1.Introduzione
Lo
scritto che viene pubblicato di seguito[vedi qui]
(Napoleoni, 2015) è la trascrizione di una lezione del 12 marzo 1973
tenuta da Claudio Napoleoni nel corso di Politica economica e
finanziaria1.
Oggetto della lezione è il commento del libro di Paul Baran e Paul
Sweezy, Il
capitale monopolistico,
da poco pubblicato negli Stati Uniti (1966) e subito tradotto in
italiano da Einaudi (1968)2.
L’interpretazione
fornita da Napoleoni ha più di un motivo di originalità e potrà
risultare per molti versi sorprendente. L’economista italiano era
impegnato allora in un’originale ripresa critica di Marx che faceva
asse proprio sui suoi aspetti più controversi, la teoria del
valore-lavoro e la teoria della crisi, temi su cui il contributo di
Sweezy era stato fondamentale. Ciò non di meno egli si distacca
dalla usuale critica marxista al libro di Baran e Sweezy, secondo cui
i due autori si sarebbero collocati fuori e contro la teoria del
valore-lavoro3.
Sorprendente
era peraltro la stessa struttura del corso di Politica economica e
finanziaria in cui quella lezione fu pronunciata. I corsi del
1971-1972 e del 1972-1973 avevano come titolo “La realizzazione del
plusvalore e la politica economica nelle economie capitalistiche
moderne”. In quel che segue faremo soprattutto riferimento alla
lezione del 12 maggio 1973 che si può leggere alle pagine 41-51 di
questo fascicolo. Un corso dove l’esposizione della macroeconomia
neoclassica e keynesiana (lungo linee non molto distanti da una
avvertita sintesi neoclassica, come la si leggeva nella prima
edizione del bel manuale di Gardner Ackley (1971) adottato da
Napoleoni, e come peraltro si poteva già ricavare dalle voci
del Dizionario
di economia politica che
aveva curato4,
come da qualsiasi altro scritto dell’economista abruzzese sul tema)
veniva proseguita dalla discussione approfondita del dibattito sulla
teoria della crisi nel marxismo (da Marx a Lenin, da Tugan
Baranowskij a Rosa Luxemburg). Si adottavano inoltre come letture
chiave testi così distanti nel marxismo come il Capitale
monopolistico di
Baran e Sweezy e il Marx
e Keynes di
Paul Mattick (1972).
Non
si trattava, come dirò, di un esercizio puramente teorico. Si può
dimostrare che il dialogo con Baran e Sweezy entrò direttamente (ed
esplicitamente) a definire l’interpretazione del capitalismo
monopolistico data da Napoleoni, così come il confronto con Mattick
– che qui non verrà però considerato, per limiti di spazio –
contribuiva anch’esso alla spiegazione dell’ascesa e della crisi
dello sviluppo post-bellico (la fase che oggi va sotto l’etichetta,
non molto appropriata, di les
trentes glorieuses)
da parte dell’economista abruzzese.
Per
consentire una comprensione adeguata della lezione di Napoleoni, in
queste pagine introduttive procederò a ricostruire per sommi capi
alcuni momenti salienti del dialogo di Napoleoni con Sweezy, per poi
mostrare come elementi della sua lettura del Capitale
monopolistico,
allora del tutto spiazzanti, siano stati confermati dalla
recentissima pubblicazione di pagine inedite dei due marxisti
statunitensi. Farò riferimento alla sezione sul capitale
monopolistico contenuta nella voce “Capitale” dell’Enciclopedia
Europea della
Garzanti nel 1976, mai più ripubblicata5.
Chiuderò con alcune considerazioni personali sulla ‘inattuale’
rilevanza della riflessione di Napoleoni e Sweezy su questi temi.
2.
La Teoria
dello sviluppo capitalistico:
lavoro astratto, valore e prezzi di produzione
Nel
1951 Napoleoni aveva tradotto con Luigi Ceriani, per Einaudi, Teoria
dello sviluppo capitalistico di
Sweezy, di cui uscì poi una seconda edizione parziale, da
Boringhieri, nel 19706.
Questa riproposizione si apre con una lunga e impegnata introduzione
di Napoleoni che fa il punto delle questioni più dibattute nel
marxismo: in particolare, la teoria del valore-lavoro come fondamento
della teoria dei prezzi di produzione, e la presenza di più teorie
della crisi, se non addirittura di più teorie del crollo, nel
marxismo.
Benché
il giudizio sul libro sia complessivamente positivo – Napoleoni lo
reputa la migliore esposizione elementare della teoria marxiana –
l’economista avanza alcune qualificazioni su nodi significativi,
appunto la teoria del valore e la teoria della crisi. Per quel che
riguarda la teoria del valore, Napoleoni, sulla scorta di Lucio
Colletti, avanza una forte critica a quello che ritiene un approccio
di tipo ‘empiristico’ a Marx, di cui Sweezy, con Dobb, è
ritenuto il massimo rappresentante teorico7.
Secondo questi autori, l’astrazione del lavoro non sarebbe da
intendersi altro che come una generalizzazione mentale, e la teoria
del valore sarebbe pertinente al solo momento dell’equilibrio. Essa
si svolgerebbe in due approssimazioni successive, di cui i valori di
scambio nel primo libro del Capitale costituirebbero
la prima, e i prezzi di produzione del terzo libro la seconda. Da
questa prospettiva discende naturalmente una lettura di Sraffa come
radicale dissoluzione di questo modo di vedere le cose. Salta
infatti, in Produzione
di merci8,
una determinazione dualistica dei rapporti di scambio di equilibrio.
In un primo modello, i prezzi capitalistici vengono immediatamente
fissati una volta dati la ‘configurazione produttiva’ e il
salario reale di ‘sussistenza’. In un secondo modello si ammette
un grado di libertà nella distribuzione, e i prezzi sono determinati
una volta definita la spartizione conflittuale del prodotto netto tra
profitti e salari9.
Per
Napoleoni, come per Colletti10,
il lavoro è ‘sostanza comune’ delle merci non in quanto lavoro
utile e concreto ma in quanto lavoro astratto, epperò tale
astrazione non è del ricercatore, esiste effettivamente nella
realtà. È una ‘astrazione reale’, tipica del mercato e della
produzione capitalistici, all’uno e all’altra perfettamente
adeguato: la seconda approssimazione non può (non deve) modificare
in nulla la determinazione essenziale del valore. Mentre nel 1970
Napoleoni cerca di articolare una difesa della nozione di lavoro
astratto di questo genere con un rigetto della teoria del valore
quale teoria dei prezzi, nei primi anni ‘70 Napoleoni ritiene che
l’analisi qualitativa del valore debba prolungarsi in una
dimensione quantitativa, alternativa rispetto a quella sraffiana,
mantenendo nell’analisi della formazione del valore accanto alla
dimensione dell’equilibrio l’altra dimensione parimenti
fondamentale, quella dello squilibrio. La circolarità del capitale,
che include il lavoro al suo interno, vista come fondata da un
percorso lineare per cui il lavoro vivo è l’origine di tutto il
capitale. Si trattava di un programma di ricerca, definito tra il
1971 e il 1975, che si poneva l’obiettivo ambizioso di un ritorno a
Marx dopo Marx, anche se non secondo Marx (non cioè una rinnovata
ortodossia, ma un Marx scienziato critico del capitalismo): un
programma che non avrà compimento, e che verrà progressivamente
abbandonato tra il 1976 e il 197811.
È in questo contesto che vanno collocate sia la lezione che la voce
che stiamo considerando.
