Édouard Frenhofer è il personaggio del pittore
protagonista del racconto filosofico di Honoré de Balzac Le
chef-d’œuvre inconnu [1831]; allievo del pittore fiammingo Jan
Gossært, detto Mabuse (del XV secolo); dice di aver lavorato una
decina di anni a un dipinto (il ritratto vagheggiato della donna desiderata)
che non esita a definire un “capolavoro”, ma che si rifiuta di mostrare,
nascondendolo sotto una coperta. In quel racconto fantastico, a due giovani
pittori realmente esistiti – Frenhofer, vecchio artista creato da Balzac stesso
– narra di codesto Capolavoro sconosciuto: alla sua stesura come
romanzo, fino al 1847, anche Balzac lavorò ossessivamente per sedici anni, come
per quel ritratto affinché rappresentasse la realtà. Così entrambi
– quadro e romanzo – sono diventati presto una leggenda, descrivendo la
costante tensione dell’artista alla ricerca della perfezione nell’aspirazione
a una completa trasposizione del reale: “la missione dell’arte non
è copiare la natura, ma esprimerla!” – spiega Frenhofer\Balzac rivolto ai più
giovani. Ma alla fine quel disvelamento da parte del pittore sembrò rivelare
un quadro del tutto inaspettato; sì che un allievo esclamò: “io qui vedo
soltanto dei colori confusamente ammassati, e delimitati da una moltitudine di
linee bizzarre che formano una muraglia di pittura”: ma un quadro che, poiché
il suo processo di produzione s’identifica con il suo stato compiuto di opera,
rappresenterebbe da solo il quadro assoluto,
Pertanto accortosi tardivamente che costoro non
comprendevano la sua arte, frutto di continue ricerche e riflessioni, Frenhofer
cadde in una profonda sconsolazione e scacciò i suoi ospiti. Si lasciò morire
nella notte, dopo aver bruciato tutti i suoi dipinti: ma Balzac ben sapeva che
lo Chef-d’œuvre inconnu parla ancora oggi di un genio
assoluto. Peggy Guggenheim, da ultima, ha avuto il merito di scoprire un
“pittore sconosciuto”, Jackson Pollock, al quale commissionò un enorme quadro
per la propria villa di New York. Pollock, chiuso nel suo laboratorio, depresso
e abitualmente confuso dall’alcool, era incapace di affrontare la tela posta su
un cavalletto. Sicché buttò la grande tela sul pavimento, a suo completo agio
e, ballandole sopra “sgocciolò” i colori su di essa in maniera solo
apparentemente caotica: si trovò così al cospetto di un “capolavoro sconosciuto”.
Dichiarò più tardi in altra occasione che “un critico ha detto che i miei
dipinti non avevano né inizio né fine. Non lo ha scritto come un complimento,
ma lo era”. Proprio con la medesima angoscia di Frenhofer per il suo capolavoro
del dipinto di cui narra Balzac. Non a caso, forse, anche Pollock morì, ebbro
probabilmente anche per la generale incomprensione della sua opera, sbattendo
alla guida della sua auto (come l’anno prima James Dean): fu la sua fine, come
quella del racconto balzachiano con la morte di Frenhofer insieme alle sue
tele. Nel quadro folle di Pollock si ritroverebbe nuovamente il Capolavoro
sconosciuto di Balzac. Il quadro non è più la finestra trasparente
aperta sullo spazio illusorio delle apparenze dipinte. Ma non è nemmeno un muro
di pittura – non tanto il mural, quanto la “muraglia” di pittura
evocata da Balzac dove nel quadro lo sguardo può soltanto “intravedere”, come
ha osservato Louis Marin sullo spazio di Pollock.
Ma per primo a immedesimarsi in Frenhofer, il genio
tormentato e perdente; attraverso le continue modifiche ai quadri, fu Paul
Cézanne; anche lui non ne cancellava mai il senso ma lo conservava in esse. Poi
anche Pablo Picasso rimase molto colpito dal racconto di Balzac, tanto che mise
il suo studio (dove si dice che dipinse Guernìca) allo stesso
indirizzo parigino in cui era ambientato il romanzo su Frenhofer. Picasso
declinò l’invito esplicito del suo amico Ambroise Vollard – mercante d’arte
anche di altri importanti artisti come Paul Cézanne, Paul Gauguin e Vincent Van
Gogh – di fare appositamente dei disegni per la riedizione del romanzo di
Balzac: ma Vollard non si perse d’animo e per la nuova stampa francese [1931,
esattamente un secolo dopo la prima edizione] dello Chef-d’œuvre
inconnu poté utilizzare alcuni disegni preesistenti di Picasso, che a
qualcuno ricordano gli scarabocchi complicatissimi dei manoscritti di Marx
[cfr. a es. il disegno di Picasso qui sopra posto sotto il titolo, nella
riedizione che poi fu pubblicata anche in italiano da Aragno, Torino 2012].
