*Da: http://www.gianfrancopala.tk/ (http://www.contraddizione.it/quiproquo.htm)
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole
groucho, moro, chico, harpo, zeppo
“Se
ci vien fatto di dimostrare che la carità legale, applicata secondo questo
principio, può essere utilmente introdotta nelle società moderne, noi avremo
tolto al comunismo i suoi più formidabili argomenti, e segnata la via a
migliorare le sorti delle classi più numerose, senza mettere a repentaglio
l’esistenza stessa dell’ordine sociale”
(Camillo Benso conte di Cavour)
Salario minimo garantito (reddito di cittadinanza)
Il carattere “sociale” e “minimo” del salario non deve
assolutamente essere frainteso. Vi sono difatti molti, oggigiorno, che
sull’onda delle mode riproduttive e fuori mercato, intendono con codesto tipo
di dizioni forme spurie di salario o reddito garantito dallo stato o da
altre istituzioni pubbliche, mediante prestazioni più o meno accessorie
fornite a lavoratori e disoccupati, donne e giovani, cittadini e utenti. Una
tal commistione di categorie, e meglio anzi sarebbe dire una tale lista di
attributi tra loro incongruenti, conduce a un pasticcio di rapporti di
forza, di lotta e di diritti, di assistenzialismo e di elemosina (quel
tipo di confusione concettuale “inetta e barbarica” sulla quale Hegel
ironizzava chiamandola “un ferro di legno”).
L’essere sociale e minimo del salario è invece
unicamente conseguenza dell’essere merce della forza-lavoro
entro il rapporto di capitale posto da questo modo della produzione
sociale. Non vi è spazio né teorico né storico, perciò, per confondere il
carattere sociale del salario con sole sue parti o con differenti forme assistenziali
cui le istituzioni borghesi saltuariamente provvedono per concessioni
parziali, né il suo livello minimo con analoghe forme assistenziali o contrattuali
che dànno veste legale all’ipocrita solidarietà della filantropia borghese.
Numerosissime sono le argomentazioni che consentono di chiarire questo equivoco, annoso ma sempre più invasivo nell’epoca della putrescenza del corpo imperialistico del capitale. Anzitutto, al relativo disinteresse di Marx per la questione della fissazione, legale o contrattuale, di un minimo salariale (al contrario, a es, dalla riduzione di orario nell’uso della forza-lavoro), che non fosse quello esattamente stabilito dalla legge del valore della forza-lavoro stessa, la quale già definisce il salario minimo, fa riscontro, sul piano teoretico, l’indicazione delle principali fonti di siffatta tematica. Da tali fonti si capisce in quale assurdità filantropica e utopica, se non addirittura ipocrita e interessata, dell’ideologia borghese, piccola e media o illuminata, laica o cristiana, consistesse la rivendicazione di un “salario minimo” garantito. Anche codesta trovata è perlopiù di provenienza francese; ieri, come oggi, è facile rintracciarla nelle varie apparizioni del proudhonismo vecchio e nuovo imperversante. Nondimeno essa, grazie alla precocità del capitalismo inglese, la si trova corroborata al di là della Manica.
Sicuramente una prima base, che ambirebbe essere “teorica”,
per sostenere tale trovata è appunto dovuta a Proudhon stesso. Proudhon, per
sottrarsi alla conseguenza fatale del fatto che il minimo del salario è il
prezzo “naturale” e normale della forza-lavoro viva, al fine di non accettare
lo stato attuale della società fa un voltafaccia e pretende che la forza-lavoro
stessa non sia una merce, ossia che non abbia un valore. Dimentica così, e si
prova a far dimenticare a chi si metta sulla sua strada, che è la forza-lavoro
come merce l’unica fonte immediata del reddito dei lavoratori. E sulla sua
strada ci si sono messi in tanti, nel socialismo piccolo borghese di ieri e di
oggi come nel filantropismo utopico e mistico della borghesia. Osserva Marx:
“Proudhon vuole librarsi come uomo di scienza al di sopra dei borghesi e dei
proletari, e non è che il piccolo borghese, al di sotto degli economisti
e al di sotto dei socialisti, poiché non ha né sufficienti lumi né sufficiente
coraggio, sballottato costantemente tra il capitale e il lavoro, tra
l’economia politica e il comunismo”. Se Proudhon fosse finito lì, nei suoi anni
di metà ottocento, non ci interesserebbe più di tanto. Senonché le sue
metastasi riaffiorano sempre più fitte nei programmi di diverse componenti
dell’’“asinistra”, attraverso i vari Keynes o Gorz o Rifkin o Bihr del momento.