In
una intervista del 1987 pubblicata sulla Monthly
Review12 Sweezy
torna sul libro del 1942 con accenti autocritici che riguardano
proprio i temi discussi qui, in particolare la teoria del valore e il
rapporto con la determinazione dei prezzi. I giudizi di Sweezy
gettano una luce radicalmente diversa sui punti su cui abbiamo visto
appuntarsi le obiezioni di Napoleoni, e sono forse anche l’indice
di un inizio di ripensamento su nodi fondamentali, se non addirittura
il maturare di un punto di vista più macrofondato e dinamico in
merito alla stessa teoria del valore. Sweezy chiarisce in primo luogo
che la sua lettura di Marx è distinta, e in alcuni punti
direttamente opposta, tanto a quella di Dobb13 quanto
a quella di Steedman14,
che nel 1977 aveva pubblicato il suo Marx
after Sraffa:
“Sraffa
stesso non vedeva quello che stava facendo come un’alternativa al
marxismo, o in qualche modo una negazione del marxismo. Dal suo punto
di vista, si trattava di una critica dell’ortodossia neoclassica, e
lo ha [sempre] reso molto chiaro. Joan Robinson fu molto esplicita,
dicendo che Sraffa non abbandonò mai il marxismo. È stato sempre un
marxista leale, nel senso che aderiva alla teoria del valore-lavoro,
anche se non lo scrisse. In realtà, si tratta di una sua
peculiarità. Iniziò come critico dell’economia marshalliana –
ricorderete il famoso articolo degli anni ‘20. Fece parte del
gruppo di Cambridge, e lottò in quelle diatribe teoriche che avevano
a Cambridge l’epicentro. In queste lotte, prese una certa posizione
non in quanto marxista, ma in quanto critico dell’ortodossia del
tempo. Ora, questa è certamente una posizione peculiare, ma questo
non autorizza nessuno a prendere Sraffa e contrapporlo a Marx, come
fa Ian Steedman. Prendere Sraffa e farne una teoria alternativa a sè
stante è, secondo me, piuttosto sbagliato e non ha niente a che fare
con le reali intenzioni di Sraffa, nè con le finalità reali
dell’analisi marxista. Non c’è dinamica o sviluppo in Steedman,
a quanto vedo. Pensare che sia possibile fare a meno di una teoria
del valore (in senso lato, includendo la teoria dell’accumulazione
ecc.) mi sembra quasi un fallimento totale. Non è affatto una cosa
buona, e non penso che ne derivi niente di buono. È stato un bene
mostrare i limiti, le fallacie, le incoerenze interne della teoria
neoclassica, questo va benissimo, è stato importante. Ma pensare che
su questa base si possa creare una teoria che abbia anche solo
lontanamente il respiro e gli obiettivi del marxismo è un errore”
(Savran e Tonak, 1987, pp. 13-14).
In
un intervento del novembre 1978 sulle tesi di Steedman, raccolto nel
volume collettaneo The
Value Controversy,
Sweezy (1981) non si limita a contestare che l’analisi in termini
di valore venga smentita da quella in termini di prezzo, ma afferma
che il centro di gravità dell’analisi marxiana è il saggio di
plusvalore come saggio di sfruttamento15.
Nella sottovalutazione di questo punto sta il limite del suo libro
del 1942:
“Non
me ne rendevo conto mentre scrivevo The
Theory of Capitalist Development quarant’anni
fa. Di conseguenza, la quinta e sesta sezione del capitolo sul
problema della trasformazione (rispettivamente intitolate ‘Il
significato del calcolo dei prezzi’ e ‘Perchè non iniziare dal
calcolo dei prezzi’), anche se non proprio sbagliate, non
raggiungono il cuore del problma, che è il ruolo cruciale del saggio
di plusvalore nell’intera teoria marxiana del capitalismo”
(Sweezy, 1981, p. 26).
3.
La Teoria
dello sviluppo capitalistico:
le teorie della crisi
Per
quel che riguardail giudizio sulla teoria della crisi, non stupisce
che il discorso di Napoleoni segua da presso quello dell’Introduzione
al volume sul Futuro
del capitalismo. Crollo o sviluppo?,
l’antologia curata con Lucio Colletti per Laterza16.
È peraltro una posizione su cui Napoleoni tornerà con modifiche
significative nei corsi torinesi di Politica economica e finanziaria.
Nei
due testi del 1970 Napoleoni rigetta senza qualificazioni la teoria
della caduta tendenziale del saggio del profitto, e suggerisce di
sintetizzare i due filoni che Sweezy distingue nella teoria della
crisi da realizzazione, che il marxista statunitense definisce
rispettivamente del sottoconsumo e delle sproporzioni.
Per
quel che riguarda la crisi da sottoconsumo, si tratta di questo.Se il
profitto è prevalentemente investito, e il salario integralmente
consumato, una riduzione relativa dei salari comporta una riduzione
della quota dei consumi, e la realizzazione integrale del valore
delle merci è legata a una crescita della quota degli investimenti.
Certamente, gli schemi di riproduzione consentono di derivare le
condizioni di equilibrio tra i macrosettori della produzione, ovvero
i rapporti che garantiscono la compatibilità tra composizione
dell’offerta e composizione della domanda a livello di sistema: il
verificarsi effettuale di tali condizioni dipende però dall’operare
del meccanismo dei prezzi in concorrenza, cioè dal coordinamento ex
post tramite
il mercato, ed è dunque casuale. Possono perciò determinarsi
facilmente delle crisi da sproporzioni.
Per
Napoleoni, al contrario di Sweezy, sottoconsumo e sproporzioni non
sono due cause distinte, sono invece cause congiunte della crisi. Il
coordinamento ex
post tramite
i prezzi può essere efficace soltanto se la quota dei consumi non
scende troppo. Sottoconsumo e sproporzioni sono come le due lame di
un’unica forbice. Il sottoconsumo può determinare la crisi per i
limiti del coordinamento ex
post del
mercato tramite i prezzi, mentre l’anarchia della concorrenza è
fattore di crisi se il consumo non orienta da vicino l’investimento.
Un aspetto rimanda all’altro, che lo completa. A ben vedere,
prosegue Napoleoni, qui abbiamo però a che fare con la formulazione
di una teoria del crollo di tipo ‘originario’ o iniziale. Il
capitale può avere vita storica soltanto nella misura in cui
persistono, o si creano ex
novo,
forme di lavoro e di consumo improduttivo.
Il
discorso di Napoleoni si basa sulla tesi che la teoria della crisi da
realizzo, tanto nel versante delle sproporzioni quanto in quello del
sottoconsumo, è indipendentedalla teoria del valore-lavoro; ma anche
sull’idea che in un’economia di mercato l’investimento non
possa mai sganciarsi dall’elemento, reputato ‘naturale’,del
consumo. Anche le altre due teorie della crisi generale che egli
individua nell’antologia con Colletti non gli paiono accettabili:
né la teoria della caduta tendenziale del saggio del
profitto17(anch’essa
sganciata dalla teoria del valore-lavoro, secondo Napoleoni) né
l’argomentazione secondo cui con il macchinismo la produzione di
valore ‘crollerebbe’ in quanto il prodotto non dipenderebbe più
dalla quantità di lavoro prestato. Tralasceremo, nel seguito, questa
ultima linea di ragionamento, per quanto suggestiva18,
e ci limiteremo a dire della posizione del nostro autore sulla caduta
tendenziale del saggio di profitto nel 1970.
Napoleoni
condivide le critiche di Joan Robinson e Sweezy secondo cui l’aumento
del saggio di sfruttamento potrebbe più che compensare la crescita
della composizione organica, e non è convinto dell’altro argomento
di Marx a favore della legge, secondo cui il saggio massimo del
profitto – definito da un capitale variabile pari a zero, e perciò
corrispondente al rapporto tra neovalore e capitale costante –
tende inevitabilmente a cadere nel lungo termine. Che questo
argomento non sia molto convincente lo si capisce da questa
considerazione: se è vero che il numeratore dipende dalla giornata
lavorativa sociale di una data popolazione lavoratrice, ha dunque un
limite assoluto, il denominatore (ovvero il capitale costante)
potrebbe rallentare, o fermarsi o retrocedere, a seconda della
dinamica settoriale degli aumenti della forza produttiva del lavoro.
Non vi è alcuna ‘legge’ sull’andamento temporale dal saggio
del profitto.
Napoleoni
apporterà modifiche significative a questo filo di ragionamento nei
primi anni settanta, proprio nelle lezioni sulla teoria marxiana
della crisi di cui questo commento a Baran e Sweezy fa parte19.