Balzac, tuttavia e si sa, non era un pittore ma un letterato
e un profondo conoscitore della società francese della prima metà del XIX secolo:
per “fare concorrenza allo stato civile” [parole sue]. Dunque la sua
riflessione è rivolta in generale non solo all’arte, non tanto alla pittura
(occasionalmente di Frenhofer) oppure anche alla sua stessa letteratura, quanto
soprattutto alla realtà sociale osservata nella Francia di
transizione dall’ancien règime alla borghesia parassitaria,
corrotta e speculatrice, affarista e monetaria della momentanea restaurazione
in vista della formazione del capitale. Un’analisi in cui anche la scienza
oltre che l’arte deve – come dice Frenhofer\Balzac rivolto ai più giovani –
riuscire a rendere una completa trasposizione del reale: “la
missione non è copiare la natura, ma esprimerla!”.
Per Karl Marx il motivo principale che lo ha
portato a entusiarmarsi per Il capolavoro sconosciuto di
Balzac era precisamente lui stesso: la sua era ammirazione per Balzac in
generale, giacché quest’ultimo aveva presentito che poteva accadere
d’imbattersi in qualcosa di gigantesco di cui nessuno era in grado di venire a
capo. E siccome noi sappiamo che è andata proprio così per Il capitale di
Marx, non possiamo evitare il riferimento diretto – in nome del marxismo –
all’allegoria balzachiana. Senonché Marx non ha mai dubitato dell’oggetto della
propria ricerca e opera condotta a séguito di incessanti ricerche; non ha
avuto bisogno di guardare a lungo per vedere e non ha avuto
alcun bisogno, al pari di Balzac, di vivere prima quello che
voleva scrivere. Però i suoi lettori, e anche molti studiosi formali –
“marxologi” ma non marxisti – sono rimasti confusi e
disorientati dalla sua colossale opera, al punto che si sono persuasi in numero
sempre crescente che fosse meglio abbandonare l’intero argomento, ritenuto
<troppo difficile>, rimanendo nell’ignoranza della realtà: “l’ignoranza
non ha mai giovato a nessuno!” – scriveva Marx. Anche il suo “piano di lavoro”
ha subito nel tempo via via continue modifiche, come era da attendersi per una
grandiosa opera geniale: grosso modo tale piano doveva comprendere sei
parti, ossia capitale (con appendice per l’intero capitale delle
sue forme storiche determinate), rendita fondiaria, lavoro
salariato e, infine, le restanti tre parti del piano su stato, commercio
estero, mercato mondiale. Ovviamente anche ognuna delle altre
cinque parti doveva essere articolata in varie tematiche tutte fondate su
rigorose specifiche ricerche (oltre a valore, plusvalore, denaro, prezzi,
circolazione, macchine, classi sociali; redditi, imposte, origine della
rendita, forme del salario; debito pubblico, istituzioni, fisco; scambi
internazionali, corso dei cambi; concorrenza, totalità del mercato; ecc., tanto
per fare alcuni esempi — cioè quelle abbozzate nei quattro libri, di cui
solo il primo definito, del Capitale: pertanto sono contabilmente
almeno otto, più loro articolazioni, le parti incompiute del piano).
Già qualche anno prima di arzigogolare intorno a questo suo
capolavoro, Marx cominciando a mettere da parte i materiali preliminari disse
all’editore di Per la critica dell’economia politica di non
volerla pubblicare prima di averla potuta rivedere un’altra volta, anche perché
“non c’è bisogno di dire che uno scrittore che lavora continuamente non può sei
mesi dopo, pubblicare parola per parola quel che ha scritto sei mesi prima”.