Ecco allora che le sue tesi si ritrovano, insieme a un po’
di Saint-Simon e di Comte, presso un oscuro “socialista” belga dei suoi stessi
anni (ma non più oscuro di quanto potrà esserlo Gorz tra un secolo!), il barone
Jean Hyppolyte de Colins, che si dichiarava “antimaterialista”. Costui, al
posto delle classi, infatti, riproponeva il contrasto tra ricchi e
poveri, per risolvere il quale escogitava ricette magiche proudhoniane per la
distribuzione della terra, per le banche di credito senza interesse a favore
del popolo, per l’imposta sulla rendita, e via con l’interclassismo di una
società dipinta come una “grande famiglia”. Ma, per quello che qui più
interessa, salta fuori la specifica ricetta proudhoniana di un “reddito minimo”
(che si sarebbe poi trasformato in piccolo capitale per l’avvio di libere
attività professionali) da assicurare come apprendistato ai giovani che avessero
svolto lavori pubblici di utilità sociale. Non era una novità neppure allora –
gli ateliers nationaux di fourierista memoria erano già stati sepolti,
pur nella loro sicura maggior serietà, dati i tempi della storia – ma oggi poi!
E che dire allora del coevo tal conte von Ketteler, vescovo di Magonza, per il
quale “la questione operaia e il cristianesimo” si coniugavano proprio sul tema
dei lavori pubblici capaci di dare assicurazioni sui salari. Ci si potrebbe
dilungare assai facilmente sul proliferare di una tale oscura genìa di tanti
piccoli alchimisti sociali, pronti a risolvere i problemi dei poveri da
assistere, ma non si troverebbe un comunista e tanto meno un marxista (per non
dir di Marx), ma solo piccoli disarmati profeti laici o religiosi di stampo
borghese.
Per offrire perciò un quadro teorico di riferimento più
compiuto e organico conviene trasferire l’osservatorio nel luogo dello
sviluppo capitalistico moderno, dove anche il socialismo antimarxista ha
trovato un’espressione più analitica: l’Inghilterra. Occorre rifarsi alle “basi”
(così le chiamavano) del programma fabiano, radici del moderno laburismo (anche
quando esso si è presentato, e si presenta tuttora, a volte, usurpando il nome
di “comunismo” – tanto che una simile questione richiederà un chiarimento
specifico). Quelle “basi” furono formulate – giusto sùbito dopo la morte di
Marx – con un dichiarato intento di eliminare l’influenza marxista nel
movimento socialista, tanto sul piano politico quanto su quello scientifico:
ovviamente a cominciare dal rigetto della teoria del valore e delle classi.
Obiettivo mirato dell’attacco fabiano alla società esistente non era quindi il plusvalore
e il suo modo di produzione, bensì – udite, udite! – la “rendita” (nella
quale veniva incluso l’interesse, rendita finanziaria si direbbe oggi, ma non
il guadagno d’impresa) in chiave eminentemente di redistribuzione del reddito;
lo strumento principale per condurre tale attacco sarebbe stata la sua
“tassazione”, fino a far dissolvere il capitalismo per morte propria
(“eutanasia?”).
