martedì 29 dicembre 2015

Salario minimo garantito (reddito di cittadinanza)* - Gianfranco Pala

*Da:   http://www.gianfrancopala.tk/    (http://www.contraddizione.it/quiproquo.htm)
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole


 groucho,        moro,         chico,         harpo,        zeppo
 “Se ci vien fatto di dimostrare che la carità legale, applicata secondo questo princi­pio, può essere utilmente introdotta nelle società moderne, noi avremo tolto al comunismo i suoi più formidabili argomenti, e segnata la via a migliorare le sorti delle classi più numerose, senza mettere a repentaglio l’esistenza stessa dell’ordine sociale” (Camillo Benso conte di Cavour) 

Salario minimo garantito (reddito di cittadinanza)

Il carattere “sociale” e “minimo” del salario non deve assolutamente essere frainteso. Vi sono difatti molti, oggigiorno, che sull’onda delle mode ripro­duttive e fuori mercato, intendono con codesto tipo di dizioni forme spurie di salario o reddito garantito dallo stato o da altre istituzioni pubbliche, median­te prestazioni più o meno accessorie fornite a lavoratori e disoccupati, donne e giovani, cittadini e utenti. Una tal commistione di categorie, e meglio anzi sarebbe dire una tale lista di attributi tra loro incongruenti, conduce a un pa­sticcio di rapporti di forza, di lotta e di diritti, di assistenzialismo e di elemo­sina (quel tipo di confusione concettuale “inetta e barbarica” sulla quale He­gel ironizzava chiamandola “un ferro di legno”).  L’essere sociale e minimo del salario è invece unicamente conseguenza dell’essere merce della forza-la­vo­ro entro il rapporto di capitale posto da questo modo della produzione sociale. Non vi è spazio né teorico né storico, perciò, per confondere il carattere sociale del salario con sole sue parti o con differenti forme assistenziali cui le istituzioni borghesi saltuariamente prov­vedono per concessioni parziali, né il suo livello minimo con analoghe forme assistenziali o contrattuali che dànno veste legale all’ipocrita solidarietà della filantropia bor­ghese.

Numerosissime sono le argomentazioni che consentono di chiarire questo equivoco, annoso ma sempre più invasivo nell’epoca della putrescenza del corpo imperialistico del capitale. Anzitutto, al relativo disinteresse di Marx per la questione della fissazione, legale o contrattuale, di un minimo salariale (al contrario, a es, dalla riduzione di orario nell’uso della forza-lavoro), che non fosse quello esattamente stabili­to dalla legge del valore della forza-lavoro stessa, la quale già definisce il salario minimo, fa riscontro, sul piano teoretico, l’indicazione delle principa­li fonti di siffatta tematica. Da tali fonti si capisce in quale assurdità filantro­pica e utopica, se non addirittura ipocrita e interessata, dell’ideologia borghe­se, piccola e media o illuminata, laica o cristiana, consistesse la rivendicazio­ne di un “salario minimo” garantito. Anche codesta trovata è perlopiù di pro­venienza francese; ieri, come oggi, è facile rintracciarla nelle varie apparizio­ni del proudhonismo vecchio e nuovo imperversante. Nondimeno essa, grazie alla precocità del capitalismo inglese, la si trova corroborata al di là della Manica.

Sicuramente una prima base, che ambirebbe essere “teorica”, per sostenere ta­le trovata è appunto dovuta a Proudhon stesso. Proudhon, per sottrarsi alla conseguenza fatale del fatto che il minimo del salario è il prezzo “naturale” e normale della forza-lavoro viva, al fine di non accettare lo stato attuale della società fa un voltafaccia e pretende che la forza-lavoro stessa non sia una merce, ossia che non abbia un valore. Dimentica così, e si prova a far dimen­ticare a chi si metta sulla sua strada, che è la forza-lavoro come merce l’unica fonte immediata del reddito dei lavoratori. E sulla sua strada ci si sono messi in tanti, nel socialismo piccolo borghese di ieri e di oggi come nel filantropi­smo utopico e mistico della borghesia. Osserva Marx: “Proudhon vuole li­brarsi come uomo di scienza al di sopra dei borghesi e dei proletari, e non è che il piccolo borghese, al di sotto degli economisti e al di sotto dei socialisti, poiché non ha né sufficienti lumi né sufficiente coraggio, sballottato costante­mente tra il capitale e il lavoro, tra l’economia politica e il comunismo”. Se Proudhon fosse finito lì, nei suoi anni di metà ottocento, non ci interesserebbe più di tanto. Senonché le sue metastasi riaffiorano sempre più fitte nei pro­grammi di diverse componenti dell’’“asinistra”, attraverso i vari Keynes o Gorz o Rifkin o Bihr del momento.