Quel capitalismo, di cui voleva dare il ritratto d’insieme, gli si modificava
costantemente, sotto gli occhi. Il tentativo della teoria complessiva del Capitale era
già destinato a rimanere incompiuto. Ebbene, Marx impiegò
giorno e notte per diciassette anni (più di Frenhofer\Balzac), nell’esilio
londinese prevalentemente alla biblioteca del British museum, per
riuscire, come detto, appena a pubblicare ufficialmente solo, sui quattro
previsti, il primo libro, “Il processo di produzione del
capitale”,della prima delle sei parti previste per l’intera opera “per la
critica dell’economia politica” – ossia numericamente ½4 del
totale, non potendo presumere la mole delle pagine che l’esposizione finale di
tutto il materiale avrebbe potuto occupare – in perfetta linea con l’inachevé (come
dicono i francesi) di un “capolavoro” incompiuto destinato a rimanere
“sconosciuto”. Per giunta negli anni a seguire continuò a rivedere ancora pure
il solo testo già pubblicato (dove c’erano, sì, cenni preliminari soltanto come
sommarie anticipazioni a quanto però doveva essere sviluppato compiutamente nelle
successive cinque parti specifiche) e a scrivere quaderni e quaderni di appunti
che dovevano servire sia per la prima parte incompiuta (compresa quella
relativa al cosiddetto quarto libro “storico” – le teorie
sul plusvalore – oltre a quelli che costituivano la base grezza del secondo libro
“Il processo di circolazione del capitale” e del terzo “Il
processo complessivo della produzione capitalistica”).
È lui che ha avuto ragione – anche se già allora erano
assillanti l’ignoranza di massa e la perdita della memoria storica che l’hanno
circondato per tutta la sua vita (e oltre, proseguendo lo sono tuttora e in
forme sempre più arrogantemente aggressive) – cercando disperatamente di
ripetere che a tutti occorre vedere e conoscere la realtà materiale e
spirituale della società, per analizzarla, piuttosto che adagiarsi
nella sua propria maestria. Come Frenhofer\Balzac, anche Marx può essere visto
come un conoscitore della realtà in anticipo sui tempi, analizzata nel Capitale che
oltre a essere un classico dell’economia misconosciuto – qua e là con rari
rimorsi e sensi di inferiorità da parte del potere e dai suoi cospicui
<intellettuali> – è poco a poco diventato anche un classico letterario. È
per tutto ciò che Marx (oltre che Eschilo, Dante, Shakespeare, Gœthe,
Diderot, Hegel) ammirava Balzac sopra ogni altro autore, giacché quello
era un visionario che lo precorse di meno di vent’anni. In effetti Balzac
non fece che constatare quello che Marx, da suo grande ammiratore qual era,
discusse poi nel Capitale. Per Marx non si è trattato di
un’ossessione, ma di una diagnosi, sia nel contenuto della realtà sociale
osservata, sia nelle modalità di scrittura e riscrittura interminabile, con le
infinite stesure di quel Capitale che è appunto il suo capolavoro
sconosciuto.
Il racconto di Frenhofer, dunque in questo senso, Marx lo ha
raccordato con l’urgenza di rivedere e correggere il lavoro già fatto, di non
finirlo mai, senza per questo abbandonarlo e giammai per cancellarlo nelle sue
revisioni: lasciarlo sempre “incompiuto” (inachevé, per ripeterlo in
francese, e con Balzac pure inconnu) ma intrecciato con la raffigurazione
di tante altre immagini, pur sapendo che così aumentava il rischio di
suscitare una crescente incapacità da parte del pubblico di riconoscere e
apprezzare la rivoluzionaria originalità di un genio. Esattamente
ciò che proprio Frenhofer\Balzac sperimentò con quell’incomprensione da parte
dei giovani allievi di fronte a un’opera della quale costoro non riconoscevano
i segni, ormai confusi per le continue correzioni, e che indusse Balzac ad
accompagnare Frenhofer a una morte tormentata. Frenhofer\ Balzac doveva avere
“una forza di pensiero straordinaria per afferrare la realtà e un’arte non meno
straordinaria per rappresentare ciò che vedeva e voleva che si vedesse. Mai era
contento del suo lavoro, continuava a modificarlo e trovava sempre che la
rappresentazione rimaneva al di sotto dell’immaginazione”. Continuano sempre le
testimonianze di Paul Lafargue su Marx rammentando che la storia narrata da
Balzac nel Capolavoro sconosciuto “gli fece una profonda
impressione perché descriveva in parte i suoi stessi sentimenti”. Lì “un
pittore geniale è talmente tormentato dal desiderio di rappresentare le cose
nel modo preciso in cui si rispecchiano nel suo cervello che continua a limare
e ritoccare il suo quadro”, qui è lo scienziato che analizza il modo di
produzione capitalistico nella sua totalità che alla fine al pari dell’altro
produce una massa enorme di rappresentazioni in cui la sua mente è affascinata
al punto che vede “la più perfetta riproduzione della realtà”. Ancora
Lafargue spiega che “era profonda la sua ammirazione per Balzac, il quale
ha studiato tutte le sfumature dell’avarizia”, quando l’avaro, già “rimbambito
comincia a farsi un tesoro ammucchiando merci”. E “Balzac non fu solo lo
storico della società della sua epoca ma anche il creatore profetico di
personaggi che sotto Luigi Filippo si trovavano ancora in uno stato embrionale
e raggiunsero il loro pieno sviluppo soltanto dopo la morte di costui, sotto
Napoleone III”.
