DISCORSO SULLA SERVITU’ VOLONTARIA
«No, non è un bene il comando di molti;
uno sia il capo, uno il re» (1)
così Ulisse, secondo il racconto di
Omero, si rivolse all’assemblea dei Greci. Se si fosse fermato alla frase
«non è un bene il comando di molti» non
avrebbe potuto dire cosa migliore. Ma mentre, a voler essere
ancora più ragionevoli, bisognava
aggiungere che il dominio di molti non può essere conveniente dato che
il potere di uno solo, appena questi
assuma il titolo di signore, è terribile e contro ragione, al contrario il
nostro eroe conclude dicendo: «uno sia
il capo, uno il re».
E tuttavia dobbiamo perdonare a Ulisse
di aver tenuto un simile discorso che in quel momento gli servì per
calmare la ribellione dell’esercito
adattando, penso, il suo discorso più alla circostanza che alla verità. Ma
in tutta coscienza va considerata una
tremenda sventura essere soggetti ad un signore di cui non si può mai
dire con certezza se sarà buono poiché è
sempre in suo potere essere malvagio secondo il proprio arbitrio;
e quanto più
padroni si hanno tanto più sventurati ci si trova. Ma non voglio ora
addentrarmi nella questione
così spesso dibattuta se gli altri modi
di governare la cosa pubblica siano migliori della monarchia. Se
dovessi entrare in merito a tale
questione, prima di discutere a quale livello si debba collocare la monarchia
tra
i diversi tipi di governo, porrei il problema se essa si possa dir tale, dato
che mi sembra difficile credere
che ci sia qualcosa di pubblico in un
governo dove tutto è di uno solo. Ma riserviamo ad un altro
momento la discussione di questo
problema che richiederebbe di essere trattato a parte e si trascinerebbe
dietro ogni sorta di disputa politica.
Per ora vorrei solo riuscire a
comprendere come mai tanti uomini, tanti villaggi e città, tante nazioni a
volte sopportano un tiranno che non ha
alcuna forza se non quella che gli viene data, non ha potere di
nuocere se non in quanto viene tollerato
e non potrebbe far male ad alcuno, se non nel caso che si preferisca sopportarlo
anziché contraddirlo.
E’ un fatto davvero sorprendente e nello
stesso tempo comune, tanto che
c’è più da dolersene che da
meravigliarsene, vedere milioni e milioni di uomini asserviti come miserabili,
messi a testa bassa sotto ad un giogo
vergognoso non per costrizione di forza maggiore ma perché sembra
siano affascinati e quasi stregati dal
solo nome di uno di fronte al quale non dovrebbero né temerne la
forza, dato che si tratta appunto di una
persona sola, né amarne le qualità poiché si comporta verso di loro
in modo del tutto inumano e selvaggio.
Noi uomini siamo così deboli che sovente dobbiamo ubbidire alla
forza; in questo caso è necessario
prender tempo, non potendo sempre essere tra i più forti. Dunque se una nazione
è costretta dalla forza delle armi a sottomettersi ad uno, come la città
d’Atene ai trenta tiranni, non bisogna stupirsi della sua servitù ma
compiangerla, o meglio ancora né stupirsi né lamentarsi ma
sopportare la disgrazia con
rassegnazione e prepararsi per un’occasione migliore nel futuro.
La natura umana è fatta in modo tale che
i doveri dell’amicizia assorbono buona parte della nostra vita. E’
del tutto ragionevole amare la virtù,
avere stima delle buone azioni, essere riconoscenti del bene ricevuto e
a volte anche mettere un limite al
nostro benessere per aumentare l’onore e i vantaggi di coloro che amiamo e che
meritano di esserlo. Orbene, ammettiamo che gli abitanti di un paese riescano a
trovare uno di quei grandi personaggi che ha saputo dar loro prova di grande
preveggenza su cui fare affidamento, di grande coraggio a loro difesa, di cura
premurosa da poterli governare. Se ad un certo punto si trovano a loro agio nell’obbedirgli
e gli danno fiducia fino a riconoscergli una certa supremazia, non saprei
proprio dire se è
agire con saggezza toglierlo da dove
faceva bene per metterlo in una posizione dove potrebbe fare male; in
ogni caso ci risulta naturale volergli
bene senza temere di riceverne del male.
Ma, buon Dio, che faccenda è mai questa?
Come spiegarla? Quale disgrazia, quale vizio, quale disgraziato
vizio fa sì che dobbiamo vedere
un’infinità di uomini non solo ubbidire ma servire, non essere governati
ma tiranneggiati a tal punto che non
possiedono più né beni, né figli, né genitori e neppure la propria vita?
Vederli soffrire rapine, brigantaggi,
crudeltà, non da parte di un’armata o di un’orda di barbari contro cui si
dovrebbe difendere la vita a prezzo del
proprio sangue, ma a causa di uno solo, e non già di un Ercole o di
un Sansone ma di un uomo che nella
maggior parte dei casi è il più molle ed effeminato di tutta una
nazione, che non ha mai provato la
polvere delle battaglie e neppure quella di un torneo; non solo incapace
di imporsi agli uomini ma preoccupato di
servire la più trascurabile donnicciola. Ebbene, è forse debolezza
tutto questo? Chiameremo vili e codardi tutti
coloro che gli si sono assoggettati? Che due, tre o quattro
persone si lascino sopraffare da uno è
strano, tuttavia può accadere; in questo caso si potrà ben dire che è
mancanza di coraggio. Ma se cento, se
mille persone si lasciano opprimere da uno solo chi oserà ancora
parlare di viltà, di timore di
scontrarsi con lui, anziché affermare che si tratta di mancanza di volontà e di
grande abiezione? E se vediamo non cento
o mille persone, ma cento villaggi, mille città, milioni di
uomini che non fanno nulla per attaccare
e schiacciare uno solo che li tratta nel migliore dei casi come servi
e schiavi, come potremo qualificare un
simile fatto? Si tratta ancora di viltà? Ma in tutti i vizi ci sono dei
limiti oltre i quali non si può andare;
due uomini, ammettiamo anche dieci, possono aver paura di uno. Ma
se mille persone, che dico, mille città
non si difendono da uno solo questa non è viltà, non si può essere
vigliacchi fino a questo punto, così
come aver coraggio non significa che un uomo si debba metter da solo
a scalare una fortezza, attaccare
un’armata, conquistare un regno! Che razza di vizio è allora questo se non
merita neppure il nome di viltà, se non
si riesce a qualificarlo con termini sufficientemente spregevoli, se la
natura stessa lo disapprova e il
linguaggio rifiuta di nominarlo?
Si mettano cinquantamila uomini armati
da una parte e dall’altra; si schierino per la battaglia e combattano
tra loro, gli uni per la propria
libertà, gli altri per toglierla ai primi. A chi presumibilmente toccherà la
vittoria? Saranno più coraggiosi in
battaglia quelli che sperano di ottenere in premio il mantenimento della
loro libertà o coloro che come
ricompensa delle percosse date e subite non avranno se non la servitù altrui?
I primi hanno sempre davanti agli occhi
la felicità del tempo passato e l’attesa di una vita altrettanto lieta
per l’avvenire; non si preoccupano delle
sofferenze che durano il tempo di una battaglia ma piuttosto
pensano
a tutte quelle che dovranno sopportare per sempre loro stessi, i figli e tutti
i discendenti. Gli altri
invece non hanno nulla che possa dar
loro slancio se non una punta di cupidigia che subito svanisce di
fronte al pericolo; in ogni caso il loro
coraggio si ferma alla vista della più piccola goccia di sangue appena
inizia ad uscire da una ferita.
Ripensiamo alle famose battaglie di Milziade, di Leonida, di Temistocle,
avvenute duemila anni fa ma ancor oggi
così vive nel ricordo dei libri e degli uomini come se fossero
successe l’altro giorno, combattute in
Grecia per il bene dei greci ma anche come esempi per il mondo
intero. Ebbene domandiamoci: da dove
venne a così pochi uomini, come a quel tempo i greci, non dico la
forza ma il coraggio di respingere
flotte talmente potenti e numerose da coprire il mare, e di sconfiggere
così tante nazioni i cui eserciti
avevano più capitani di quanto non fossero tutti i soldati greci messi
assieme? A mio avviso solo dal fatto che
in quelle gloriose giornate non ci fu semplicemente una battaglia
di greci contro persiani, bensì avvenne
la vittoria della libertà contro la tirannia, della liberazione contro
l’oppressione.
E’ una cosa davvero straordinaria
osservare il coraggio che la libertà mette in animo a coloro che la
difendono; ma quel che avviene in tutti
i paesi, fra tutti gli uomini, tutti i giorni, e cioè che uno solo
opprime cento, mille persone e le priva
della loro libertà, chi potrebbe mai crederlo se fosse semplicemente
una notizia che ci giunge alle orecchie
e non capitasse invece davanti ai nostri occhi? E se questo accadesse
in paesi lontani e qualcuno venisse a
raccontarcelo, chi di noi non penserebbe che si tratta di una pura
invenzione? Va aggiunto inoltre che non
c’è bisogno di combattere questo tiranno, di toglierlo di mezzo;
egli viene meno da solo, basta che il
popolo non acconsenta più a servirlo. Non si tratta di sottrargli
qualcosa, ma di non attribuirgli niente;
non c’è bisogno che il paese si sforzi di fare qualcosa per il proprio
bene, è sufficiente che non faccia nulla
a proprio danno. Sono dunque i popoli stessi che si lasciano, o
meglio, si fanno incatenare, poiché col
semplice rifiuto di sottomettersi sarebbero liberati da ogni legame; è
il popolo che si assoggetta, si taglia
la gola da solo e potendo scegliere fra la servitù e la libertà rifiuta la
sua indipendenza, mette il collo sotto
il giogo, approva il proprio male, anzi se lo procura. Se gli costasse
qualcosa riacquistare la libertà non
continuerei a sollecitarlo; anche se riprendersi i propri diritti di natura e
per così dire da bestia ridiventare uomo
dovrebbe stargli il più possibile a cuore. Tuttavia non voglio
esigere da lui un tale coraggio; gli
concedo pure di preferire una vita a suo modo sicura anche se miserabile
ad una incerta speranza in una
condizione migliore. Ma se per avere la libertà è sufficiente desiderarla con
un semplice atto di volontà si troverà
ancora al mondo un popolo che la ritenga troppo cara, potendola
ottenere con un desiderio? Può esistere
un popolo che non se la senta di riavere un bene che si dovrebbe
riscattare a prezzo del proprio sangue,
un bene la cui perdita rende insopportabile la vita e desiderabile la
morte, almeno per chi ha un minimo di
dignità? Come il fuoco che da una piccola scintilla si fa sempre
più grande e più trova legna più ne
brucia, ma si consuma da solo, anche senza gettarvi sopra dell’acqua,
semplicemente non alimentandolo, così i
tiranni più saccheggiano e più esigono, più distruggono e più
ottengono mano libera, più li si serve e
più diventano potenti, forti e disposti a distruggere tutto; ma se
non si cede al loro volere, se non si
presta loro obbedienza allora, senza alcuna lotta, senza colpo ferire,
rimangono nudi e impotenti, ridotti a un
niente proprio come un albero che non ricevendo più la linfa
vitale dalle radici subito rinsecchisce
e muore.