Ecco allora che le sue tesi si ritrovano, insieme a un po’ di Saint-Simon e di Comte, presso un oscuro “socialista” belga dei suoi stessi anni (ma non più oscuro di quanto potrà esserlo Gorz tra un secolo!), il barone Jean Hyppolyte de Colins, che si dichiarava “antimaterialista”. Costui, al posto delle classi, infatti, riproponeva il contrasto tra ricchi e poveri, per risolvere il quale escogitava ri­cette magiche proudhoniane per la distribuzione della terra, per le banche di credito senza interesse a favore del popolo, per l’imposta sulla rendita, e via con l’interclassismo di una società dipinta come una “grande famiglia”. Ma, per quello che qui più interessa, salta fuori la specifica ricetta proudhoniana di un “reddito minimo” (che si sarebbe poi trasformato in piccolo capitale per l’avvio di libere attività professionali) da assicurare come apprendistato ai giovani che avessero svolto lavori pubblici di utilità sociale. Non era una no­vità neppure allora – gli ateliers nationaux di fourierista memoria erano già stati sepolti, pur nella loro sicura maggior serietà, dati i tempi della storia – ma oggi poi! E che dire allora del coevo tal conte von Ketteler, vescovo di Magonza, per il quale “la questione operaia e il cristianesimo” si coniugavano proprio sul te­ma dei lavori pubblici capaci di dare assicurazioni sui salari. Ci si potrebbe dilungare assai facilmente sul proliferare di una tale oscura genìa di tanti pic­coli alchimisti sociali, pronti a risolvere i problemi dei poveri da assistere, ma non si troverebbe un comunista e tanto meno un marxista (per non dir di Marx), ma solo piccoli disarmati profeti laici o religiosi di stampo borghese.

Per offrire perciò un quadro teorico di riferimento più compiuto e organico conviene trasferire l’osserva­torio nel luogo dello sviluppo capitalistico mo­derno, dove anche il socialismo antimarxista ha trovato un’es­pressione più analitica: l’Inghilterra. Occorre rifarsi alle “basi” (così le chiamavano) del programma fabiano, radici del moderno laburismo (anche quando esso si è presentato, e si presenta tuttora, a volte, usurpando il nome di “comunismo” – tanto che una simile questione richiederà un chiarimento specifico). Quelle “basi” furo­no formulate – giusto sùbito dopo la morte di Marx – con un dichiarato intento di eliminare l’in­fluenza marxista nel movimento socialista, tanto sul piano politico quanto su quello scientifico: ovviamente a cominciare dal rigetto del­la teoria del valore e delle classi. Obiettivo mirato dell’attacco fabiano alla società esistente non era quindi il plusvalore e il suo modo di produzione, bensì – udite, udite! – la “rendita” (nella quale veniva incluso l’interesse, ren­dita finanziaria si direbbe oggi, ma non il guadagno d’impresa) in chiave emi­nentemente di redistribuzione del reddito; lo strumento principale per condur­re tale attacco sarebbe stata la sua “tassazione”, fino a far dissolvere il capita­lismo per morte propria (“eutanasia?”).

Del resto le “basi” fabiane concepivano esplicitamente il socialismo come punto d’arrivo dell’evoluzione “spontanea” del capitalismo, il suo compimento, da assecondare non con la lotta di classe ma con la “democrazia sociale” e la “democrazia industriale”, con la propaganda e l’efficienza amministrativa ge­rarchica affidata al “governo dei tecnici” (o “governabilità”, si direbbe preferibilmente oggi). Non deve stupire, allora, che le fon­ti teoriche di questo “socialismo” siano, oltre alla ricordata rendita ricardiana, l’utilitarismo di Bentham, l’economia di Jevons e Stuart Mill, il falso evoluzioni­smo darwiniano applicato alla società, e uno storicismo senza rivoluzione. Può stupire semmai l’ingenuità di chi, ancora oggi, beve queste chiacchiere che imbonitori della politica presentano come “comunismo”, magari invocando insieme un incompatibile “ritorno a Marx”.