Siccome l’economia politica presenta il capitalista come
“possessore del plusprodotto”, l’espressione che tutto il capitale presente è
interesse accumulato o capitalizzato, è semplicemente un’altra forma dello
stesso modo di considerare le cose, poiché l’interesse è un semplice frammento
del plusvalore. Balzac, che eccelle in generale per la profonda comprensione
dei rapporti reali, descrive, a es., molto cautamente come il piccolo
contadino, al fine di conservare la benevolenza del suo usuraio, presti a
quest’ultimo gratuitamente servizi di ogni genere senza supporre di donargli
alcunché, in quanto il suo lavoro personale non gli costa nessun esborso in
danaro. Fu Karl Marx stesso che sollecitò Engels perché leggesse il
racconto di Balzac Le chef-d’œuvre inconnu: infatti il 25
febbraio 1867, giusto poco prima di consegnare alle stampe il primo [e unico] libro
del Capitale, Marx scrisse a Engels suggerendogli di leggere il
racconto di Balzac, “pieno di deliziosa ironia”. Anzi, verrebbe da dire, anche
di autocritica, perché a entrambi – Balzac e Marx – rispetto al protagonista
del racconto potrebbe esser loro venuta in mente una certa qual disposizione a
identificarsi con quella storia. L’espressione figurata di essa, che per vie
traverse accomuna dunque Frenhofer\Balzac e Marx indica che se si vuole fornire
la rappresentazione completa della realtà alla ricerca della perfezione,
ci si può accorgere – giorno dopo giorno ma alla fine quasi improvvisamente –
che il risultato, a forza di ritocchi e perfezionamenti, appaia come un
pasticcio incomprensibile. I tanti ritocchi e incisi e le tante sovrapposizioni
e illustrazioni sembrano aver nascosto quel che si voleva dire, scaraventando
gli osservatori nel panico della totale incomprensione giacché non si rendono
conto della genialità del risultato.
Il realismo del suo lavoro ha portato anche Friedrich Engels
a dire che aveva appreso più dal “legalitario” Balzac che da tutti i saccenti
dell’epoca. Infatti scrisse che Balzac “ci offre nella Comédie humaine una
prodigiosa storia realistica della "società" francese, descrivendo in
una guisa di cronaca, quasi anno per anno, dal 1816 al 1848, la progressiva
irruzione della nascente borghesia nella società nobiliare che, dopo il 1815,
aveva ricostruito, per quanto possibile, il "mito" della vecchia gentilezza francese.
Egli ha rappresentato, in base ai suoi ricordi, quanto era rimasto di quel
modello di società che gradualmente non aveva retto alla intrusione della
impudente ascesa del denaro, ossia era da esso corrotta; o come le gentildonne,
le cui infedeltà coniugali non servivano ad altro che ad affermarsi in perfetta
concordanza con la maniera di liberarsi del matrimonio cornificando i mariti
per denaro e vestiti, aprirono la strada alla borghesia. E intorno a questo
quadro centrale, raggruppa una storia completa della società francese, dalla
quale, persino nei dettagli economici (a es. il riordinamento dei beni mobili e
immobili dopo la rivoluzione), ho imparato di più che da tutti gli storici
dichiarati, gli economisti e gli studiosi di statistica di quel periodo messi
insieme. La sua grande opera fu un costante elogio dell’inevitabile
dissoluzione della ″bella società″, le sue simpatie andavano tutte alla classe
destinata all’estinzione. Ma per tutte queste ragioni la sua satira non fu mai
così tagliente e la sua ironia così amara quanto quella rivolta agli uomini e
alle donne verso cui simpatizzava di più – i nobili. Mentre le sole persone di
cui parlava con indiscutibile ammirazione erano i suoi peggiori antagonisti
politici, gli eroi repubblicani che in quel periodo (1830-36) erano i
rappresentanti delle masse popolari. Il fatto che Balzac fu costretto ad andare
contro i propri riferimenti di classe e pregiudizi politici, che vide la
necessità del crollo dei nobili, descritti come persone che non meritavano alcun
destino migliore; e che vide che gli uomini reali a cui era riservato il futuro
fossero, dati i tempi, soltanto gli altri – è questa circostanza che considero
uno dei maggiori trionfi del realismo, e una delle migliori
caratteristiche del vecchio Balzac” [Lettera di Friedrich
Engels a Margaret Harkness, aprile 1888].