Del resto le “basi” fabiane concepivano esplicitamente il
socialismo come punto d’arrivo dell’evoluzione “spontanea” del capitalismo, il
suo compimento, da assecondare non con la lotta di classe ma con la “democrazia
sociale” e la “democrazia industriale”, con la propaganda e l’efficienza
amministrativa gerarchica affidata al “governo dei tecnici” (o “governabilità”,
si direbbe preferibilmente oggi). Non deve stupire, allora, che le fonti
teoriche di questo “socialismo” siano, oltre alla ricordata rendita ricardiana,
l’utilitarismo di Bentham, l’economia di Jevons e Stuart Mill, il falso
evoluzionismo darwiniano applicato alla società, e uno storicismo senza
rivoluzione. Può stupire semmai l’ingenuità di chi, ancora oggi, beve queste
chiacchiere che imbonitori della politica presentano come “comunismo”, magari
invocando insieme un incompatibile “ritorno a Marx”.
Non conviene approfondire qui la disamina delle posizioni
del socialismo antimarxista, ma basta definire sommariamente il quadro
del contesto culturale e della temperie politica in cui anche la “questione del
salario minimo” garantito per legge si sviluppò. I giovanotti “lib-lab”
[non credano i seguaci postmoderni di Micromega o di Limes che
quella etichetta l’abbiano coniata i Flores d’Arcais o i Galli della Loggia,
perché così si chiamavano i fabiani un secolo fa] intesero infatti affermare il
laburismo nascente dalla cosiddetta “permeazione” fabiana (una prova di
“entrismo”) nel partito liberale, facendo leva sul filantropismo umanitario e
sui princìpî etici del socialismo cristiano di contro all’allora prevalente
anglosassone radicalismo della responsabilità individuale. Diventò in
quel periodo una “moda” (soprattutto tra gli universitari, oltre che per i
fondatori di “missioni” e di eserciti della salvezza, ecc.) andare nei
sobborghi per aiutare i disoccupati e i poveri. “Questi idealisti borghesi –
scrive un borghese loro pari come G.D.H.Cole – non pensavano affatto all’instaurazione
del socialismo, ma a una riconciliazione tra le classi”, al fine di
ripristinare, seguendo un “impulso etico” a sostegno dei “miserabili”, un “livello
minimo di vita civile” – secondo la dizione cara all’aristocratica Beatrice
Potter in Webb.
Ecco: quello del “salario minimo” (insieme a un non meglio
definito “diritto al lavoro”, più consono all’etica protestante della “civiltà
del lavoro” che alla marxista conflittualità di classe per l’esistenza, e
all’appoggio ormai allora inevitabile alla campagna per le “otto ore”, ma
intese più sul versante culturale e morale che non materiale pratico) era il
principale slogan lib-lab. G.B.Shaw fu l’antesignano del “divorzio”
totale del reddito percepito dalla remunerazione per l’attività svolta (questa
è la “novità” gorziana del “reddito di cittadinanza”!), mentre il socialista
opportunista Hyndman si limitava a richiedere il reddito garantito come forma
di assistenza per i disoccupati impiegati nei lavori pubblici.
Essendo la caratteristica di tale forma di “reddito” quella di essere
svincolato dall’attività lavorativa e, soprattutto, dalla forma di merce della
forza-lavoro (come pure in quella sua forma particolare del “salario alle
casalinghe” di cui perfino il papa è giunto a essere fautore), con la bella
conseguenza di trasformare così un elemento antitetico e conflittuale del
proletariato – l’unico nella sua immediatezza – in un affidamento alla
filantropia del capitale e all’assistenzialismo statale, si può già cominciare
a capire perché Marx l’avversasse decisamente. Ma conviene ancora procedere con
ordine in tema di salario minimo garantito.