Gli uomini coraggiosi per conquistare il
bene che desiderano non temono di affrontare il pericolo; la gente
intraprendente non rifiuta la fatica.
Invece gli uomini deboli e pressoché storditi non sanno né sopportare il
male, né ricercare il bene, limitandosi
a desiderarlo. La debolezza del loro animo toglie loro l’energia per
arrivare al bene; mantengono solo quel
desiderio che è insito nella natura umana. Questa aspirazione è
comune ai saggi e agli ignoranti, ai
coraggiosi ed ai pusillanimi e fa sì che essi continuino ad avere il
desiderio di tutte quelle cose che li
potrebbero rendere felici. In una sola cosa, non so come mai, sembra
che la natura venga meno così che gli
uomini non hanno la forza di desiderarla: si tratta della libertà, un
bene così grande e dolce che una volta
perduto vengono dietro tutti i mali, mentre tutti i beni che
solitamente l’accompagnano, corrotti
dalla servitù, non hanno più né gusto né sapore. E’ così che gli
uomini tutto desiderano eccetto la
libertà forse perché l’otterrebbero semplicemente desiderandola; è come se si
rifiutassero di fare questa conquista perché troppo facile.
Povera gente insensata, popoli ostinati
nel male e ciechi nei confronti del vostro bene! Vi lasciate portar via
sotto gli occhi tutti i vostri migliori
guadagni, permettete che saccheggino i vostri campi, rubino nelle
vostre case spogliandole dei vecchi
mobili paterni. Vivete in condizione da non poter più vantarvi di tenere
una cosa che sia vostra; e vi
sembrerebbe addirittura di ricevere un gran favore se vi si lasciasse la metà
dei
vostri
beni, delle vostre famiglie, della vostra stessa vita. E tutti questi danni,
queste sventure, questa
rovina vi vengono non da molti nemici ma
da uno solo, da colui che voi stessi avete reso tanto potente; è
per suo amore che andate così
coraggiosamente in guerra, è per la sua vanità che non esitate ad affrontare la
morte. Costui che spadroneggia su di voi non ha che due occhi, due mani, un
corpo e niente di più di
quanto possiede l’ultimo abitante di
tutte le vostre città. Ciò che ha in più è la libertà di mano che gli
lasciate nel fare oppressione su di voi
fino ad annientarvi. Da dove ha potuto prendere tanti occhi per
spiarvi se non glieli avete prestati
voi? Come può avere tante mani per prendervi se non è da voi che le ha
ricevute? E i piedi coi quali calpesta
le vostre città non sono forse i vostri? Come fa ad avere potere su di
voi senza che voi stessi vi prestiate al
gioco? E come oserebbe balzarvi addosso se non fosse già d’accordo
con voi? Che male potrebbe farvi se non
foste complici del brigante che vi deruba, dell’assassino che vi
uccide, se insomma non foste traditori
di voi stessi? Voi seminate i campi per farvi distruggere il raccolto;
riempite di mobili e di vari oggetti le
vostre case per lasciarveli derubare; allevate le vostre figlie per
soddisfare le sue voglie e i vostri
figli perché il meglio che loro possa capitare è di essere trascinati in
guerra, condotti al macello, trasformati
in servi dei suoi desideri e in esecutori delle sue vendette; vi
ammazzate di fatica perché possa godersi
le gioie della vita e darsi ai piaceri più turpi; vi indebolite per
renderlo più forte e più duro nel
tenervi corta la briglia. Eppure da tutte queste infamie che le bestie stesse
non riuscirebbero ad apprendere e che
comunque non sopporterebbero, potreste liberarvi se provaste, non
dico a scuotervele di dosso, ma
semplicemente a desiderare di farlo. Siate dunque decisi a non servire mai
più e sarete liberi. Non voglio che
scacciate il tiranno e lo buttiate giù dal trono; basta che non lo
sosteniate più e lo vedrete crollare a
terra per il peso e andare in frantumi come un colosso a cui sia stato
tolto il basamento.
Certo, i medici dicono che è inutile
tentare di guarire le piaghe incurabili e in questo senso ho forse torto a
voler dare consigli al popolo che da
molto tempo ha perso del tutto conoscenza riguardo al male che
l’affligge e proprio perché non lo sente
più dimostra ormai che la sua malattia è mortale. Cerchiamo allora
di scoprire per tentativi come questa
ostinata volontà di servire ha potuto radicarsi a tal punto che lo stesso
amore per la libertà non sembra più
essere tanto naturale.
Prima di tutto credo sia fuori di dubbio
che se vivessimo con quei diritti che la natura ci ha dato e secondo
quegli insegnamenti che essa ci ha
impartito saremmo senz’altro obbedienti verso i genitori, soggetti alla
ragione e servi di nessuno. Si tratta di
un’obbedienza che ciascuno, senza altra spinta che non sia quella
della natura, rende a suo padre e sua
madre; di questo tutti gli uomini possono essere testimoni di fronte a
se stessi. Quanto invece al problema se
la ragione sia innata o no (questione dibattuta a fondo nelle
accademie e affrontata da tutte le
scuole filosofiche) penso di non sbagliarmi dicendo che c’è nella nostra
anima un seme naturale di ragione il
quale, una volta che sia mantenuto da buoni consigli e abitudini,
fiorisce in virtù, mentre a volte non
potendo resistere ai vizi che sopraggiungono col tempo, muore
soffocato. Ma certamente, se c’è una
cosa chiara ed evidente così che nessuno può permettersi di non vedere è che la
natura stabilita da Dio a governare gli uomini ci ha fatti tutti allo stesso
modo, vale a dire dallo stesso stampo, così che potessimo riconoscerci l’un
l’altro come compagni o piuttosto come fratelli. E se nel distribuire i doni
sia del corpo che dello spirito ha largheggiato più con alcuni che con altri,
tuttavia
non per questo ha voluto metterci al
mondo come in una sorta di recinto da combattimento, e non ha certo
creato i più forti e i più furbi perché
si comportassero come i briganti nella foresta che danno addosso ai
più deboli. Piuttosto bisogna credere
che la natura, dando agli uni di più agli altri di meno, abbia voluto
porre le condizioni per un affetto
fraterno che tutti potessero esercitare, avendo gli uni la forza di recare
aiuto, gli altri bisogno di riceverne.
Così dunque questa buona madre ha dato a tutti noi la terra da abitare,
mettendoci in certo modo in un’unica
grande casa, ci ha fatti tutti con lo stesso impasto così che ognuno
potesse riconoscersi nel proprio
fratello come in uno specchio. Se dunque a tutti noi ha fatto il grande dono
della parola per comunicare, diventare
sempre più fratelli e arrivare tramite il continuo scambio delle nostre
idee ad una comunione di volontà; se ha
cercato in tutti i modi di stringere sempre più saldamente il
vincolo che ci lega in un patto di
convivenza sociale; se insomma sotto ogni punto di vista ha mostrato
chiaramente di averci voluti non solo
uniti ma addirittura una cosa sola, allora non c’è dubbio che tutti
siamo liberi per natura, poiché siamo
tutti compagni e a nessuno può venire in mente che la natura, dopo
averci messi tutti quanti insieme come
fratelli, abbia potuto porre qualcuno nella condizione di servo.
Ma forse non vale la pena discutere se
la libertà sia naturale, dato che è impossibile tenere qualcuno in
schiavitù senza fargli un grande torto e
nessuna cosa al mondo è più contraria alla natura, dove tutto è
razionale,
della ingiustizia. Dunque la libertà è naturale e a mio giudizio siamo nati non
solo padroni della
nostra libertà ma anche dotati della
volontà di difenderla. Ora se per caso qualcuno nutrisse ancora dei
dubbi su questo e si fosse talmente
depravato da non riconoscere più neppure i beni della propria natura
umana e gli affetti che gli sono
originari, è necessario rendergli l’onore che si merita e mettergli in cattedra
per così dire le bestie prive di ragione
che gli possano insegnare quale sia la sua natura e la sua condizione.
