Ostile allo statalismo, la borghesia fu - un tempo - in
lotta contro il mercantilismo economico e l’assolutismo politico. Il liberalismo
era allora realmente distruttivo, implicava di fatto il sovvertimento del
potere statale e la rottura di antichi vincoli. Tutto il sistema dei rapporti
gerarchici dello Stato - faticosamente costruito - ed i legami corporativi
cittadini con la loro complicata sovrastruttura di privilegi e monopoli,
vennero spazzati via. La vittoria del liberalismo provocò un immediato e
considerevole indebolimento dell’autorità dello Stato. La vita economica
avrebbe dovuto essere - almeno in teoria - definitivamente sottratta al
controllo dello Stato, che doveva limitarsi a garantire la sicurezza e
l’uguaglianza borghesi.
Il liberalismo diveniva così la negazione pura e semplice
dello Stato del primo periodo mercantilistico del capitalismo, il quale, in
principio, voleva regolare tutto, ed era anche in netto contrasto con tutti i
sistemi socialistici, i quali, non in senso distruttivo, ma costruttivo,
vogliono porre al posto dell'anarchia e della libertà della concorrenza un
sistema consapevolmente regolato, creando una società che organizzi la propria
vita economica e quindi anche se stessa. È perciò appena naturale che i
princìpi liberali si siano realizzati più precocemente in Inghilterra, dove
erano sostenuti da una borghesia tutta per il libero scambio, una borghesia che,
anche durante i periodi di più acuto contrasto con il proletariato, si lasciò
spingere ben raramente a chiedere l'intervento dello Stato e, comunque, lo fece
solo per brevi periodi. Anche in Inghilterra, però, la realizzazione del
liberalismo urtò non solo contro la resistenza della vecchia aristocrazia che
appoggiava una politica protezionistica ed era, quindi, recisamente contraria
ai princìpi liberali, ma anche, in parte, contro quella del capitale
commerciale, e del capitale bancario che aspiravano ad investimenti all'estero
e pretendevano soprattutto il mantenimento dell'egemonia sui mari, pretesa,
questa, che veniva avanzata e con estrema energia anche dagli ambienti
interessati alle colonie.
Sul continente la concezione liberale dello Stato riuscì ad
imporsi solo parzialmente e con grandi compromessi. Abbiamo qui un tipico
esempio di contraddizione tra ideologia e realtà: mentre infatti i
continentali, in ogni campo della vita politica e spirituale, con acume e
rigida consequenzialità, riuscirono a trarre tutte le possibili conseguenze
teoriche dai princìpi liberali a cui i Francesi avevano impresso la classica
configurazione (giacché lo sviluppo più tardo li aveva forniti di strumenti di
indagine scientifica più perfezionati di quelli inglesi) elaborando perciò
sulla base della filosofia razionalistica una formulazione del liberalismo ben
più vasta ed esauriente di quella inglese, che rimase chiusa entro l'ambito
ristretto della scienza economica, sul piano pratico invece le realizzazioni
politiche furono sul continente molto meno radicali di quelle inglesi.
Del resto, non è neppure pensabile che proprio la borghesia
continentale - che aveva bisogno dello Stato come della più potente leva della
propria ascesa, e che non intendeva, quindi, eliminare lo Stato ma trasformarlo
da ostacolo a veicolo del proprio sviluppo - fosse in grado di procedere
all'esautoramento del potere statale richiesto dal liberalismo. Ciò di cui la
borghesia continentale aveva soprattutto bisogno era la eliminazione delle più
piccole formazioni statali, la sostituzione del piccolo Stato impotente con lo
strapotente Stato unitario. L'esigenza della creazione dello Stato nazionale
spingeva la borghesia su posizioni favorevoli alla conservazione dello Stato.
Nel continente, poi, non era in gioco solo il dominio sul mare, ma anche il
dominio sulla terraferma. L'esercito moderno ha, peraltro, un'importanza ben
maggiore della flotta, nel determinare i rapporti tra la società civile e il
potere dello Stato.
Quest'ultimo, una volta caduto in mane a coloro che possono
disporre dell'esercito, - e ciò avviene inevitabilmente ove esista un forte
esercito di terra - assume una completa autonomia. Il servizio militare
obbligatorio, che ha armato le masse, doveva d'altronde convincere ben presto
la borghesia della necessità di imporre all'esercito (che altrimenti sarebbe
potuto divenire una minaccia al suo potere) un'organizzazione rigidamente
gerarchica creando una casta di ufficiali capace di funzionare da docile
strumento in mano allo Stato. Mentre da un lato quindi in paesi come la
Germania, l'Austria e l'Italia, il liberalismo non riusciva a realizzare le
proprie premesse teoriche riguardanti lo Stato, esso vedeva dall'altro
bloccarsi il proprio sviluppo in tal senso persino in Francia, giacché la
borghesia francese, per ragioni di politica commerciale, non poteva rinunciare
allo Stato. Ciò anche perché era inevitabile che la vittoria della rivoluzione
finisse col complicarsi in una guerra su due fronti: e infatti, da un lato le
conquiste rivoluzionarie dovevano essere difese contro il feudalesimo del
continente, mentre, dall'altro, la creazione di un nuovo Stato capitalistico
moderno minacciava l'antica posizione egemonica dell'Inghilterra sul mercato
mondiale. La Francia dovette così ingaggiare simultaneamente una lotta contro
il continente ed una contro l'Inghilterra, per l'egemonia sul mercato mondiale.