Non conviene approfondire qui la disamina delle posizioni del socialismo an­timarxista, ma basta definire sommariamente il quadro del contesto culturale e della temperie politica in cui anche la “questione del salario minimo” garan­tito per legge si sviluppò. I giovanotti “lib-lab” [non credano i seguaci po­stmoderni di Micromega o di Limes che quella etichetta l’abbiano coniata i Flores d’Arcais o i Galli della Loggia, perché così si chiamavano i fabiani un secolo fa] intesero infatti affermare il laburismo nascente dalla cosiddetta “per­meazione” fabiana (una prova di “entrismo”) nel partito liberale, facendo leva sul filantropismo umanitario e sui princìpî etici del socialismo cristiano di contro all’allora prevalente anglosassone radicalismo della responsabilità individuale. Diventò in quel periodo una “moda” (soprattutto tra gli universi­tari, oltre che per i fondatori di “missioni” e di eserciti della salvezza, ecc.) andare nei sobborghi per aiutare i disoccupati e i poveri. “Questi idealisti bor­ghesi – scrive un borghese loro pari come G.D.H.Cole – non pensavano affatto al­l’in­staurazione del socialismo, ma a una riconciliazione tra le classi”, al fine di ripristinare, seguendo un “im­pulso etico” a sostegno dei “miserabili”, un “li­vello minimo di vita civile” – secondo la dizione cara all’ari­stocratica Beatri­ce Potter in Webb.

Ecco: quello del “salario minimo” (insieme a un non meglio definito “diritto al lavoro”, più consono all’e­tica protestante della “civiltà del lavoro” che alla marxista conflittualità di classe per l’esistenza, e all’appog­gio ormai allora inevitabile alla campagna per le “otto ore”, ma intese più sul versante cultura­le e morale che non materiale pratico) era il principale slogan lib-lab. G.B.Shaw fu l’antesignano del “divorzio” totale del reddito percepito dalla remunerazione per l’attività svolta (questa è la “novità” gorziana del “reddito di cittadinanza”!), mentre il socialista opportunista Hyndman si limitava a ri­chiedere il reddito garantito come forma di assistenza per i disoccupati impie­gati nei lavori pubblici. Essendo la caratteristica di tale forma di “reddito” quella di essere svincolato dall’attività lavorativa e, soprattutto, dalla forma di merce della forza-lavoro (come pure in quella sua forma particolare del “salario alle casalinghe” di cui perfino il papa è giunto a essere fautore), con la bella conseguenza di trasfor­mare così un elemento antitetico e conflittuale del proletariato – l’unico nella sua immediatezza – in un affidamento alla filantropia del capitale e all’assisten­zialismo statale, si può già cominciare a capire perché Marx l’avversasse decisamente. Ma conviene ancora procedere con ordine in tema di salario mi­nimo garantito.

Fu il lib-lab Sidney Webb che propugnò per primo sistematicamente l’assi­stenza pubblica ai disoccupati con la creazione di posti di lavoro a salario minimo garantito (per lavori industriali privati, razionalmente organizzati) e lavori pubblici (ma limitati a manodopera non qualificata, perché ritenuti inefficienti). Insieme a altre proposte di carattere assistenziale quei due punti costituivano il cardine del futuro “welfare state”, come prodromi del cosiddet­to “stato sociale”, che oggi i comunisti si ritrovano tra i piedi in tutte le occa­sioni nel nome di un improbabile “keynesismo-di-sinistra” o di un assurdo “keynesomarxismo”. Finché si trattasse di vederlo come senso di colpa di gio­vani intellettuali liberali che moralisticamente anelavano a un “livello minimo di civiltà”, facendo appello alla carità pelosa dei loro anziani borghesi, sareb­be anche comprensibile (tuttavia non accettabile); ma dal punto di vista della lotta di classe del proletariato tutto ciò non va al di là di un semplice “accon­to”, come diceva Engels, su quanto, assai di più, la borghesia deve ai lavora­tori.