Possiamo sintetizzarle in questi quattro punti: (i) le tre versioni
della teoria della crisi su cui ci siamo concentrati sinora sono ora
tutte viste quali espressioni delle contraddizioni su cui pone
l’accento la teoria marxiana del valore-lavoro; (ii) l’integrazione
di crisi da sottoconsumo e crisi da sproporzioni proposta da
Napoleoni cerca ora (ma con difficoltà) di sganciarsi dal consumo
come elemento ‘naturale’, e dunque come vincolo sostanzialmente
esterno al procedere indisturbato dell’accumulazione, nel tentativo
di riformularsi nei termini di un vincolo interno che il capitale
porrebbe a se stesso; (iii) la teoria della caduta tendenziale del
saggio di profitto viene reinterpretata, e in tale reinterpretazione
viene considerata sostanzialmente corretta; (iv) su questa strada si
finisce d’altra parte con l’unificare i tre discorsi marxiani
sulla crisi in uno solo, che sfocia nella formulazione di una teoria
sociale della crisi.
Gli
schemi continuano però ad essere visti come la smentita della tesi
che sostiene l’impossibilità astratta del raggiungimento
dell’equilibrio. Le condizioni di equilibrio definite dagli schemi
di riproduzione vengono ora lette come condizioni ‘doppie’, in
valore e in valore d’uso20.
Essi assolutizzano il momento dell’equilibrio, a scapito della
crisi come momento essenziale. “Lo studio della crisi economica”,
sostiene Napoleoni, è proprio “lo studio delle forme in cui in
concreto si manifestano le contraddizioni che intercorrono tra il
valore d’uso e il valore di scambio nel capitale” (Napoleoni,
1973a, p. 32)21.
Gli schemi chiariscono come la domanda al capitale proviene dal
capitale medesimo, e dunque Tugan Baranowskij (1905) nei
suoi Theoretische
Grundlagen des Marxismus non
ha torto ad assegnare un ruolo chiave alla domanda di mezzi di
produzione22.
Per questo è vero che “l’incremento del mercato interno al
capitale è fino ad un certo punto indipendente dal consumo
individuale; dipende dal consumo produttivo (i mezzi di produzione
nell’ambito del processo produttivo)” (Napoleoni, 1973a, p. 46).
Napoleoni continua però a ritenere che sarebbe un errore immaginare
che la domanda di beni capitali (e di mezzi di produzione più in
generale) sia “completamente staccata” dal consumo individuale
dei lavoratori: “[l]’indipendenza esiste, ma in fin dei conti il
mercato dipende dal consumo, perché la produzione di mezzi di
produzione è legata al fatto che deve poi produrre beni di consumo”
(ibid.).
In
quanto produzione di ricchezza astratta, il capitale è tendenza
illimitata all’accumulazione. In quanto invece legato al ricambio
organico con la natura esso è limitato dai bisogni. Napoleoni
considera implicitamente la propria posizione precedente, secondo cui
“il
basso livello dei consumi fa sì che l’impresa capitalistica non
riesce più a determinare la struttura delle proprie convenienze
(capire il senso degli investimenti): il blocco perciò degli
investimenti provoca la crisi, la caduta della domanda, la
recessione. Ci vuole un orientamento di tipo ‘naturale’, secondo
questa tesi” (ibid.,
p. 47).
Una
posizione del genere non gli è però più congeniale, in quanto il
nostro autore è alla ricerca di un vincolo non ‘naturale’ alla
riproduzione allargata del capitale23.
La dipendenza del capitale dal consumo non costituisce più per lui
un vincolo esterno mainterno. Quella dipendenza è dovuta: da un
lato, alla natura dialettica della teoria marxiana; dall’altro
lato, alla riproduzione della classe dei lavoratori salariati.
Questo
suggerimento è particolarmente interessante perché segna il massimo
scarto dalla posizione precedente. La tesi ora proposta è di
integrare sottoconsumo e sproporzioni dentro la legge che afferma una
caduta tendenziale del saggio del profitto. Secondo questo Napoleoni
“la legge è sostanzialmente esatta” (ibid.,
p. 62). La legge non va intesa immediatamente come una risultante
quantitativa meccanica, ma come innanzitutto una determinazione
qualitativa che indaga il saggio del profitto come esito di due
tendenze contrastanti. La motivazione della caduta del saggio di
profitto, scrive Napoleoni, “è tutta interna al meccanismo di
produzione capitalistico. La contraddizione è tra aspetti del
capitale, non del capitale con un’altra cosa, la natura” (ibid.,
p. 63). L’accumulazione del capitale porta alla diminuzione
relativa del capitale variabile e a una espulsione di forza-lavoro
dai processi di lavoro. Ma il valore, e dunque anche il plusvalore,
dipendono dal lavoro vivo impiegato nella produzione, e dunque
dall’uso della forza-lavoro come attributo ‘attaccato’ ai
lavoratori salariati.
“Il
rapporto tra capitale e lavoro salariato è contraddittorio: da un
lato, il lavoro salariato produce le aggiunte al capitale, dall’altro
è ciò che il capitale tende a espellere, perché questo è il modo
in cui si aumenta la produttività del lavoro [in realtà: forza
produttiva del lavoro], e quindi il profitto” (ibid.).
A
causa della devalorizzazione degli elementi del capitale costante,
dovuta al progresso tecnico, il mutamento dei metodi di produzione si
accompagna a un innalzamento della composizione organica del
capitale24 minore
di quella che si avrebbe a costanza di tecniche. Di più, se il
salario rimane immutato e la giornata lavorativa è data25,
la spinta verso l’alto della forza produttiva del lavoro fa cadere
relativamente il capitale variabile, e il conseguente aumento del
saggio di plusvalore potrebbe persino far crescere il saggio del
profitto26.
Non si può dire nulla a
priori su
quale delle due tendenze prevarrà. Ciò, a prima vista, dovrebbe
confermare le conclusioni del 1970. Non è così. La ragione è che
le controtendenze alla caduta tendenziale del saggio del profitto
fanno prendere all’economia capitalistica una fisionomia
particolare: “[l]’aumento del saggio del profitto non è un fatto
della tecnologia capitalistica, indifferente, è un aumento della
produttività [meglio: della forza produttiva] del lavoro nella
produzione capitalistica, nella forma dell’aumento del rapporto di
sfruttamento, del saggio di sfruttamento” (ibid.,
p. 65).
Per
un verso l’economia corrisponde alla visione di Tugan Baranovskij,
ma il discorso non può fermarsi lì. L’aumento del saggio di
plusvalore acutizza il problema della realizzazione, ma c’è
dell’altro, secondo Napoleoni27.
Cruciali sono le conseguenze possibili di carattere sindacale e
politico, perché “[c]’è un grado di sopportabilità del saggio
di sfruttamento, la situazione sociale non è più controllabile
oltre un certo limite” (ibid.).
L’aumento del saggio di plusvalore è, in senso proprio, aumento
del saggio di sfruttamento, dell’uso della forza-lavoro: consumo di
esseri umani, appendice della capacità lavorativa per il capitale. È
una questione non tecnica ma sociale, e “non può rimanere senza
effetto sui rapporti di classe, sulla lotta di classe, ed in
particolare sul livello del salario” (ibid.,
p. 69). Nelle condizioni date, può conseguirne un aumento del
salario reale in eccesso rispetto alla forza produttiva del lavoro,
che fa cadere il saggio di profitto.
In
conclusione: “[l]a legge della caduta del saggio del profitto è
dunque per Marx un pezzo essenziale dell’analisi, è il punto in
cui si raduna tutta la sua teoria del capitalismo e le sue
conclusioni”, ma “la caduta del saggio del profitto non è intesa
in modo meccanicistico, vi è un costante riferimento a connessioni
sociali” (ibid.).
4.