La sconfitta della Francia rafforzò in Inghilterra la posizione della proprietà
fondiaria, del capitale commerciale, bancario e coloniale, e con ciò il potere
statale, a scapito del capitale industriale, ritardando così l'inizio della
definitiva egemonia del capitale industriale inglese, e la vittoria del libero
scambio. La vittoria inglese, inoltre, spinse il capitale industriale europeo su
posizioni favorevoli al protezionismo, frustrando completamente gli sforzi dei
sostenitori del libero scambio, e creando, al tempo stesso, quelle condizioni
che erano destinate a favorire, sul continente, il più rapido sviluppo del
capitale finanziario. L'adeguazione dell'ideologia e della concezione dello
Stato borghese alle esigenze del capitale finanziario trovò perciò in Europa
ostacoli tutt'altro che inamovibili. Il fatto poi, che l'unificazione della
Germania fosse avvenuta in senso controrivoluzionario, non poté non rafforzare
straordinariamente, nella coscienza del popolo tedesco il rispetto per lo
Stato, mentre in Francia la disfatta militare fece sì che tutte le energie si
concentrassero sul problema della ricostituzione del potere statale. Le esigenze
del capitale finanziario favorirono in tal modo la nascita e la diffusione di
elementi ideologici che il capitale finanziario poté poi facilmente utilizzare
per elaborare una nuova ideologia adeguata ai propri interessi. Quest'ultima è
però in netto contrasto con quella del liberalismo. Il capitale finanziario non
chiede libertà, ma dominio: non tiene in alcun conto l’autonomia del singolo
capitalista, anzi ne pretende l'assoggettamento; aborrisce l'anarchia della
concorrenza e promuove l'organizzazione solo per poter condurre la concorrenza
in ambiti sempre più vasti. Per riuscire in ciò, per poter conservare ed
aumentare il proprio prepotere, esso ha però bisogno dello Stato il quale, con
la sua politica doganale, deve garantirgli il mercato interno e facilitargli la
conquista di quelli esteri. Il capitale finanziario ha bisogno di uno Stato
politicamente forte che, nei suoi atti di politica commerciale, non sia
costretto ad usare alcun riguardo agli opposti interessi di altri Stati.
È quindi necessario uno Stato forte, capace di far valere i
suoi interessi finanziari all'estero e di servirsi della propria potenza per
estorcere agli Stati meno potenti vantaggiosi trattati di fornitura e
favorevoli transazioni commerciali; uno Stato che possa spingersi in ogni parte
del globo per fare del mondo intero zona di investimento del proprio capitale
finanziario; uno Stato, infine, sufficientemente forte per condurre una
politica espansionistica e per potersi incorporare nuove colonie. Mentre il
liberalismo era contrario ad una politica di forza dello Stato e voleva
garantirsi il controllo sugli strumenti del potere dell’aristocrazia e della
burocrazia, cercando di sottrarre a queste ultime gli organi dello Stato, ora
la politica di forza diviene una precisa ed incondizionata richiesta del
capitalismo finanziario; ciò avviene comunque anche senza tener conto del fatto
che le esigenze dell’esercito e della flotta assicurano proprio ai più forti
settori capitalistici uno smercio imponente con utili per lo più monopolistici.
L’aspirazione ad una politica espansionistica rivoluziona
però anche tutta la “Weltanschauung” della borghesia, che allontana
definitivamente gli ideali pacifisti ed umanitari. I vecchi liberoscambisti
credevano nel libero scambio non solo come la politica economica più giusta, ma
anche come il presupposto della nascita di un’era di pace. Il capitale
finanziario ha perduto da tempo questa speranza. Esso non si illude più che gli
interessi capitalistici possano venire armonizzati, ma sa che la lotta
concorrenziale si trasformerà sempre più in una lotta per la potenza politica.