Il problema del Capitale è sì che è
un geniale capolavoro ma pure che esso era sconosciuto,
misconosciuto, non compreso, frainteso e bassamente strumentalizzato quasi fin
dall’inizio; e adesso, con il passar del tempo e il dilagare dell’ignoranza, lo
è ancora di più. Per questa ragione conviene riferirsi a Marx e alla sua
incessante opera di rifacimento di quanto da lui manoscritto, e anche già
pubblicato, con grande smarrimento, disorientamento e scorno dei suoi uggiosi
studiosi o semplici lettori. Dunque – qui in una sorta di conclusione complessa
e fantasmagorica – torna emblematicamente significativo rimandare anche al
racconto apparentemente fantascientifico, ma di fatto tragicamente realistico
nella sua “bruciante” attualità sociale politica, di Ray Bradbury, Farenheit
451, e alla diversamente bella trasposizione cinematografica di François
Truffaut. In realtà in codesta finzione i capolavori sconosciuti sono
rappresentati nella cultura umana mondiale scritta nei libri; e quindi se Marx
un secolo prima non poteva riferircisi per le diverse epoche storiche
[curiosamente Bradbury cominciò a scrivere quel racconto nel 1951, esattamente
un secolo dopo l’inizio dell’esilio londinese di Marx quando lui cominciò
l’interminabile studio per comprendere la critica dell’economia
politica del capitale, e il film di Truffaut era del 1966, cioè cento anni
dopo la conclusione dei venticinque anni di studio marxiano per la prima stesura
“definitiva” (... si fa per dire) del Capitale: infatti, come si è
ricordato, non solo Marx continuò illimitatamente per i 23/24 del
suo piano di lavoro incompiuto, ma seguitò a rivedere anche l’1\24 apparentemente
finito: Frenhofer aveva colpito ancora!].
Dunque Fahrenheit 451 per Bradbury, nel
secondo dopoguerra, era più una politica realmente vissuta che
non fantascienza o fantapolitica. L’oltraggio in quegli anni 1920-30 si era
concluso con i roghi dei libri comunisti e di varie culture anche soltanto
progressiste da parte del fascismo italiano, e del nazismo il 10 maggio 1933 in
quella che allora si chiamava Opernplatz [e adesso dopo la
caduta del nazismo e fino a oggi Bebelplatz] è stata posta
una piastra di vetro in terra sulla pavimentazione della piazza precisamente
nel luogo del rogo, in ricordo di esso, dove sotto terra si vedono gli
scaffali vuoti di una biblioteca, quella della famosa università
Humboldt, prospiciente la piazza stessa dalla parte opposta e da cui
proveniva la massima parte dei <libri proibiti>, ammucchiati lì tutti per
bruciarli, mentre gli incendiari cantavano a squarciagola “getto alle fiamme
gli scritti di Marx, contro la lotta delle classi e il materialismo! Per la
nobilitazione dell’animo umano! Contro la falsificazione della nostra storia,
contro il giornalismo, per l’edificazione nazionale, per l’educazione del
popolo in uno spirito sano!”: ma noi dopo non dobbiamo dimenticare neppure il
ku-klux-klan e il maccarthismo. Ma la pratica dei roghi aveva avuto inizio in
tempi remoti: il primo grande rogo cinese, un paio di secoli a.C., fu
voluto dal primo imperatore della dinastia Chîn, Shi Huangdi, che si vantava di
aver “distrutto nell’Impero i libri inutili” (e insieme a essi bruciarono
centinaia di oppositori che avevano osato protestare); furono poi le volte
ripetute della biblioteca di Alessandria d’Egitto, l’inquisizione della chiesa
cattolica romana che mandò al rogo Giordano Bruno con i suoi libri, sotto la
guida gesuita da cui scampò Galileo ma non i suoi scritti. Era ormai diventata
prassi corrente tenere in spregio anche la vita umana, dichiarata
incontrollabile per “eresie”, “stregonerie”, ecc. a cui seguivano torture e
roghi contro la libertà di pensiero o contro la scienza.
Ma poi ai libri o ai saggi scritti si sono aggiunti, per
fomentare l’analfabetismo di ritorno con l’ignoranza esteriormente informata,
la televisione che costringe la popolazione a un’ebete sudditanza – “la televisiùn la g’ha ‘na forsa de leun, la televisiùn la
t’endormenta cume un cujun”, così decantava la televisiun Enzo
Jannacci nel 1975 – nei confronti del potere; in essa prevale la
tendenza alla massificazione anodina, radicata al punto da risultare spesso
invisibile; e oggi ancora la <rete> – con i cosiddetti <social
network> – che gareggiano tra di loro per chi è sempre meno “sociale”,
riducendo a vista d’occhio le parole (20) o i caratteri (140)
che si possono usare, entrando in competizione per catturare cospicui
personaggi, dai politici al papa e chiedendo solo l’eventuale approvazione (pollice
in alto, il diniego con il pollice verso è stato abolito) delle quattro
chiacchiere di costoro: recentemente addirittura Bill Gates ha fatto la parte
della persona <cólta> nei confronti di quel cialtrone arrampicatore di
Mark Zuckerberg, che dà l’impressione di non sapere neppure leggere, fondatore
di Facebook, il quale ha esaltato il ruolo salvifico della rete.
