sabato 12 dicembre 2015

IL CAPITALE: CAPOLAVORO SCONOSCIUTO - a mo’ di allegoria da Balzac - per Marx* - Gianfranco Pala

*Da:   http://www.gianfrancopala.tk/

 Édouard Frenhofer è il personaggio del pittore protagonista del racconto filosofico di Honoré de Balzac Le chef-d’œuvre inconnu [1831]; allievo del pittore fiammingo Jan Gossært, detto Mabuse (del XV secolo); dice di aver lavorato una decina di anni a un dipinto (il ritratto vagheggiato della donna desiderata) che non esita a definire un “capolavoro”, ma che si rifiuta di mostrare, nascondendolo sotto una coperta. In quel racconto fantastico, a due giovani pittori realmente esistiti – Frenhofer, vecchio artista creato da Balzac stesso – narra di codesto Capolavoro sconosciuto: alla sua stesura come romanzo, fino al 1847, anche Balzac lavorò ossessivamente per sedici anni, come per quel ritratto affinché rappresentasse la realtà. Così entrambi – quadro e romanzo – sono diventati presto una leggenda, descrivendo la costante tensione dell’artista alla ricerca della perfezione nell’aspirazione a una completa trasposizione del reale: “la missione dell’arte non è copiare la natura, ma esprimerla!” – spiega Frenhofer\Balzac rivolto ai più giovani. Ma alla fine quel di­svelamento da parte del pittore sembrò rivelare un quadro del tutto inaspettato; sì che un allievo esclamò: “io qui vedo soltanto dei colori confusamente ammassati, e delimitati da una moltitudine di linee bizzarre che formano una muraglia di pittura”: ma un quadro che, poiché il suo processo di produzione s’identifica con il suo stato compiuto di opera, rappresenterebbe da solo il quadro assoluto

 Pertanto accortosi tardivamente che costoro non comprendevano la sua arte, frutto di continue ricerche e riflessioni, Frenhofer cadde in una profonda sconsolazione e scacciò i suoi ospiti. Si lasciò morire nella notte, dopo aver bruciato tutti i suoi dipinti: ma Balzac ben sapeva che lo Chef-d’œuvre inconnu parla ancora oggi di un genio assoluto. Peggy Guggenheim, da ultima, ha avuto il merito di scoprire un “pittore sconosciuto”, Jackson Pollock, al quale commissionò un enorme quadro per la propria villa di New York. Pollock, chiuso nel suo laboratorio, depresso e abitualmente confuso dall’alcool, era incapace di affrontare la tela posta su un cavalletto. Sicché buttò la grande tela sul pavimento, a suo completo agio e, ballandole sopra “sgocciolò” i colori su di essa in maniera solo apparentemente caotica: si trovò così al cospetto di un “capolavoro sco­nosciuto”. Dichiarò più tardi in altra occasione che “un critico ha detto che i miei dipinti non avevano né inizio né fine. Non lo ha scritto come un complimento, ma lo era”. Proprio con la medesima angoscia di Frenhofer per il suo capolavoro del dipinto di cui narra Balzac. Non a caso, forse, anche Pollock morì, ebbro probabilmente anche per la generale incomprensione della sua opera, sbattendo alla guida della sua auto (come l’anno prima James Dean): fu la sua fine, come quella del racconto balzachiano con la morte di Frenhofer insieme alle sue tele. Nel quadro folle di Pollock si ritroverebbe nuovamente il Capolavoro sconosciuto di Balzac. Il quadro non è più la finestra trasparente aperta sullo spazio illusorio delle apparenze dipinte. Ma non è nemmeno un muro di pittura – non tanto il mural, quanto la “muraglia” di pittura evocata da Balzac dove nel quadro lo sguardo può soltanto “intravedere”, come ha osservato Louis Marin sullo spazio di Pollock.

 Ma per primo a immedesimarsi in Frenhofer, il genio tormentato e perdente; attraverso le continue modifiche ai quadri, fu Paul Cézanne; anche lui non ne cancellava mai il senso ma lo conservava in esse. Poi anche Pablo Picasso rimase molto colpito dal racconto di Balzac, tanto che mise il suo studio (dove si dice che dipinse Guernìca) allo stesso indirizzo parigino in cui era ambientato il romanzo su Frenhofer. Picasso declinò l’invito esplicito del suo amico Ambroise Vollard – mercante d’arte anche di altri importanti artisti come Paul Cézanne, Paul Gauguin e Vincent Van Gogh – di fare appositamente dei disegni per la riedizione del romanzo di Balzac: ma Vollard non si perse d’animo e per la nuova stampa francese [1931, esattamente un secolo dopo la prima edizione] dello Chef-d’œuvre inconnu poté utilizzare alcuni disegni preesistenti di Picasso, che a qualcuno ricordano gli scarabocchi complicatissimi dei manoscritti di Marx [cfr. a es. il disegno di Picasso qui sopra posto sotto il titolo, nella riedizione che poi fu pubblicata anche in italiano da Aragno, Torino 2012].

