“La sovranità non può essere rappresentata, per la stessa ragione per cui non può essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale e la volontà non è soggetta a rappresentanza: o è essa stessa o è un’altra, non c’è via di mezzo. I deputati del popolo dunque non sono, né possono essere suoi rappresentanti; essi non sono che suoi commissari, non possono concludere niente definitivamente. Ogni legge che il popolo in persona non abbia ratificata, è nulla: non è assolutamente una legge. Il popolo inglese pensa di essere libero, ma si inganna gravemente; non lo è che durante le elezioni dei membri del parlamento: appena questi sono eletti, esso è schiavo, è un niente. L’uso che esso fa della libertà, nei brevi momenti che ne gode, è tale che merita bene di perderla” (Rousseau, Il contratto sociale).
Il senso comune del popolo di sinistra ritiene un valore essenziale per battere le destre, da troppi anni dominanti, l’unità della sinistra. Troppo spesso, però, il termine “sinistra” proprio perché noto non è in realtà conosciuto. Dal punto di vista empirico, al quale si ferma il senso comune sotto l’influenza dei mezzi di comunicazione di massa, è di sinistra chi si autodefinisce tale. Tanto più che storicamente il termine, come una parte significativa degli elementi costitutivi della filosofia moderna, è sorto con la consuetudine sviluppatesi durante la Rivoluzione francese, per cui gli esponenti più progressisti del parlamento occupavano l’ala dell’assemblea legislativa posta a sinistra del suo presidente.
In tal modo però l’identità della sinistra resta piuttosto
incerta, in quanto è troppo soggetta ai diversi rapporti di forza fra le classi
sociali e alle diverse forme di selezione dei deputati nelle assemblee
legislative. Così, già nel corso della Rivoluzione francese, a seconda del
prevalere nelle sue diverse fasi delle componenti più radicali o moderate e del
conseguente mutare delle modalità di selezione dei rappresentanti mutava in
modo sostanziale il contenuto concreto dei termini destra e sinistra. In altri
termini, in fasi molto progressive anche alla destra del presidente
dell’assemblea prenderanno solitamente posto esponenti del centro sinistra,
mentre in fasi come la nostra di Restaurazione anche nei banchi di sinistra
troveranno posto esponenti del centro destra.
D’altra parte è evidente che fra il dire e il fare c’è di
mezzo il mare e che, dunque, l’identità politica di chiunque vada considerata
essenzialmente non sulla base di come si definisce, o pretende di essere, ma su
ciò che realmente è, deducibile unicamente dai risultati del proprio operare.
Da questo punto di vista è evidente che può essere considerato realmente di
sinistra chi con il proprio operato favorisce le classi subalterne a discapito
delle classi dominanti. Proprio, perciò, maggioranze dichiaratamente di
sinistra che hanno nei fatti favorito le classi dominanti hanno generato
smarrimento e disaffezione nelle loro basi sociali, come è apparso generalmente
dal termometro elettorale, che in questi casi segna generalmente un aumento più
o meno rilevante dell’astensionismo dei ceti sociali subalterni.
Tale confusione e perdita di identità non può che favorire
le forze populiste e i demagoghi, in quanto tale di destra, che ne approfittano
per sostenere la vecchia tesi qualunquista della perdita di significato delle
distinzioni fra destra e sinistra. Tesi, per altro, che trovano da sempre
terreno fertile nel ceto medio e nella piccola borghesia, classi sociali
intermedie dotate di un’ideologia spesso eclettica e pronte a spostarsi a
destra piuttosto che a sinistra a seconda del prevalere delle forze progressiste
o reazionarie.
Proprio perciò la collocazione politica di questi strati
intermedi diviene determinante nei rapporti di forza all’interno del conflitto
fra classi dominanti e subalterne. La palude, la maggioranza silenziosa, la
massa passiva degli indecisi privi di una chiara coscienza sociale e politica è
sempre determinante all’interno di un’assemblea. Ne consegue l’importanza
decisiva della politica nelle alleanze per la costituzione dei due principali
blocchi storici, sociali e politici, che nelle società capitalistiche
contrappongono i capitalisti ai proletari, ossia a coloro che per potersi
riprodurre come classe devono alienare per uno stipendio, generalmente modesto,
la propria capacità di lavoro.