Il Capitale
monopolistico secondo
Napoleoni
Veniamo
alla lettura che Napoleoni propone del Capitale
monopolistico di
Baran e Sweezy. Nella voce “Capitale” Napoleoni definisce
capitalismo monopolistico “quella fase dello sviluppo
capitalistico, in cui sono prevalenti le imprese di tipo
monopolistico, ossia quelle imprese che per le loro dimensioni hanno
la possibilità di influire sui prezzi di ciò che vendono e di ciò
che acquistano” (Napoleoni, 1976a, p. 844). I processi di
concentrazione, fusione e assorbimento che conseguono all’evolversi
della stessa ‘libera’ concorrenza (una competizione che passa in
modo essenziale per lo strumento della riduzione dei prezzi)
conducono a questo nuovo stadio del capitalismo verso la fine
dell’Ottocento, in cui sono cruciali il grado di monopolio e la
battaglia per la ‘qualità’ nell’analisi del meccanismo dello
sviluppo. Lungi dal lasciare il passo a un’autopianificazione del
capitale, la concorrenza non scompare, né potrebbe scomparire,
essendo essa implicita alla natura privatistica del capitale. Muta
però la sua forma, e “si esercita con tutti quei mezzi
(abbassamento dei costi unitari mediante mutamenti tecnici e
organizzativi, pubblicità, ecc.) che valgono a contrastare la sempre
possibile ‘entrata’ nel mercato di altre imprese o a indirizzare
la spesa dei consumatori verso certe direzioni piuttosto che verso
altre” (Napoleoni, 1973a, p. 69).
Il
volume di Baran e Sweezy è di fatto l’oggetto della penultima
sezione della voce “Capitale”,che per il resto è quasi
integralmente dedicata a esporre la teoria marxiana (senza che mai si
accenni al problema della trasformazione: un caso più unico che raro
in questo autore); l’ultima sezione è invece rivolta a un esame di
alcuni aspetti della “[t]eoria borghese del capitale” (Napoleoni,
1976a, p. 845). Il capitale monopolistico accentua le difficoltà di
realizzo: non perché il suo dinamismo interno sia superiore al
capitalismo di libera concorrenza, semmai per il motivo opposto. La
tendenza alla stagnazione non si realizza linearmente ma viene anzi
perversamente contrastata internamente al sistema capitalistico, con
un aumento dello spreco e dell’irrazionalità, che si limitano a
spostare in avanti la contraddizione. Baran e Sweezy sostituiscono la
tendenza all’aumento (sia assoluto che relativo) del surplus, o
‘sovrappiù’, alla caduta tendenziale del saggio di profitto
letta in modo tradizionale: la prima è in qualche modo l’esatto
inverso della seconda.
Rimandiamo
alla lezione di Napoleoni per il confronto puntuale con le tesi dei
due marxisti statunitensi. Qui ci limitiamo a segnalare il punto su
cui maggiormente concentra la sua attenzione Napoleoni: la
giustificazione da parte di Baran e Sweezy della legge dell’aumento
tendenziale del sovrappiù, e la sua compatibilità o meno con la
teoria marxiana del valore. La maggioranza degli interpreti avevano
inteso il libro come un rigetto della teoria marxiana del valore e
della crisi28.
La
ragione di quella lettura stava in primo luogo nello stile del libro,
che accuratamente evitava di presentarsi in un linguaggio apertamente
marxista; peggio, le parti sul monopolio erano contaminate col
marginalismo29,
quando erano già a disposizione i lavori di Kalecki e di Sylos
Labini. Anche dal punto di vista del contenuto vi erano ragioni che
giustificavano quella interpretazione:
“noi
preferiamo il concetto di surplus al tradizionale concetto marxiano
di ‘plusvalore’, poiché quest’ultimo nella mente di coloro che
hanno consuetudine con la teoria marxiana si identifica probabilmente
con la somma del profitto, dell’interesse e della rendita. È vero
che Marx dimostra – in alcuni passi del Capitale e
delle Teorie
del plusvalore –
che il plusvalore comprende anche altri elementi come le entrate
dello stato e della chiesa, le spese per trasformare le merci in
moneta, e i salari dei lavoratori improduttivi. In generale,
tuttavia, Marx considerava questi elementi come fattori secondari e
li escludeva dal suo schema teorico fondamentale. Noi sosteniamo che
nel capitalismo monopolistico questa impostazione non è più
giustificata e speriamo che un cambiamento nella terminologia
contribuirà al necessario mutamento nella posizione teorica”
(Baran e Sweezy, 1968, pp. 10-11, nota, corsivi aggiunti).
Insieme
al motivo di estendere la definizione contabile di plusvalore per
includervi esplicitamente le spese statali e ‘improduttive’, vi
era senz’altro l’intenzione di separarsi dalla teoria della
caduta tendenziale del saggio del profitto. Non solo la fissazione
del plusvalore effettivo e della sua distribuzione dipendevano dalla
domanda, ma lo stesso capitalismo era regolato in modo profondamente
differente dal capitalismo di libera concorrenza. Se era vera una
tendenza a un capitalismo più ‘organizzato’ ciò non riduceva
(come riteneva Hilferding) ma rendeva più acutala tendenza alla
crisi del capitale.
Ancora
nell’intervista più volte citata Sweezy svolge considerazioni
autocritiche:
“forse
fu un errore. Avevamo progettato un paio di altri capitoli
nel Capitale
monopolistico,
che servissero a spiegare le relazioni tra il nostro apparato
concettuale e l’analisi marxiana del valore. Questi capitoli erano
allo stadio di bozze molto preliminari, non pubblicabili nel libro o
in altra forma quando Baran morì, quindi non c’era modo di
includerle nel libro. E non saprei se sarebbero state efficaci, o se
il tentativo valesse la pena” (Savran e Tonak, 1987, p. 15, nostra
traduzione).
E
nell’introduzione alla ristampa dell’edizione greca del volume
insiste sul punto:
“A
giudicare dalle recensioni e critiche apparse in molti libri e
articoli, mi spiace dire che c’è stata molta confusione su quello
che io e Baran volevamo dire. Non è questa la sede per tentare di
elencare e correggere tutte le interpretazioni fuorvianti, ma vorrei
cogliere questa opportunità per chiarire la nostra posizione su un
punto. Molti critici marxisti hanno sostenuto, come se fosse un fatto
evidente, che Baran e Sweezy accantonano la teoria marxista del
valore (e quindi, per implicazione, la teoria del plusvalore). Non è
così. In nessun momento della nostra lunga relazione e
collaborazione ci è mai venuto in mente di rifiutare la teoria
marxista del valore. Il nostro procedimento in Capitale
monopolistico fu
di prendere la teoria del valore-lavoro come acquisita, e partire da
lì. Ora mi rendo conto che fu un errore: saremmo dovuti partire da
un’esposizione della teoria del valore così com’è presentata
nel libro I del Capitale,
e avremmo poi dovuto mostrare che nella realtà capitalista i valori
determinati dal tempo di lavoro socialmente necessario sono soggetti
a due tipi di modifiche: primo, i valori sono trasformati in prezzi
di produzione, come Marx riconosce nel libro III; secondo, i valori
(o i prezzi di produzione) sono trasformati in prezzi di monopolio
nella fase monopolistica del capitalismo, un tema a malapena
menzionato da Marx per l’ovvia ragione che l’intero Capitale fu
scritto molto prima dell’inizio del periodo di capitalismo
monopolistico. In nessun momento Baran o io implicitamente o
esplicitamente abbiamo rifiutato le teorie del valore e del
plusvalore, piuttosto abbiamo cercato di analizzare le modifiche che
si rendono necessarie come conseguenza della concentrazione e della
centralizzazione del capitale. Se avessimo proceduto come ho detto,
credo che molti malintesi si sarebbero evitati” (Sweezy, 1984, pp.
25-26, nostra traduzione)30.
Nell’intervento
londinese raccolto in The
Value Controversy la
questione viene ripresa molto velocemente: seguendo Marx, i prezzi di
monopolio sono visti come prezzi di produzione trasformati; d’altra
parte “il passaggio dai valori ai prezzi di monopolio ha
conseguenze importanti per il processo di accumulazione, cosa che non
accade invece per il passaggio da valori a prezzi di produzione”
(Sweezy, 1981, p. 28, nostra traduzione). Quella ulteriore
trasformazione attiva difatti la legge dell’aumento tendenziale del
surplus.
