*Libreria CATANIALIBRI, Piazza G. Verga 2 (Presso la libreria sarà possibile l'acquisto del testo)
Vorrei premettere che probabilmente costituisce per me una azzardo partecipare alle presentazione di un libro filosofico dedicato alla dialettica, al discusso e complicato rapporto Marx / Hegel, giacché non sono una studiosa di filosofia, anche se mi sono occupata della riflessione filosofica sulla religione, non sono nemmeno una lettrice sistematica di Marx e di Hegel. Mi sono sempre occupata di religiosità popolare, anche se non credo esista una disciplina come l'antropologia religiosa nettamente scissa dalla filosofia, dalla psicologia, dalla sociologia. Nonostante questa considerazione, darò il mio contributo, non entrando negli specifici contenuti del libro che oggi presentiamo, ma indicando una serie di temi sviluppati dal suo autore che ho recepito e che costituiscono per me un punto di riferimento.
Siamo qui per ricordare uno studioso, ormai scomparso da più
di un anno, il cui contributo intellettuale ci fa comprendere meglio e ha reso
vivi alcuni nodi centrali della riflessione filosofica moderna; tale apporto ha
avuto l'obiettivo di ricostruire una fondamentale tradizione di pensiero e, in
subordine, quello di cogliere, grazie agli strumenti da essa forniti, le
dinamiche di funzionamento e di cambiamento del mondo in cui viviamo.
In questo piccolo libro, intitolato Dialettica riproposta,
sono raccolti alcuni scritti, cui Stefano Garroni anche se con fatica, per la
sua malattia, stava lavorando e che aveva affidato a Sergio Manes in vista di
una loro possibile pubblicazione. Su sollecitazione di Manes ho rivisto il
testo limitandomi a correggere i refusi e a eliminare le ripetizioni, convinta
il suo contenuto avrebbe potuto suscitare interesse e anche dare impulso ad una
discussione in particolare tra coloro che sono stati più vicini a Stefano e che
hanno condiviso la sua passione per la “battaglia delle idee”, che ahimè
nell'università attuale, ridimensionata e mortificata dalle varie controriforme
susseguitesi negli ultimi decenni, è ormai pressoché assopita.
A questa osservazione aggiungerei che, come accade sempre
nel caso di autori non omologati al pensiero dominante, che conforma anche il
nostro senso comune, l'opera di Stefano è conosciuta solo all'interno di una
certa nicchia di studiosi e di militanti, che manifestano nella curiosità
intellettuale il loro malessere e la loro insoddisfazione verso il mondo
attuale, e che si sentono sollecitati a ricercare ad esso alternative, sia pure
fondate sulle condizioni esistenti.
In primo luogo, mi sembra importante mettere in risalto lo stile
particolare di studio e di lavoro adottato da Stefano, dal quale – lo riconosco
- ho imparato molto; ho appreso che l'organizzazione universitaria del sapere,
che lo distingue in vari settori, la cui specificità e separatezza è talvolta
feticizzata dai docenti, nell'effettivo lavoro di ricerca costituisce solo un
impaccio che deve essere superato, aprendosi a quel discorso più profondo che
accomuna autori e pensatori e che li identifica come espressione densa e viva
delle problematiche emerse dal contesto storico-sociale, cui appartengono.
Ho anche imparato che le categorie, che utilizziamo spesso
sbrigativamente se non abbiamo una sensibilità filosofica, cristallizzandole in
una forma specifica che esse hanno assunto nella loro storia, costituiscono un
groviglio di domande e di riposte spesso implicite, che occorre esplicitare, se
si vuole veramente capire di cosa stiamo parlando. In questo senso, le
categorie – come scrive Raymond Williams – in realtà sono problemi, questioni,
che occorre sviscerare e di cui è necessario ricostruire la storia e l'uso, se
si vuole comprendere il pensiero e l'atteggiamento di chi le usa, per ripensare
e riplasmare il loro significato alla luce dei temi su ci si interroga.
Possiamo ricordare un esempio di questo gusto per la
comprensione approfondita e contestualizzata delle categorie nella loro
complessa e articolata storia; mi riferisco alla traduzione e introduzione
all'opera del Presidente de Brosses, Sul culto degli dei feticci, o
parallelo della antica religione egiziana con la religione attuale della
Nigrizia (Roma 2000), prima non tradotta in italiano e che Marx aveva letto
nel 1841, come risulta dall'articolo sul Dibattiti sulla legge contro i
furti di legna pubblicato nella Gazzetta renana. Abbiamo lavorato insieme
ad questa edizione critica, che abbiamo dotato di un denso apparato di note,
volto a ricostruire la complessità della riflessione sulla religiosità e sulle
sue varie manifestazioni, presente nel pensiero antico e riemergente nel contesto
dell'espansione coloniale europea, che metteva in relazione i colonizzatori con
le pratiche e le credenze religiose dei popoli extraeuropei. In particolare, de
Brosses, riportando nel suo scritto, pubblicato anonimo a Ginevra nel 1760 per
i suoi contenuti problematici, una pagina di Hume, elabora la categoria di
feticismo, che come è noto – è stata ripresa da pensatori, da cui non si può
prescindere per comprendere la nostra storia e la profondità della riflessione
su di essa.
