lunedì 7 dicembre 2015

Presentazione di "DIALETTICA RIPROPOSTA", Stefano Garroni, LA CITTA' DEL SOLE. - Alessandra Ciattini, Catania 2 dic. 2015*


*Libreria CATANIALIBRI, Piazza G. Verga 2 (Presso la libreria sarà possibile l'acquisto del testo) 


 Vorrei premettere che probabilmente costituisce per me una azzardo partecipare alle presentazione di un libro filosofico dedicato alla dialettica, al discusso e complicato rapporto Marx / Hegel, giacché non sono una studiosa di filosofia, anche se mi sono occupata della riflessione filosofica sulla religione, non sono nemmeno una lettrice sistematica di Marx e di Hegel. Mi sono sempre occupata di religiosità popolare, anche se non credo esista una disciplina come l'antropologia religiosa nettamente scissa dalla filosofia, dalla psicologia, dalla sociologia. Nonostante questa considerazione, darò il mio contributo, non entrando negli specifici contenuti del libro che oggi presentiamo, ma indicando una serie di temi sviluppati dal suo autore che ho recepito e che costituiscono per me un punto di riferimento.

 Siamo qui per ricordare uno studioso, ormai scomparso da più di un anno, il cui contributo intellettuale ci fa comprendere meglio e ha reso vivi alcuni nodi centrali della riflessione filosofica moderna; tale apporto ha avuto l'obiettivo di ricostruire una fondamentale tradizione di pensiero e, in subordine, quello di cogliere, grazie agli strumenti da essa forniti, le dinamiche di funzionamento e di cambiamento del mondo in cui         viviamo.

 In questo piccolo libro, intitolato Dialettica riproposta, sono raccolti alcuni scritti, cui Stefano Garroni anche se con fatica, per la sua malattia, stava lavorando e che aveva affidato a Sergio Manes in vista di una loro possibile pubblicazione. Su sollecitazione di Manes ho rivisto il testo limitandomi a correggere i refusi e a eliminare le ripetizioni, convinta il suo contenuto avrebbe potuto suscitare interesse e anche dare impulso ad una discussione in particolare tra coloro che sono stati più vicini a Stefano e che hanno condiviso la sua passione per la “battaglia delle idee”, che ahimè nell'università attuale, ridimensionata e mortificata dalle varie controriforme susseguitesi negli ultimi decenni, è ormai pressoché assopita. 

 A questa osservazione aggiungerei che, come accade sempre nel caso di autori non omologati al pensiero dominante, che conforma anche il nostro senso comune, l'opera di Stefano è conosciuta solo all'interno di una certa nicchia di studiosi e di militanti, che manifestano nella curiosità intellettuale il loro malessere e la loro insoddisfazione verso il mondo attuale, e che si sentono sollecitati a ricercare ad esso alternative, sia pure fondate sulle condizioni esistenti. 

 In primo luogo, mi sembra importante mettere in risalto lo stile particolare di studio e di lavoro adottato da Stefano, dal quale – lo riconosco - ho imparato molto; ho appreso che l'organizzazione universitaria del sapere, che lo distingue in vari settori, la cui specificità e separatezza è talvolta feticizzata dai docenti, nell'effettivo lavoro di ricerca costituisce solo un impaccio che deve essere superato, aprendosi a quel discorso più profondo che accomuna autori e pensatori e che li identifica come espressione densa e viva delle problematiche emerse dal contesto storico-sociale, cui appartengono.

 Ho anche imparato che le categorie, che utilizziamo spesso sbrigativamente se non abbiamo una sensibilità filosofica, cristallizzandole in una forma specifica che esse hanno assunto nella loro storia, costituiscono un groviglio di domande e di riposte spesso implicite, che occorre esplicitare, se si vuole veramente capire di cosa stiamo parlando. In questo senso, le categorie – come scrive Raymond Williams – in realtà sono problemi, questioni, che occorre sviscerare e di cui è necessario ricostruire la storia e l'uso, se si vuole comprendere il pensiero e l'atteggiamento di chi le usa, per ripensare e riplasmare il loro significato alla luce dei temi su ci si interroga.

 Possiamo ricordare un esempio di questo gusto per la comprensione approfondita e contestualizzata delle categorie nella loro complessa e articolata storia; mi riferisco alla traduzione e introduzione all'opera del Presidente de Brosses, Sul culto degli dei feticci, o parallelo della antica religione egiziana con la religione attuale della Nigrizia (Roma 2000), prima non tradotta in italiano e che Marx aveva letto nel 1841, come risulta dall'articolo sul Dibattiti sulla legge contro i furti di legna pubblicato nella Gazzetta renana. Abbiamo lavorato insieme ad questa edizione critica, che abbiamo dotato di un denso apparato di note, volto a ricostruire la complessità della riflessione sulla religiosità e sulle sue varie manifestazioni, presente nel pensiero antico e riemergente nel contesto dell'espansione coloniale europea, che metteva in relazione i colonizzatori con le pratiche e le credenze religiose dei popoli extraeuropei. In particolare, de Brosses, riportando nel suo scritto, pubblicato anonimo a Ginevra nel 1760 per i suoi contenuti problematici, una pagina di Hume, elabora la categoria di feticismo, che come è noto – è stata ripresa da pensatori, da cui non si può prescindere per comprendere la nostra storia e la profondità della riflessione su di essa. 

