore negli
Usa e il principale mercato per le esportazioni statunitensi di servizi.
Complessivamente gli investimenti in Ue assommano a 2000 miliardi di euro e
coprono il 50% degli investimenti Usa all’estero, mentre quelli dell’Ue negli
Usa superano i 1600 miliardi.
Secondo un documento dell’Istituto Affari Internazionali con
la realizzazione del Ttip le esportazioni europee si incrementerebbero del 2%
mentre quelle statunitensi verso l’Ue aumenterebbero del 6%, realizzando così
un significativo vantaggio per il capitale statunitense. Che il gioco sia
condotto dagli Usa, che tentano saggiamente di sfruttare a proprio vantaggio la
situazione di difficoltà del capitale europeo, è dimostrato dal fatto che gli
Usa non vogliano rinunciare al Buy american act del 1933,
creato da Roosevelt per proteggere le merci statunitensi. Il capitale a base Ue
da parte sua punta ad aumentare la sua quota di esportazioni verso il più
protetto mercato statunitense (solo il 30% del mercato Usa è “aperto” rispetto
all’80% di quello europeo) e in particolare vi è la questione delle barriere
relative alle commesse pubbliche che sono negli Usa molto più rigide rispetto
all’Ue.
Il Ttip si inserisce all’interno di una più ampia visione
strategica in funzione anticinese e deve essere integrato dal Tppa, siglato ad
Atlanta il 5 ottobre 2015, e riguardante 12 paesi del Pacifico (Australia,
Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Vietnam,
Singapore, Usa) che insieme rappresentano oltre il 40% del Pil mondiale. Il Ttp
punta a colpire esplicitamente il principale concorrente cinese sottraendogli
il controllo dell’Asia, ma implicitamente anche quello europeo che con gli
stati asiatici (Cina al primo posto) intrattiene, a livello di bilaterali
rapporti statali, svariati affari.
Se per buona parte del XX secolo gli Usa hanno ricoperto il
ruolo di prima potenza commerciale del mondo nel primo decennio del XXI hanno
perso questo primato commerciale e se fino al 2008 gli Usa erano il principale
partner commerciale di oltre 120 paesi nel mondo, mentre la Cina non arrivava a
70, oggi la situazione è esattamente rovesciata.
2. Superamento delle barriere non tariffarie, cioè
normative e legislative, di ostacolo alla libertà dei capitali
Il secondo aspetto, autentico cuore pulsante dei trattati, è
quello che punta ad armonizzare le barriere non tariffarie, cioè normative,
relative principalmente a lavoro, ambiente e salute. La differente legislazione
esistente fra Usa e Ue in questi ambiti è un ostacolo alla circolazione delle
merci e dei servizi che deve essere rimosso attraverso una normativa comune.
Abitualmente negli accordi di libero scambio la soluzione si raggiunge
attraverso l’applicazione della normativa più “semplice” e con meno vincoli e
attualmente l’Ue ha una legislazione più restrittiva in diversi ambiti.
Gli accordi relativi alla libertà degli scambi sono
accordi relativi alla libertà del capitale. Sono barriere non
tariffarie quelle relative alla coltivazione e commercializzazione di ogm
vietata nella quasi totalità dell’Ue, non tanto per preoccupazioni relative
alla salute dei cittadini, ma perché sugli ogm esiste un primato delle
multinazionali statunitensi che finirebbero per sottrarre mercati ai
concorrenti europei. In Ue vige inoltre il divieto di importare carni di
animali trattati con ormoni diffuse invece negli Usa e per quanto riguarda il
pollame il processo di controllo preventivo delle malattie si effettua a
partire dall’allevamento, mentre negli Usa, per abbassare i costi, riguarda
esclusivamente la fine della catena produttiva attraverso un processo di
sterilizzazione a base di cloro vietato nell’Ue che dal 1997 ha vietato
l’importazione del pollame statunitense. Un altro aspetto importante potrebbe
essere costituito dall’eliminazione di normative ambientali che impediscono
l’uso della tecnica di fracking (pericolosa per l’inquinamento
delle falde acquifere) relativa all’estrazione di gas e petrolio di scisto
(riserve importanti si trovano in Polonia, Ucraina, Danimarca e Francia), la
cui eliminazione aprirebbe interessanti mercati alle imprese
statunitensi.