Fu il lib-lab Sidney Webb che propugnò per primo
sistematicamente l’assistenza pubblica ai disoccupati con la creazione di posti
di lavoro a salario minimo garantito (per lavori industriali
privati, razionalmente organizzati) e lavori pubblici (ma limitati a manodopera
non qualificata, perché ritenuti inefficienti). Insieme a altre proposte di
carattere assistenziale quei due punti costituivano il cardine del futuro “welfare
state”, come prodromi del cosiddetto “stato sociale”, che oggi i
comunisti si ritrovano tra i piedi in tutte le occasioni nel nome di un
improbabile “keynesismo-di-sinistra” o di un assurdo “keynesomarxismo”. Finché
si trattasse di vederlo come senso di colpa di giovani intellettuali liberali
che moralisticamente anelavano a un “livello minimo di civiltà”, facendo
appello alla carità pelosa dei loro anziani borghesi, sarebbe anche
comprensibile (tuttavia non accettabile); ma dal punto di vista della lotta
di classe del proletariato tutto ciò non va al di là di un semplice “acconto”,
come diceva Engels, su quanto, assai di più, la borghesia deve ai lavoratori.
L’occasione di codeste proposte webbiane fu offerta dalla
battaglia parlamentare per l’abolizione della vecchia “legge sui poveri” del
1834 – per cancellare l’“onta” della definizione di “povero”, fu peraltro la
motivazione moralistica addotta dallo stesso Webb (e l’idea ha fatto strada se
oggi i poveracci sono eufemisticamente chiamati, in negativo, “non abbienti” e
“meno favoriti”!). Quella legge – come si può riscontrare su qualsiasi serio
libro di storia dell’industria e del movimento operaio – colpiva duramente gli
operai dell’industria con la concorrenza dei disoccupati: “i capitalisti
industriali, padroni del parlamento – scrive Dolléans – hanno fatto votare la
legge sui poveri per deprimere i salari e procurare manodopera a buon mercato.
Il diritto all’assistenza è un’assicurazione contratta dai ricchi: la sicurezza
concessa ai poveri garantisce ai ricchi il rispetto della loro proprietà”.
Inoltre la borghesia fa la beneficenza – l’infame beneficenza di un borghese
cristiano!, esclama Engels – come un affare per comprarsi anche il
“diritto” alla propria tranquillità, per “esser preservati da sgradevoli e
impudenti molestie” (come scrive una “signora” borghese, della quale Engels
sottolinea la mancanza di coraggio di chiamarsi ancora “donna”).
Le leggi sui poveri di un tempo, come tutte le leggi di
stampo assistenzialistico fino alle più recenti proposte di “salario minimo o
reddito garantito”, rientrano nella più generale legislazione sul lavoro
salariato. Marx ricorda che la forma stessa di “statuto” o “carta” dei diritti
dei lavoratori quale “pomposo catalogo dei diritti inalienabili dell’uomo”,
fin dalla nascita è coniata per lo sfruttamento del lavoratore e gli è sempre
ugualmente ostile [il primo statuto dei lavoratori fu promulgato in Inghilterra
da Edoardo III (1349)]. Del resto, anche Smith, insospettabile padre del liberismo
borghese, sapeva che “tutte le volte che il legislatore tenta di regolare le
differenze fra i padroni e i loro operai, i suoi consiglieri sono sempre i
padroni”. Infatti, le leggi sulla regolamentazione dei salari vengono
considerate una “anomalia ridicola”, e abolite, non appena i capitalisti siano
in grado di regolare l’impresa con la loro “legislazione privata”, facendo
integrare con la tassa sui poveri (o con altri marchingegni giuridici:
minimo garantito, indennità di disoccupazione, cassa integrazione,
fiscalizzazione di oneri sociali, imposta negativa, ecc.) il salario fino al
minimo indispensabile, a esclusivo vantaggio dei rapporti di forza padronali.