Il Capitale
monopolistico tace
però sul come, nella nuova fase, la tendenza all’aumento del
sovrappiù si possa derivare dalla teoria del valore-lavoro. In
alcuni brani Baran e Sweezy comparano il capitalismo monopolistico e
quello concorrenziale, asserendo che nel primo il surplus è maggiore
che nel secondo. In altri scendono più nei dettagli, sostenendo che
la forma monopolistica del prezzo consentirebbe l’estorsione di un
sovrappiù più elevato di quanto non ne venga estratto nei processo
capitalistici di lavoro.
È
su questo snodo che Napoleoni svolge delle considerazioni del tutto
fuori dal coro rispetto alle critiche ‘ortodosse’ ai due marxisti
statunitensi. Non è chiaro, infatti, come si possa sostenere la
seconda tesi rimanendo all’interno dela teoria del valore alla
Marx. Napoleoni espone la difficoltà richiamando un passo del libro
terzo del Capitale.
Marx afferma che il prezzo di monopolio sarà più alto del prezzo di
produzione del valore delle merci se vi sono monopoli naturali o
artificiali; aggiunge, però, che “i limiti dati dal valore delle
merci non sarebbero per questo soppressi” (Marx, [1894] 1970, p.
276). La fissazione dei prezzi non entra nella formazione del
valore/plusvalore, agisce soltanto sulla allocazione del plusvalore
tra i vari capitali. Insomma, il prezzo di monopolio permette di
catturare una parte aggiuntiva del plusvalore, invece di distribuirlo
uniformemente tra tutte le imprese: “[l]a ripartizione del
plusvalore tra le diverse sfere di produzione subirebbe
indirettamente una perturbazione locale, che però lascerebbe
invariati i limiti di questo plusvalore stesso” (ibid.,
p. 277). Se la merce in questione fa parte del consumo necessario dei
lavoratori, il prezzo di monopolio potrebbe abbassare il salario
reale al di sotto del valore della forza-lavoro, qualora
evidentemente quest’ultimo eccedesse il livello fisico minimo di
sussistenza.
L’extra-profitto
che guadagna il capitale monopolistico, ricorda Napoleoni, è
ottenuto a spese di altri capitali o del salario:
“[q]uesta
proposizione di Marx è rigorosamente coerente con la teoria del
valore lavoro: il valore è il lavoro oggettivato nelle merci, e la
forma di mercato entro cui questa oggettivazione avviene non ha
nessuna rilevanza rispetto all’entità di questa oggettivazione. Il
plusvalore dipende dal modo in cui il lavoro complessivo si
ripartisce fra lavoro necessario e pluslavoro: e in questa
ripartizione, salvo questo caso che stiamo considerando, di nuovo la
forma di mercato non interviene. Quando è che interviene la forma di
mercato? Quando si deve stabilire come questo plusvalore si
ripartisce fra i vari capitali, ed eventualmente tra operai e
capitalisti se il salario è interessato da prezzi di monopolio e
nella misura in cui lo sia” (Napoleoni, 2015, p. 47).
Il
riferimento a Marx non porta Napoleoni a ritenere che la tesi di
Baran e Sweezy non possa essere riletta in modo da renderla
conciliabile con la teoria del valore-lavoro. Se si parte
dal Capitale,
e se non cambiano gli altri elementi, è chiaro che la forma
monopolistica del capitale monopolistico non può dar luogo a una
entità del plusvalore totale superiore a quella di libera
concorrenza. Vi sono però altre considerazioni da tenere in conto,
di cui vi è confusa traccia nel libro di Baran e Sweezy.
La
prima considerazione riguarda l’andamento della forza produttiva
del lavoro. Il capitale monopolistico non la lascia immutata, ma la
spinge verso l’alto, per il tramite di un mutamento tecnologico più
veloce, il che fa crescere il plusvalore rispetto a quanto avverrebbe
nella fase concorrenziale (un argomento tipicamente schumpeteriano).
Una tesi che Napoleoni condivide e che reputa essenziale
“per
non fare delle critiche romantiche al monopolio, critiche di tipo
arretrato: questa tesi che il monopolio comporta l’arretratezza –
arretratezza tecnologica, arretratezza nella spinta allo sviluppo
capitalistico – questa è una tesi non più valida, e Baran e
Sweezy la respingono” (ibid.,
p. 51).
La
seconda considerazione riguarda il salario, assumendo i cambiamenti
storici significativi rispetto al tempo di Marx. Nel Capitale il
prezzo di monopolio su un bene-salario comporta che gli altri
capitalisti dovranno pagare un salario più alto: l’extraprofitto
del capitalista in condizioni di monopolio è dovuto a un minor
profitto degli altri capitalisti, a plusvalore immutato. Nelle nuove
condizioni storiche del capitalismo c.d. manageriale una più elevata
forza produttiva del lavoro potrebbe essere controbattuta da un
saggio di salario reale che aumenti nella medesima percentuale:
qualora l’intensità capitalistica cresca in proporzione della
forza produttiva del lavoro (cosa che Napoleoni reputa un fatto
stilizzato), il saggio del profitto lordo non potrebbe che rimanere
costante. Qualora i prezzi possano essere controllati dagli
oligopolisti, la banca centrale convaliderebbe la spinta conseguente
all’inflazione. Abbiamo dunque una situazione in cui il conflitto
di classe potrebbe dar vita a un più alto prezzo della forza-lavoro,
ma quest’ultimo resterrebbe in parte soltanto potenziale, in quanto
le conquiste salariali verrebbero progressivamente erose dal
capitale.
La
ragione sta appunto nell’aumento dei prezzi che è possibile
praticare vista la particolare struttura del mercato – il ‘capitale
monopolistico’ di Baran e Sweezy: “[i]n questo senso dinamico,
nel caso del capitale monopolistico noi abbiamo, a partire dai
salari, un trasferimento verso i profitti del valore addizionale
creato dall’incremento della produttività [forza produttiva] del
lavoro” (ibid.,
pp. 50). E ancora:
“[e]
se questo è vero si giustifica la premessa su cui il libro è
basato, anche se tutto ciò [nel libro] è argomentato diversamente:
il problema del realizzo di questo ‘sovrappiù’ si pone in
termini gravosi al capitale proprio per la [sua] tendenza ad
aumentare. Ancora una volta, occorre notare come ogni pratica che
aumenti il profitto all'interno del processo di produzione pone un
problema opposto sul terreno della realizzazione. Questo problema si
pone in termini esasperati nel caso del capitale monopolistico”
(ibid.,
p. 51).
Napoleoni
segue esattamente questa lettura della fase monopolistica del
capitale nella voce Capitale,
ma la integra dentro l’interpretazione del capitalismo (italiano e
internazionale) del dopoguerra, e della sua crisi. La tendenza alla
crescita del sovrappiù discende
“da
un lato, dall’accelerazione del processo di abbassamento dei costi
unitari, qual è consentita dall’aumento delle dimensioni d’impresa
e perciò dalla possibilità di adottare nuove tecnologie e nuovi
metodi di organizzazione del lavoro, e, dall’altro lato, dalla
possibilità che le imprese hanno di influire sui prezzi rispetto ai
salari monetari, contrastando così la tendenza, che il salario reale
altrimenti avrebbe in virtù della forza sindacale, a sopravanzare
gli incrementi di produttività. Se la spesa per investimenti e il
consumo diretto dei capitalisti non sono, insieme, sufficienti ad
assorbire questo sovrappiù, si determina un vuoto di domanda, che,
se non è colmato per altre vie, rende soltanto potenziali e non
reali i maggiori profitti insiti nell’accrescimento del sovrappiù”
(Napoleoni, 1976a, p. 844).
I
modi di risoluzione della crisi da realizzazione possono essere
‘esterni’ o ‘interni’. Tra i modi esterni Napoleoni
privilegia quello leninista (dell’esportazione di capitale dalle
aree centrali nella periferia, alla caccia di un saggio del profitto
più alto ottenuto innanzi tutto grazie a salari più bassi) rispetto
a quello luxemburghiano (dove la realizzazione dipende dalla domanda
aggiuntiva netta di merci proveniente dalle aree non capitalistiche).
