La cosiddetta “età d’oro” del capitalismo - il termine non mi
piace tanto, in verità – i trenta anni tra il 1945 e il 1975, spesso viene
qualificata come un’epoca di compromesso tra le classi. Ma quando mai! Era
un’epoca di dominio forte da parte del capitale, un comando sul lavoro, dentro
cui, con il conflitto e con l’antagonismo, si sono, nel corso della seconda
metà degli anni Sessanta soprattutto e primi anni Settanta, strappate una serie
di conquiste. Il fatto che tanto i governi conservatori quanto quelli più di
centro-sinistra abbiano perseguito politiche di bassa disoccupazione lo si deve
alla storia tragica dell’Europa nel Novecento; e poi alla competizione di un
sistema, che non ha mai avuto la mia simpatia, che era il sistema sovietico, e
che però imponeva all’Occidente di stare al passo. In quel trentennio, prima
ancora che i keynesiani in senso stretti divenissero consiglieri espliciti dei
governi (avverrà soprattutto con Kennedy e Johnson), esiste una piena
occupazione e una contrattazione collettiva, un lavoro decente secondo la
definizione dell’ILO, e salari progressivamente crescenti in termini reali.
La fase del neo-liberismo monetarista è la fase che risponde
alla crisi di questo capitalismo “keynesiano”, che è anche una caduta da
sinistra, una caduta dovuta anche ad un conflitto sociale, ad un conflitto del
lavoro in cui i lavoratori non accettano di farsi usare come strumento di
produzione, come cose, magari risarciti con la piena occupazione e un “equo”
salario (lo aveva di nuovo intuito Kalecki). Quella piena occupazione viene
criticata duramente anche se non soprattutto da sinistra. Vigeva solo in una
parte del mondo e solo per un genere, quello maschile, dentro una
mercificazione generale a cui si deve ricondurre anche la distruzione accelerata
degli equilibri ecologici. L’epoca della reazione capitalistica, è l’epoca di
una nuova disoccupazione di massa, che è legata però non soltanto al problema
della carenza della domanda effettiva, ma alla ristrutturazione della
produzione da parte del capitale, alla ridefinizione dei rapporti di forza sul
mercato del lavoro.
Il fatto è che poi – come ho sostenuto - c’è un secondo
neo-liberismo, all’insegna della flessibilità, ma in realtà della precarietà, e
della globalizzazione, un concetto questo che non esiste, che non ha
concretezza, è pura ideologia che la sinistra ha assorbito senza difese e senza
intelligenza (lo stesso è avvenuto con post-fordismo). Questo neo-liberismo,
con queste due bandiere false, è stato in grado di produrre una nuova “piena
occupazione”. Il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti torna ai livelli
degli anni Sessanta, e anzi si abbassa ulteriormente, in Europa si riduce
drasticamente. E’ in realtà una sotto-occupazione di lavoratori precari, di
lavoratori part-time, di lavoratori con contratti atipici, di bassi salari (ma
non sempre). Ci sono anche aree di un lavoro qualificato, ma la cui autonomia è
fortemente limitata, dall’alto e dal basso, dalla gestione delle imprese e
dalla dinamica dei mercati. Di fronte a questo la sinistra avanza purtroppo
delle false soluzioni. Per esempio la riduzione dell’orario di lavoro come
formula rigida, non cioè nell’arco vitale (con bassi salari ciò si tradurrebbe,
se va bene, doppio lavoro; e una riduzione d’orario che regga dovrebbe accompagnarsi
a una ridefinizione della struttura dell’offerta). Oppure il c.d. basic income,
su cui c’è molta confusione. Una cosa per esempio è il basic income in senso
proprio, cioè un reddito di esistenza incondizionato, una cosa è il salario
minimo, una cosa ancora è un sussidio ai precari (il massimo di confusione lo
si ha con il concetto di salario sociale impiegato dalla sinistra radicale anni
fa).
Giovanna Vertova ha aperto anni fa un dibattito rivelatore
sul manifesto (in cui intervenimmo anche Halevi ed io). I sostenitori del basic
income in quel dibattito dicevano che esisteva ormai un capitalismo della
conoscenza (giorni fa è uscito sul New York Times, e da noi su Repubblica, un
illuminante articolo di Krugman, che smonta questo mito) e un lavoro immateriale
(un concetto, di nuovo, incredibilmente inconsistente: Sergio Bologna, del
tutto a ragione, ci racconta spesso la dura materialità di chi produce merci
immateriali). Esisterebbe una produttività generalizzata, che è ormai proprietà
della nuda vita. La ricchezza sarebbe là, sarebbe solo da ridistribuire, non da
mutare nella sua natura e nel suo modo di produzione. E’ chiaro che questa
ideologia avrebbe dovuto essere spazzata via dalla crisi. Ed è invero
testimonianza del triste stato della sinistra che tutte le confusioni dei
quindici anni passati, pur smentite con durezza dalla realtà dei fatti, siano
ancora dibattute come se niente fosse: globalizzazione, postfordismo, fine del
lavoro, fine dello stato, liberismo risorgente, Impero, basic income, e così
via. Tutte queste posizioni, e il loro correlato di politica economica,
presuppongono la stabilità di una crescita, di una produzione di plusvalore,
che, ovviamente, non si è data affatto.