Sì le bestie stesse, per Dio, a meno che
gli uomini vogliano fare i sordi, continuamente gridano: viva la
libertà! Infatti la maggior parte degli
animali muore appena catturata. Come il pesce muore appena lo si
toglie dall’acqua così tutti gli animali
chiudono gli occhi alla luce del mondo piuttosto che continuare a
vivere dopo aver perso la loro naturale
condizione di libertà. E se gli animali avessero tra loro diversi gradi
d’importanza penso che l’esser liberi
costituirebbe la loro massima nobiltà. Altri animali, dal più grande
fino al più piccolo, quando li si vuol
prendere oppongono una tale resistenza con le unghie, le corna, il
becco o i piedi, che dimostrano in modo
evidente quanto sia loro caro ciò che stanno per perdere. Poi, una
volta catturati, danno chiari segni di
malessere e si può benissimo notare che dal momento della cattura il
loro non è un vivere ma un languire, e
stanno in vita più per lamentarsi della libertà perduta che per
rassegnazione alla prigionia. E quando
l’elefante, dopo essersi difeso fino all’estremo delle forze, non
avendo più via di scampo ed essendo
oramai sul punto di essere preso, si avventa con le mascelle contro
gli alberi e si spezza le zanne, non
dimostra forse il suo grande desiderio di restare libero com’è per natura,
cercando di venire a patti con i
cacciatori e di lasciar loro i suoi denti pur di riuscire ad andarsene e in
cambio dell’avorio riacquistare la
libertà? E così il cavallo; appena nato lo addestriamo a servire, ma
nonostante tutte le nostre attenzioni e
carezze, quando lo vogliamo domare dobbiamo ricorrere ai colpi di
sperone per fargli mordere il freno,
quasi volesse far vedere alla natura che se deve servire non lo fa di suo
istinto ma per costrizione altrui. Che
dire ancora?
«Il bue stesso sotto il giogo si lamenta
e geme l’uccellin rinchiuso in gabbia»
come ho scritto una volta quando per
passatempo mi divertivo a comporre poesie; e scrivendo a te, Longa
(2), non dubito affatto che mi riterrai
un vanitoso se mi permetto di inserire la citazione delle mie rime, che
non leggerei mai se tu non riuscissi a
darmi da intendere che ti piace ascoltarle. Così dunque se ogni essere
che ha sentimento della propria
esistenza vive l’infelicità della soggezione e corre dietro la libertà, se gli
animali, che pur sono fatti per servire
l’uomo, non riescono ad abituarsi senza manifestare allo stesso tempo
un istinto contrario, quale oscuro male
ha potuto snaturare a tal punto l’uomo, l’unico ad essere nato
propriamente per vivere libero, da
fargli perdere la memoria del suo primo stato e il desiderio di
riacquistarlo?
Vi sono tre tipi di tiranni: alcuni
ottengono il potere in base alla scelta del popolo; altri con la forza delle
armi; gli ultimi infine per successione
dinastica. Coloro che l’hanno avuto per diritto di guerra si
comportano nel modo che tutti ben
conoscono, trovandosi, come si usa dire, in terra di conquista. Chi
invece nasce re non è certo migliore,
anzi essendo nato e cresciuto in seno alla tirannia la natura di despota
l’ha succhiata con il latte: considera
infatti i popoli che gli sono sottomessi alla stregua di servi avuti in
eredità e, secondo l’inclinazione che si
ritrova, tratta il regno da avaro o da scialacquatore come fosse cosa
sua propria. Infine per quanto riguarda
colui che ha ricevuto il potere dal popolo, mi sembra che dovrebbe
essere più sopportabile e credo lo
sarebbe se non fosse per il fatto che una volta vistosi innalzato sopra tutti
gli altri, gonfiato da un sentimento che
non saprei definire ma che tutti chiamano senso di grandezza,
decide di non scenderne più. Di solito
poi costui fa conto di lasciare ai figli il potere che il popolo gli ha
affidato; e dal momento che essi si
mettono in testa questa idea è uno spettacolo tremendo osservare come sanno
superare in ogni tipo di vizi e perfino in crudeltà gli altri tiranni, non
trovando altro metodo per
rafforzare la nuova tirannia se non
quello di accrescere la schiavitù e di sradicare la libertà dall’animo dei
loro sudditi a tal punto che, per quanto
l’abbiano ben presente nella memoria, riescono a fargliela perdere.
Così, a dir la verità, vedo che tra i
vari tipi di tirannide vi è qualche differenza ma non noto che vi sia la
possibilità di una scelta, poiché pur
essendo diverse le vie per arrivare al potere il modo di regnare è sempre più o
meno lo stesso. Coloro che sono eletti dal popolo lo trattano come un toro da
domare; chi ha
conquistato il regno pensa di avere su
di lui il diritto di preda; chi infine lo ha ereditato considera i sudditi
come suoi schiavi naturali.
A
questo proposito però vorrei chiedere: ammettiamo per caso che oggi nasca un
tipo di gente del tutto
nuovo, non abituata alla servitù né
allettata dalla libertà, che non sappia assolutamente nulla dell’una e
dell’altra cosa se non a malapena i
nomi; se a costoro venisse presentata l’alternativa tra l’esser servi o il
vivere liberi secondo quelle leggi che
stabiliranno fra loro di comune accordo, che cosa sceglierebbero? Non
c’è dubbio che avrebbero più caro
ubbidire soltanto alla ragione piuttosto che servire ad un uomo, a meno
che siano come quei d’Israele che senza
alcuna costrizione o necessità si crearono un tiranno (3). E devo
confessare che non riesco mai a leggere
la storia di questo popolo senza provare una stizza tale da diventare quasi
inumano nei suoi confronti, arrivando al punto di rallegrarmi per tutte le
disgrazie che gli sono poi capitate. Certamente perché tutti gli uomini (fin
quando almeno hanno qualcosa di umano) si lascino assoggettare è necessario una
delle due: esservi costretti o ingannati.
Costretti dalle armi straniere, come
Sparta e Atene dall’esercito di Alessandro, o dalle fazioni in gioco,
come il governo di Atene prima di cadere
nelle mani di Pisistrato. Per inganno gli uomini perdono sovente
la loro libertà; in questo un poco sono
sedotti da altri, più spesso però accade che siano loro stessi ad
ingannarsi. Così gli abitanti di
Siracusa, la principale città della Sicilia, assaliti da ogni parte e
preoccupati
solo di salvarsi dal pericolo imminente,
chiamarono Dionigi Primo e gli diedero l’incarico di guidare
l’esercito contro il nemico, senza
badare al fatto di averlo reso così potente che una volta tornato vittorioso
questo furfante, come se avesse
sconfitto non dei nemici ma i suoi stessi concittadini, da capitano si fece
promuovere re e da re tiranno. E nessuno
crederebbe come un popolo, dopo essere stato sottomesso,
sprofondi subito in una tale
dimenticanza della libertà che non gli è più possibile risvegliarsene per
riacquistarla, ma serve così di buon
grado il tiranno che a vederlo si direbbe non già che ha perso la sua
libertà ma che si è guadagnato la sua
servitù. E’ pur vero che all’inizio l’uomo serve a malincuore, costretto
da forza maggiore; ma quelli che vengono
dopo, non avendo mai visto la libertà e non sapendo neppure
cosa sia, servono senza alcun rincrescimento
e fanno volentieri ciò che i loro padri hanno fatto per forza. E
così gli uomini che nascono con il giogo
sul collo, nutriti e allevati nella servitù, senza sollevare lo
sguardo un poco in avanti si
accontentano di vivere come sono nati, e non riuscendo a immaginare altri
beni e altri diritti da quelli che si
sono trovati dinnanzi prendono per naturale la condizione in cui sono
nati. E tuttavia non c’è erede tanto
spensierato e incurante che qualche volta non dia un’occhiata ai registri
di famiglia per vedere se gode di tutti
i diritti di successione o se invece non sia avvenuta qualche
macchinazione contro di lui o contro i
suoi predecessori. Ma è anche vero che la consuetudine, la quale ha
un grande influsso su tutte le nostre
azioni, esercita il suo potere soprattutto nell’insegnarci a servire, e
come Mitridate che si abituò a bere il
veleno, ci rende alla fine assuefatti a trangugiare normalmente il
veleno della servitù senza sentirne
l’amaro. Certamente nel tendere verso il bene o verso il male gioca in
gran parte la natura che ci spinge dove
vuole; ma bisogna ammettere che essa ha meno potere su di noi di
quanto non l’abbia la consuetudine,
perché la nostra indole, per quanto possa essere buona, va persa se non si
cerca di mantenerla.
L’educazione insomma lascia sempre la
sua impronta malgrado le tendenze naturali. I semi del bene che la
natura mette dentro di noi sono così
piccoli e fragili che non possono resistere al benché minimo impatto
con un’educazione di segno contrario.
Inoltre non è semplice conservarli poiché con molta facilità si
chiudono in sé, degenerano e finiscono
in niente, né più né meno degli alberi da frutta che hanno ognuno la
loro particolarità e la mantengono se li
si lascia crescere in modo naturale, ma perdono ben presto le loro
caratteristiche e producono frutti
estranei se si operano degli innesti. Perfino ogni erba ha le sue proprietà
naturali; tuttavia il gelo, il tempo, il
terreno e la mano del giardiniere influiscono molto sulla loro qualità,
sia nel peggiorarla che nel migliorarla:
una pianta vista in un dato luogo, in un altro si riconosce a fatica.
Chi vedesse i veneziani, questo piccolo
popolo, vivere una vita così libera che il più meschino tra loro non
si sognerebbe di diventare re, nati e
allevati in modo tale da avere una sola ambizione, quella di dare
ognuno miglior prova dell’altro nel
conservare gelosamente la libertà; educati fin dalla culla in questo senso
così che non cederebbero neppure
un’oncia della loro libertà in cambio di tutte le altre felicità della terra;
ebbene dicevo, chi vedesse questa gente
e poi se ne andasse nelle terre di colui che chiamiamo gran signore trovandovi
un popolo nato per servire e votato per tutta la vita a mantenere il suo
potere, riuscirebbe mai a pensare che gli uni e gli altri sono della stessa
natura o piuttosto non crederebbe di essere uscito da una città di uomini per
entrare in un parco di animali?
Si dice che Licurgo, il legislatore di
Sparta, avesse allevato due cani, tutti e due fratelli e allattati dalla
stessa cagna, tenendone uno a ingrassare
in cucina e abituando l’altro a correre nei campi al suono della
tromba
e del corno. Volendo far vedere agli spartani che gli uomini sono come li fa
l’educazione, portò i
cani in piazza e mise loro vicino una
minestra e una lepre: il primo si buttò sulla scodella, l’altro corse
dietro alla lepre. Eppure – concluse
Licurgo – sono fratelli! Così questo grand’uomo con le sue leggi seppe
dare una tale educazione agli spartani
che ciascuno di loro avrebbe avuto più caro morire mille volte
piuttosto che riconoscere altro signore
all’infuori della legge e della ragione.