Tra i modi interni, ricorda i seguenti, molto vicini al testo di
Baran e Sweezy: le spese per pubblicità; i ceti improduttivi come le
burocrazie pubbliche e private, l’intermediazione commerciale
pletorica, la borghesia finanziario-speculativa. Di qui origina un
consumo ‘puro’, non solo della classe capitalistica, dei redditi
sottratti al plusvalore. Tra i modi di riassorbimento del surplus ha
un ruolo centrale la spesa pubblica in disavanzo, che si incarna in
valori d’uso che non rientrano nel processo di riproduzione, in
particolare la spesa militare:
“[l]’esempio
di queste pratiche configura un capitalismo che è aggressivo verso
l’esterno, e che ha rilevanti elementi di ‘improduttività’
all’interno, dove la ‘produttività’ è determinata secondo i
criteri del capitalismo stesso, e dove, d’altra parte, il termine
di riferimento è costituito dalle potenzialità implicite nello
stesso capitale monopolistico, e non dai risultati conseguiti dal
capitalismo concorrenziale, che aveva una dinamica certamente meno
accentuata. Il capitale monopolistico, che pure ha modificato
sostanzialmente il classico andamento ciclico del primo capitalismo,
è dunque soggetto a una particolare instabilità, dovuta alla
compresenza della tendenza inflazionistica derivante dalla
possibilità di amministrare i prezzi, e di quella deflazionistica,
derivante dalla difficoltà di realizzazione” (ibid.,
pp. 844-845).
C’è
uno scarto significativo dalle tesi di Baran e Sweezy su un paio di
punti. Primo, al contrario dei due marxisti statunitensi, per
Napoleoni l’improduttività non è definita rispetto a un metro di
misura che sia esterno ed estraneo al sistema reale che si espone e
si critica. Ma anche, secondo, il discorso slitta sulle ragioni di
quella compresenza di stagnazione e inflazione che sarà tipica degli
anni ‘70: tra queste primeggia la lotta salariale (ma come vedremo,
non solo) quale risposta all’intensificazione dello sfruttamento.
Si tratta di un tema che abbiamo visto essere al centro delle lezioni
di Torino dei primi anni settanta.
La
catena logica si chiude. La crisi da realizzo, in cui il capitalismo
precipita quando prevale la controtendenza alla caduta del saggio di
sfruttamento, viene tamponata per il contributo decisivo dato dal
gonfiamento dell’area della ‘rendita’ e dell’improduttività.
Il plusvalore realizzato è inferiore a quello potenziale, ma si
sfugge al baratro del crollo per insufficienza della domanda
effettiva. La nuova configurazione del capitalismo è però soggetta
al rischiodi un conflitto salariale a un certo punto ‘incompatibile’:
il più alto salario si somma alla rendita e schiaccia il profitto
effettivo. È teoricamente possibile, ma socialmente e politicamente
implausibile, che il capitale accetti una compressione della sfera
produttiva, scambiando la rendita con il salario quale sorgente della
domanda31.
Quando
il salario reale sopravanza la forza produttiva del lavoro, il
capitale risponde con quell’inflazione che è ora possibile, data
la forma monopolistica del mercato. L’inflazione potrebbe non
essere in grado di reprimere l’aumento delle retribuzioni reali in
modo da ristabilire la profittabilità ritenuta ‘accettabile’
dalla classe capitalistica, nel qual caso il salario come costo si
sommerebbe alla rendita come prelievo dal plusvalore: la compressione
del profitto si riaffermebbe per una via traversa, dando nuovamente
corsa a una crisi strutturale del rapporto capitalistico. Se
l’inflazione fosse invece efficace nel falcidiare il salario reale,
potrebbe venire “allo scoperto il potere sociale e politico dei
ceti improduttivi, che, diventando essi stessi il principale fattore
d’inflazione, tolgono quest’ultima al controllo del capitale e
danno luogo, di nuovo, a un elemento di crisi” (Napoleoni, 1976a,
p. 844). Secondo Napoleoni la realtà italiana (ma non solo) va
compresa come una sintesi delle due realtà appena descritte, il che
conferisce una particolare forza alle lotte della classe lavoratrice:
“[l]a
situazione attuale delle società capitalistiche viene dunque a
configurarsi come una situazione in cui i procedimenti a disposizione
del capitale (sul terreno della struttura sociale e su quello della
politica economica) per alleggerire le sue contraddizioni oggettive
sono altrettanti motivi di rafforzamento dell’efficacia, sul
terreno economico, dell’opposizione di classe esercitata dal
proletariato” (ibidem).
Il
ragionamento di Napoleoni a questo punto fa tutt’uno con quello
contenuto nell’introduzione alla seconda edizione di Smith,
Ricardo, Marx,
dove la teoria del valore-lavoro astratto viene proposta come un
programma di ricerca da riattivare sul terreno analitico della teoria
economica e non esclusivamente, come sarà dopo il 1978, sul piano
filosofico della teoria dell’alienazione e dell’indagine del
reificato32.
Si tratta: (i) di ricostruire la teoria del valore e quella della
crisi rendendosi conto che la distinzione tra le due è arbitraria;
(ii) di ridefinire le ragioni della crisi da realizzo e da caduta
tendenziale del saggio del profitto, mostrandone i rapporti; (iii) di
ricondurre le varie forme della crisi alla natura in senso proprio
contraddittoria del capitale. Un’opposizione che ha come suo sbocco
inevitabile “l’opposizione, non sporadica ma sistematica e
irriducibile, dei produttori al rapporto sociale in cui i produttori
stessi sono inclusi. L’opposizione operaia, in altri termini, è
nell’ambito del sistema, la disarmonia sistematica più
irriducibile” (Napoleoni, 1973b, p. 11).
Mentre
Sweezy e il gruppo della Monthly
Review paventava
all’epoca il rischio di una inclusione subalterna della classe
operaia nel ‘centro’ capitalistico, e guardava piuttosto alle
lotte nella ‘periferia’, Napoleoni si era andato convincendo che
l’approfondimento del conflitto di classe nel ‘centro’ del
capitalismo finiva col dare alle lotte un contenuto antagonistico.
Mentre la posizione di Baran e Sweezy non è lontana da quella di
Michał Kalecki in un articolo sulla ‘riforma fondamentale’ del
capitalismo scritto con Tadeusz Kowalik, e pubblicato in italiano nel
1971 su Politica
ed economia,
la rivista diretta da Antonio Pesenti33,
quella di Napoleoni è conforme a quella del Kalecki del 1943-1944,
che contesta che sia possibile un capitalismo di piena occupazione e
alti salari quale stato di cose permanente, in quanto ciò eroderebbe
alla lunga il dispotismo capitalistico nei luoghi di produzione34.
Una
continuità – per così dire, malgré
soi –
di Napoleoni con Kalecki può essere individuata su due punti chiave.
Il primo è che la sua teoria della crisi da realizzo ha aspetti
‘sottoconsumistici’ solo nel nome. Come lui stesso fa rilevare,
non sono certo i bassi salari la causa della crisi, né direttamente
il basso consumo delle masse è il fattore determinante, se non in
una catena di mediazioni: il nodo è semmai l’incapacità degli
investimenti (e più in generale della domanda ‘autonoma’) di
colmare il divario. Si tratta insomma, come nella Luxemburg secondo
l’interpretazione di Joan Robinson, di una teoria della crisi da
sotto-investimento35.
Se è indubbio che una distribuzione del reddito più egualitaria
favorirebbe un’espansione della domanda, si può dubitare che
una wage-led
recovery possa
darsi come soluzione di una grande crisi capitalistica, come quella
attuale, mentre essa certo è un possibile sollievo congiunturale
dentro un capitalismo che ha però in altro la sua locomotiva.
L’uscita dalla crisi richiede, detto altrimenti, un qualche traino
da parte della domanda ‘autonoma’.