Questo atteggiamento sta alla base dell'antidogmatismo di
Stefano, che Paolo Vinci sottolinea nella sua Introduzione al volume, e che
l'ha portato ad accostare momenti a prima vista assai distanti della
riflessione filosofica moderna, individuando somiglianze e sintonie a prima
vista non evidenti, ma ricavabili se si
ricostruisce la problematica profonda che le accomuna.
Quanto al tema della dialettica e della complessa relazione
tra Marx e Hegel, mi limito a dire che sta al centro della riflessione
contemporanea, stimolata da un lato dalla nuova edizione storico-critica delle
opere complete di Marx e Engels sostenuta dal 1990 dalla Fondazione
Internazionale Marx-Engels, e che in Italia viene pubblicata dalla Città del
Sole; dall'altro lato, tale ripensamento è sollecitato dalla necessità di
individuare strumenti adeguati alla comprensione della società capitalistica
avanzata, insufficienti in certe tendenze marxiste, la quale si presenta
diversa per alcuni aspetti dal capitalismo indagato con tanta profondità da
Marx. Questi due elementi avrebbero dato luogo alla Marx Renaissance,
fenomeno che pervade – come scrive The Guardian - (http://www.theguardian.com/world/2012/jul/04/the-return-of-marxism)
anche le nuove generazioni.
Il giornale britannico osserva anche che il
Manifesto del Partito comunista, pubblicato da Marx e Engels nel 1848, è il
secondo libro più venduto al mondo, essendo il primo la Bibbia.
Posso aggiungere che
la categoria di contraddizione – centrale nel pensiero dialettico -
costituiva per Stefano la chiave di lettura dei fenomeni sociali e culturali,
ma allo stesso tempo era fortemente convinto che stesse anche alla base della
strutturazione della psiche, così come ci viene descritta nell'opera freudiana,
e che costituisce anche la molla del processo doloroso, che sottintende la
costruzione della personalità.
Un altro tema, a mio parere è centrale nel pensiero di
Stefano, e nel quale si esprime molto bene il suo atteggiamento verso la vita e
verso gli altri. Nell'articolo “Per una lettura di Marx”, contenuto nel libro
che stiamo qui presentando, Stefano si pone una domanda significativa, a cui
certo non è facile rispondere, e cioè si chiede “Marx è un filosofo?” Egli
risponde a questa domanda in maniera complessa, sostenendo che in un certo
senso Marx non è un filosofo, se si identifica la filosofia con il “metodo
speculativo”, proprio dell'”hegelismo”, contro cui l'autore di Treviri
costantemente polemizza. Ma, nello stesso tempo, Stefano ritiene che l'indagine
marxiana non possa essere considerata unilateralmente economica o storica. In questo senso, Stefano
sottolinea che, per quanto orientata allo studio di un dominio ben precisato
(il dominio della formazione storico-sociale), la riflessione marxiana si apre
a motivi non immediatamente riconducibili a tale dimensione, come per esempio
il riferimento al Principio Morale di Base, formulato nei Manoscritti
economico-filosofici e identificato con con l'affermazione “una vita che produce
vita”, giacché nella sua prospettiva <<la vita produttiva è la vita della
specie>>, annichilita dal lavoro estraniato (Primo manoscritto, Il
lavoro estraniato). In questa ottica, che è al contempo etica e politica, Marx
esamina la società capitalistica e prefigura i caratteri della formazione
sociale che la dovrebbe sostituire.
Un altro aspetto, che mi sembra importante rimarcare e che
ha costituito una costante nell'attività di Stefano, è stato il suo voler
sempre coniugare teoria e prassi, filosofia e politica, etica e scienza, pur
essendo del tutto consapevole che il passaggio da un livello all'altro non può
non avvenire senza mediazioni che comportano una comprensione profonda della
visione complessiva dell'autore in questione, soprattutto nel caso di un
pensatore dalla produzione sterminata e multiforme come Marx. E d'altro lato,
la praticabilità di tale mediazione comporta anche l'intelligenza dettagliata e
contestualizzata del momento storico, cui si vuole applicare una certa formula
interpretativa, da cui in subordine si intendono ricavare indicazioni sul
comportamento politico-pratico da adottare.
In questo senso, Stefano era fortemente ostile alla formula “cassetta
degli attrezzi”, secondo la quale il marxismo costituirebbe un insieme di strumenti
interpretativi che si possono adottare in maniera disinvolta a seconda delle
circostanze, come se fossero tra loro svincolati e non facessero invece parte
di un universo intellettuale, che – come si è visto citando il Principio morale
di base – è costruito su una specifica concezione etica, che - come osserva
Stefano - affonda le sue radici nel pensiero della Grecia classica.