Non è un caso che oggi un liberale conservatore reazionario come Milton
Friedman, l’economista ispiratore della reaganomics, si sia pronunciato
a favore di una forma di “salario minimo garantito” mediante il meccanismo
dell’imposta negativa. Stabilito un minimo, tutti coloro che
percepiscono un reddito superiore a questo, pagano le imposte, gli altri
ricevono un’integrazione dallo stato. In questo modo il capitale dei paesi più
sviluppati accetta un sistema di gestione della disoccupazione che
perpetui la spaccatura tra lavoro e non lavoro favorendo la pace sociale.
La storia è prodiga di insegnamenti del genere (e non si
dica che la fattispecie delle antiche “leggi sui poveri” è distante dalle
esperienze e proposte più recenti: si tratta di comprenderne appieno la
tipologia). Ancora Marx, a proposito della più vecchia legge inglese sui
poveri del seicento, commenta così: “Per salvare i comodi della nostra
santissima religione dagli assalti dei miscredenti francesi, gli onesti agrari
inglesi ridussero i salari dei lavoratori agricoli persino al di sotto del minimo
puramente fisico, e fecero aggiungere, mediante la legge sui poveri,
il rimanente necessario per la conservazione fisica della razza”. Grazie a
quella legge, la parrocchia integrava il salario nominale sotto forma di
elemosina fino alla somma minima necessaria per la riproduzione della
forza-lavoro. Del resto le virtù della carità pubblica per il mantenimento
dell’ordine sociale sono ben note, oltre che al parroco, ad ogni sobrio
difensore dell’accumulazione capitalistica. Camillo Benso conte di Cavour
proclamava l’assoluta necessità di stabilire il principio della carità legale:
“Se ci vien fatto di dimostrare che la carità legale, applicata secondo questo
principio, può essere utilmente introdotta nelle società moderne, noi avremo
tolto al comunismo i suoi più formidabili argomenti, e segnata la via a
migliorare le sorti delle classi più numerose, senza mettere a repentaglio l’esistenza
stessa dell’ordine sociale”.
La proporzione tra il salario pagato dal padrone e la parte
assistenziale compensata dalla parrocchia, o dallo stato, indica due cose: i.
quanto il salario contrattuale si possa abbassare così sotto il suo minimo; ii.
in che misura il lavoratore sia composto di “salariato” e di “povero”,
trasformato in servo della fondazione parrocchiale “non profit” e
dello stato assistenziale. “Fu questo un modo brillante per trasformare il
lavoratore salariato in uno schiavo e il fiero libero yeoman di
Shakespeare in un povero”. Dalla vecchia legge destinata soprattutto ai
distretti agricoli, si passò alla nuova per gli operai dell’industria. E ora,
potremmo aggiungere noi, all’ultima “legge sui nuovi poveri” per i lavoratori
dei servizi – dai cosiddetti “lavori socialmente utili” alle nuove forme
contrattuali (tempo parziale, ingresso, formazione, interinato, ecc.). Ma il
criterio dell’intervento legislativo è sempre il medesimo: provvedere con
l’assistenzialismo laddove il pauperismo divenga permanente, anziché intermittente.
Se oggi, dunque, il tema del salario minimo è spesso
associato a quello dei lavori socialmente utili o comunque a qualche altra
forma di “garanzia” per i disoccupati,
rivolto prevalentemente a lavori non qualificati e non competitivi, di fronte
alla crisi dell’industria inglese del secolo scorso i padroni avevano
affrontato il problema sostituendo l’antica elemosina, il sussidio in denaro,
con le “case di lavoro”. Lì le condizioni di lavoro e di vita (salario, mense,
alloggi, ecc.) erano molto peggiori di quelle normali degli occupati, nei cui
confronti quindi l’accettazione del lavoro nelle “case” da parte dei
disoccupati costituiva una gravissima minaccia di concorrenza: ed era ciò che
appunto volevano i padroni. Tanto erano infami le condizioni che molti
disoccupati, piuttosto che andare nelle “case di lavoro”, preferivano compiere
piccoli reati per finire in prigione, dove si dormiva e mangiava meno peggio!