A questo proposito vorrei ricordare la
conversazione che si tenne tra uno dei più alti rappresentanti di Serse,
il grande re dei persiani, e due
spartani. Durante i preparativi per la conquista della Grecia, Serse mandò i
suoi ambasciatori nelle città di quella
regione a chiedere l’acqua e la terra (formula con la quale i persiani
erano soliti intimare alle città di
sottomettersi). Ma ad Atene e Sparta non ne inviò ricordandosi che
quando Dario suo padre li aveva voluti
mandare, furono buttati dagli ateniesi in un fosso e dagli spartani in
un pozzo e si sentirono rivolgere:
«Prendete pure da qui tutta l’acqua e la terra che volete e portatela al
vostro re». A tal punto giungeva la loro
insofferenza anche per la più piccola parola che suonasse offesa alla
loro libertà. Tuttavia per aver agito in
questo modo gli spartani si accorsero di aver provocato l’ira degli
dei, soprattutto di Taltibio, dio dei
messaggeri. Allora per rabbonire Serse pensarono di mandargli due
cittadini perché li trattasse a suo
arbitrio e potesse così vendicarsi degli ambasciatori che erano stati uccisi a
suo padre. Due spartani, l’uno chiamato
Sperto l’altro Buli, si offrirono volentieri per andare a pagare di
persona questo debito. Giunsero così al
palazzo di un persiano chiamato Gidarno, luogotenente del re per
tutte le città della costa asiatica.
Costui fece loro grandi onori e conversando su vari argomenti con i suoi
ospiti ad un certo punto chiese per
quale motivo rifiutassero così decisamente l’amicizia del suo grande re.
E aggiunse: «Guardate me per esempio e
noterete allora come il re sa ricompensare coloro che se ne
rendono degni; credetemi, se vi metteste
al suo servizio si comporterebbe allo stesso modo anche verso di
voi. Son sicuro che se vi conoscesse
ognuno di voi diventerebbe signore di una città della Grecia». «In
queste cose Gidarno non puoi darci alcun
consiglio – risposero gli spartani – perché tu hai gustato il bene
che ci prometti ma non conosci quello
che godiamo noi. Tu hai provato i favori del re, ma non sai che
sapore abbia la libertà e quanto essa
sia dolce. Se l’avessi anche solo sfiorata tu stesso ci consiglieresti di
difenderla non soltanto con la lancia e
lo scudo ma con le unghie e i denti». Solo gli spartani erano nel
giusto; ma è certo che gli uni e gli
altri parlavano come erano stati educati. Era infatti impossibile al
funzionario persiano rimpiangere la
libertà non avendola mai provata, così come gli spartani non potevano
sottomettersi al giogo avendola gustata
appieno.
Catone l’Uticense, quando era ancora
fanciullo e sotto la guida del precettore, si trovava spesso a casa di
Silla il dittatore alla quale aveva
libero ingresso sia per il rango della famiglia cui apparteneva sia per la
stretta parentela. Ci andava sempre in
compagnia del suo precettore com’era abitudine dei figli di nobile
famiglia e frequentando questa casa si
accorse che in presenza di Silla oppure su suo ordine c’era chi veniva
messo in prigione, un altro che veniva
condannato, uno che veniva esiliato, un altro strangolato, e vi erano
poi coloro che facevano richiesta di
confisca ai danni di un cittadino o addirittura ne chiedevano la testa. In
poche parole sembrava di essere non a
casa di un rappresentante della città ma a palazzo di un tiranno del
popolo, non a un tribunale di giustizia
ma in una spelonca di tiranni.
Allora questo giovanetto rivolgendosi al
precettore disse: «Perché non mi date un pugnale che possa
nascondere sotto il vestito? Io entro spesso
in camera di Silla prima che si alzi e ho il braccio abbastanza
forte per liberarne la città». Ecco un
discorso davvero da Catone, l’inizio di una vita in nulla inferiore alla
dignità della sua morte.
Lasciamo pur perdere il nome e l’origine
di questo personaggio. Si presenti l’episodio per quello che è; il
fatto parla da solo e senza pensarci su
molto si potrà arrivare a dire che quel ragazzo era romano, nato nel
cuore della vera Roma quando essa era
libera. Perché dico questo? Non certo perché ritenga che il luogo o il
clima possano giovare a qualcosa, dato
che in ogni paese e sotto qualsiasi latitudine è amara la servitù e
dolce la libertà, ma perché sono del
parere che si debba aver pietà di coloro che fin dalla nascita si sono
trovati il giogo sul collo, che li si
scusi o comunque li si perdoni se non avendo mai visto neppure l’ombra
della libertà e non avendone mai avuto
sentore non si accorgono di quel grave danno che è l’essere servi. Se ci
fossero veramente dei paesi (come racconta Omero a proposito dei Cimmeri) dove
il sole si mostra in
modo tutto diverso da come appare a noi,
illuminandoli per sei mesi di seguito e per gli altri sei
lasciandoli completamente al buio senza
farsi rivedere, ci si potrebbe meravigliare se coloro che nascono
durante questa lunga notte si
abituassero a vivere nelle tenebre dove sono nati senza desiderare la luce del
giorno, non avendone mai sentito parlare
e non avendola mai vista? Non si può rimpiangere quello che non
si
ha mai avuto e il rammarico vien solo dopo il piacere; e sempre la conoscenza
del male fa nascere il
ricordo della felicità del tempo
passato. Per natura l’uomo è e vuole essere libero; ma anche la sua natura è
fatta in modo tale da prendere la piega
che gli dà l’educazione.
Diciamo dunque che tutto ciò cui l’uomo
si abitua fin da bambino gli diventa naturale; ma in lui di
propriamente naturale e originario vi è
solo quello a cui lo sollecita la natura semplice e schietta. Così la
prima ragione della servitù volontaria
risulta essere la consuetudine.
Proprio come quei destrieri cortaldi (4)
che all’inizio mordono il freno ma poi ci piglian gusto, e mentre
nei primi giorni si mostrano
recalcitranti appena si mette loro sopra la sella, in seguito imparano a
sfilare
nelle loro ricche bardature e se ne vanno
tutti fieri e orgogliosi dei loro finimenti.
A volte si sente affermare
tranquillamente di essere stati sempre sottomessi e che già i padri hanno
vissuto
in queste condizioni; costoro pensano di
essere obbligati a sopportare questo danno, si persuadono l’un
l’altro con degli esempi, e sono loro
stessi col trascorrere del tempo a legittimare il potere di coloro che li
tiranneggiano. Ma il passare degli anni,
a ben vedere, non dà certo diritto a comportarsi male, anzi aggrava
l’ingiustizia. E’ ben vero che si trova
sempre qualcuno più fiero degli altri che sente il peso del giogo, non
può trattenersi dallo scuoterlo e non
riesce ad abituarsi alla servitù. Costui, come Ulisse che per mare e per
terra cercava continuamente di rivedere
il fumo della sua casa, non riesce a dimenticare i suoi naturali
diritti, a non pensare a coloro che
l’hanno preceduto e alla condizione in cui vivevano. Sono proprio
persone di questo tipo che avendo chiari
intendimenti e spirito lungimirante non si accontentano come la
plebaglia di guardare a ciò che sta loro
immediatamente dinnanzi, ma hanno l’occhio attento al passato e a
ciò che potrà accadere nel futuro; si
rifanno alle cose avvenute un tempo per giudicare il presente e discutere dell’avvenire.
Costoro avendo avuto per natura uno spirito acuto l’hanno saputo anche educare
con lo studio e la scienza; e quand’anche la libertà fosse andata completamente
perduta e scomparsa dalla faccia della terra
essi, rivivendola nel proprio spirito,
riuscirebbero ancora ad assaporarla, e mai la servitù sarà di loro gusto,
per quanto possa mascherarsi o
abbellirsi.
Il Gran Turco si è ben accorto che sono
i libri e l’insegnamento molto più di ogni altra cosa a mettere nel
cuore degli uomini il sentimento di sé,
il riconoscimento della propria dignità e l’odio per il tiranno: per
questo sento dire che nelle sue terre
non vi sono molte persone di scienza e neppure le richiede. Comunque lo zelo di
tutti coloro che malgrado i tempi sono rimasti attaccati alla libertà, per
quanto numerosi essi siano, rimane senza effetto perché non si conoscono tra
loro. Sotto la tirannia ogni libertà di fare, di parlare, e quasi di pensare
viene loro tolta: così rimangono tutti soli e isolati nei loro desideri. Va
dunque riconosciuto che Momo, il dio burlone, non scherzava poi tanto quando
trovava da ridire sull’uomo che aveva creato Vulcano, perché non gli era stata
messa una piccola finestra sul cuore così da poterne leggere i pensieri.
Si dice che quando Bruto e Cassio si
misero all’impresa di liberare Roma o per meglio dire il mondo
intero, non vollero che Cicerone, questo
grande uomo pieno di zelo per il bene comune come mai ve ne fu,
si schierasse dalla loro parte, perché
ritenevano che avesse il cuore troppo debole per partecipare ad un
evento così decisivo; credevano nella
sua buona volontà ma non facevano affidamento sul suo coraggio. E
tuttavia chi vorrà tornare a riflettere
sui fatti del passato e consultare antichi annali, passando in rassegna
tutti coloro che vedendo il proprio
paese alla deriva e in cattive mani si misero all’opera per liberarlo con
intenzione sincera e dedizione totale,
ne troverà ben pochi che non abbiano raggiunto lo scopo, perché la
libertà si fa largo per conto suo.
Armodio, Aristogitone, Trasibulo, Bruto il vecchio, Valerio e Diones,
tutti quanti concepirono questo giusto
progetto e lo realizzarono felicemente; in questi casi alla buona
volontà non manca quasi mai la fortuna.