 Questo atteggiamento sta alla base dell'antidogmatismo di Stefano, che Paolo Vinci sottolinea nella sua Introduzione al volume, e che l'ha portato ad accostare momenti a prima vista assai distanti della riflessione filosofica moderna, individuando somiglianze e sintonie a prima vista non evidenti,   ma ricavabili se si ricostruisce la problematica profonda che le accomuna.

 Quanto al tema della dialettica e della complessa relazione tra Marx e Hegel, mi limito a dire che sta al centro della riflessione contemporanea, stimolata da un lato dalla nuova edizione storico-critica delle opere complete di Marx e Engels sostenuta dal 1990 dalla Fondazione Internazionale Marx-Engels, e che in Italia viene pubblicata dalla Città del Sole; dall'altro lato, tale ripensamento è sollecitato dalla necessità di individuare strumenti adeguati alla comprensione della società capitalistica avanzata, insufficienti in certe tendenze marxiste, la quale si presenta diversa per alcuni aspetti dal capitalismo indagato con tanta profondità da Marx. Questi due elementi avrebbero dato luogo alla Marx Renaissance, fenomeno che pervade – come scrive The Guardian - (http://www.theguardian.com/world/2012/jul/04/the-return-of-marxism) anche le nuove generazioni. 

 Il giornale britannico osserva anche che il Manifesto del Partito comunista, pubblicato da Marx e Engels nel 1848, è il secondo libro più venduto al mondo, essendo il primo la Bibbia.
Posso aggiungere che  la categoria di contraddizione – centrale nel pensiero dialettico - costituiva per Stefano la chiave di lettura dei fenomeni sociali e culturali, ma allo stesso tempo era fortemente convinto che stesse anche alla base della strutturazione della psiche, così come ci viene descritta nell'opera freudiana, e che costituisce anche la molla del processo doloroso, che sottintende la costruzione della personalità.

 Un altro tema, a mio parere è centrale nel pensiero di Stefano, e nel quale si esprime molto bene il suo atteggiamento verso la vita e verso gli altri. Nell'articolo “Per una lettura di Marx”, contenuto nel libro che stiamo qui presentando, Stefano si pone una domanda significativa, a cui certo non è facile rispondere, e cioè si chiede “Marx è un filosofo?” Egli risponde a questa domanda in maniera complessa, sostenendo che in un certo senso Marx non è un filosofo, se si identifica la filosofia con il “metodo speculativo”, proprio dell'”hegelismo”, contro cui l'autore di Treviri costantemente polemizza. Ma, nello stesso tempo, Stefano ritiene che l'indagine marxiana non possa essere considerata unilateralmente economica  o storica. In questo senso, Stefano sottolinea che, per quanto orientata allo studio di un dominio ben precisato (il dominio della formazione storico-sociale), la riflessione marxiana si apre a motivi non immediatamente riconducibili a tale dimensione, come per esempio il riferimento al Principio Morale di Base, formulato nei Manoscritti economico-filosofici e identificato con con l'affermazione “una vita che produce vita”, giacché nella sua prospettiva <<la vita produttiva è la vita della specie>>, annichilita dal lavoro estraniato (Primo manoscritto, Il lavoro estraniato). In questa ottica, che è al contempo etica e politica, Marx esamina la società capitalistica e prefigura i caratteri della formazione sociale che la dovrebbe sostituire.

 Un altro aspetto, che mi sembra importante rimarcare e che ha costituito una costante nell'attività di Stefano, è stato il suo voler sempre coniugare teoria e prassi, filosofia e politica, etica e scienza, pur essendo del tutto consapevole che il passaggio da un livello all'altro non può non avvenire senza mediazioni che comportano una comprensione profonda della visione complessiva dell'autore in questione, soprattutto nel caso di un pensatore dalla produzione sterminata e multiforme come Marx. E d'altro lato, la praticabilità di tale mediazione comporta anche l'intelligenza dettagliata e contestualizzata del momento storico, cui si vuole applicare una certa formula interpretativa, da cui in subordine si intendono ricavare indicazioni sul comportamento politico-pratico da adottare.  In questo senso, Stefano era fortemente ostile alla formula “cassetta degli attrezzi”, secondo la quale il marxismo costituirebbe un insieme di strumenti interpretativi che si possono adottare in maniera disinvolta a seconda delle circostanze, come se fossero tra loro svincolati e non facessero invece parte di un universo intellettuale, che – come si è visto citando il Principio morale di base – è costruito su una specifica concezione etica, che - come osserva Stefano - affonda le sue radici nel pensiero della Grecia classica.