L’occasione di codeste proposte webbiane fu offerta dalla battaglia parlamen­tare per l’abolizione della vecchia “legge sui poveri” del 1834 – per cancellare l’“onta” della definizione di “povero”, fu peraltro la motivazione moralistica addotta dallo stesso Webb (e l’idea ha fatto strada se oggi i poveracci sono eufemisticamente chiamati, in negativo, “non abbienti” e “meno favoriti”!). Quella legge – come si può riscontrare su qualsiasi serio libro di storia dell’indu­stria e del movimento operaio – colpiva duramente gli operai dell’indu­stria con la concorrenza dei disoccupati: “i capitalisti industriali, padroni del parla­mento – scrive Dolléans – hanno fatto votare la legge sui poveri per deprimere i salari e procurare manodopera a buon mercato. Il diritto all’assistenza è un’assicurazione contratta dai ricchi: la sicurezza concessa ai poveri garanti­sce ai ricchi il rispetto della loro proprietà”. Inoltre la borghesia fa la benefi­cenza – l’infame beneficenza di un borghese cristiano!, esclama Engels – come un affare per comprarsi anche il “diritto” alla propria tranquillità, per “esser preservati da sgradevoli e impudenti molestie” (come scrive una “si­gnora” borghese, della quale Engels sottolinea la mancanza di coraggio di chiamarsi ancora “donna”).

Le leggi sui poveri di un tempo, come tutte le leggi di stampo assistenzialisti­co fino alle più recenti proposte di “salario minimo o reddito garantito”, rien­trano nella più generale legislazione sul lavoro salariato. Marx ricorda che la forma stessa di “statuto” o “carta” dei diritti dei lavoratori quale “pomposo catalogo dei diritti inalienabili dell’uomo”, fin dalla nascita è coniata per lo sfruttamento del lavoratore e gli è sempre ugualmente ostile [il primo statuto dei lavoratori fu promulgato in Inghilterra da Edoardo III (1349)]. Del resto, anche Smith, insospettabile padre del liberismo borghese, sapeva che “tutte le volte che il legislatore tenta di regolare le differenze fra i padroni e i loro ope­rai, i suoi consiglieri sono sempre i padroni”. Infatti, le leggi sulla regolamen­tazione dei salari vengono considerate una “anomalia ridicola”, e abolite, non appena i capitalisti siano in grado di regolare l’impresa con la loro “legisla­zione privata”, facendo integrare con la tassa sui poveri (o con altri marchin­gegni giuridici: minimo garantito, indennità di disoccupazione, cassa integra­zione, fiscalizzazione di oneri sociali, imposta negativa, ecc.) il salario fino al minimo indispensabile, a esclusivo vantaggio dei rapporti di forza padronali. Non è un caso che oggi un liberale conservatore reazionario come Milton Friedman, l’economista ispiratore della reaganomics, si sia pronunciato a fa­vore di una forma di “salario minimo garantito” mediante il meccanismo dell’imposta negativa. Stabilito un minimo, tutti coloro che percepiscono un reddito superiore a questo, pagano le imposte, gli altri ricevono un’integrazio­ne dallo stato. In questo modo il capitale dei paesi più sviluppati accetta un sistema di gestione della disoccupazione che perpetui la spaccatura tra lavoro e non lavoro favorendo la pace sociale.

La storia è prodiga di insegnamenti del genere (e non si dica che la fattispecie delle antiche “leggi sui poveri” è distante dalle esperienze e proposte più re­centi: si tratta di comprenderne appieno la tipologia). Ancora Marx, a proposi­to della più vecchia legge inglese sui poveri del seicento, commenta così: “Per salvare i comodi della nostra santissima religione dagli assalti dei mi­scredenti francesi, gli onesti agrari inglesi ridussero i salari dei lavoratori agricoli persino al di sotto del minimo puramente fisico, e fecero aggiungere, mediante la legge sui poveri, il rimanente necessario per la conservazione fi­sica della razza”. Grazie a quella legge, la parrocchia integrava il salario nominale sotto forma di elemosina fino alla somma minima necessaria per la riproduzione della forza-lavoro. Del resto le virtù della carità pubblica per il mantenimento dell’or­dine sociale sono ben note, oltre che al parroco, ad ogni sobrio difenso­re dell’accumulazione capitalistica. Camillo Benso conte di Cavour procla­mava l’assoluta necessità di stabilire il principio della carità legale: “Se ci vien fatto di dimostrare che la carità legale, applicata secondo questo princi­pio, può essere utilmente introdotta nelle società moderne, noi avremo tolto al comunismo i suoi più formidabili argomenti, e segnata la via a migliorare le sorti delle classi più numerose, senza mettere a repentaglio l’esistenza stessa dell’ordine sociale”.