(“viva viva la galera, ci dà il pane verso sera!”, dice un vecchio proverbio
carcerario romano). Forse per questo un ministro italiano della giustizia ha
proposto i lavori socialmente utili come condanna alternativa al carcere!
È importante capire quale fosse la logica, già allora, della
legge sui lavori pubblici. Essa era applicata attraverso il controllo
esercitato da un Comitato d’assistenza in mano alla borghesia. Questa authority
(così si chiamerebbe oggi) teneva d’occhio i lavoratori, offriva agli operai
espulsi dalla fabbriche tutti i lavori di pubblica utilità, non qualificati, ai
quali potessero essere adibiti (costruzione di strade, fogne, canalizzazioni,
pavimentazioni, impianti idrici, ecc.) per ricevere in cambio il loro sussidio
minimo dalle autorità. Nonostante che l’aiuto da parte dello stato fosse
invocato dai lavoratori stessi, in realtà – scrivevano i commentatori
dell’epoca – quello era un sussidio agli industriali. Infatti, se un salario
vergognosamente misero fosse stato offerto a un disoccupato per un altro lavoro
e il lavoratore non avesse voluto accettarlo, “perché il guadagno sarebbe stato
soltanto nominale e il lavoro invece straordinariamente duro” (secondo il
rapporto dell’ispettorato del lavoro, 1863), il Comitato d’assistenza lo
avrebbe escluso automaticamente dalla lista dei disoccupati (clausole analoghe
sono riproposte ancora adesso). Erano “tempi d’oro questi per i padroni –
commenta Marx – in quanto i lavoratori erano costretti a morire di fame o a
lavorare a qualsiasi prezzo che fosse più vantaggioso ai borghesi: e i
Comitati d’assistenza erano i loro cani da guardia”. [Giugni, Prodi, Treu,
Mastella, Authority o Agenzie per il lavoro ... de te fabula
narratur: va bene la convergenza d’intenti per lorsignori, ma non si
capisce allora che c’entrino invece i comunisti con salario minimo e
dintorni?].
Si lègge che la maggioranza dei lavoratori, ridotti alla
fame e alla disperazione, accettavano “volonterosamente” qualsiasi genere di
lavoro pubblico. La legge prevedeva le forme di finanziamento pubblico, statale
e locale, e le norme per l’esecuzione dei lavori. I signori borghesucci –
osserva Marx – traevano da tale stato di cose un doppio profitto: i.
ottenevano il denaro per l’esecuzione delle opere a un interesse
eccezionalmente basso; ii. davano ai lavoratori una retribuzione di
gran lunga inferiore a un salario normale. Conseguenze analoghe si avevano a
seguito di altri interventi assistenziali sul salario. Era il caso del
“calmiere” sul prezzo del pane, gestito attraverso un fondo costituito
emettendo obbligazioni garantite dal comune e coperte con raccolta di dazî
locali in aggiunta ai trasferimenti di imposte erariali. Ancora una volta il risultato
era che la popolazione locale doveva pagare quel che risparmiava sul
pane con maggiori imposte indirette e quella dell’intera nazione con la
tassa sui poveri a favore della metropoli in cui il calmiere operava.
L’esperimento si rivelò un fallimento completo, favorendo la speculazione nella
raccolta dei fondi necessari e nella costruzione, in appalto, dei depositi di
grano, il che comportò il conseguente rialzo del prezzo del pane: benché il
decreto fosse presentato come “provvidenza socialista” per i proletari delle
città.