 Come è noto, questa - chiamiamola - “commistione” tra scienza ed etica è stata spesso oggetto di critica e in particolare da parte di autori anglosassoni, che hanno definito con dispregio il marxismo una sorta di religione dalla vocazione messianica. Per taluni studiosi la notorietà di tali valutazioni è strettamente legata alla contingenza politica, e in particolare all'instaurarsi della Guerra fredda; contesto nel quale era sommamente utile alle potenze occidentali che qualcuno si preoccupasse di smontare il pensiero marxiano, mostrandone la non scientificità

 Questo atteggiamento di Stefano, interessato a coniugare teoria e prassi, ben evidente nel libro qui presentato, l'ha portato alla costituzione di piccoli gruppi dediti allo studio e alla riflessione filosofica, ma che al contempo assumessero anche un preciso atteggiamento politico nei confronti delle vicende contemporanee, sempre però partendo da un punto di vista internazionale e considerando ciò sui cui si incentrano generalmente i mass media (come per esempio le dispute ricorrenti all'interno del PD) miseria quotidiana, ciò che galleggia è che occulta le forze profonde che muovono effettivamente le cose.
Tra questi piccoli gruppi, in cui si mescolavano persone provenienti da diversi ambiti sociali e di età diverse, ricordo il collettivo di Formazione marxista ora intitolato a Stefano, che ha anche prodotto una serie di pubblicazioni sui temi che venivano affrontati e discussi negli incontri seminariali.

 Un altro tema, presente nel libro e in tutta la produzione di Stefano, che mi pare opportuno debba essere messo in risalto e che ho pienamente recepito e fatto mio è l'interpretazione della storia intellettuale come un processo in cui compaiono elementi di continuità e di discontinuità. Questa prospettiva è sviluppata anche da una serie di marxisti britannici, tra cui menziono Raymond Williams – già ricordato in precedenza -, di cui Stefano aveva il libro Cultura e Rivoluzione industriale (1968), ma che però non mi pare sia citato nei suoi scritti. Tale visione è sviluppata in contraddizione con l'idea che la storia intellettuale (della scienza e della filosofia) proceda attraverso passaggi da modelli interpretativi che si dimostrano obsoleti a nuovi modelli interpretativi, attraverso salti o rotture. A questo proposito egli sottolinea i grandi limiti delle tesi epistemologiche di Thomas Kuhn, il quale non avrebbe capito che il <<concetto di invariante è inseparabile da quello di trasformazione>>, benché l'immortalità dei prodotti della ragione debba essere intesa come qualcosa di vivente e operante, e non come un rigido e cristallizzato monumento (pag. 64).

 Infine, mi sembra importante ricordare la costante polemica di Stefano contro il nuovismo – così lo chiama - che ricompare in Dialettica riproposta. È interessante soffermarsi sull'atteggiamento nuovista, perché spesso si coniuga in maniera contraddittoria con il ripudio delle cosiddette metanarrazioni, che si è imposto con il sorgere del pensiero postmoderno e in particolare con il celebre libro di Jean-François Lyotard La condizione postmoderna. Tale rifiuto è accompagnato dalla forte critica nei confronti del progressismo illuminista e positivista, che ha posto all'apice della storia universale la civiltà occidentale, e dalla rivalutazione delle forme di vita sociali extra-occidentali etichettate genericamente come “altre”. Ma pur rifiutando il progressismo, permane in molti studiosi contemporanei l'idea che l'ultimo libro appena fresco di stampa sia, proprio perché il più recente, il più significativo e innovativo; e dal loro punto di vista è alla lettura di esso che bisogna dedicarsi accantonando la produzione precedente perché vecchia e superata. Scrive Stefano al proposito: <<Un curiosa... contraddizione in cui viviamo è quella di scambiare ciò che è nuovo per noi – nel senso che capita per la prima volta nella nostra esperienza, con ciò che è oggettivamente nuovo, -  nel senso che si presenta per la prima volta (nella misura che ciò sia di fatto possibile) all'esperienza storica e obiettiva.

 La medicina contro tale errore, la terapia contro il nuovismo, ovviamente è lo studio della storia, attraverso cui possiamo scoprire la piena attualità di certi testi, scritti secoli addietro.
Dico “attualità” - continua Stefano -, nel senso che quei testi sanno chiarirci meglio i termini di problemi odierni molto meglio di quanto non faccia tanta parte della letteratura contemporanea (che generalmente non è scientifica, ma sì ideologica>>. (pp. 89-90).

 Mi pare abbastanza chiaro che chi pratica il nuovismo ha una visione estremamente superficiale della storia e spesso non si rende conto che sta semplicemente rimestando, magari in maniera rapida e approssimativa, temi che in certi autori del passato avevano ben altro spessore e ben altra profondità.

Se sono riuscita ad individuare i temi veramente caratterizzanti della riflessione di Stefano, credo che si possa dire che il suo contributo è significativo e ci aiuta a riprendere un lavoro intellettuale, con le sue implicazioni etiche e politiche, all'altezza dei tempi difficili e problematici nei quali ci troviamo a vivere.

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