Proprio perciò i due blocchi storici antagonisti tenderanno
a presentarsi come coalizioni di centro-destra o centro-sinistra. Tale
necessaria convergenza fra proletari dotati di coscienza di classe e gli
elementi maggiormente progressisti dei ceti intermedi è di natura tattica e
sottende strategie generalmente sensibilmente differenti. È, dunque,
indispensabile la definizione nel blocco storico dei rapporti sociali fra i
gruppi sociali in esso rappresentati, che passa necessariamente attraverso la
lotta per l’egemonia.
All’interno del fronte unico potrebbero prevalere le forze
antiliberiste, ossia la componente piccolo borghese che si illude sulla
riformabilità del sistema capitalistico, che sogna un capitalismo dal volto
umano, che idealizza il capitalismo concorrenziale delle origini e considera un
accidente il suo sviluppo in senso monopolistico, finanziario e imperialistico.
Ben diversa sarebbe la situazione se a prevalere fosse la componente
anticapitalista che ritiene necessario e, dunque, irreversibile tale sviluppo,
come ritiene strutturale e non temporanea la crisi del modo di produzione
capitalistico, a causa della caduta tendenziale del saggio del profitto, per
cui gli attuali rapporti di produzione costituiscono un ostacolo insormontabile
per il necessario sviluppo delle forze produttive.
Da questo punto di vista determinante sarà le definizione
degli obiettivi verso cui orientare il fronte unico, ossia le basi
programmatiche su cui sperimentare nella prassi la tenuta e l’incisività del
blocco storico politico-sociale. In primo luogo occorrerà che la componente
anticapitalista sia consapevole che gli obiettivi comuni debbano corrispondere
al proprio programma minimo, mentre costituiranno il programma massimo della
componente riformista. In secondo luogo sarà necessario ricordare che tali programmi
non solo non coincidono, ma sono necessariamente differenti. Proviamo, dunque,
ad analizzare le principali differenze.
La componente riformista tenderà a contrapporre le politiche
economiche keynesiane alle liberiste, ritenendo non solo le prime la soluzione
di tutti i mali, ma considerando una mera opzione culturale, indipendente non
solo dalle condizioni strutturali dell’accumulazione capitalistica, ma dagli
stessi rapporti di forza fra capitale e forza lavoro a livello nazionale e
internazionale. Al contrario la componente anticapitalista dovrà insistere sui
limiti e sulla natura necessariamente contraddittoria di tutto ciò che è
pubblico e statale in una società capitalista e ancora di più imperialista,
dove a essere dominanti sono gli interessi privatistici e la sete di profitto
che animano la società civile. Questo comporta che non sia un’eccezione, un
accidente, che la spesa pubblica nella società capitalista generi corruzione e
disservizi, ma la regola a meno che non si sia in grado di mantenere vivo il
controllo delle masse sulla sua gestione.
Dal punto di vista politico la componente riformista tende a
naturalizzare lo Stato e la società civile borghese, considerando entrambi non
solo neutri, ma come delle strutture in quanto tali essenzialmente progressivi,
anche se la componente di origine proudhoniana si illuderà sulla natura in sé e
per sé progressiva della società civile, mentre la componente di derivazione
lassalliana considererà idealisticamente progressivo lo Stato. Nel primo caso
si svilupperanno posizioni di rifiuto tanto del pubblico quanto del privato,
che comportano un sostegno acritico al cooperativismo del terzo settore, dove
si registrano non di rado livelli di sfruttamento e autosfruttamento ancora più
elevati non solo del settore statale, ma anche del settore privato. Nel secondo
caso si finalizzerà l’azione politica all’occupazione delle istituzioni,
illudendosi del loro carattere neutrale e della possibilità di utilizzarle ai
propri fini grazie al suffragio universale. Al contrario le forze
anticapitaliste dovranno insistere sulla natura di classe delle istituzione
borghesi, in quanto tali di ostacolo alla realizzazione di una società più
giusta fondata su un modo di produzione più razionale.