Il
secondo punto su cui si può sostenere una sintonia tra Napoleoni e
Kalecki è proprio nell’interpretazione della crisi dei primi anni
settanta – nonostante il fatto che l’argomento di Napoleoni sia
declinato all’apparenza sulla base di una priorità del plusvalore
rispetto agli investimenti. Una lettura di questo genere della
posizione di Napoleoni fu data, per così dire ‘dal vivo’ (e cioè
a ridosso degli interventi dell’economista abruzzese), da Augusto
Graziani:
“[u]na
seconda visione, di natura strettamente marxiana, assegna invece alle
lotte operaie come unico sbocco possibile quello di condurre a un
sovvertimento del sistema economico e politico, e quindi al
superamento del sistema capitalistico. Secondo tale modo di vedere,
l’aspetto caratterizzante del sistema capitalistico è dato dalla
proprietà privata dei mezzi di produzione. Ciò significa che ogni
aggiunta al capitale produttivo (e cioè ogni investimento) deve
necessariamente tradursi nel fatto che i nuovi beni strumentali
vengono attribuiti ai capitalisti come proprietà privata. Ciò
comporta a sua volta che i capitalisti, dovendo acquisire in
proprietà privata tutti i nuovi beni strumentali e cioè tutti gli
investimenti, vengono automaticamente a realizzare profitti nella
stessa misura degli investimenti eseguiti. Tutte le volte in cui i
lavoratori tentano di comprimere i profitti, essi vengono
automaticamente a spossessare la classe dei capitalisti di parte dei
mezzi di produzione. Il che equivale a privare il sistema
capitalistico del suo connotato fondamentale” (Graziani, 1975, p.
8).
Il
riferimento a Kalecki è implicito ma chiaro. Secondo la lettura che
ne dà lo stesso Graziani nel primo volume di Teoria
economica dedicato
a Prezzi
e distribuzione,
il margine di profitto alla Kalecki deve essere fissato (nel modello
più astratto) in modo che gli imprenditori acquisiscano tutti i
nuovi mezzi di produzione prodotti, e cioè il totale degli
investimenti nel periodo: il margine di profitto deve cioè essere
tale da determinare profitti pari agli investimenti.36 Nella misura
in cui il conflitto sul salario e ancora di più sul tempo di lavoro
impedisce che ciò si verifichi, ciò non è riducibile a mera
questione distributiva ma comporta la messa in crisi del rapporto di
capitale (si tratta di una posizione anticipata da Rosa Luxemburg,
1971, nell’Introduzione all’economia
politica).
Kowalik
ha riconosciuto37 in
seguito che la posizione sua e di Kalecki, come anche quella di
Sweezy, sottostimavano le contraddizioni del capitalismo ‘centrale’
di quegli anni. Su questo all’epoca lo sguardo di Napoleoni era più
lucido. C’è però un ‘ma’. Quello sguardo era oscurato dalla
mancata percezione che alla situazione di crisi ‘sociale’ del
capitale di allora sarebbe inevitabilmente seguita una fase di lunga
ristrutturazione dell’economia e della società capitalistiche.
Napoleoni percepisce il mutamento del rapporto di classe favorevole
al lavoro come sostanzialmente permanente, per cui la sua lucidità
iniziale presto si traduce in una sostanziale cecità nei confronti
delle metamorfosi dell’universo capitalistico che andava maturando
sotto i suoi occhi.
5. Il
Capitale monopolistico secondo
Sweezy
Le
ragioni per cui secondo Baran e Sweezy il capitalismo nell’era
degli oligopoli approfondisce il problema della realizzazione non
hanno nulla a che vedere con la vulgata sottoconsumistica
o con uno stagnazionismo alla Alvin Hansen. La tesi è opposta: la
svolta ‘monopolistica’ del capitalismo amplifica a dismisura il
potenziale di crescita e per questo riproduce su scala allargata lo
squilibrio tra produzione e circolazione. La tendenza alla
stagnazione nasce proprio dalla spinta dinamica che il capitale
monopolistico nutre in sé, ed è battuta da significative e
distruttive controtendenze, le quali, pur vincendo la deriva verso la
stagnazione, la riproducono con più forza, conducendo a spreco e
irrazionalità. Il perno della costruzione è la sostituzione della
tendenza alla crescita del surplusalla tendenza alla caduta del
saggio di profitto.
La
definizione dell’‘era’ del capitale monopolistico è data in
questi termini: si tratta di quella fase dello sviluppo capitalistico
in cui le grandi imprese hanno il potere di determinare i prezzi di
ciò che vendono e di ciò che acquistano. Gli oligopoli, grazie
alla leadership sui
prezzi, possono agire come monopolisti. Si tratta di un’epoca
iniziata alla fine del XIX secolo, in forza della centralizzazione e
concentrazione del capitale che sono il portato dello stesso
capitalismo di ‘libera concorrenza’, fondato sulla concorrenza
sul prezzo. Il grado di monopolio e la battaglia sulla qualità del
prodotto divengono centrali per comprendere la dinamica capitalistica
e le sue contraddizioni. Nella nuova forma della concorrenza la lotta
tra i molti capitali procede per la via dell’abbassamento dei costi
unitari grazie al cambiamento tecnico e organizzativo, alla
pubblicità, e più in generale a tutti quei mezzi che possono
contrastare l’entrata sul mercato di altre imprese o indurre il
consumo in una direzione o in un’altra. I modi per assorbire il
surplus sono essenzialmente due: il gonfiamento delle spese
improduttive nelle imprese monopolistiche, e la spesa pubblica
keynesiana di natura militare.
Come
si è ricordato, Sweezy ha negato che vi fosse alcuna intenzione di
distaccarsi dalla teoria del valore-lavoro. Nella intervista che
abbiamo più volte citato, Sweezy afferma che con Baran avevano
previsto di pubblicare un paio di capitoli sulla loro
reinterpretazione della teoria marxiana del valore-lavoro. Quando
Baran morì, i capitoli erano allo stadio di manoscritto incompleto,
e Sweezy ritenne che non fosse opportuno rielaborarli da solo per la
pubblicazione. Oggi siamo avvantaggiati dal fatto che nel numero di
luglio-agosto della Monthly
Review è
stato pubblicato un ‘capitolo mancante’, preceduto da una
introduzione di John Bellamy Foster.38 Uno dei punti più
interessanti riguarda la teorizzazione del salario. Baran e Sweezy
dichiarano di essersi ispirati a Produzione
di merci a mezzo di merci39,
alle parti in cui il salario è considerato una quota variabile del
prodotto netto e non è risolto in mezzi di sussistenza. Sraffa aveva
affermato che, a rigore, bisognerebbe considerare entrambe le
dimensioni (sussistenza e partecipazione al valore aggiunto), ma che
ragioni di semplicità nella trattazione matematica lo avevano
indotto a considerare il salario soltanto come quota relativa del
sovrappiù. In modo analogo, il Capitale monopolistico tratta
il salario come variabile, e sostiene che parte del sovrappiù può
nascondersi nel ‘prezzo’ della forza-lavoro. In questa situazione
il capitale monopolistico può accrescere il surplus non soltanto a
danno degli altri capitali (perdenti nella guerra dei prezzi) ma
anche a favore del salario, visto che quest’ultimo assorbe frazioni
del sovrappiù che possono aumentare o diminuire.
Attraverso
il salario il surplus trova uno sbocco che si dissimula come costo40.
Il fatto che i lavoratori possano acquistare una quantità maggiore
di valori d’uso non comporta affatto che vi sia di per sé un
miglioramento nelle loro condizioni di vita41.
Inoltre, il punto di vista di Baran e Sweezy sulla retribuzione dei
lavoratori nel capitale monopolistico consente di vedere i profitti
come almeno in parte dipendenti da una “deduzione” dal salario,
visto che la determinazione oligopolistica dei prezzi e lo stesso
assorbimento del surplus danno luogo a un prezzo della forza-lavoro
più elevato rispetto al suo valore (inteso da Baran e Sweezy come
minimo irriducibile per consentire la normale riproduzione della
capacità lavorativa) ma che è al tempo stesso inferiore rispetto a
quanto sarebbe stato possibile (se i monopoli non avessero
taglieggiato il salario reale attraverso la manipolazione dei
prezzi). Come scrive Sweezy in una lettera a Baran, i lavoratori
hanno successo nell’appropriarsi parte del surplus, ma ciò non
impedisce che i capitalisti possano tentare (spesso riuscendovi) di
‘rubare’ parte diquel salario, riprendendosi indietro il
plusvalore42.