Anche Bruto il giovane e Cassio riuscirono ad eliminare la causa
della schiavitù; fu invece nel tentativo
di riportare la libertà a Roma che essi morirono, non miseramente
(sarebbe veramente una infamia cercare
nella vita o nella morte di questi eroi indegnità e miserie), ma certo
con grave danno, sventura perenne e
definitiva rovina della repubblica che, mi sembra, fu sotterrata con
loro. Le imprese successive compiute
contro gli imperatori romani non furono altro che congiure di gente
ambiziosa, la quale non deve certo
essere compianta per gli inconvenienti cui andò incontro, essendo a tutti
evidente che desideravano semplicemente
far cadere una corona, non togliere il re, cacciare sì il despota, ma tenere in
vita la tirannide. Riguardo a costoro sarei dispiaciuto se fossero riusciti nel
loro scopo, e sono ben contento che oggi possano essere portati a dimostrazione
del fatto che non bisogna abusare del santo nome della libertà per compiere
imprese malvagie.
Ma per tornare al nostro argomento che
avevo quasi perso di vista, la prima ragione per cui gli uomini
servono
di buon animo è perché nascono servi e sono allevati come tali. Da qui deriva
quest’altro fatto:
molto facilmente sotto la tirannia ci si
rammollisce e si diventa effeminati. Fu Ippocrate, il padre della
medicina, ad accorgersi di questo e a
scriverlo in uno dei suoi libri dal titolo “Le malattie” (6), e di questa
sua intuizione dobbiamo essergli
assolutamente grati. Questo personaggio aveva senza dubbio un cuore
generoso e lo dimostrò in un’occasione.
Poiché il grande sovrano (7)lo voleva presso di sé e lo sollecitava
continuamente con varie profferte e con
grandi donativi, Ippocrate un giorno gli rispose in tutta franchezza
che avrebbe avuto dei problemi di
coscienza nel mettersi a curare dei barbari che volevano uccidere il suo
popolo e nel rendersi condiscendente al
loro re che si stava preparando ad assoggettare la Grecia. La lettera
che Ippocrate inviò al re contenente
queste affermazioni si può leggere ancora oggi nelle sue opere e rimarrà per
sempre una testimonianza del suo coraggio e del suo nobile carattere.
E’ ormai certo che con la libertà si perde
allo stesso tempo anche il coraggio. Gli uomini sottomessi vanno
in battaglia senza alcuna baldanza e
ardimento, affrontano il pericolo l’uno appiccicato all’altro, intorpiditi,
tanto per adempiere ad un obbligo e non
si sentono bollire il sangue nelle vene per l’ardore della libertà che
sola fa disprezzare il pericolo e
nascere il desiderio di acquistare l’onore della gloria fra tutti i compagni
con
un bel morire. Al contrario fra gente
libera si fa a gara per vedere chi è il migliore, combattendo per sé e per
il bene comune, aspettando tutti di
avere la propria parte di bene in caso di vittoria o la parte di male nella
sconfitta; invece la gente asservita non
ha più questo coraggio da guerrieri, anzi non riesce neppure ad
essere vivace nelle altre cose, poiché
possiede un animo ristretto e incapace di aspirare a qualcosa di grande.
I tiranni sanno bene tutto questo e
vedendo i loro sudditi prendere una simile piega li spingono in questa
direzione così da renderli ancor più
fiacchi e indolenti.
Senofonte, storico insigne tra i più
grandi della Grecia, scrisse un libretto (8) dove si può trovare il dialogo
di Simonide con Ierone, re di Siracusa,
sulle miserie del tiranno. E’ un libro pieno di gravi ma giusti
rimproveri, esposti a mio parere nel
tono più adatto possibile. Avesse voluto Iddio che tutti i tiranni,
quanti vi sono stati sulla terra, se lo
fossero tenuto davanti agli occhi così da farsene specchio! Sono sicuro
che in questo modo avrebbero potuto
riconoscere sulla propria faccia i segni del vizio e provarne grande
vergogna. In questo trattato viene
descritta la vita penosa che trascorrono i tiranni, i quali facendo del male
a tutti sono costretti a temere
continuamente di riceverlo da ciascuno. Fra tante cose vien fatto anche notare che
i re malvagi si servono di stranieri presi come mercenari per fare le guerre,
non fidandosi di mettere le armi in mano alla loro gente cui hanno fatto ogni
specie di torto. (Ci sono stati a dire il vero dei buoni sovrani che hanno
assoldato stranieri, alcuni tra gli stessi re di Francia, anche se più in
passato che non oggi; ma con l’unica intenzione di mantenere in vita il proprio
popolo, non preoccupandosi di spendere
denaro pur di risparmiare uomini. Come
diceva, se ben mi ricordo, Scipione l’Africano: preferirei salvare la
vita ad un cittadino piuttosto che
uccidere cento nemici.) Ma è certo che i tiranni non sono mai tranquilli e
sicuri di avere in mano tutto il potere
fino a quando non giungono al punto di non avere più sotto di sé
alcun uomo di coraggio. Dunque a buon
diritto si potrà dir loro quel che Trasone in una commedia di
Terenzio si vanta di aver rinfacciato al
domatore degli elefanti:
«Tu ti reputi molto abile
Avendo a che fare con delle bestie» (9).
Questa astuzia dei tiranni
nell’abbrutire i propri sudditi più che in ogni altro caso si è manifestata in
modo
evidente nel trattamento che Ciro
riservò agli abitanti della Lidia, dopo essersi impadronito di Sardi,
capitale di quella regione, e dopo aver
fatto schiavo il ricchissimo re Creso che si era rimesso nelle sue
mani. Giunse notizia a Ciro che gli
abitanti di Sardi erano scesi in rivolta. Avrebbe potuto ridurli in un
attimo ai suoi voleri; ma non volendo
distruggere una così bella città e neppure essere obbligato a tenervi
di guardia un esercito, per garantirsene
la sottomissione, ricorse a questo espediente: vi fece collocare
bordelli, taverne e giochi pubblici e
bandì un’ordinanza con cui i cittadini erano autorizzati a farne uso
come volevano. E questa specie di
guarnigione gli rese così buon servizio che da allora non ci fu più
bisogno neppure di un solo colpo di
spada contro gli abitanti della Lidia. Questi poveracci si divertivano a
inventare ogni tipo di gioco a tal punto
che i latini, per indicare ciò che noi chiamiamo passatempi,
trassero dal loro nome il termine
“ludi”. Non tutti i tiranni hanno mostrato così apertamente di voler
effeminare i loro sudditi; ma di fatto
quanto Ciro ordinò formalmente gli altri per la maggior parte sono
riusciti ad ottenerlo di nascosto. In
effetti questa è la tendenza naturale della plebaglia che solitamente si
ritrova
più numerosa nelle città: è sospettosa nei riguardi di chi le vuol bene mentre
è ingenua e pronta a
tutto verso chi l’inganna. Non vi è
uccello che si lasci prendere così agevolmente nella pania o pesce che
abbocchi in fretta all’amo quanto
facilmente si facciano allettare dalla schiavitù tutti i popoli appena ne
avvertono il più leggero profumo sotto
il naso. Ed è veramente una cosa fuori dal comune vedere come
cedano sull’istante alla minima lusinga:
teatri, giochi, commedie, spettacoli, gladiatori, animali esotici,
esposizioni di medaglie e di vari
dipinti, e altre droghe di questo tipo costituivano per i popoli antichi
l’esca per la schiavitù, il prezzo della
loro libertà, gli strumenti della tirannia; insomma tutto un sistema
congegnato dagli antichi tiranni per
addormentare i sudditi sotto il giogo. Così i popoli, inebetiti e
incantati da simili passatempi,
divertendosi in modo insulso con quei piaceri che venivano fatti passare
davanti ai loro occhi, si abituavano a
servire in questo modo del tutto sciocco, peggio ancora dei bambini
che imparano a leggere per via delle
immagini colorate e delle miniature che si trovano sui libri. A tutti
questi stratagemmi i tiranni romani
aggiunsero l’usanza di festeggiare spesso le decurie pubbliche (10)
prendendo per la gola questa gente
abbrutita che non aspettava altro; il più accorto e intelligente fra tutti
costoro non avrebbe dato il suo piatto
di minestra per scoprire la libertà della repubblica di Platone. In
queste occasioni i tiranni facevano i
generosi distribuendo quarti di grano, qualche sestario (11) di vino e
un po’ di sesterzi; ed allora era
davvero uno spettacolo penoso sentir gridare viva il re! Quegli sciocchi non
si accorgevano che stavano semplicemente
recuperando una parte dei propri beni e che anche quel poco che stavano
ricevendo poteva essere donato dal tiranno solo perché prima li aveva derubati.
In tal modo nel
giorno di festa la gente raccoglieva
sesterzi e gozzovigliava ringraziando Tiberio o Nerone per la loro
generosità per poi essere costretti il
giorno dopo a consegnare i propri beni, i figli, la vita stessa all’avidità,
alla lussuria e alla crudeltà di questi
magnifici imperatori, senza osar dire una parola, muti come un sasso,
e senza fare il minimo movimento,
immobili come piante. La plebaglia si è sempre comportata in questo
modo: subito disposta a perdersi nei
piaceri che onestamente non potrebbe accettare, insensibile al torto e
alle sofferenze che non dovrebbe
ulteriormente sopportare.
Attualmente non c’è nessuno che sentendo
parlare di Nerone non tremi al solo nome di quel mostro
tremendo, di quell’orribile e turpe
flagello del mondo; e tuttavia allorché questo incendiario, questo boia,
questa bestia selvaggia morì, in modo
disonesto come tutta la sua vita, il famoso popolo romano,
ricordando i suoi giochi e i suoi
festini, rimase talmente dispiaciuto che fu sul punto di portarne il lutto.
Così almeno ci ha lasciato scritto
Tacito, storico tra i più attendibili e straordinariamente serio. Tutto
questo non deve sembrar strano visto che
il popolo romano aveva fatto altrettanto qualche tempo prima in
occasione della morte di Giulio Cesare
che aveva messo completamente da parte leggi e libertà,
personaggio in cui non mi sembra si sia
potuto trovare qualcosa di valido, dato che la sua stessa umanità
solitamente tanto esaltata è stata più
dannosa che non le crudeltà del tiranno più sanguinario che sia mai
vissuto: infatti fu proprio questa sua
velenosa dolcezza che indorò la pillola della servitù al popolo romano.