Sono considerate “barriere non tariffarie” anche quelle
relative alla legislazione sul lavoro, che, in caso di adeguamento alla
normativa statunitense, ci porterebbe ad avere un’ulteriore deregolamentazione
in questo campo. Delle otto convenzioni fondamentali stabilite dall’International
labour organization (Ilo) dell’Onu - sul lavoro forzato (1930); sulla
libertà sindacale e la protezione del diritto sindacale (1948); sul diritto
d’organizzazione e di negoziazione collettiva (1949); sull’uguaglianza di
retribuzione (1951); sull’abolizione del lavoro forzato (1957); sulla
discriminazione di impiego e professione (1958); sull’età minima (1973); sulle
forme peggiori di lavoro minorile (1999) - gli Usa hanno ratificato solamente
quelle relative al lavoro minorile e alla discriminazione sul luogo di lavoro.
I programmi sanitari statali di assistenza universale e
gratuita e i relativi medicinali compresi negli elenchi della spesa sanitaria
potrebbero essere visti come pregiudizievoli per gli interessi delle grandi
multinazionali del settore in quanto espressione di una sorta di monopolio e di
ostacolo al libero commercio, aprendo le porte a un’ulteriore e completa privatizzazione
del sistema sanitario.
Le barriere non tariffarie riguardano anche i servizi
finanziari che invece gli Usa vorrebbero non inserire nel trattato visto che il
70% degli investimenti statunitensi in Europa sono di questo tipo e perché
paventano di ritrovarsi ostacolati nel tentativo di scaricare sul resto del
mondo i loro titoli tossici.
3. Delineazione di meccanismi legali che
impediscano ai capitali di essere ostacolati da leggi statali
Il terzo punto rilevante riguarda i meccanismi destinati a
risolvere le dispute tra investitori e stati noti come Investor-state
dispute settlement (Isds). L’Isds era inizialmente nato nell’epoca della
cosiddetta “decolonizzazione” per difendere gli interessi delle multinazionali,
senza ricorrere a complesse dispute diplomatiche fra governi e per permettere a
un’impresa di chiamare in giudizio lo stato evitando di essere giudicata
all’interno dello stesso stato che l’aveva espropriata (espropriazioni operate
in quei tempi dalle borghesie nazionali dei paesi di recente indipendenza). Le
cose ora sono cambiate e le espropriazioni sono radicalmente diminuite (dalle
423 degli anni ‘70 alle 22 degli anni ‘90) e se mai adesso, nella realizzata
mondializzazione del sistema capitalistico, i paesi più poveri cercano di
attrarre gli ide delle grandi imprese. Ora l’Isds non riguarda più soltanto gli
accordi da prendere fra i paesi dominanti all’interno della catena
imperialistica e quelli più deboli, ma riguarda anche i grandi accordi fra i
centri dell’imperialismo all’interno dell’approfondimento di quel processo di
sottomissione dello stato alle istituzioni sovranazionali dell’imperialismo
transnazionale.
L’accordo per la “protezione degli investimenti” consente
alle imprese, alle quali uno stato possa aver posto dei limiti alle “legittime
aspettative di profitto”, di denunciare lo stato stesso e di sottoporlo al
giudizio di un arbitrato. Si tratta di una sorta di “corte superiore privata”
composta da tre membri con processi a porte chiuse e senza possibilità di
appello e con gli stati e i capitali nazionali che non hanno diritto di citare
in giudizio le imprese transnazionali. Una “corte suprema del capitale” che
realizza di fatto una privatizzazione del diritto pubblico internazionale.
Per fare qualche esempio la multinazionale Veolia ha citato
il governo egiziano per aver varato una legge che innalzava il salario minimo,
la statunitense Lone Pine ha fatto causa allo stato canadese per aver vietato
il fracking, la Philip Morris ha citato Australia e Uruguay per le
misure messe in atto contro il fumo (avvertenze sui pacchetti di sigarette) che
l’avrebbero espropriata della sua “proprietà intellettuale”. Cause simili
potrebbero in futuro essere avanzate contro enti che garantiscono assistenza
sanitaria e istruzione gratuita in quanto lesive della libertà del capitale.
Già fra il 1995 e il 1998 c’erano state delle trattative fra
gli stati membri dell’Ocse per la creazione del Multilateral agreement
on investment (Mai) che prevedeva l’equiparazione legale delle imprese
agli stati membri; la proibizione degli standard di performance (numero minimo
di forza-lavoro locale, norme ambientali e sul lavoro); il divieto di
introdurre leggi in conflitto col Mai; la possibilità per le imprese di citare
in giudizio gli stati; il diritto per le imprese transnazionali di esportare
fino al 100% dei profitti privando così lo stato della possibilità di
tassazione. Il negoziato, voluto dagli Usa, era poi fallito per l’opposizione
di Ue, Canada e Giappone.