Ma chi ormai è interessato alla cultura? Meglio
occuparsi di sport, di pettegolezzi su una rivista patinata con sempre meno
“parole” e più foto o disegnetti (scambiati spesso per “icone”) per gabellare
una più facile comprensione), di finzioni [fiction – proprio come
la speculazione finanziaria “tossica” o spazzatura sta all’economia reale – non
a caso assurdamente dette reality], della propagazione di termini
al di là del loro originario e autentico significato: come tutte le parole male
usate per la pubblicità commerciale quali “rivoluzione” per detersivi o
deodoranti, o quelle rabbassate al linguaggio improprio e mercantesco e
religioso del senso comune quali a es. “valori”, o pure “plusvalore” fatto
intendere banalmente come incremento di quei valori male
intesi, e “sfruttamento” – che viene espunto dall’azione dei dominanti sul
lavoro altrui qual è la sua origine scientifica – e soprattutto oggi invece
ridotto solo a condizioni estreme – non usuali – definite
moralisticamente “ingiuste” della vita o della natura, e via con l’insulso
<senso comune>. Così si propagano soltanto tutte le cose sciocche che le
parole esprimono – se non siano queste addirittura soppresse (come con un
marchingegno beffardo e molto saggio ha fatto Truffaut nella versione
cinematografica, conformemente alla società folle, aggressiva e violenta
immaginata da Bradbury, ma tragicamente realistica, eliminando dal film ogni
parola scritta, a cominciare dai titoli di testa e di coda) –, tutte le false
promesse, tutte le informazioni di seconda mano, tutte le mere ideologie vuote,
i fideismi di ogni sorta, religiosa oppure profana; in rapporti di tal genere,
basati sull’incomunicabilità, ogni tipo di contatto è annullato dalle barriere
create da televisione, rete, video-giochi e finzioni varie. Si offrono al populo
possibilità di vincere alle lotterie o pure con il ricordo di insipide parole
di canzonette molto ordinarie. Ma basta riempire i loro crani di segatura,
imbottiti ben bene di “fatti” al punto che non si possano più muovere tanto son
pieni, ma sicuri d’essere “veramente bene informati”. Dopo di che avranno la
<sensazione certa> di muoversi e di pensare, quando in realtà sono
fermi e senza idee.
Chi crea può decidere anche di distruggere o modificare ciò
che ha fatto – si ricordino i dipinti di Frenhofer bruciati da lui stesso o i
manoscritti di Marx lasciati alla “critica roditrice dei topi”; ma ci sono
anche tanti altri esempi – ma chi non crea non può fare altro
che distruggere. Perciò quando i libri sono considerati come possibile
strumento di emancipazione culturale, gli incendiari smaniano per “purificare”,
come loro dicono, la società da chi detiene ancora illegalmente dei libri, che
vengono eliminati e bruciati {quindi poco importa se nella
fantasia sia stato scritto 451, i gradi della scala Fahrenheit che
corrispondono a circa 233° C ai quali brucia la carta in determinate condizioni
ambientali per autocombustione; sia perché date le condizioni
appropriate la carta dei libri brucia per lo più a circa 480° F (248 °C), ma
per la loro massa, il diverso spessore e le copertine più rigide la temperatura
necessaria può salire a 842° F, ossia 450° C; ma sia soprattutto perché se si
trattasse di autocombustione basterebbe ammucchiare libri e giornali aspettando
il raggiungimento spontaneo della temperatura che scateni il fuoco: quindi non
occorrerebbe dotare i <pompieri> incendiari di lanciafiamme, o di
fiammiferi]. Ma va bene accettare l’emblema del “451” con le parole di
Bradbury, e i lanciafiamme perché la furia distruttrice del nazifascismo ha
mostrato ampiamente squadracce di devastatori di tutto ciò da costoro ritenuto
“culturale” muniti di torce e fiaccole per dar fuoco, senza aspettare
l’autocombustione, a quanto da essi considerato “degenerato”: libri, opere
d’arte e persone. “Un libro è un fucile carico. Diamolo alle fiamme! Rendiamo
inutile l’arma. Costruiamo la mente dell’uomo. Chi sa chi potrebbe essere il
bersaglio dell’uomo istruito? Incontreremo una gran quantità di persone
sole e sofferenti nei prossimi giorni, nei mesi e negli anni a venire”,
scriveva Bradbury. Ma Heinrich Heine aveva detto: “Quando i libri vengono
bruciati, alla fine verranno bruciate anche le persone”.