E così dopo la sua morte questo popolo
che aveva ancora la bocca piena dei suoi banchetti e il ricordo vivo
delle sue prodigalità, per rendergli
onore e avere le sue ceneri, fece a gara nell’ammucchiare i banchi del foro per
formarne un rogo; poi eressero una colonna a colui che vollero considerare
padre della patria (così stava scritto sul capitello), e gli fecero più onore
da morto di quanto se ne sarebbe dovuto fare di diritto ad un eroe vivo, se non
addirittura a quegli stessi che l’avevano ammazzato.
Gli imperatori romani non dimenticavano
neppure di assumere comunemente il titolo di tribuno del
popolo, sia perché questo incarico era
considerato sacrosanto, sia per il fatto che era finalizzato alla difesa e
alla protezione del popolo. In questo
modo, con il favore dello stato, si garantivano la fiducia del popolo
come se quest’ultimo dovesse
accontentarsi del nome, senza sentire gli effetti concreti della tirannia. E
oggi
non si comportano molto meglio coloro
che ogni qualvolta compiono un crimine, anche molto grave, lo
ammantano di qualche bel discorso sul
bene comune e sull’utilità pubblica. E tu sai bene mio caro Longa il
vasto formulario di cui potrebbero in
molti casi fare elegante uso, ma la stragrande maggioranza dei tiranni
non si affida a troppe sottigliezze
sostenendosi piuttosto sulla più grande impudenza. I re dell’Assiria e
dopo di loro anche quelli della Media
usavano presentarsi in pubblico il più raramente possibile per far
nascere il dubbio al popolo che essi
fossero qualcosa più che uomini e lasciarlo così in queste
immaginazioni, dato che la gente lavora
volentieri di fantasia su quelle cose che non può giudicare e vedere
di persona. Creata così quest’aura di
mistero attorno al sovrano tante nazioni che rimasero a lungo sotto
l’impero assiro si abituarono a servire
tanto più volentieri quanto più non sapevano che padrone avessero,
anzi se l’avessero davvero o no,
nutrendo timore in base alla credenza in un essere che nessuno era mai
riuscito
a vedere. I primi re d’Egitto non si mostravano quasi mai in pubblico senza
portare ora un ramo
d’albero, ora perfino del fuoco sulla
testa; e mascherandosi in questo modo e comportandosi come dei
ciarlatani ispiravano con queste
stranezze rispetto e ammirazione ai loro sudditi che se non fossero stati
troppo sciocchi o troppo servili
avrebbero dovuto assistere a quella squallida buffonata solo per riderci
sopra. E’ davvero pietoso ricordare
quanti stratagemmi abbiano messo in atto i sovrani di un tempo per
impiantare la loro tirannia, di quali
mezzucci si siano serviti trovandosi davanti una plebaglia fatta apposta
per loro, incapace di evitare qualsiasi
trabocchetto che le venisse teso, ingannata con estrema facilità e tanto più
sottomessa quanto più il tiranno si prendeva gioco di lei.
E che dire di un’altra bella favola che
i popoli antichi prendevano per oro colato? Essi credevano
fermamente che l’alluce di Pirro re
dell’Epiro facesse miracoli e guarisse le malattie della milza; anzi, quasi
a voler rincarare la dose, erano
convinti che quel dito, quando alla morte di Pirro ne venne bruciato il
corpo, fosse sfuggito al fuoco e si
fosse ritrovato integro in mezzo alle ceneri. Così il popolo si è sempre
fabbricato da solo le più sciocche
fandonie per poi poterci credere. E molte di queste sono state anche
scritte ma in uno stile tale che se ne
può facilmente scorgere l’origine nelle chiacchiere del popolino raccolte agli
angoli delle strade. Così si dice che Vespasiano nel suo viaggio dall’Assiria a
Roma dove si recava per impadronirsi dell’impero abbia fatto sosta ad
Alessandria dove compì ogni sorta di miracoli: raddrizzò gli zoppi, ridiede la
vista ai ciechi e fece tante altre cose meravigliose che potevano essere
credute a mio avviso solo da gente più cieca di quelli che sarebbe riuscito a
guarire. E i tiranni stessi trovavano del tutto strano il fatto che la gente
potesse sopportare un uomo che continuamente la maltrattava; per questo
decisero di mettersi davanti la religione come scudo e, nella misura del
possibile, assumere una qualche sembianza di divinità per non dover rendere
conto della propria vita malvagia. Per questo Salmoneo, se crediamo alla Sibilla
di Virgilio, sconta ora in fondo all’inferno le sue pene per aver ingannato il
popolo e aver fatto credere d’essere Giove:
«Vidi anche i crudeli tormenti di
Salmoneo:
Imitava costui le fiamme di Giove e i
fragori d’Olimpo;
Passava costui trasportato da quattro
cavalli
Agitando una fiaccola per mezzo alle
genti dei Greci
Cercando al regno dell’Elide onori
divini:
Folle! pensava imitare il bagliore dei
lampi
E i nembi col carro di bronzo e il
fragor dei cavalli.
Ma un fulmine Giove scagliò dal torbido
cielo,
Chè Giove non torce fumose lanciava,
E precipite giù lo travolse con turbine
immane» (12).
Ora se costui, che in fondo non era che
un povero sciocco, viene trattato così bene laggiù, credo proprio che tutti
coloro i quali hanno abusato della religione per fare del male saranno trattati
ancora meglio.
Anche i nostri sovrani sparsero per la
Francia una quantità di cose tra le più disparate e indefinibili: rospi,
fiordalisi, orifiamma (13). In ogni modo
per quel che mi riguarda non voglio passare per miscredente nei
confronti di tutte queste cose poiché né
noi né i nostri antenati abbiamo avuto finora ragione d’esserlo,
essendoci sempre toccati sovrani tanto
buoni in pace e così prodi in guerra che pur essendo re dalla nascita
non sembrano fatti dalla natura come gli
altri bensì, ancor prima di venire al mondo, scelti da Dio
onnipotente per governare e conservare
questo regno. Comunque, anche se ciò non fosse, non ho certo
l’intenzione di mettermi a discutere la
verità delle nostre tradizioni e neppure di esaminarle in modo
minuzioso, non volendo privare di questi
bei temi la nostra poesia francese che senz’altro saprà trovare in
essi il soggetto per tante esercitazioni
e già ora viene migliorata, anzi rimessa a nuovo dai nostri Ronsard,
Baif, Du Bellay; questi grandi poeti
stanno facendo progredire la nostra lingua a tal punto da poter sperare
che ben presto i greci e i latini ci
saranno superiori solo per il fatto di essere stati i primi. E certo farei un
gran torto alle nostre rime (uso
volentieri questo termine che a me non dispiace perché, anche se molti
l’hanno reso un fatto puramente
meccanico, tuttavia vedo altrettante persone che si sono messe a
rinobilitarlo e a restituirlo agli
antichi onori), farei un gran torto, dicevo, a sottrarre ai poeti i bei
racconti
di re Clodoveo sui quali già si
esercitò, mi sembra con grande maestria e sicurezza, la vena vivace del
nostro Ronsard nella sua “Franciade”.
Intendo la sua portata, conosco il suo spirito acuto e il suo garbo
nello
scrivere: saprà cavarsela in modo eccellente con l’orifiamma come già i romani
con i sacri scudi
«caduti giù dal cielo» di cui parla
Virgilio e riuscirà a trarre buon profitto dalla nostra ampolla così come
gli ateniesi dal canestro di Erisittone
(14); farà in modo che tutti parlino delle nostre armi come del loro
ulivo che tengono ancora nella torre di
Minerva. Sarei dunque temerario a voler smentire i testi della nostra
tradizione e cancellare così tutte le
tracce che vengon seguite dai nostri poeti.
Ma per tornare all’argomento da cui non
so come mi sono lasciato deviare, non s’è mai dato il caso che i
tiranni, in vista della propria tranquillità,
non abbiano fatto ogni sforzo per abituare il popolo non solo
all’obbedienza e alla servitù ma anche
alla devozione nei propri confronti. Dunque tutte le cose da me dette
finora su quel che occorre per abituare
la gente alla servitù volontaria vengono usate dai tiranni solo per il
popolo più grossolano e ignorante.