 Balzac, tuttavia e si sa, non era un pittore ma un letterato e un profondo conoscitore della società francese della prima metà del XIX secolo: per “fare concorrenza allo stato civile” [parole sue]. Dunque la sua riflessione è rivolta in generale non solo all’arte, non tanto alla pittura (occasionalmente di Frenhofer) oppure anche alla sua stessa letteratura, quanto soprattutto alla realtà sociale osservata nella Francia di transizione dal­l’ancien règime alla borghesia parassitaria, corrotta e speculatrice, affarista e monetaria della momentanea restaurazione in vista della formazione del capitale. Un’analisi in cui anche la scienza oltre che l’arte deve – come dice Frenhofer\Balzac rivolto ai più giovani – riuscire a rendere una completa trasposizione del reale: “la missione non è copiare la natura, ma esprimerla!”.

 Per Karl Marx il motivo principale che lo ha portato a entusiarmarsi per Il capolavoro sconosciuto di Balzac era precisamente lui stesso: la sua era ammirazione per Balzac in generale, giacché quest’ultimo aveva presentito che poteva accadere d’imbattersi in qualcosa di gigantesco di cui nessuno era in grado di venire a capo. E siccome noi sappiamo che è andata proprio così per Il capitale di Marx, non possiamo evitare il riferimento diretto – in nome del marxismo – all’allegoria balzachiana. Senonché Marx non ha mai dubitato dell’oggetto della propria ricerca e opera condotta a séguito di incessanti ricerche; non ha avuto bisogno di guardare a lungo per vedere e non ha avuto alcun bisogno, al pari di Balzac, di vivere prima quello che voleva scrivere. Però i suoi lettori, e anche molti studiosi formali – “marxologi” ma non marxisti – sono rimasti confusi e disorientati dalla sua colossale opera, al punto che si sono persuasi in numero sempre crescente che fosse meglio abbandonare l’intero argomento, ritenuto <troppo difficile>, rimanendo nell’ignoranza della realtà: “l’ignoranza non ha mai giovato a nessuno!” – scriveva Marx. Anche il suo “piano di lavoro” ha subito nel tempo via via continue modifiche, come era da attendersi per una grandiosa opera geniale: grosso modo tale piano doveva comprendere sei parti, ossia capitale (con appendice per l’intero capitale delle sue forme storiche determinate), rendita fondiarialavoro salariato e, infine, le restanti tre parti del piano su statocommercio esteromercato mondiale. Ovviamente anche ognuna delle altre cinque parti doveva essere articolata in varie tematiche tutte fondate su rigorose specifiche ricerche (oltre a valore, plusvalore, denaro, prezzi, circolazione, macchine, classi sociali; redditi, imposte, origine della rendita, forme del salario; debito pubblico, istituzioni, fisco; scambi internazionali, corso dei cambi; concorrenza, totalità del mercato; ecc., tanto per fare alcuni esempi — cioè quelle abbozzate nei quattro libri, di cui solo il primo definito, del Capitale: pertanto sono contabilmente almeno otto, più loro articolazioni, le parti incompiute del piano).

 Già qualche anno prima di arzigogolare intorno a questo suo capolavoro, Marx cominciando a mettere da parte i materiali preliminari disse all’editore di Per la critica dell’economia politica di non volerla pubblicare prima di averla potuta rivedere un’altra volta, anche perché “non c’è bisogno di dire che uno scrittore che lavora continuamente non può sei mesi dopo, pubblicare parola per parola quel che ha scritto sei mesi prima”. Quel capitalismo, di cui voleva dare il ritratto d’insieme, gli si modificava costantemente, sotto gli occhi. Il tentativo della teoria complessiva del Capitale era già destinato a rimanere incompiuto. Ebbene, Marx impiegò giorno e notte per diciassette anni (più di Frenhofer\Balzac), nell’esilio londinese prevalentemente alla biblioteca del British museum, per riuscire, come detto, appena a pubblicare ufficialmente solo, sui quattro previsti, il primo libro, “Il processo di produzione del capitale”,della prima delle sei parti previste per l’intera opera “per la critica dell’economia politica” – ossia numericamente ½4 del totale, non potendo presumere la mole delle pagine che l’esposizione finale di tutto il materiale avrebbe potuto occupare – in perfetta linea con l’inachevé (come dicono i francesi) di un “capolavoro” incompiuto destinato a rimanere “sconosciuto”. Per giunta negli anni a seguire continuò a rivedere ancora pure il solo testo già pubblicato (dove c’erano, sì, cenni preliminari soltanto come sommarie anticipazioni a quanto però doveva essere sviluppato compiutamente nelle successive cinque parti specifiche) e a scrivere quaderni e quaderni di appunti che dovevano servire sia per la prima parte incompiuta (compresa quella relativa al cosiddetto quarto libro “storico” – le teorie sul plusvalore – oltre a quelli che costituivano la base grezza del secondo libro “Il processo di circolazione del capitale” e del terzo “Il processo complessivo della produzione capitalistica”).