Altra cosa è – come scriveva proprio Vertova in conclusione
del dibattito - la richiesta reddito per ogni lavoratore. Una richiesta giusta,
che sta nel DNA del movimento dei lavoratori. Non solo per ogni lavoratore, per
ogni essere umano, come parte potenziale della forza lavoro, anche quando non è
in grado di lavorare. L’idea, che è stata attribuita (autocriticamente) a
Maurizio Landini sulla stampa, secondo cui nella tradizione del movimento
operaio il reddito è legato al lavoro, proprio non ci sta, non la capisco.
Basta leggere quell’autore un po’ barbuto dell’Ottocento che ha scritto
un’opera un po’ lunghetta, ma che vale pur sempre la pena di leggersi (come
politici e sindacalisti della sinistra), Il Capitale, e lo si vede con estrema
chiarezza. Il reddito va rivendicato, e va rivendicato del tutto
indipendentemente dalla produttività, che è un dato truccato, dipende dal
capitale, dalla controparte. Semmai, un salario in eccesso sulla produttività
potrebbe proprio essere uno stimolo all’innovazione (Per gli italiani: ho
scritto un articolo sulla questione del salario e del reddito sulla rivista
Alternative per il socialismo, che chiarisce questi nodi). Sta al capitale
garantire la sussistenza, comunque. Per tutti. E la sussistenza è un concetto
relativo, sociale.
Ci sono state, come ho ricordato, delle risposte nazionali un
po’ ovunque, e questo è vero anche in Europa. La Grande Recessione ha visto sì
un aumento della disoccupazione, però minore di quanto ci si sarebbe potuti
aspettare, anche quando il capitalismo è stato in caduta libera. Perché si è
intervenuti, quali che fossero le proclamazioni ideologiche In parte perché c’è
ancora un Grande Governo, come lo chiamava Minsky, ovvero c’è pur sempre un
peso elevato dello stato nell’economia, e perché ci sono gli “stabilizzatori
automatici”. Ma poi anche perché persino la signora Merkel, forse soprattutto
la signora Merkel, e poi la Francia e altri governi, hanno fatto un bel po’ di
interventi “attivi”, talora intelligenti, sul mercato del lavoro, come la
settimana corta finanziata da stato, sindacato e lavoratori in Germania, o come
sussidi condizionati all’industria dell’auto come in Francia (e non come la
generica rottamazione, come in Italia). Si sono fatti interventi specifici sui
settori. Si pongono condizioni al privato, in termini di occupazione, in
termini di esportazioni, ecc. Le politiche sono state diverse, variegate, come
lo è la realtà della disoccupazione.
Questi interventi sono però stati interrotti quando si è
creduto di vedere dei “germogli” della ripresa. E’ a questo punto che si è impennata
la disoccupazione, lasciata al suo destino. Per questo sono personalmente
convinto che la crisi della disoccupazione sia sostanzialmente di fronte a noi,
non alle nostre spalle. Siamo in una nuova fase, ci avviciniamo ad una “nuova
normalità” in cui si torna, come in un pendolo, alla disoccupazione di massa.
Questa sarà però a questo punto la disoccupazione di massa di lavoratori
precari. Una miscela ancora più pericolosa che nel passato. Insieme all’attacco
al lavoro nelle grandi concentrazioni operaie, c’è oggi anche e soprattutto
l’attacco nel pubblico impiego.
E’ questo compatibile
con la democrazia? A me non pare. In verità, penso da molto tempo che il
capitalismo sia intrinsecamente autoritario, che la democrazia gli venga – per
così dire – “da fuori”. Non credo, però, che basti innalzare la bandiera della
democrazia violata, come fa la nostra sinistra. Perché i diritti richiedono dei
poteri, delle coalizioni del lavoro, e non solo, che li difendano. Se no sono
solo parole vuote, un imbroglio.
Nella reazione a questo attacco al lavoro e alla democrazia
spesso si dice: Il lavoro è un “bene comune”, come l’acqua. Il titolo di questa
slide che vi propongo, non l’ho saputa tradurre in inglese, perché non so come
si possa tradurre. E’ una espressione italiana: “La classe non è acqua”. Si è
espresso molto bene il primo oratore Patrick Le Hyaric – lui ha fatto una cosa
che in genere a sinistra non si fa, non ha mai utilizzato la parola “lavoro”
genericamente. Ha sempre distinto con cura “forza lavoro” (potenza di lavoro),
“lavoro” in senso proprio (attività che è prestata dalla forza lavoro), e
“lavoratori/lavoratrici” in carne e ossa e cervello (portatori/portatrici della
forza lavoro). E’ l’ABC, forse l’unico punto veramente irrinunciabile di Marx,
perché da lì discende tutto. Per questo il lavoro non è, non può essere un bene
comune.
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