Ma ora arrivo al punto che a mio avviso
costituisce l’origine nascosta del dominio, il sostegno e il
fondamento della tirannia. Chi pensa che
le alabarde, le sentinelle, le squadre di ronda proteggano il tiranno
secondo me si sbaglia di grosso. Credo
che gli siano d’aiuto più come cerimoniale o come spauracchio che
non per la fiducia che dovrebbe avere in
tutto questo apparato di difesa. Gli arcieri impediscono di entrare a
palazzo agli sprovveduti senza mezzi,
non a chi è ben armato e agli uomini d’azione. Tra gli imperatori
romani è facile contare quei pochi che
sono riusciti a salvarsi da qualche pericolo per l’aiuto dei loro soldati
più fedeli, al contrario di tutti
coloro, e sono la maggior parte, che sono stati uccisi dalle loro stesse
guardie del corpo. Non sono gli
squadroni a cavallo, non sono le schiere di fanti, non sono insomma le
armi a difendere il tiranno; capisco che
al primo momento è difficile crederlo ma è così. Sono sempre
cinque o sei persone che lo mantengono
al potere e gli tengono tutto il paese in schiavitù. E’ sempre stato
così: questi cinque o sei hanno avuto la
fiducia del tiranno e, sia perché si son fatti avanti da soli sia perché
il tiranno stesso li ha chiamati, sono
diventati complici delle sue crudeltà, compagni dei suoi divertimenti,
ruffiani dei suoi piaceri, soci nello
spartirsi il frutto delle ruberie. Questi sei personaggi inoltre tengono
vicino a sé seicento uomini dei quali
approfittano facendo di loro quel che han fatto del tiranno. I seicento
a loro volta ne hanno seimila sotto di
sé ai quali conferiscono onori e cariche, fanno assegnare loro il
governo delle province oppure
l’amministrazione del denaro pubblico così da ottenerne valido sostegno alla
propria avarizia e crudeltà, una volta
che costoro abbiano imparato a mettere in atto le varie malefatte al
momento opportuno; d’altra parte
facendone di ogni sorta questi seimila possono mantenersi solo sotto la
protezione dei primi e sfuggire così
alle leggi e alla forca. E dopo tutti questi la fila prosegue senza fine:
chi volesse divertirsi a dipanare questa
matassa si accorgerebbe che non seimila ma centomila, anzi milioni
formano questa trafila e stanno
attaccati al tiranno, proprio come afferma Giove che nel racconto di Omero
si vanta di poter tirare a sé tutti gli
dei dando uno strattone alla catena. Da qui venne l’aumento di potere al
senato sotto Giulio Cesare,
l’istituzione di nuove funzioni e la creazione dei vari incarichi; a ben vedere
non
certo per riorganizzare la giustizia ma
per dare nuovi punti di appoggio alla tirannia. Insomma tra favori e
protezioni, guadagni e colpi messi a
segno, quanti traggono profitto dalla tirannia son quasi pari a coloro
che preferirebbero la libertà. E’ come
quando, dicono i medici, in una parte del nostro corpo c’è qualcosa di
infetto: se in un altro punto si
manifesta un piccolo male subito si congiunge alla parte malata. Così
appena il re diventa tiranno tutta la
feccia del regno, e non intendo con questa un branco di ladruncoli
conosciuti da tutti che in una
repubblica possono fare ben poco, sia in bene che in male, bensì tutti coloro
che sono posseduti da un’ambizione senza
limiti e da un’avidità sfrenata, si raggruppano attorno a lui e lo
sostengono in tutti i modi per aver
parte al bottino e diventare essi stessi tanti piccoli tiranni sotto quello
grande. Allo stesso modo si comportano i
grandi ladri e i famosi corsari: gli uni fanno scorribande per il
territorio, gli altri pedinano i
viaggiatori; i primi tendono imboscate, i secondi stanno in agguato; questi
trucidano e quelli spogliano; e pur
essendoci tra loro vari ranghi in ordine d’importanza, i primi semplici
esecutori, gli altri capi della banda,
alla fine però non c’è nessuno di loro che non abbia avuto la sua parte,
se non proprio al bottino principale,
almeno a qualche frutto delle rapine. Si racconta che i pirati della
Cilicia si raccolsero una volta in così
gran numero che si rese necessario mandare contro di loro Pompeo il
grande; non solo, ma riuscirono perfino
a trascinare nella loro alleanza molte città tra le più belle e
popolose; nei loro porti trovavano
rifugio dopo le varie scorribande e come ricompensa vi lasciavano una
parte del bottino che quelle città si
erano impegnate a custodire.
Così il tiranno opprime i suoi sudditi,
gli uni per mezzo degli altri, e viene difeso proprio da chi, se non
fosse un buono a nulla, dovrebbe temere
di essere attaccato; secondo il detto che per spaccare la legna ci
vogliono dei cunei dello stesso legno. Ed
ecco i suoi arcieri, le sue guardie, i suoi alabardieri; certo qualche
volta
anch’essi sono trattati male dal tiranno, ma questi miserabili abbandonati da
Dio e dagli uomini sono
contenti di sopportare dei danni pur di
rifarsi non già su colui che ne è la causa ma su tutti quelli che come
loro sopportano senza poter far nulla.
Eppure vedendo questa gente che striscia ai piedi del despota per
trarre profitto dalla sua tirannia e
dalla servitù del popolo, spesso mi stupisce la loro malvagità, altre volte
invece è la loro stupidità che mi fa
pena. Perché, diciamo la verità, che altro può significare avvicinarsi al
tiranno se non allontanarsi dalla
propria libertà e abbracciare anzi, per meglio dire, tenersi stretta la
servitù?
Mettano un momento da parte la loro
ambizione, lascino perdere un poco la loro avarizia, poi guardino e
considerino attentamente se stessi:
vedranno chiaramente che questi contadini e paesani che essi mettono sotto i
piedi appena possono e trattano peggio dei galeotti e degli schiavi, benché
maltrattati in questo modo, al loro confronto sono tuttavia più felici e in un
certo senso più liberi. Il contadino e l’artigiano, per quanto siano asserviti,
una volta fatto quanto è stato loro ordinato sono a posto; ma quelli che il
tiranno
vede vicino a sé, veri e propri birbanti
sempre a mendicare i suoi favori, sono obbligati non solo a fare
quello che dice ma anche a pensare come
lui vuole e spesso per accontentarlo devono sforzarsi di indovinare i suoi
desideri. Non è sufficiente che gli obbediscano: devono compiacerlo in tutto
faticando e
distruggendosi fino alla morte nel
curare i suoi interessi; inoltre devono godere dei suoi piaceri,
abbandonare i propri gusti per i suoi,
andar contro il proprio temperamento fino a spogliarsene del tutto.
Sono obbligati a misurare le parole, la
voce, i gesti, gli sguardi; devono avere occhi, piedi, mani sempre
all’erta a spiare ogni suo desiderio e
scoprire ogni suo pensiero.
E questo sarebbe un vivere felice? Si
può chiamare vita codesta? C’è al mondo qualcosa che risulti essere
più insopportabile di una simile
situazione non dico per una persona di nobili origini ma semplicemente
per chiunque abbia un po’ di buon senso
o quantomeno un’ombra di umanità?
Quale condizione è più miserabile di
questa, in cui non si ha niente di proprio ma tutto, benessere, libertà,
perfino, la vita stessa, viene ricevuto
da altri?
Costoro vogliono servire per accumulare
dei beni come se quello che guadagnano fosse loro, mentre non
possono dire di possedere neppure se
stessi. E come se qualcuno potesse avere qualcosa di suo sotto un
tiranno vorrebbero dirsi proprietari di
quanto hanno ammassato, dimenticando che sono loro stessi a dargli
la forza di togliere tutto a tutti e di
non lasciare nulla a nessuno. Essi sanno che è l’avidità dei beni il
motivo per cui gli uomini vengono
assoggettati alla sua crudeltà, che al suo cospetto non vi è delitto più
grande del possedere qualcosa; sanno che
il tiranno ama solo la ricchezza e spoglia di preferenza i ricchi,
eppure si presentano davanti a lui come
montoni al macellaio per mostrarsi ben pieni e pasciuti ed eccitare
le sue voglie. Questi favoriti
dovrebbero ricordarsi non solo di quei cortigiani che hanno messo da parte
molti beni stando vicini al tiranno ma
anche di tutti coloro che, dopo aver accumulato per un certo periodo,
alla fine hanno perso i beni e la vita
stessa; dovrebbero aver presente non solo i tanti che hanno guadagnato
ricchezze ma anche i pochi che sono
riusciti a mantenersele. Si facciano scorrere tutte le storie antiche, si
ripensi al tempo passato di cui possiamo
avere memoria; si vedrà chiaramente quanto è grande il numero di coloro che
dopo essersi conquistati con ogni mezzo indegno la fiducia dei principi, o per
aver troppo
favorito la loro malvagità, oppure per
aver abusato della loro ingenuità, alla fine sono stati annientati da
quegli stessi principi che tanto
facilmente li avevano prima innalzati quanto poi improvvisamente decisero
di abbatterli. E veramente nel gran
numero di persone che hanno circondato cattivi re ve ne sono state ben
poche, per non dire nessuna, che non
abbiano provato su se stesse una volta o l’altra la crudeltà del tiranno
che in precedenza avevano aizzato contro
gli altri; e spesso dopo essersi arricchiti delle spoglie altrui
all’ombra del trono sono finiti ad
arricchire altri delle proprie spoglie.
Anche le persone per bene, se mai sia
dato trovarne qualcuna benvoluta da un tiranno, per quanto siano tra i suoi più
favoriti e sappiano brillare di virtù e di integrità morale così da ispirare un
certo rispetto perfino ai
più malvagi quando vi si trovano vicini,
ebbene dico che anche queste persone non riuscirebbero a
sopportarlo a lungo ed è necessario che
anch’esse soffrano questo male comune e imparino a loro spese cosa vuol dire la
tirannia. Consideriamo ad esempio un Seneca, un Burro, un Trasea (15), tre
persone per bene, due dei quali per mala sorte furono messi vicini al tiranno
per curarne gli affari, tutti e due stimati e ben voluti da lui; per di più uno
di questi gli aveva fatto da maestro e considerava pegno di amicizia il fatto
di
averlo educato nell’infanzia. Ebbene
questi tre personaggi con la loro morte crudele testimoniano a
sufficienza quanto poco ci sia da
fidarsi del benvolere di padroni malvagi. E in verità che amicizia ci si può
aspettare da uno che ha il cuore così
duro da odiare il proprio regno, il quale dal canto suo non fa altro che
obbedirgli? Cosa ci si può attendere da
un essere che non sapendo amare impoverisce se stesso e distrugge il proprio
impero Se poi qualcuno volesse dire che costoro sono caduti in disgrazia perché
si sono comportati da persone
oneste, osservi con attenzione tutti
quelli che stavano intorno a questo tiranno: vedrà che quanti entrarono
nei suoi favori compiendo ogni sorta di
malvagità non durarono più a lungo. Chi ha mai sentito parlare di
un amore così sfrenato, di un
attaccamento così ostinato e morboso da parte di un uomo verso una donna
quanto quello di Nerone nei confronti di
Poppea? Eppure in seguito fu lui stesso ad avvelenarla. La madre
Agrippina aveva ucciso Claudio, il
proprio marito per mettere il figlio sul trono dell’impero e non si era
sottratta a difficoltà e disagi pur di
accontentarlo. E proprio questo suo figlio, la sua creatura, il suo
imperatore costruito con le sue stesse
mani, dopo molti tentativi andati a vuoto riuscì a toglierle la vita. E
non vi fu allora nessuno che non
ritenesse fin troppo giusta una simile punizione, se solo fosse stato un
altro a compierla. E chi mai si è
lasciato più manipolare, chi si è comportato più da sempliciotto e da
sciocco dell’imperatore Claudio? Chi più
invaghito di una donna se non lui di Messaline? E alla fine la
consegnò nelle mani del boia. L’ottusità
è sempre stata caratteristica dei tiranni quando si tratta di non fare
il bene; ma non so come, alla fine, quel
poco d’ingegno che hanno si desta in loro allorché si tratta di usare
crudeltà verso quelle persone che gli
sono più vicine. E’ abbastanza nota la battuta atroce di quell’altro
tiranno (16) che osservando il collo
scoperto della donna da lui amata perdutamente fino al punto da
sembrare che non riuscisse a vivere
senza la sua compagnia, glielo accarezzava sussurrando dolcemente:
«Questo bel collo sarebbe ben presto
mozzato sol che io lo volessi». Ecco perché gli antichi tiranni, per la
maggior parte, venivano di solito
ammazzati proprio dai loro favoriti che avendo conosciuto la natura della
tirannia più che tentare di assicurarsi
il benvolere del tiranno preferivano diffidare della sua potenza. Così
Domiziano fu ucciso da Stefano, Commodo
da una delle sue amanti, Antonino Caracalla da Macrino e così
quasi tutti gli altri.