 È lui che ha avuto ragione – anche se già allora erano assillanti l’ignoranza di massa e la perdita della memoria storica che l’hanno circondato per tutta la sua vita (e oltre, proseguendo lo sono tuttora e in forme sempre più arrogantemente aggressive) – cercando disperatamente di ripetere che a tutti occorre vedere e conoscere la realtà materiale e spirituale della società, per analizzarla, piuttosto che adagiarsi nella sua propria maestria. Come Frenhofer\Balzac, anche Marx può essere visto come un conoscitore della realtà in anticipo sui tempi, analizzata nel Capitale che oltre a essere un classico dell’economia misconosciuto – qua e là con rari rimorsi e sensi di inferiorità da parte del potere e dai suoi cospicui <intellettuali> – è poco a poco diventato anche un classico letterario. È per tutto ciò che Marx (oltre che Eschilo, Dante, Shakespeare, Gœthe, Diderot, Hegel) ammirava Balzac sopra ogni altro autore, giacché quello era un visionario che lo precorse di meno di vent’anni. In effetti Balzac non fece che constatare quello che Marx, da suo grande ammiratore qual era, discusse poi nel Capitale. Per Marx non si è trattato di un’ossessione, ma di una diagnosi, sia nel contenuto della realtà sociale osservata, sia nelle modalità di scrittura e riscrittura interminabile, con le infinite stesure di quel Capitale che è appunto il suo capolavoro sconosciuto.

 Il racconto di Frenhofer, dunque in questo senso, Marx lo ha raccordato con l’urgenza di rivedere e correggere il lavoro già fatto, di non finirlo mai, senza per questo abbandonarlo e giammai per cancellarlo nelle sue revisioni: lasciarlo sempre “incompiuto” (inachevé, per ripeterlo in francese, e con Balzac pure inconnu) ma intrecciato con la raffigurazione di tante altre immagini, pur sapendo che così aumentava il rischio di suscitare una crescente incapacità da parte del pubblico di riconoscere e apprezzare la rivoluzionaria originalità di un genio. Esattamente ciò che proprio Frenhofer\Balzac sperimentò con quell’incomprensione da parte dei giovani allievi di fronte a un’opera della quale costoro non riconoscevano i segni, ormai confusi per le continue correzioni, e che indusse Balzac ad accompagnare Frenhofer a una morte tormentata. Frenhofer\ Balzac doveva avere “una forza di pensiero straordinaria per afferrare la realtà e un’arte non meno straordinaria per rappresentare ciò che vedeva e voleva che si vedesse. Mai era contento del suo lavoro, continuava a modificarlo e trovava sempre che la rappresentazione rimaneva al di sotto dell’immaginazione”. Continuano sempre le testimonianze di Paul Lafargue su Marx rammentando che la storia narrata da Balzac nel Capolavoro sconosciuto “gli fece una profonda impressione perché descriveva in parte i suoi stessi sentimenti”. Lì “un pittore geniale è talmente tormentato dal desiderio di rappresentare le cose nel modo preciso in cui si rispecchiano nel suo cervello che continua a limare e ritoccare il suo quadro”, qui è lo scienziato che analizza il modo di produzione capitalistico nella sua totalità che alla fine al pari dell’altro produce una massa enorme di rappresentazioni in cui la sua mente è affascinata al punto che vede “la più perfetta riproduzione della realtà”. Ancora Lafargue spiega che “era profonda la sua ammirazione per Balzac, il quale ha studiato tutte le sfumature dell’avarizia”, quando l’avaro, già “rimbambito comincia a farsi un tesoro ammucchiando merci”. E “Balzac non fu solo lo storico della società della sua epoca ma anche il creatore profetico di personaggi che sotto Luigi Filippo si trovavano ancora in uno stato embrionale e raggiunsero il loro pieno sviluppo soltanto dopo la morte di costui, sotto Napoleone III”.