Un altro accordo in via di negoziazione è il Trade in
services agreement (Tisa) relativo alla liberalizzazione e privatizzazione del
mercato dei servizi (70% del pil mondiale) che coinvolge una cinquantina di
paesi tra cui Usa, Ue, Australia, Canada, Svizzera, Israele, Turchia, Corea del
Sud, Giappone. Si tratta di deregolamentare e privatizzare sanità, istruzione,
trasporti, acqua, pensioni, impedendo agli stati di gestire direttamente questi
servizi. Infine per quanto riguarda i servizi finanziari si tratterebbe di
eliminare le ultime restrizioni per le grandi banche e gli hedge fund.
Tutti questi accordi, come si vede, non comprendono la Cina (e i cosiddetti Brics).
In conclusione le profittevoli conseguenze per il grande
capitale transnazionale saranno l’assoggettamento dei sistemi produttivi dei
paesi più arretrati e la loro subordinazione alle filiere produttive
transnazionali con il relativo correlato di riduzione dell’occupazione, dei
salari e dei diritti dei lavoratori.
Verso un processo di “concentrazione” imperialistica?
La crisi ha offerto il destro al capitale Usa per indebolire
il concorrente europeo, utilizzando abilmente l’arma della speculazione per
colpire gli anelli deboli dell’Ue e la vicenda ucraina per danneggiare i
rapporti Ue-Russia isolando il concorrente russo, e per spostare risorse nello
scontro principale contro la Cina.
Nelle trattative per il Ttip rimangono pur sempre degli
ostacoli dettati dalla realtà dello scontro fra imperialismi rivali. In questa
specie di “Nato economica” l’Ue rischia di ritrovarsi subordinata agli Usa
esattamente come nella Nato militare. Inoltre, non si tratterebbe di un
effettivo rapporto bilaterale visto che l’Ue non è uno stato unitario o federale
e gli Usa potrebbero sempre puntare sulla divisione europea e su rapporti coi
singoli stati. L’Ue ha la forza di essere il mercato più importante per
popolazione e per ricchezza prodotta ma ha scarse risorse energetiche e non ha
una forza militare paragonabile a quella degli altri attori dello scontro
interimperialistico.
I principali esponenti del capitale a base Ue hanno ben
presente il rischio di sottomissione agli Usa. A settembre Matthias Fekl,
Segretario di Stato al commercio estero francese, ha lamentato che, di fronte a
continue concessioni da parte europea, gli Usa non abbiano offerto
contropartite serie, in particolare per quel che riguarda i servizi e gli Isds,
e ha aggiunto che, andando i negoziati in una direzione sbagliata, la Francia
si ritiene libera di considerare tutte le alternative, compresa l’interruzione
degli stessi. Il vice primo ministro tedesco Sigmar Gabriel, ha protestato per
il fatto che gli Usa non riconoscano i principi dell’Ilo e che non abbiano
ratificato la Convenzione di Stoccolma (2001) sugli inquinanti organici. Tutto
ciò ovviamente non perché il capitale a base Ue abbia a cuore i diritti dei
lavoratori o sia dotato di potente afflato ecologistico, ma perché ha ben
chiaro che le trattative, condotte in condizioni di difficoltà da parte
dell’Ue, rischiano di trasformarsi in una sconfitta per l’imperialismo europeo.
Fra l’altro, l’Ue non ha nessuna intenzione di rinunciare ai
rapporti con la Cina (e più in generale coi brics), come dimostra
la partecipazione di importanti Paesi europei (fra gli altri, Francia,
Germania, Italia, Regno Unito) alla Banca per gli Investimenti Infrastrutturali
Asiatica, seguita da un’irata reazione statunitense. Il capitale cinese è
interessato a investire le sue riserve in Europa; ha infatti aderito al Piano
Juncker destinato agli investimenti infrastrutturali e alla Banca Europea di
Ricostruzione e Sviluppo (Bers), mentre ha ridotto al contempo la sua
esposizione in titoli del Tesoro statunitensi.
La vicenda ucraina ha portato la Russia, per superare
l’isolamento cui era stata relegata, nella braccia della Cina e nel maggio 2014
è stato firmato, alle condizioni cinesi, il prezioso accordo sulle forniture di
gas e petrolio. Questo avvicinamento rafforzerà l’Organizzazione per la
cooperazione di Shanghai (Ocs), organismo che la Cina ha creato nel 2001 per
rafforzare la sua espansione nelle zone strategiche dell’Asia centrale e del
Medioriente. L’Ocs è formata da Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan,
Tagikistan e Uzbekistan e ha come osservatori (quindi come candidati potenziali
a diventare membri effettivi) India, Iran, Mongolia, Pakistan e Afghanistan. In
questo modo si potrebbe delineare un nuovo “macropolo” imperialistico, a
dominanza cinese, che avrebbe la possibilità di basarsi sulla forza produttiva
e le riserve valutarie cinesi, la forza energetica (primo produttore mondiale
di petrolio e gas) e militare russa, l’alta specializzazione della forza-lavoro
indiana e le riserve energetiche iraniane (quarto produttore mondiale di
petrolio e secondo di gas). A livello sovranazionale il Tppa si pone in
evidente opposizione con l’Ocs che annovera molti degli stati che, nonostante
la crisi, hanno avuto negli ultimi anni tassi di crescita elevati del pil.