La proporzione tra il salario pagato dal padrone e la par­te assistenziale compensata dalla parrocchia, o dallo stato, indica due cose: i. quanto il salario contrattuale si possa abbassare così sotto il suo minimo; ii. in che misura il lavoratore sia composto di “salariato” e di “povero”, trasformato in servo della fondazione parrocchiale “non profit” e dello stato assistenziale. “Fu questo un modo brillante per trasformare il lavoratore salariato in uno schiavo e il fiero libero yeoman di Shakespeare in un povero”. Dalla vecchia legge destinata soprattutto ai distretti agricoli, si passò alla nuo­va per gli operai dell’industria. E ora, potremmo aggiungere noi, all’ultima “legge sui nuovi poveri” per i lavoratori dei servizi – dai cosiddetti “lavori so­cialmente utili” alle nuove forme contrattuali (tempo parziale, ingresso, for­mazione, interinato, ecc.). Ma il criterio dell’inter­vento legislativo è sempre il medesimo: provvedere con l’assistenzialismo laddove il pauperismo divenga  permanente, anziché intermittente.

Se oggi, dunque, il tema del salario minimo è spesso associato a quello dei lavori socialmente utili o comunque a qualche altra forma di “garanzia”  per i disoccupati, rivolto prevalentemente a lavori non qualificati e non competiti­vi, di fronte alla crisi dell’industria inglese del secolo scorso i padroni aveva­no affrontato il problema sostituendo l’antica elemosina, il sussidio in denaro, con le “case di lavoro”. Lì le condizioni di lavoro e di vita (salario, mense, al­loggi, ecc.) erano molto peggiori di quelle normali degli occupati, nei cui con­fronti quindi l’accettazione del lavoro nelle “case” da parte dei disoccupati costituiva una gravissima minaccia di concorrenza: ed era ciò che appunto vo­levano i padroni. Tanto erano infami le condizioni che molti disoccupati, piut­tosto che andare nelle “case di lavoro”, preferivano compiere piccoli reati per finire in prigione, dove si dormiva e mangiava meno peggio! (“viva viva la galera, ci dà il pane verso sera!”, dice un vecchio proverbio carcerario romano). Forse per questo un ministro italiano della giustizia ha proposto i lavori socialmente utili come condanna alternativa al carcere!

È importante capire quale fosse la logica, già allora, della legge sui lavori pubblici. Essa era applicata attraverso il controllo esercitato da un Comitato d’assistenza in mano alla borghesia. Questa authority (così si chiamerebbe oggi) teneva d’occhio i lavoratori, offriva agli operai espulsi dalla fabbriche tutti i lavori di pubblica utilità, non qualificati, ai quali potessero essere adibi­ti (costruzione di strade, fogne, canalizzazioni, pavimentazioni, impianti idri­ci, ecc.) per ricevere in cambio il loro sussidio minimo dalle autorità. Nono­stante che l’aiuto da parte dello stato fosse invocato dai lavoratori stessi, in realtà – scrivevano i commentatori dell’epoca – quello era un sussidio agli in­dustriali. Infatti, se un salario vergognosamente misero fosse stato offerto a un disoccupato per un altro lavoro e il lavoratore non avesse voluto accettarlo, “perché il guadagno sarebbe stato soltanto nominale e il lavoro invece straor­dinariamente duro” (secondo il rapporto del­l’ispettorato del lavoro, 1863), il Comitato d’assistenza lo avrebbe escluso automaticamente dalla lista dei di­soccupati (clausole analoghe sono riproposte ancora adesso). Erano “tempi d’oro questi per i padroni – commenta Marx – in quanto i lavoratori erano co­stretti a morire di fame o a lavorare a qualsiasi prezzo che fosse più vantag­gioso ai borghesi: e i Comitati d’assistenza erano i loro cani da guardia”. [Giugni, Prodi, Treu, Mastella, Authority o Agenzie per il lavoro ... de te fabu­la narratur: va bene la convergenza d’intenti per lorsignori, ma non si capisce allora che c’entrino invece i comunisti con salario minimo e dintorni?].