 Siccome l’economia politica presenta il capitalista come “possessore del plusprodotto”, l’espressione che tutto il capitale presente è interesse accumulato o capitalizzato, è semplicemente un’altra forma dello stesso modo di considerare le cose, poiché l’interesse è un semplice frammento del plusvalore. Balzac, che eccelle in generale per la profonda comprensione dei rapporti reali, descrive, a es., molto cautamente come il piccolo contadino, al fine di conservare la benevolenza del suo usuraio, presti a quest’ultimo gratuitamente servizi di ogni genere senza supporre di donargli alcunché, in quanto il suo lavoro personale non gli costa nessun esborso in danaro. Fu Karl Marx stesso che sollecitò Engels perché leggesse il racconto di Balzac Le chef-d’œuvre inconnu: infatti il 25 febbraio 1867, giusto poco prima di consegnare alle stampe il primo [e unico] libro del Capitale, Marx scrisse a Engels suggerendogli di leggere il racconto di Balzac, “pieno di deliziosa ironia”. Anzi, verrebbe da dire, anche di autocritica, perché a entrambi – Balzac e Marx – rispetto al protagonista del racconto potrebbe esser loro venuta in mente una certa qual disposizione a identificarsi con quella storia. L’espressione figurata di essa, che per vie traverse accomuna dunque Frenhofer\Balzac e Marx indica che se si vuole fornire la rappresentazione completa della realtà alla ricerca della perfezione, ci si può accorgere – giorno dopo giorno ma alla fine quasi improvvisamente – che il risultato, a forza di ritocchi e perfezionamenti, appaia come un pasticcio incomprensibile. I tanti ritocchi e incisi e le tante sovrapposizioni e illustrazioni sembrano aver nascosto quel che si voleva dire, scaraventando gli osservatori nel panico della totale incomprensione giacché non si rendono conto della genialità del risultato.

 Il realismo del suo lavoro ha portato anche Friedrich Engels a dire che aveva appreso più dal “legalitario” Balzac che da tutti i saccenti dell’epoca. Infatti scrisse che Balzac “ci offre nella Comédie humaine una prodigiosa storia realistica della "società" francese, descrivendo in una guisa di cronaca, quasi anno per anno, dal 1816 al 1848, la progressiva irruzione della nascente borghesia nella società nobiliare che, dopo il 1815, aveva ricostruito, per quanto possibile, il "mito" della vecchia gentilezza francese. Egli ha rappresentato, in base ai suoi ricordi, quanto era rimasto di quel modello di società che gradualmente non aveva retto alla intrusione della impudente ascesa del denaro, ossia era da esso corrotta; o come le gentildonne, le cui infedeltà coniugali non servivano ad altro che ad affermarsi in perfetta concordanza con la maniera di liberarsi del matrimonio cornificando i mariti per denaro e vestiti, aprirono la strada alla borghesia. E intorno a questo quadro centrale, raggruppa una storia completa della società francese, dalla quale, persino nei dettagli economici (a es. il riordinamento dei beni mobili e immobili dopo la rivoluzione), ho imparato di più che da tutti gli storici dichiarati, gli economisti e gli studiosi di statistica di quel periodo messi insieme. La sua grande opera fu un costante elogio dell’inevitabile dissoluzione della ″bella società″, le sue simpatie andavano tutte alla classe destinata all’estinzione. Ma per tutte queste ragioni la sua satira non fu mai così tagliente e la sua ironia così amara quanto quella rivolta agli uomini e alle donne verso cui simpatizzava di più – i nobili. Mentre le sole persone di cui parlava con indiscutibile ammirazione erano i suoi peggiori antagonisti politici, gli eroi repubblicani che in quel periodo (1830-36) erano i rappresentanti delle masse popolari. Il fatto che Balzac fu costretto ad andare contro i propri riferimenti di classe e pregiudizi politici, che vide la necessità del crollo dei nobili, descritti come persone che non meritavano alcun destino migliore; e che vide che gli uomini reali a cui era riservato il futuro fossero, dati i tempi, soltanto gli altri – è questa circostanza che considero uno dei maggiori trionfi del realismo, e una delle migliori caratteristiche del vecchio Balzac” [Lettera di Friedrich Engels a Margaret Harkness, aprile 1888].