La firma del Tppa non ha di sicuro risolto lo scontro
nell’area asiatico-pacifica: va infatti considerato l’importante vertice dell’Asia-Pacific
economic cooperation(Apec, 21 Paesi sulle due sponde dell’Oceano Pacifico
il cui interscambio è pari al 48% del commercio mondiale) del novembre 2014. Il
fatto che siano compresenti tre attori principali dello scontro
interimperialistico in atto (Cina, Russia e Usa) fa sì che ognuno dei tre
cerchi di realizzare il proprio interesse a scapito degli altri. Qui si sono
infatti scontrate le trattative per la realizzazione del Tppa e quelle relative
alla realizzazione del Free trade area of the Asia-Pacific (Ftaap),
sostenuto dalla Cina (principale partner commerciale della maggior parte dei
Paesi sudamericani), con l’impegno da parte dei membri dell’Apec di avviare una
“iniziativa di studio”, della durata di due anni che finirebbe per vanificare
gli intenti strategici statunitensi perseguiti con il Tppa.
Il grande scontro si basa, poi, sulla fondamentale questione
delle aree valutarie. Gli Usa cercano di sostenere la propria economia
stampando dollari, ma perché la cosa funzioni è necessario che questi dollari
vengano riconosciuti come valuta internazionale per lo scambio delle merci
principali. Per quello che riguarda il Ttip vi è la questione fondamentale
relativa a quale moneta dovrebbe essere utilizzata e, se si dovessero usare sia
euro che dollaro, con quale cambio dovrebbero avvenire queste transazioni. Ma
su un piano addirittura più decisivo il grande pericolo è che l’Ocs si doti di
un sistema monetario unico. La Russia potrebbe reagire alle sanzioni
abbandonando il dollaro per le sue vendite di gas e petrolio. La Cina da tempo
chiede di adottare per le transazioni una “unità di conto” diversa e cinesi e
russi hanno iniziato a delineare la possibilità di usare per gli scambi fra i
due Paesi esclusivamente rublo e renminbi.
Questa intesa va inserita all’interno di un ben più
ambizioso progetto di moneta unica da usare negli scambi in Asia. Nel 2011 i brics hanno
siglato un accordo che prevede di aprire linee di credito nelle valute
nazionali per ridurre la dipendenza dal dollaro. A questo punto Usa e Ue, se
realizzassero il Ttip, potrebbero convergere nell’adozione di una moneta comune
per fronteggiare il nemico principale costituito dalla Cina e dalla sua area economica.
La “concentrazione imperialistica” verrebbe così a semplificarsi con uno
scontro a due: Cina (+ Ocs) contro Usa (+ Ue), con tutte le
contraddizioni e ostilità che permarrebbero sempre nel rapporto capitalistico
fra “fratelli nemici” considerato anche il ruolo subalterno che spetterebbe a
Ue e Russia.
Ma lo scenario non è privo di sbocchi alternativi. I
miliardi di euro in avanzo, frutto delle politiche deflazionistiche dell’Ue,
possono essere indirizzati o verso gli Usa (la Federal Bank ha alzato i tassi
di interesse) per finanziare il debito statunitense, o accogliere il richiamo
delle sirene cinesi in investimenti produttivi volti a realizzare i
collegamenti marittimi e terrestri della nuova “via della seta”, senza
dimenticare poi che anche la Russia ha in previsione investimenti
infrastrutturali per una cifra di oltre 900 miliardi di dollari (più o meno
tripla rispetto a quella prevista dal piano Juncker). L’Europa, quindi, come
campo di battaglia fra le due grandi concorrenti Usa e Cina.
Riferimenti bibliografici.
Utili elementi di
analisi sono rintracciabili in articoli apparsi nelle seguenti riviste e
relativi siti: http://www.contraddizione.it/;https://rivistacontraddizione.wordpress.com/; http://contropiano.org/;http://www.resistenze.org/; http://www.marx21.it/; per quanto riguarda le
convenzioni Ilo cfr. http://www.ilo.org/rome/risorse-informative/servizio-informazione/norme-del-lavoro-e-documenti/lang--it/index.htm;
per una posizione favorevole al Ttip cfr.www.parlamento.it/.../file/.../83_IAI_Partenariato_transatlantico.pdf
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