Come è noto, questa - chiamiamola - “commistione” tra
scienza ed etica è stata spesso oggetto di critica e in particolare da parte di
autori anglosassoni, che hanno definito con dispregio il marxismo una sorta di
religione dalla vocazione messianica. Per taluni studiosi la notorietà di tali
valutazioni è strettamente legata alla contingenza politica, e in particolare
all'instaurarsi della Guerra fredda; contesto nel quale era sommamente utile
alle potenze occidentali che qualcuno si preoccupasse di smontare il pensiero
marxiano, mostrandone la non scientificità
Questo atteggiamento di Stefano, interessato a coniugare
teoria e prassi, ben evidente nel libro qui presentato, l'ha portato alla
costituzione di piccoli gruppi dediti allo studio e alla riflessione
filosofica, ma che al contempo assumessero anche un preciso atteggiamento
politico nei confronti delle vicende contemporanee, sempre però partendo da un
punto di vista internazionale e considerando ciò sui cui si incentrano
generalmente i mass media (come per esempio le dispute ricorrenti all'interno
del PD) miseria quotidiana, ciò che galleggia è che occulta le forze profonde che
muovono effettivamente le cose.
Tra questi piccoli gruppi, in cui si mescolavano persone
provenienti da diversi ambiti sociali e di età diverse, ricordo il collettivo
di Formazione marxista ora intitolato a Stefano, che ha anche prodotto una
serie di pubblicazioni sui temi che venivano affrontati e discussi negli
incontri seminariali.
Un altro tema, presente nel libro e in tutta la produzione
di Stefano, che mi pare opportuno debba essere messo in risalto e che ho
pienamente recepito e fatto mio è l'interpretazione della storia intellettuale
come un processo in cui compaiono elementi di continuità e di discontinuità.
Questa prospettiva è sviluppata anche da una serie di marxisti britannici, tra
cui menziono Raymond Williams – già ricordato in precedenza -, di cui Stefano
aveva il libro Cultura e Rivoluzione industriale (1968), ma che però non
mi pare sia citato nei suoi scritti. Tale visione è sviluppata in
contraddizione con l'idea che la storia intellettuale (della scienza e della
filosofia) proceda attraverso passaggi da modelli interpretativi che si
dimostrano obsoleti a nuovi modelli interpretativi, attraverso salti o rotture.
A questo proposito egli sottolinea i grandi limiti delle tesi epistemologiche
di Thomas Kuhn, il quale non avrebbe capito che il <<concetto di
invariante è inseparabile da quello di trasformazione>>, benché
l'immortalità dei prodotti della ragione debba essere intesa come qualcosa di
vivente e operante, e non come un rigido e cristallizzato monumento (pag. 64).
Infine, mi sembra importante ricordare la costante polemica
di Stefano contro il nuovismo – così lo chiama - che ricompare in Dialettica
riproposta. È interessante soffermarsi sull'atteggiamento nuovista, perché
spesso si coniuga in maniera contraddittoria con il ripudio delle cosiddette
metanarrazioni, che si è imposto con il sorgere del pensiero postmoderno e in
particolare con il celebre libro di Jean-François Lyotard La condizione
postmoderna. Tale rifiuto è accompagnato dalla forte critica nei confronti
del progressismo illuminista e positivista, che ha posto all'apice della storia
universale la civiltà occidentale, e dalla rivalutazione delle forme di vita
sociali extra-occidentali etichettate genericamente come “altre”. Ma pur
rifiutando il progressismo, permane in molti studiosi contemporanei l'idea che
l'ultimo libro appena fresco di stampa sia, proprio perché il più recente, il
più significativo e innovativo; e dal loro punto di vista è alla lettura di
esso che bisogna dedicarsi accantonando la produzione precedente perché vecchia
e superata. Scrive Stefano al proposito: <<Un curiosa...
contraddizione in cui viviamo è quella di scambiare ciò che è nuovo per noi
– nel senso che capita per la prima volta nella nostra esperienza, con ciò che
è oggettivamente nuovo, - nel
senso che si presenta per la prima volta (nella misura che ciò sia di fatto
possibile) all'esperienza storica e obiettiva.
La medicina contro tale errore, la terapia contro il nuovismo,
ovviamente è lo studio della storia, attraverso cui possiamo scoprire la piena
attualità di certi testi, scritti secoli addietro.
Dico “attualità” - continua Stefano -, nel senso che quei
testi sanno chiarirci meglio i termini di problemi odierni molto meglio
di quanto non faccia tanta parte della letteratura contemporanea (che
generalmente non è scientifica, ma sì ideologica>>. (pp. 89-90).
Mi pare abbastanza chiaro che chi pratica il nuovismo
ha una visione estremamente superficiale della storia e spesso non si rende
conto che sta semplicemente rimestando, magari in maniera rapida e
approssimativa, temi che in certi autori del passato avevano ben altro spessore
e ben altra profondità.
Se sono riuscita ad individuare i temi veramente
caratterizzanti della riflessione di Stefano, credo che si possa dire che il
suo contributo è significativo e ci aiuta a riprendere un lavoro intellettuale,
con le sue implicazioni etiche e politiche, all'altezza dei tempi difficili e
problematici nei quali ci troviamo a vivere.
Nessun commento:
Posta un commento