 Il problema del Capitale è sì che è un geniale capolavoro ma pure che esso era sconosciuto, misconosciuto, non compreso, frainteso e bassamente strumentalizzato quasi fin dall’inizio; e adesso, con il passar del tempo e il dilagare dell’ignoranza, lo è ancora di più. Per questa ragione conviene riferirsi a Marx e alla sua incessante opera di rifacimento di quanto da lui manoscritto, e anche già pubblicato, con grande smarrimento, disorientamento e scorno dei suoi uggiosi studiosi o semplici lettori. Dunque – qui in una sorta di conclusione complessa e fantasmagorica – torna emblematicamente significativo rimandare anche al racconto apparentemente fantascientifico, ma di fatto tragicamente realistico nella sua “bruciante” attualità sociale politica, di Ray Bradbury, Farenheit 451, e alla diversamente bella trasposizione cinematografica di François Truffaut. In realtà in codesta finzione i capolavori sconosciuti sono rappresentati nella cultura umana mondiale scritta nei libri; e quindi se Marx un secolo prima non poteva riferircisi per le diverse epoche storiche [curiosamente Bradbury cominciò a scrivere quel racconto nel 1951, esattamente un secolo dopo l’inizio del­l’esilio londinese di Marx quando lui cominciò l’interminabile studio per comprendere la critica dell’econo­mia politica del capitale, e il film di Truffaut era del 1966, cioè cento anni dopo la conclusione dei venticinque anni di studio marxiano per la prima stesura “definitiva” (... si fa per dire) del Capitale: infatti, come si è ricordato, non solo Marx continuò illimitatamente per i 23/24 del suo piano di lavoro incompiuto, ma seguitò a rivedere anche l’1\24 apparentemente finito: Frenhofer aveva colpito ancora!].

 Dunque Fahrenheit 451 per Bradbury, nel secondo dopoguerra, era più una politica realmente vissuta che non fantascienza o fantapolitica. L’oltraggio in quegli anni 1920-30 si era concluso con i roghi dei libri comunisti e di varie culture anche soltanto progressiste da parte del fascismo italiano, e del nazismo il 10 maggio 1933 in quella che allora si chiamava Opernplatz [e adesso dopo la caduta del nazismo e fino a oggi Bebelplatz] è stata posta una piastra di vetro in terra sulla pavimentazione della piazza precisamente nel luogo del rogo, in ricordo di esso, dove sotto terra si vedono gli scaffali vuoti di una biblioteca, quella della famosa università Humboldt, prospiciente la piazza stessa dalla parte opposta e da cui proveniva la massima parte dei <libri proibiti>, ammucchiati lì tutti per bruciarli, mentre gli incendiari cantavano a squarciagola “getto alle fiamme gli scritti di Marx, contro la lotta delle classi e il materialismo! Per la nobilitazione dell’animo umano! Contro la falsificazione della nostra storia, contro il giornalismo, per l’edificazione nazionale, per l’educazione del popolo in uno spirito sano!”: ma noi dopo non dobbiamo dimenticare neppure il ku-klux-klan e il maccarthismo. Ma la pratica dei roghi aveva avuto inizio in tempi remoti: il primo grande rogo cinese, un paio di secoli a.C., fu  voluto dal primo imperatore della dinastia Chîn, Shi Huangdi, che si vantava di aver “distrutto nell’Impero i libri inutili” (e insieme a essi bruciarono centinaia di oppositori che avevano osato protestare); furono poi le volte ripetute della biblioteca di Alessandria d’Egitto, l’inquisizione della chiesa cattolica romana che mandò al rogo Giordano Bruno con i suoi libri, sotto la guida gesuita da cui scampò Galileo ma non i suoi scritti. Era ormai diventata prassi corrente tenere in spregio anche la vita umana, dichiarata incontrollabile per “eresie”, “stregonerie”, ecc. a cui seguivano torture e roghi contro la libertà di pensiero o contro la scienza.