Ecco di che pasta è fatto un simile “socialismo”
assistenziale minimo! Viceversa, era del tutto logico, da parte degli
industriali, dedurre dal salario le sovvenzioni pubbliche ricevute dai
lavoratori grazie alla legislazione “sociale”, considerandole come parte
integrante del salario, che – per loro sì – era sicuramente già salario
sociale. E questo è il punto: nell’esatta teoria marxiana del salario
(sociale) come valore globale di classe della forza-lavoro, se non si riesce a
incidere positivamente su tale valore, ogni altra pretesa “garanzia” di
maggior reddito non può che risolversi in un trasferimento da una voce
salariale all’altra – ossia in un riprovevole e pacchiano gioco delle “tre
carte”. È di un siffatto trucco che sembrano non avvedersi quanti,
recentemente, nei movimenti di sinistra (partitici, sindacali, autorganizzati e
di centri sociali) hanno fatto riapparire la rivendicazione del reddito
garantito. Tra le varie argomentazioni addotte c’è chi sostiene che tale
forma di reddito costituirebbe una nuova forma di statuto per il
cosiddetto “lavoratore postfordista”. Questi, infatti, nella sua condizione di
precarietà generalizzata è privo di un luogo certo (la vecchia fabbrica) dove
poter rendere effettive le norme di difesa dallo sfruttamento e dalla
rappresaglia capitalistici. A fronte di questo problema il presunto “reddito
garantito” servirebbe dunque a proteggere il singolo indipendentemente dal
luogo determinato di occupazione, assicurandogli un “minimo” di
sostegno, una protezione di base.
Ma, a parte i problemi della composizione di classe generati
dalle mutazioni indotte dalle recenti ristrutturazioni tecnologiche, ciò che è
più importante è che le questioni salariali non sono facilmente raggirabili con
cure che rischiano di rendere cronica la malattia. Se immaginiamo infatti che
si riesca a conquistare un reddito minimo, da un punto di vista
quantitativo, qualora tutte le altre variabili non mutino, si dovrebbe ottenere
un’espansione del monte-salari (salari da lavoro più redditi garantiti), che
richiederebbe una forza del proletariato che non sembra essere quella propria
di una fase in cui i salariati disoccupati accedono sommessamente
all’assistenza pubblica. La soglia minima del reddito garantito, dunque,
sarebbe con ogni probabilità attratta verso il basso e sottoposta al ricatto
dell’eliminazione del sussidio da un giorno all’altro. Sorgerebbero quindi
inarrestabilmente lavori precari (più o meno neri) a più alto tasso di
sfruttamento. Così la spaccatura tra lavoro e non lavoro non solo rimarrebbe insanata
ma peggiorerebbe, non migliorando i rapporti di forza a favore della classe dei
salariati. Inoltre, il permanere della classe in una posizione di divisione e
di ricatto favorirebbe di certo anche la compressione dei salari da lavoro,
ridimensionando il monte-salari che in primo momento si presumeva in
espansione. E così si ritornerebbe da capo a dodici con un plusvalore
complessivo espanso, rapporti di forza sfavorevoli e salario sociale globale
ridotto.
Da quanto detto risulta quindi chiaro che la parola d’ordine
del reddito garantito, malgrado astrattamente possa essere considerata un
mezzo per redistribuire quote di plusvalore espropriato, nella realtà – non
sanando la divisione tra lavoro e non lavoro – lascia i salari in balìa delle
decurtazioni più selvagge senza poter opporre alcuna valida resistenza. Anzi,
se il “salario minimo” si accompagna a forme di lavoro di massa non
qualificato – come nelle antiche “case di lavoro” – la compressione dei salari
normali al di sotto del valore della forza-lavoro diviene conseguenza
immediata e necessaria della concorrenza di quelle forme di lavoro precario e
sottopagato. Una volta espulsi dai luoghi di produzione del capitale – dove il
salario minimo sia quello pienamente rispondente alla “norma” del rapporto
salariale di vendita della forza-lavoro al suo valore – l’esercizio
dell’antagonismo diventa più problematico e il suo esito massimamente incerto.