6.
Il ‘neoliberismo’ e la ‘finanziarizzazione’
Non
possiamo che chiudere qui la ricostruzione di questo significativo
episodio intellettuale, rimandando ad altre occasioni uno sviluppo di
questi temi. Ci limitiamo a poche osservazioni su quanto rimane
inevitabilmente in sospeso, e che pure ci sembra importante accennare
per chi fosse interessato a uno sviluppo in positivo della teoria
marxiana, fuori dalle secche della discussione sulla teoria del
valore come teoria dei prezzi, e la veda invece innanzi tutto come
teoria delle leggi di movimento del capitalismo nelle sue cangianti
incarnazioni storiche.
Lo
Sweezy dei decenni successivi, insieme a Magdoff, ha apportato
un’integrazione importante alla propria teorizzazione sul capitale
monopolistico, insistendo sui temi della finanziarizzazione e del
ruolo cruciale del debito: su questa pista, più che i keynesiani, un
loro interlocutore è stato, esplicitamente, Hyman P. Minsky43.
Per intendere adeguatamente il ‘nuovo capitalismo’ come economia
del debito, e per non separare questa gamba finanziaria del
ragionamento dalle trasformazioni del lavoro nel processo e nel
mercato del lavoro, è a Sweezy e Minsky che dobbiamo rivolgerci,
almeno in parte.44 A queste problematiche Napoleoni ha prestato la
dovuta attenzione, e ha anzi presto abbandonato il terreno
dell’analisi economica in senso stretto. È difficile, d’altra
parte, non trovare realistiche le considerazioni di Sweezy
nell’intervista a Savran e Tonak sulla situazione sociale nel
‘centro’ capitalistico, non poco mutata negli ultimi trentacinque
anni, dopo la controrivoluzione di Volcker, Thatcher e Reagan:
“Penso
che la teoria marxista tradizionale sia troppo ottimista nel
complesso. Credo che abbia sottostimato non solo l’integrazione
della classe lavoratrice nel sistema, ma anche la frammentazione
della classe lavoratrice, lo spezzarsi delle sue componenti, che non
si relazionano più nella maniera che i marxisti ritenevano normale.
I marxisti pensavano che proprio il processo capitalistico avrebbe
teso a omogeneizzare la classe lavoratrice, unendo i lavoratori e
fornendo loro maniere simili di guardare il mondo, una psicologia
comune, una coscienza di classe comune. Non sembra accadere da
nessuna parte” (Savran e Tonak, 1987).
Il
che significa che l’antagonismo di classe (o la sua integrazione)
non è un dato, e neanche l’esito spontaneo della dinamica
capitalistica: è l’esito di una lotta possibile, dentro condizioni
ogni volta diverse.
Napoleoni
non ha avuto il tempo per vedere dispiegarsi per intero i caratteri
spesso inediti della risposta capitalistica alla crisi degli anni
settanta. Da un lato, la frantumazione del lavoro: precarizzazione
nel mercato e nel processo di lavoro, concorrenza aggressiva
dei global
player e
sovracapacità, centralizzazione senza concentrazione, imprese
modulari articolate reticolarmente, catene transnazionali della
produzione, delocalizzazioni e in-house-outsourcing,
lavoro migrante, e così via. Dall’altro lato, la
finanziarizzazione: favorita da globalizzazione dei capitali, cambi
flessibili e incertezza, il capitalismo dei fondi istituzionali ha
determinato un’inflazione del prezzo delle attività-capitale in
senso lato, e ha fatto esplodere il debito privato, in particolare il
debito al consumo. La finanziarizzazione, a sua volta, ha accelerato
la decostruzione del mondo del lavoro per mille vie, incidendo
potentemente sui processi reali di valorizzazione. Si è approfondito
lo sfruttamento nei luoghi di lavoro, con una simbiosi di estrazione
di plusvalore relativo e assoluto.
La
crisi che ne sarebbe potuta conseguire è stata a lungo posposta
grazie a politiche monetarie di grande attivismo (la banca centrale
come prestatrice di prima istanza), che hanno innescato a ripetizione
bolle speculative nei mercati finanziari o nel mercato immobiliare.
La crescita del valore delle ‘attività’ ha spinto verso l’alto
la domanda interna nell’area del capitalismo anglosassone grazie al
consumo indebitato, consentendo ad altre aree (tra cui parti
significative del nostro apparato produttivo) di praticare politiche
‘neo-mercantiliste’, che consentivano di crescere grazie al
traino delle esportazioni nette. È insomma grazie a una vera e
propria sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito che si
è potuta sostenere la domanda effettiva a dispetto della
compressione dei salari. Il mondo del lavoro è stato consegnato
all’insicurezza e alla frammentazione, e su di esso si scaricavano
rischi e margini di aggiustamento.
Tutto
questo non può che essere fuori dall’orizzonte di Napoleoni, per
ragioni storiche e anche per ragioni teoriche. Eppure, a ben vedere,
conferma una verità interna della sua posizione, e costituisce il
prolungamento del suo discorso sulla teoria della crisi. Lo sviluppo
del capitalismo neo-mercantilista e la crescita dell’economia reale
globale del cosiddetto neoliberismo sono stati legati a filo doppio
alle armi di distruzione di massa della finanza ‘perversa’. Anche
questo nuovo volto della ‘rendita’ ha mostrato di essere, a un
tempo, contraddittorio e funzionale all’accumulazione. Il capitale
ha confermato la sua tendenza totalitaria a includere il lavoro nelle
sue varie forme, senza peraltro riuscire a ridurre lo spreco. Tutto
ciò ha inevitabilmente dato vita a un meccanismo non solo instabile
ma anche insostenibile, facendo riemergere in forme nuove la tendenza
alla crisi sistemica del capitale.
Per
uscirne è necessaria una ridefinizione strutturale del modello di
economia e di società. Certo, contrariamente a quel che pensava
Napoleoni, questo intervento qualitativo, questo nuovo modello, pare
potersi affermare solo per il tramite di politiche di spesa pubblica
in disavanzo, finanziate monetariamente. Rimane vero però che non ci
si può limitare a un’impossibile replica del vecchio keynesismo
dell’espansione generica, non finalizzata, della domanda effettiva,
che darebbe luogo a una crescita più che a un autentico sviluppo,
non risolvendo al fondo nessuna delle contraddizioni che ci hanno
portato a questo nuovo bivio storico.
A
ben vedere, prima inclusi dal neoliberismo e poi messi a rischio
dalla sua crisi, sono stati, e sono, non soltanto il consumo e il
risparmio. Sono stati, e sono, in un elenco tutto meno che esaustivo,
anche abitazioni, istruzione, pensioni, sanità, lavoro di cura.
Prosegue intanto l’abbattimento del salario e la dilatazione del
tempo di lavoro, l’aggressione al corpo e alla vita dei lavoratori,
sino alla spoliazione della stessa natura. In una parola, in gioco
sono ormai le condizioni di esistenza e riproduzione degli esseri
umani nella loro integralità.
Per
questo – ancora un tema minskiano ma che per certi versi si ritrova
in alcuni momenti della riflessione di Ernesto Rossi e Paolo Sylos
Labini – la nuova crisi sistemica ci squaderna davanti l’esigenza,
ma anche il compito, della socializzazione della banca e della
finanza, dell’investimento, dell’occupazione, per provvedere
diversamente ai bisogni sociali. Il nodo rimane quello a cui
approdava sempre il discorso di Napoleoni. Riconoscere le
compatibilità capitalistiche, operare per una loro rottura,
intervenire politicamente sulla natura e la struttura del processo
economico: sulla base di una spinta e di un vincolo sociale, e a
partire da una ridefinizione qualitativa e non solo quantitativa
della spesa pubblica. Mettere in questione non solo ‘quanto’ e
‘per chi’ ma prima ancora ‘cosa’ e ‘come’ si produce.
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