 Ma poi ai libri o ai saggi scritti si sono aggiunti, per fomentare l’analfabetismo di ritorno con l’ignoranza esteriormente informata, la televisione che costringe la popolazione a un’ebete sudditanza – “la televisiùn la g’ha ‘na forsa de leun, la televisiùn la t’endormenta cume un cujun”, così decantava la televisiun Enzo Jannacci nel 1975 – nei confronti del potere; in essa prevale la tendenza alla massificazione anodina, radicata al punto da risultare spesso invisibile; e oggi ancora la <rete> – con i cosiddetti <social network> – che gareggiano tra di loro per chi è sempre meno “sociale”, riducendo a vista d’occhio le parole (20) o i caratteri (140) che si possono usare, entrando in competizione per catturare cospicui personaggi, dai politici al papa e chiedendo solo l’even­tuale approvazione (pollice in alto, il diniego con il pollice verso è stato abolito) delle quattro chiacchiere di costoro: recentemente addirittura Bill Gates ha fatto la parte della persona <cólta> nei confronti di quel cialtrone arrampicatore di Mark Zuckerberg, che dà l’impressione di non sapere neppure leggere, fondatore di Facebook, il quale ha esaltato il ruolo salvifico della rete.

 Ma chi ormai è interessato alla cultura? Meglio occuparsi di sport, di pettegolezzi su una rivista patinata con sempre meno “parole” e più foto o disegnetti (scambiati spesso per “icone”) per gabellare una più facile comprensione), di finzioni [fiction – proprio come la speculazione finanziaria “tossica” o spazzatura sta all’economia reale – non a caso assurdamente dette reality], della propagazione di termini al di là del loro originario e autentico significato: come tutte le parole male usate per la pubblicità commerciale quali “rivoluzione” per detersivi o deodoranti, o quelle rabbassate al linguaggio improprio e mercantesco e religioso del senso comune quali a es. “valori”, o pure “plusvalore” fatto intendere banalmente come incremento di quei valori male intesi, e “sfruttamento” – che viene espunto dall’azione dei dominanti sul lavoro altrui qual è la sua origine scientifica – e soprattutto oggi invece ridotto solo a condizioni estreme – non usuali – definite moralisticamente “ingiuste” della vita o della natura, e via con l’insulso <senso comune>. Così si propagano soltanto tutte le cose sciocche che le parole esprimono – se  non siano queste addirittura soppresse (come con un marchingegno beffardo e molto saggio ha fatto Truffaut nella versione cinematografica, conformemente alla società folle, aggressiva e violenta immaginata da Bradbury, ma tragicamente realistica, eliminando dal film ogni parola scritta, a cominciare dai titoli di testa e di coda) –, tutte le false promesse, tutte le informazioni di seconda mano, tutte le mere ideologie vuote, i fideismi di ogni sorta, religiosa oppure profana; in rapporti di tal genere, basati sull’incomunicabilità, ogni tipo di contatto è annullato dalle barriere create da televisione, rete, video-giochi e finzioni varie. Si offrono al populo possibilità di vincere alle lotterie o pure con il ricordo di insipide parole di canzonette molto ordinarie. Ma basta riempire i loro crani di segatura, imbottiti ben bene di “fatti” al punto che non si possano più muovere tanto son pieni, ma sicuri d’essere “veramente bene informati”. Dopo di che avranno la <sensazione certa> di muoversi e di pensare, quando in realtà sono fermi e senza idee.

 Chi crea può decidere anche di distruggere o modificare ciò che ha fatto – si ricordino i dipinti di Frenhofer bruciati da lui stesso o i manoscritti di Marx lasciati alla “critica roditrice dei topi”; ma ci sono anche tanti altri esempi – ma chi non crea non può fare altro che distruggere. Perciò quando i libri sono considerati come possibile strumento di emancipazione culturale, gli incendiari smaniano per “purificare”, come loro dicono, la società da chi detiene ancora illegalmente dei libri, che vengono eliminati e bruciati {quindi poco importa se nella fantasia sia stato scritto 451, i gradi della scala Fahrenheit che corrispondono a circa 233° C ai quali brucia la carta in determinate condizioni ambientali per autocombustione; sia perché date le condizioni appropriate la carta dei libri brucia per lo più a circa 480° F (248 °C), ma per la loro massa, il diverso spessore e le copertine più rigide la temperatura necessaria può salire a 842° F, ossia 450° C; ma sia soprattutto perché se si trattasse di autocombustione basterebbe ammucchiare libri e giornali aspettando il raggiungimento spontaneo della temperatura che scateni il fuoco: quindi non occorrerebbe dotare i <pompieri> incendiari di lanciafiamme, o di fiammiferi]. Ma va bene accettare l’emblema del “451” con le parole di Brad­bury, e i lanciafiamme perché la furia distruttrice del nazifascismo ha mostrato ampiamente squadracce di devastatori di tutto ciò da costoro ritenuto “culturale” muniti di torce e fiaccole per dar fuoco, senza aspettare l’autocombustione, a quanto da essi considerato “degenerato”: libri, opere d’arte e persone. “Un libro è un fucile carico. Diamolo alle fiamme! Rendiamo inutile l’arma. Costruiamo la mente dell’uomo. Chi sa chi potrebbe essere il bersaglio dell’uomo istruito? Incontreremo una gran quantità di persone sole e sofferenti nei prossimi giorni, nei mesi e negli anni a venire”, scriveva Bradbury. Ma Heinrich Heine aveva detto: “Quando i libri vengono bruciati, alla fine verranno bruciate anche le persone”.