Si lègge che la maggioranza dei lavoratori, ridotti alla fame e alla disperazio­ne, accettavano “volonterosamente” qualsiasi genere di lavoro pubblico. La legge prevedeva le forme di finanziamento pubblico, statale e locale, e le nor­me per l’esecuzione dei lavori. I signori borghesucci – osserva Marx – traeva­no da tale stato di cose un doppio profitto: i. ottenevano il denaro per l’esecu­zione delle opere a un interesse eccezionalmente basso; ii. davano ai lavorato­ri una retribuzione di gran lunga inferiore a un salario normale. Conseguenze analoghe si avevano a seguito di altri interventi assistenziali sul salario. Era il caso del “calmiere” sul prezzo del pane, gestito attraverso un fondo costituito emettendo obbligazioni garantite dal comune e coperte con raccolta di dazî locali in aggiunta ai trasferimenti di imposte erariali. Ancora una volta il ri­sultato era che la popolazione locale doveva pagare quel che risparmiava sul pane con maggiori imposte indirette e quella dell’intera nazione con la tassa sui poveri a favore della metropoli in cui il calmiere operava. L’esperimento si rivelò un fallimento completo, favorendo la speculazione nella raccolta dei fondi necessari e nella costruzione, in appalto, dei depositi di grano, il che comportò il conseguente rialzo del prezzo del pane: benché il decreto fosse presentato come “provvidenza socialista” per i proletari delle città.

Ecco di che pasta è fatto un simile “socialismo” assistenziale minimo! Vice­versa, era del tutto logico, da parte degli industriali, dedurre dal salario le sov­venzioni pubbliche ricevute dai lavoratori grazie alla legislazione “sociale”, considerandole come parte integrante del salario, che – per loro sì – era sicuramente già salario sociale. E questo è il punto: nell’e­satta teoria marxiana del salario (sociale) come valore globale di clas­se della forza-lavoro, se non si riesce a incidere positivamente su tale valore, ogni al­tra pretesa “garanzia” di maggior reddito non può che risolversi in un trasferi­mento da una voce salariale all’altra – ossia in un riprovevole e pacchiano gioco delle “tre carte”. È di un siffatto trucco che sembrano non avvedersi quanti, recentemente, nei movimenti di sinistra (partitici, sindacali, autorganizzati e di centri sociali) hanno fatto riapparire la rivendicazione del reddito garantito. Tra le varie ar­gomentazioni addotte c’è chi sostiene che tale forma di reddito costituirebbe una nuova forma di statuto per il cosiddetto “lavoratore postfordista”. Questi, infatti, nella sua condizione di precarietà generalizzata è privo di un luogo certo (la vecchia fabbrica) dove poter rendere effettive le norme di difesa dal­lo sfruttamento e dalla rappresaglia capitalistici. A fronte di questo problema il presunto “reddito garantito” servirebbe dunque a proteggere il singolo indi­pendentemente dal luogo determinato di occupazione, assicurandogli un “mi­nimo” di sostegno, una protezione di base.

Ma, a parte i problemi della composizione di classe generati dalle mutazioni indotte dalle recenti ristrutturazioni tecnologiche, ciò che è più importante è che le questioni salariali non sono facilmente raggirabili con cure che rischia­no di rendere cronica la malattia. Se immaginiamo infatti che si riesca a con­quistare un reddito minimo, da un punto di vista quantitativo, qualora tutte le altre variabili non mutino, si dovrebbe ottenere un’espansione del monte-salari (salari da lavoro più redditi garantiti), che richiederebbe una forza del proletariato che non sembra essere quella propria di una fase in cui i salariati disoccupati accedono sommessamente all’assistenza pubblica. La soglia minima del reddito garantito, dunque, sarebbe con ogni probabilità attratta verso il basso e sottoposta al ricatto dell’eliminazione del sussidio da un giorno all’altro. Sorgerebbero quindi inarrestabilmente lavori precari (più o meno neri) a più alto tasso di sfruttamento. Così la spaccatura tra lavoro e non lavoro non solo rimarrebbe insanata ma peggiorerebbe, non migliorando i rapporti di forza a favore della classe dei salariati. Inoltre, il permanere della classe in una posizione di divisione e di ricatto favorirebbe di certo anche la compressione dei salari da lavoro, ridimensionando il monte-salari che in pri­mo momento si presumeva in espansione. E così si ritornerebbe da capo a dodici con un plusvalore complessivo espanso, rapporti di forza sfavorevoli e salario sociale globale ridotto.