Quale antagonismo può esercitare, di norma, un pensionato se non sfogarsi con
l’impiegato della posta? Quale antagonismo esercitano i percettori di reddito
assistito britannici se non una tragica rivolta ogni dieci anni?
Se si tiene giustamente conto della massa salariale sociale
ottenibile in base, da un lato, alla forza di classe rispetto, dall’altro,
all’inevitabile trasferimento interno tra voci salariali allorché non si abbia
la forza di accrescere quella massa, aggiungere alla parola d’ordine del
“salario minimo garantito”, sganciato dal lavoro salariato, quelle connesse
con la prestazione di “lavori socialmente utili” in una “riduzione del tempo
di lavoro” e della complessiva giornata lavorativa, è perfetta
incoerenza e il truffaldino “gioco delle tre carte” è fatto! Dato che la
pressione da esercitare sui profitti è sempre la stessa e il risultato che se
ne ricava può essere speso o in riduzione del tempo di lavoro o in reddito
sociale o in occupazione o nel recupero di livelli “normali” di salario, se
tale pressione fosse capace di strappare il finanziamento del “reddito minimo
garantito” per tutti i disoccupati tanto varrebbe finanziare la riduzione del
tempo di lavoro a parità di salario sociale e di intensità lavorativa, con
aumento dell’occupazione, anziché cercare di fuggire fuorimercato. È
così facilmente dimostrato come i problemi del salario, da sempre e ancora
oggi, non potrebbero essere risolti con alcuna legislazione in materia di
“reddito minimo garantito”; in mancanza della pressione esercitata dalla
conflittualità sociale, infatti, esso può solo erodere, e solo provvisoriamente,
altre componenti del salario sociale di classe anziché il plusvalore,
in una forma di invisibile “solidarietà coatta” tra poveri imposta e
mascherata dalla forza e dagli interessi padronali.
La “legge sui poveri” – sosteneva Ricardo, così come noi potremmo
dire per ogni altra provvidenza assistenzialistica – tende fatalmente a
“trasformare la ricchezza e la forza in miseria e debolezza”. Come detto, in
luogo della lotta di classe subentra la “questione sociale” – la
panacea del profeta Lassalle – o lo “stato sociale”, formule da giornalisti:
asseriva Marx, il quale proseguiva osservando come, anziché da un processo di
trasformazione rivoluzionaria della società, i lassalliani pretendevano che
“l’organizzazione socialista di tutto il lavoro sorga dall’aiuto dello stato”,
e credevano che si possa costruire una società nuova grazie all’assistenza
statale, come si costruisce una ferrovia – “degna presunzione di Lassalle” e
dei suoi posteri! Così pure Guesde ritenne necessario imporre alcune “inezie”
ai lavoratori francesi, come il salario minimo stabilito per legge,
tanto che Marx gli disse: “se il proletariato francese è ancora così infantile
da aver bisogno di tali lusinghe, non vale neppure la pena di formulare un
qualsiasi programma”. La cosa più scandalosa non è nell’aver inserito nel
programma simili specifiche cure miracolose, ma nell’aver abbandonato il punto
di vista del movimento di classe. E dire che già perfino i Cartisti
rifiutavano gli aiuti esterni, l’ipocrisia delle belle promesse, chiedendo
solo il potere di aiutarsi da sé. Di fronte alla crisi,
l’assistenza spinge i lavoratori all’“egoismo”, a non far nulla piuttosto che
lavorare, all’isolamento sociale e politico e al qualunquismo, nonostante che
il minimo di reddito “garantito” sia al disotto del valore normale della
forza-lavoro “considerato dai lavoratori stessi come il minimo del salario.
È per tale ragione che i sindacati non permettono mai ai loro aderenti di
lavorare per un salario inferiore al minimo” (J.T.Dunning, del sindacato
rilegatori, 1860) [con la collaborazione di Antonio Brillanti].
Nessun commento:
Posta un commento