 In effetti in una falsa società il cui “cómpito” fosse quello di bruciare libri, “come se si potesse bruciare la verità, poi si bruceranno gli uomini, come se si potesse bruciare la giustizia”, dice Fortini, le persone che stanno dietro e dentro i “libri” che le rappresentano tangibilmente, per la cultura l’arte e la scienza tutta, la memoria dell’umanità, la testimonianza della coscienza che può sovvertire il neue ordnung, il nuovo ordine del potere borghese, nazifascista anche sotto false vesti “perbene” e democraticistiche. Tutto ciò come tale, e come emblema della memoria storica e delle sue cause profonde, è proibito! Il potere occulta l’avanzare della “disumanizzazione” dell’esistenza, in un futuro talmente prossimo in cui la diffusione pervasiva dei cosiddetti mezzi di comunicazione di massa, dove però le classi dominanti degradano la massa della specie umana, privandola del proprio sapere e rendendola passiva, per potere avere così il completo controllo della vita e dei cervelli delle persone. Una condizione disumana accettata e interiorizzata da quelle “masse” obnubilate e che non abbia più la parvenza di essere imposta. Le persone non leggono più, forse non sanno neppure “lèggere”, non parliamo di scrivere se non i “messaggi corti” (sms) o i “cinguettii” (twit) e scioccherie simili. Riescono solo semmai a muoversi senza mèta, se non necessitata da lavoro, spesa quotidiana, affari, per non andare in nessun posto, dove si apre bocca senza dire niente: pensare fa male! Chiedersi il “perché” emargina e condanna all’infelicità: soltanto la coscienza potrebbe interrompere la tendenza della civiltà ad autodistruggersi. Ma anche la coscienza dov’è?

 Se i “libri” – come sintesi simbolica di tutte le conoscenze umane – rappresentano il disvelamento della superficialità del mondo presente e in divenire, allora Bradbury può scrivere “capite ora perché i libri sono odiati e temuti? Perché rivelano i pori sulla faccia della vita. La gente comoda vuole solo facce di luna piena, di cera, facce senza pori, senza peli, inespressive. Così con tutti questi problemi irresolubili meglio far decidere ad altri e poi adeguarsi”. Quindi la fuga dalla città, tra chi ha deciso di viverne ai margini per conservare la memoria dell’umanità e, ritornando alla cultura orale, diventare semplici contenitori di ciò che i libri non possono più contenere. Sono gli uomini che credono che la cultura, il pensiero e l’esperienza umana nella ricerca del senso delle cose e di se stessi. Nel racconto-romanzo sono gli “uomini-libro”, assonanza con “uomini liberi” [che in francese, per Truffaut, suona ancora meglio:uomo-libro (livre) = uomo-libero (libre)], coloro che imparano a memoria un libro prima che sia bruciato, per trasmetterlo poi a sua volta a un erede più giovane. Imparando a memoria un’opera ciascuno, perpetuano il ricordo di ciò che deve essere eternato. Sono latitanti, si aggirano all’ombra dei boschi, negli angoli più remoti del mondo, coscienti di rappresentare l’estremo soffio di speranza per le società a venire. “E quando ci domanderemo cosa stiamo facendo, tu potrai rispondere loro: noi ricordiamo”.

 Bando all’autoconsolatorio ottimismo, però qui si parla di una nuova comunità rifugiata in un bosco ideale [questo può suscitare una connessione con la splendida musica di Monteverdi, selva morale et spirituale, non dissimile dai suoi madrigali e rievocante la libertà espressiva shakespeariana emotivamente godibile e luminosa; curiosamente una mattina la radio ne ha trasmesso alcuni brani immediatamente dopo la snervante e assillante epopea delle walkirie, quasi a risarcimento uditivo rispetto a quest’ultima mitologia “norrena” pre-cristiana dei popoli scandinavi e della più oscura tradizione teutonica antica: infatti in quei miti le cavalcature delle walkirie erano branchi di lupi (insulsamente colpevolizzati, come sempre) ed esse stesse apparivano simili a corvi (altri animali perspicaci ma ugualmente odiati) che volavano sopra i campi di battaglia per scegliere i corpi degli eroi e portarli nel Valhalla, dove diventavano spiriti dei guerrieri che erano morti combattendo molto valorosamente in battaglia: Odino aveva bisogno di guerrieri valorosi che combattessero dalla sua parte alla fine del mondo – ogni riferimento a ciò che ne ha fatto la violenza nazista non è casuale!]. Un tal rifugio nel bosco ideale, non idilliaco ma libero, è ciò che permette il cambiamento definitivo proprio attraverso un altro elemento del luogo\non-luogo: il fiume, lungo le cui rive vive\sopravvive appunto un gruppo di persone fuggite dalla società corrotta, che, insieme ad altri loro compagni sparsi ovunque, costituiscono la memoria dell’umanità, conoscendo a memoria testi andati ormai perduti.