In effetti in una falsa società il cui “cómpito” fosse
quello di bruciare libri, “come se si potesse bruciare la verità, poi si
bruceranno gli uomini, come se si potesse bruciare la giustizia”, dice Fortini,
le persone che stanno dietro e dentro i “libri” che le rappresentano
tangibilmente, per la cultura l’arte e la scienza tutta, la memoria dell’umanità,
la testimonianza della coscienza che può sovvertire il neue ordnung,
il nuovo ordine del potere borghese, nazifascista anche sotto false vesti
“perbene” e democraticistiche. Tutto ciò come tale, e come emblema della memoria
storica e delle sue cause profonde, è proibito! Il potere
occulta l’avanzare della “disumanizzazione” dell’esistenza, in un futuro
talmente prossimo in cui la diffusione pervasiva dei cosiddetti mezzi
di comunicazione di massa, dove però le classi dominanti degradano la massa
della specie umana, privandola del proprio sapere e rendendola passiva, per
potere avere così il completo controllo della vita e dei cervelli delle
persone. Una condizione disumana accettata e interiorizzata da quelle “masse”
obnubilate e che non abbia più la parvenza di essere imposta. Le persone non
leggono più, forse non sanno neppure “lèggere”, non parliamo di scrivere
se non i “messaggi corti” (sms) o i “cinguettii” (twit) e
scioccherie simili. Riescono solo semmai a muoversi senza mèta, se non
necessitata da lavoro, spesa quotidiana, affari, per non andare in nessun
posto, dove si apre bocca senza dire niente: pensare fa male!
Chiedersi il “perché” emargina e condanna all’infelicità: soltanto la coscienza
potrebbe interrompere la tendenza della civiltà ad autodistruggersi.
Ma anche la coscienza dov’è?
Se i “libri” – come sintesi simbolica di tutte le
conoscenze umane – rappresentano il disvelamento della superficialità
del mondo presente e in divenire, allora Bradbury può scrivere “capite ora
perché i libri sono odiati e temuti? Perché rivelano i pori sulla faccia della
vita. La gente comoda vuole solo facce di luna piena, di cera, facce senza
pori, senza peli, inespressive. Così con tutti questi problemi irresolubili
meglio far decidere ad altri e poi adeguarsi”. Quindi la fuga dalla città, tra
chi ha deciso di viverne ai margini per conservare la memoria
dell’umanità e, ritornando alla cultura orale, diventare semplici
contenitori di ciò che i libri non possono più contenere. Sono gli uomini che
credono che la cultura, il pensiero e l’esperienza umana nella ricerca del
senso delle cose e di se stessi. Nel racconto-romanzo sono gli “uomini-libro”,
assonanza con “uomini liberi” [che in francese, per Truffaut, suona ancora
meglio:uomo-libro (livre) = uomo-libero (libre)], coloro che
imparano a memoria un libro prima che sia bruciato, per
trasmetterlo poi a sua volta a un erede più giovane. Imparando a memoria
un’opera ciascuno, perpetuano il ricordo di ciò che deve essere eternato. Sono
latitanti, si aggirano all’ombra dei boschi, negli angoli più remoti del mondo,
coscienti di rappresentare l’estremo soffio di speranza per le società a
venire. “E quando ci domanderemo cosa stiamo facendo, tu potrai rispondere
loro: noi ricordiamo”.
Bando all’autoconsolatorio ottimismo, però qui si parla di
una nuova comunità rifugiata in un bosco ideale [questo può
suscitare una connessione con la splendida musica di Monteverdi, selva
morale et spirituale, non dissimile dai suoi madrigali e rievocante la
libertà espressiva shakespeariana emotivamente godibile e luminosa;
curiosamente una mattina la radio ne ha trasmesso alcuni brani immediatamente
dopo la snervante e assillante epopea delle walkirie, quasi a risarcimento
uditivo rispetto a quest’ultima mitologia “norrena” pre-cristiana dei popoli
scandinavi e della più oscura tradizione teutonica antica: infatti in quei miti
le cavalcature delle walkirie erano branchi di lupi (insulsamente
colpevolizzati, come sempre) ed esse stesse apparivano simili a corvi (altri
animali perspicaci ma ugualmente odiati) che volavano sopra i campi di
battaglia per scegliere i corpi degli eroi e portarli nel
Valhalla, dove diventavano spiriti dei guerrieri che erano morti combattendo
molto valorosamente in battaglia: Odino aveva bisogno di guerrieri valorosi che
combattessero dalla sua parte alla fine del mondo – ogni riferimento a ciò che
ne ha fatto la violenza nazista non è casuale!]. Un tal rifugio nel
bosco ideale, non idilliaco ma libero, è ciò che permette il cambiamento
definitivo proprio attraverso un altro elemento del luogo\non-luogo: il fiume,
lungo le cui rive vive\sopravvive appunto un gruppo di persone fuggite dalla
società corrotta, che, insieme ad altri loro compagni sparsi ovunque,
costituiscono la memoria dell’umanità, conoscendo a memoria testi
andati ormai perduti.