Dovranno inoltre sempre
ricordare la natura antidemocratica della concezione liberale della delega,
denunciando come un ossimoro la democrazia borghese. Al di là dell’uso distorto
e ideologico del termine, imposto del pensiero unico liberale oggi dominante,
gli anticapitalisti dovranno insistere sul reale significato di democrazia,
etimologicamente e storicamente intesa come forza e potere delle masse
popolari, dei subalterni.
Da questo punto di vista determinante sarà anche la
prospettiva prevalente nella costituzione del fronte, ossia se prevarrà il
principio della delega a un “ceto politico” della sua governance o
se si mirerà a favorire per quanto possibile una reale partecipazione di
esponenti delle lotte socio-economiche, di delegati dai posti di lavoro e dai
luoghi di formazione della forza-lavoro. Anche perché a livello del ceto
politico finiranno necessariamente per prevalere gli intellettuali tradizionali,
di provenienza essenzialmente borghese, e non si favorirà la formazione di
intellettuali di tipo nuovo, organici ai subalterni, meno soggetti alle prese
di posizione individualiste e ai tentativi di cooptazione delle classi sociali
dominanti.
Tanto più che la componente anticapitalista potrà evitare
ogni tentativo di infiltrazione e contaminazione con posizioni antitetiche in
senso reazionario al capitalismo soltanto se non si limiterà alla pur
indispensabile funzione negativa di contrasto e lotta al modo di produzione
dominante. Al di là della necessaria battaglia ideologica per l’egemonia
all’interno del fronte, fra le componenti comuniste, socialiste, anarchiche,
socialdemocratiche, democratiche diverrà decisiva la sperimentazione di forme
embrionali della società futura che si mira ad affermare.
Da questo punto di vista il fronte unico non potrà certo
fondarsi su una coalizione fra diverse forze politiche, diretta da addetti ai
lavori, che rischiano spesso di rimanere generali senza esercito. Al contrario
dovrà mirare in primo luogo a unire, ampliando così gli orizzonti al di là dei
rischi di soluzioni corporative, i protagonisti delle lotte sociali ed
economiche. In secondo luogo dovrà favorire il sorgere nei luoghi di lavoro,
nei quartieri popolari, nei luoghi di formazione della forza lavoro strutture
consiliari in cui sperimentare quella democrazia reale, diretta e dal basso che
si intende contrapporre al fondamento oligarchico delle attuali
liberal-democrazie fondate sulla delega della sovranità popolare a
professionisti della politica. Come sosteneva già Rousseau [1], ben prima di
Marx o di Gramsci, il vero padre della democrazia moderna, la sovranità
popolare è, in quanto tale, inalienabile e, dunque, non può essere demandata a
un ceto politico per quanto radicale possa essere.
Note
[1] “La sovranità non può essere rappresentata, per la
stessa ragione per cui non può essere alienata; essa consiste essenzialmente
nella volontà generale e la volontà non è soggetta a rappresentanza: o è essa
stessa o è un’altra, non c’è via di mezzo. I deputati del popolo dunque non
sono, né possono essere suoi rappresentanti; essi non sono che suoi commissari,
non possono concludere niente definitivamente. Ogni legge che il popolo in
persona non abbia ratificata, è nulla: non è assolutamente una legge. Il popolo
inglese pensa di essere libero, ma si inganna gravemente; non lo è che durante
le elezioni dei membri del parlamento: appena questi sono eletti, esso è
schiavo, è un niente. L’uso che esso fa della libertà, nei brevi momenti che ne
gode, è tale che merita bene di perderla” (Rousseau, Il contratto
sociale).
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