 La chiave interpretativa del racconto è che ciò induce a pensare seriamente ai libri (e a tutta l’opera della specie umana), e “per la prima volta mi sono accorto che dietro ogni libro c’è un uomo”. scrive Bradbury. Si possono lèggere, uniche scritte intraviste anche nel film tra le fiamme del rogo di un’immensa biblioteca clandestina in cui è bruciata anche la vecchia proprietaria – la persona dietro a quei libri, i loro autori già morti – i cui nomi sono  Charles Dickens,Herman Melville, Franz Kafka, Edgar Allan Poe. Tuttavia sembra che non compaia mai il nome di Karl Marx e della sua geniale opera Il capitale {con una buona dose di sarcasmo – testimonianza in prima persona – mi è stato appiccicato il ruolo dell’uomo-libro del primo volume del Capitale, da me con autoironia assunto di buon grado}. Ma è necessario essere consci delle parole di Antonio Labriola [da Discorrendo di socialismo e di filosofia, del 1898] giacché egli dice che “usando l’etichet­ta della crisi del marxismo, è parso a me un nuovo documento di quel vizio che può oramai definirsi qual diritto all’ignoranza. Gli scritti di Marx e di Engels furono mai letti per intero da nessuno? Furono mai quegli scritti fatti tutti oggetto di commento e di illustrazione? C’è molta gente al mondo che abbia la pazienza di mettersi alla ricerca di questo o di quel singolare libro? Il leggere tutti gli scritti dei fondatori del socialismo scientifico è parso fino a ora come un privilegio da iniziati!”. Senonché la verità espressa da Antonio Labriola è che non c’era alla fine del XIX secolo [Marx era morto quindici anni prima] e non c’è tuttora nessun “uomo-livre\libre” che abbia salvato nella sua memoria il primo libro del Capitale [figurarsi se possa esserlo io! anche se lo conosco abbastanza bene].


 Ed è qui che si salda il chiasma tra Balzac e Bradbury tramite Marx: giacché mentre Marx conosceva l’opera di Balzac e ne ammirava con la sua netta partecipazione il romanzo fantastico-filosofico su Frenhofer, nemmeno la piccola porzione dell’1\24 del suo immenso lavoro rimasto inachevé ha trovato spazio in Farenheit 451; e sì che i marxisti e i comunisti in genere, come prima ricordato, ne hanno visti di roghi di libri! Se Bradbury si è dichiarato convinto che “la memoria salverà il mondo” nel suo racconto fantascientifico-realistico manca proprio la memoria di Marx – la sola che per conoscenza e analisi critica della realtà sociale, come è stato riconosciuto sia pure approssimativamente dai “padroni”, è ciò che ha indotto il Wall street journal (il noto quotidiano finanziario ultraconservatore di proprietà della Dow Jones & co.) sulla prima pagina di lunedì 25 novembre 1991 a pubblicare un articolo sul “grande analista” Karl Marx, intitolandolo in maniera estremamente significativa: <Le sue statue crollano, la sua ombra resta; Marx non può essere ignorato. Nella sua critica del capitalismo, il grande analista aiuta a ridisegnare l’attualità: Das Kapital> [cfr. gfp.328]. Nonostante questo istruttivo esempio; ovviamente argomentato dal punto di vista della più forte borghesia al potere, in Italia la stampa padronale e i suoi altri mezzi di comunicazione, o chi parla, e pensa, a vanvera di “comunismo”, e tantomeno l’accademia costituita, hanno mai dato il benché minimo rilievo al­l’importanza dell’analisi marxiana – che per tutto ciò merita invece che sia ricollegata a Balzac, poiché quello incompiuto di Marx è il “suo” capolavoro sconosciuto – Il capitale.

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