La chiave interpretativa del racconto è che ciò induce a pensare
seriamente ai libri (e a tutta l’opera della specie umana), e “per la prima
volta mi sono accorto che dietro ogni libro c’è un uomo”. scrive Bradbury. Si
possono lèggere, uniche scritte intraviste anche nel film tra le fiamme del rogo
di un’immensa biblioteca clandestina in cui è bruciata anche la vecchia
proprietaria – la persona dietro a quei libri, i loro autori già morti – i cui
nomi sono Charles Dickens,Herman Melville, Franz Kafka, Edgar Allan
Poe. Tuttavia sembra che non compaia mai il nome di Karl Marx e della sua
geniale opera Il capitale {con una buona dose di sarcasmo –
testimonianza in prima persona – mi è stato appiccicato il ruolo
dell’uomo-libro del primo volume del Capitale, da me con autoironia
assunto di buon grado}. Ma è necessario essere consci delle parole di Antonio
Labriola [da Discorrendo di socialismo e di filosofia, del 1898]
giacché egli dice che “usando l’etichetta della crisi del marxismo,
è parso a me un nuovo documento di quel vizio che può oramai definirsi qual diritto
all’ignoranza. Gli scritti di Marx e di Engels furono mai letti per intero
da nessuno? Furono mai quegli scritti fatti tutti oggetto di
commento e di illustrazione? C’è molta gente al mondo che abbia la pazienza di
mettersi alla ricerca di questo o di quel singolare libro? Il leggere tutti
gli scritti dei fondatori del socialismo scientifico è parso fino a
ora come un privilegio da iniziati!”. Senonché la verità espressa da Antonio
Labriola è che non c’era alla fine del XIX secolo [Marx era morto
quindici anni prima] e non c’è tuttora nessun “uomo-livre\libre” che
abbia salvato nella sua memoria il primo libro del Capitale [figurarsi
se possa esserlo io! anche se lo conosco abbastanza bene].
Ed è qui che si salda il chiasma tra Balzac e Bradbury tramite
Marx: giacché mentre Marx conosceva l’opera di Balzac e ne ammirava con la
sua netta partecipazione il romanzo fantastico-filosofico su Frenhofer, nemmeno
la piccola porzione dell’1\24 del suo immenso lavoro
rimasto inachevé ha trovato spazio in Farenheit 451;
e sì che i marxisti e i comunisti in genere, come prima ricordato, ne hanno
visti di roghi di libri! Se Bradbury si è dichiarato convinto che “la memoria
salverà il mondo” nel suo racconto fantascientifico-realistico manca
proprio la memoria di Marx – la sola che per conoscenza e
analisi critica della realtà sociale, come è stato riconosciuto sia
pure approssimativamente dai “padroni”, è ciò che ha indotto il Wall
street journal (il noto quotidiano finanziario ultraconservatore di
proprietà della Dow Jones & co.) sulla prima pagina di lunedì 25
novembre 1991 a pubblicare un articolo sul “grande analista” Karl Marx,
intitolandolo in maniera estremamente significativa: <Le sue statue
crollano, la sua ombra resta; Marx non può essere ignorato. Nella sua critica
del capitalismo, il grande analista aiuta a ridisegnare l’attualità: Das
Kapital> [cfr. gfp.328]. Nonostante questo istruttivo
esempio; ovviamente argomentato dal punto di vista della più forte borghesia al
potere, in Italia la stampa padronale e i suoi altri mezzi di comunicazione, o
chi parla, e pensa, a vanvera di “comunismo”, e tantomeno l’accademia
costituita, hanno mai dato il benché minimo rilievo all’importanza
dell’analisi marxiana – che per tutto ciò merita invece che sia ricollegata a Balzac,
poiché quello incompiuto di Marx è il “suo” capolavoro sconosciuto – Il
capitale.
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