Da quanto detto risulta quindi chiaro che la parola d’ordine del reddito garan­tito, malgrado astrattamente possa essere considerata un mezzo per redistri­buire quote di plusvalore espropriato, nella realtà – non sanando la divisione tra lavoro e non lavoro – lascia i salari in balìa delle decurtazioni più selvagge sen­za poter opporre alcuna valida resistenza. Anzi, se il “salario minimo” si ac­compagna a forme di lavoro di massa non qualificato – come nelle antiche “case di lavoro” – la compressione dei salari normali al di sotto del valore del­la forza-lavoro diviene conseguenza immediata e necessaria della concorren­za di quelle forme di lavoro precario e sottopagato. Una volta espulsi dai luo­ghi di produzione del capitale – dove il salario minimo sia quello pienamente rispondente alla “norma” del rapporto salariale di vendita della forza-lavoro al suo valore – l’esercizio dell’antagonismo diventa più problematico e il suo esito massimamente incerto. Quale antagonismo può esercitare, di norma, un pensionato se non sfogarsi con l’impiegato della posta? Quale antagonismo esercitano i percettori di reddito assistito britannici se non una tragica rivolta ogni dieci anni?

Se si tiene giustamente conto della massa salariale sociale otteni­bile in base, da un lato, alla forza di classe rispetto, dall’altro, all’inevitabile trasferimen­to interno tra voci salariali allorché non si abbia la forza di accrescere quella massa, aggiungere alla parola d’ordine del “salario minimo garantito”, sgan­ciato dal lavoro salariato, quelle connesse con la prestazione di “lavori social­mente utili” in una “riduzione del tempo di lavoro” e della complessiva giornata lavorativa, è perfetta incoerenza e il truffaldino “gioco delle tre carte” è fatto! Dato che la pressione da esercitare sui profitti è sempre la stessa e il risultato che se ne ricava può essere speso o in riduzione del tempo di lavoro o in reddito sociale o in occupazione o nel recupero di livelli “normali” di salario, se tale pressione fosse capace di strap­pare il finanziamento del “reddito minimo garantito” per tutti i disoccupati tanto varrebbe finanziare la riduzione del tempo di lavoro a parità di salario sociale e di intensità lavorativa, con aumento dell’occupazione, anziché cercare di fuggire fuorimercato. È così facilmente dimostrato come i problemi del salario, da sempre e ancora oggi, non potreb­bero essere risolti con alcuna legislazione in materia di “reddito minimo ga­rantito”; in mancanza della pressione esercitata dalla conflittualità sociale, in­fatti, esso può solo erodere, e solo provvisoriamente, altre componenti del sala­rio sociale di classe anziché il plusvalore, in una forma di invisibile “solida­rietà coatta” tra poveri imposta e mascherata dalla forza e dagli interessi pa­dronali.


La “legge sui poveri” – sosteneva Ricardo, così come noi potremmo dire per ogni altra provvidenza assistenzialistica – tende fatalmente a “trasformare la ricchezza e la forza in miseria e debolezza”. Come detto, in luogo della lotta di classe su­bentra la “questione sociale” – la panacea del profeta Lassalle – o lo “stato so­ciale”, formule da giornalisti: asseriva Marx, il quale proseguiva osservando come, anziché da un processo di trasformazione rivoluzionaria della società, i lassalliani pretendevano che “l’organizzazione socialista di tutto il lavoro sorga dall’aiuto dello stato”, e credevano che si possa costruire una società nuova grazie all’assi­stenza statale, come si costruisce una ferrovia – “degna presunzione di Lassalle” e dei suoi posteri! Così pure Guesde ritenne necessario imporre alcune “inezie” ai lavoratori francesi, come il salario mini­mo stabilito per legge, tanto che Marx gli disse: “se il proletariato francese è ancora così infantile da aver bisogno di tali lusinghe, non vale neppure la pe­na di formulare un qualsiasi programma”. La cosa più scandalosa non è nell’a­ver inserito nel programma simili specifiche cure miracolose, ma nell’a­ver abbandonato il punto di vista del movimento di classe. E dire che già perfino i Cartisti rifiutavano gli aiuti esterni, l’ipocrisia delle belle promesse, chieden­do solo il potere di aiutarsi da sé. Di fronte alla crisi, l’assistenza spinge i lavoratori al­l’“e­goismo”, a non far nulla piuttosto che lavorare, all’isolamento sociale e politico e al qualunqui­smo, nonostante che il minimo di reddito “garantito” sia al disotto del valore normale della forza-lavoro “considerato dai lavoratori stessi come il minimo del salario. È per tale ragione che i sindacati non permettono mai ai loro ade­renti di lavorare per un salario inferiore al minimo” (J.T.Dunning, del sinda­cato rilegatori, 1860) [con la collaborazione di Antonio Brillanti].

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