E’ certamente per questo che il tiranno
non è mai amato e non ama: l’amicizia è un nome sacro, una cosa
santa; essa avviene solo tra uomini per
bene, non si ottiene se non attraverso una stima reciproca e non si
mantiene con dei favori ma con l’onestà
di vita. Ciò per cui un amico si fida dell’altro è la conoscenza che
ha della sua integrità morale; gli sono
di garanzia il suo buon carattere, la sua fedeltà, la sua costanza. Non
ci può essere amicizia dove si trovano
crudeltà, slealtà, ingiustizia; e quando i malvagi si ritrovano tra loro
non vi è compagnia ma complotto: non si
vogliono bene ma si sospettano reciprocamente, non sono amici
ma complici.
Ma anche se non ci fossero questi
ostacoli sarebbe comunque difficile ritrovare in un tiranno un amore
fedele poiché stando sopra a tutti e non
avendo alcun compagno pari a lui è già fuori dai confini
dell’amicizia che può fiorire solo sul
terreno dell’eguaglianza e non procede mai zoppicando ma si tiene
sempre in perfetto equilibrio. Ecco
perché si può ben dire che tra i ladri c’è una specie di fiducia reciproca
nello spartirsi il bottino, dato che
sono tutti uguali tra loro e pur non volendosi bene si tengono d’occhio
l’uno con l’altro non volendo,
separandosi, diminuire la loro forza. Ma quelli che sono favoriti dal tiranno
non possono in alcun modo far conto su
di lui poiché sono stati loro stessi ad insegnargli che tutto è in
suo potere e che per lui non vi è
diritto o dovere che tenga, posto ormai nella condizione di far passare il
proprio arbitrio come ragione, di non
avere alcun compagno pari a lui ma di essere padrone di tutti.
Davanti ad esempi tanto evidenti e ad un
pericolo così incombente è dunque davvero pietoso che nessuno
voglia diventare saggio a spese altrui,
che tanta gente si dia da fare per star vicina al tiranno e che non ce ne
sia neppure uno che abbia l’avvedutezza
e il coraggio di dir loro ciò che in un apologo famoso la volpe
rinfaccia al leone che si finge
ammalato: «Verrei volentieri a farti visita nella tua tana; purtroppo vedo
molte tracce di animali che vanno verso
di te, ma non ne scorgo neppure una nella direzione contraria».
Questi miserabili vedendo luccicare i
tesori del tiranno rimangono abbagliati dalla sua magnificenza e
attratti da questo splendore si
avvicinano, senza accorgersi che si stanno buttando in una fiamma che non
mancherà di divorarli, allo stesso modo
di quel satiro curioso che secondo un’antica favola vedendo brillare
il fuoco trovato da Prometeo ne fu
talmente impressionato che si accostò per baciarlo e si bruciò. O come
la farfalla, di cui ci parla il poeta
toscano (17), che credendo di trarre chissà quale piacere si avvicina troppo
alla fiamma, attratta dal suo chiarore,
e ne prova invece l’altra qualità, quella del bruciore. Ma anche
supponendo che questi adulatori riescano
a sfuggire alle mani del loro padrone, in ogni caso non si salvano
mai dal re che viene dopo: se è un buon
sovrano devono rendergli conto di tutto e comportarsi secondo
ragione; se invece è malvagio come il
precedente avrà anch’egli i suoi favoriti che solitamente non si
accontentano di prendere a loro volta il
posto degli altri ma vogliono anche ottenerne i beni e in molti casi
la vita stessa.
Com’è dunque possibile che ci sia
qualcuno che in mezzo a tanti rischi e con ben poche garanzie voglia prendere
questo sciagurato posto e servire un padrone così pericoloso?
Che tormento, che martirio è mai questo,
buon Dio? Essere occupato giorno e notte a compiacere uno e
tuttavia avere più timore di lui che non
di qualsiasi altro uomo, stare sempre all’erta con l’occhio e
l’orecchio tesi a spiare da dove verrà
l’attacco, a scoprire gli agguati, leggere nel cuore dei compagni,
denunciare chi sta per tradire, sorridere
a tutti e fidarsi di nessuno, non avere né nemici dichiarati né amici
sinceri, col sorriso sulle labbra e il
gelo nel cuore, non riuscire ad essere lieto e non poter mostrarsi
scontento.
Ma è ancor più interessante considerare
quel che ricavano da questo grande tormento e quale bene possano
aspettarsi da tutti questi loro affanni
e dalla loro vita miserabile. Solitamente il popolo non accusa il
tiranno per il male che gli tocca
sopportare bensì coloro che sono messi a governare. Di costoro i popoli, le
nazioni, tutti gli abitanti senza alcuna
eccezione, dai contadini agli artigiani, sanno i nomi, contano i vizi e
su di loro riversano un’infinità di
oltraggi, villanie e maledizioni: tutti i discorsi e le imprecazioni della
gente sono contro di loro, ritenuti
colpevoli di ogni sventura, della peste come della carestia; e se qualche
volta per salvare le apparenze questo
stesso popolo li onora, dentro di sé li maledice dal profondo del cuore
e li ha in orrore più che le bestie
feroci. Ecco la gloria e l’onore che ricevono per i servizi che compiono
verso la gente, la quale anche se
potesse ridurre il loro corpo a brandelli probabilmente sarebbe ancora
insoddisfatta e ben poco alleggerita
delle proprie sofferenze. E anche quando sono scomparsi dalla faccia
della terra moltissimi scrittori negli
anni seguenti non mancano certo di denigrare la memoria di questi
mangiapopoli; la loro fama viene
completamente distrutta in migliaia di libri e le loro stesse ossa vengono
per così dire trascinate e disperse dai
posteri come punizione per la loro vita malvagia, anche dopo morte.
Impariamo dunque finalmente a
comportarci bene; ad onore nostro o per l’amore che portiamo alla virtù, o
meglio ancora per l’amore e l’onore di
Dio onnipotente che è testimone sicuro delle nostre azioni e giudice
delle nostre mancanze, teniamo lo
sguardo rivolto al cielo.
Per parte mia penso, e non credo di
sbagliarmi, che non ci sia niente di più contrario a Dio, infinita bontà e
libertà, della tirannia e che Egli
riservi laggiù delle pene particolari per tutti i tiranni e i loro complici.
NOTE AL TESTO.
NOTA 1: Omero, “Iliade”, 1. secondo, vv.
204-205a, trad. it. di Rosa Calzecchi Onesti, a cura di Cesare
Pavese, Einaudi, Torino 1950.
NOTA 2: Con tutta probabilità si tratta
del predecessore di La Boétie nel parlamento di Bordeaux.
L’invocazione all’amico Longa che si
trova nel manoscritto “De Mesmes” è stata soppressa in quasi tutte le
versioni successive.
NOTA 3: L’autore si riferisce al momento
del trapasso nella storia ebraica dalla fase dei giudici a quella dei
re: il popolo ebreo chiede
insistentemente a Samuele di consacrargli un re (che sarà poi Saul). La Bibbia
fa
notare che questa richiesta spiacque a
Samuele ed a Jahwè: cfr. 1 Sam. 8,4 ss.
NOTA 4: Cavalli ai quali sono state
tagliate le orecchie e la coda.
NOTA 5: Armodio e Aristogitone sono i
due giovani che uccisero Ipparco, figlio di Pisistrato; Trasibulo
cacciò i trenta Tiranni da Atene; Bruto
il Vecchio e Valerio riuscirono ad allontanare per sempre i Tarquini
da Roma e ad instaurarvi la repubblica; Dione infine rovesciò dal trono di
Siracusa il tiranno Dionigi.
NOTA 6: In realtà il passo di Ippocrate
a cui si riferisce La Boétie si trova nell’opera “Arie, acque, luoghi”.
NOTA 7: Si tratta del re Artaserse di
Persia.
NOTA 8: Il libretto di Senofonte è
appunto intitolato “Ierone o della condizione dei sovrani”.
NOTA 9: Terenzio, “Eunuco”, atto terzo,
scena prima, v. 25.
NOTA 10: Le decurie pubbliche
consistevano in elargizioni fatte dagli imperatori romani alla plebe
dell’urbe; il nome deriva dal fatto che
questa distribuzione di viveri a spese del denaro pubblico avveniva a
gruppi di dieci.
NOTA 11: Misura romana che corrispondeva
a poco più di mezzo litro.
NOTA 12: Virgilio, “Eneide”, 1. quarto,
vv. 585-594; tr. it. a cura di Enzo Cetrangolo in Publio Virgilio
Marone, “Tutte le opere”, Sansoni,
Firenze 1966.
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