L'ideale della libertà di scambio dilegua; al posto dell'umanitarismo subentra
l’esaltazione della grandezza e della potenza dello Stato. Lo Stato moderno è
sorto come realizzazione dello sforzo unitario della nazione. Il pensiero
nazionale che ha toccato i suoi limiti naturali nel costituirsi della nazione a
fondamento dello Stato (giacché in questo modo esso ha riconosciuto a tutte le
nazioni il diritto di creare proprie formazioni statali facendo coincidere i
confini dello Stato con i confini naturali della nazione) viene ora soppiantato
dall'ideale dell'esaltazione della propria nazione al di sopra delle altre. [Si
veda: Otto BAUER. "Marx-Studien” II, par. 30, pp. 491 e sgg. Der
Imperialismus un das Nationalitätsprinzip (L'imperialismo e il principio di
nazionalità)]
La massima aspirazione è ora quella di assicurare alla
propria nazione il dominio sul mondo, un'aspirazione non meno illimitata di
quella del capitale al profitto, da cui anzi scaturisce. Il capitale parte alla
conquista del mondo e ad ogni nuova conquista esso non fa che toccare nuovi
confini che sarà spinto a valicare. Questa espansione incessante è ora una
inderogabile necessità economica, perché rimanere indietro significa caduta del
profitto del capitale finanziario, diminuzione della sua capacità
concorrenziale e, come ultimo effetto, subordinazione del territorio economico
rimasto più piccolo rispetto a quello divenuto più esteso. Questa aspirazione
espansionistica causata da esigenze economiche, viene giustificata
ideologicamente mediante uno strabiliante capovolgimento dell’idealità
nazionale, la quale ora non riconosce più ad ogni nazione il diritto
all'autodeterminazione e all'indipendenza politica e non esprime più il dogma
democratico dell'uguaglianza sul piano internazionale di tutto ciò che è umano.
Al contrario, le aspirazioni economiche del monopolio si rispecchiano nella
posizione di privilegio che esso pretende per la propria nazione. I privilegi
appaiono più di ogni altra cosa come frutto di predestinazione. Poiché
l'assoggettamento di nazioni straniere avviene con la violenza e, quindi, in un
modo molto naturalistico, sembra che la nazione dominante debba questa sua
egemonia alle sue specifiche caratteristiche naturali, e cioè alle sue qualità
razziali. L'ideologia della razza, quindi, non è altro che il tentativo di
fondare scientificamente, con un camuffamento biologico, la volontà di potenza
del capitale finanziario che intende in tal modo presentare i suoi movimenti
come ineluttabili e condizionati da leggi naturali. Al posto dell'ideale
egualitario democratico subentra ora un ideale egemonico oligarchico. Laddove
sul terreno della politica estera, questo ideale ha come oggetto, nell'apparenza,
l'intera nazione, su quello della politica interna esso diviene accettazione ed
accentuazione del punto di vista padronale che tenta di subordinare al proprio
quello della classe operaia.
La forza crescente dei lavoratori stimola al contempo il
capitale a rafforzare ulteriormente il potere statale per garantirsi contro le
richieste dei proletari. L'ideologia dell'imperialismo sorge quindi come
superamento della vecchia ideologia liberale. Essa si fa beffe dell'ingenuità
di quest'ultima. È pura illusione credere ad un'armonia di interessi nel mondo
della lotta capitalistica, dove a decidere è solo la superiorità delle armi;
illusione attendere il regno della pace perenne e predicare un diritto dei
popoli, quando è solo la potenza a decidere della loro sorte; follia voler
trasportare al di là dei confini dello Stato il sistema dei rapporti giuridici
che regolano la vita al suo interno. Stupida e irresponsabile seccatrice
davvero, questa infatuazione umanitaria che viene a disturbare gli affari e
che, dopo aver fatto dei lavoratori un problema, ha scoperto, all'interno dello
Stato, le riforme sociali e nelle colonie vuole eliminare la schiavitù
contrattuale, unica possibilità di un razionale sfruttamento! Quello di una
giustizia immutabile è un bel regno, ma con l'etica non si costruiscono certo
ferrovie. Come fare a conquistare il mondo, se si vuole prima aspettare che la
concorrenza si converta ai nuovi ideali?
L'imperialismo dissolve tutte queste illusioni solo per
sostituire all'ormai sbiadito ideale della borghesia una nuova, grande
illusione. Freddo e positivo finché si tratta di considerare il reale conflitto
di interessi dei gruppi capitalistici e di concepire tutta la politica come
affare privato di monopoli che reciprocamente si combattono, ma che possono
anche unificarsi, esso diviene però improvvisamente passionale ed estatico
quando si mette a parlare del proprio ideale. L'imperialista non vuole nulla
per sé: non è però un illusionista o un sognatore per risolvere in uno scialbo
concetto di umanità la variopinta realtà di un inestricabile groviglio di razze
nei più vari gradi e con le più diverse possibilità di sviluppo. Egli osserva
il guazzabuglio dei popoli con occhio duro e acuto e al di sopra di tutti fissa
la propria nazione. La nazione è reale: essa si invera nello Stato che diviene
sempre più potente e più grande: per farla assurgere ai più alti fasti nessuno
sforzo è troppo gravoso. L'abbandono dell'interesse particolaristico per un più
alto interesse comune che ogni ideologia sociale deve includere per essere
vitale è con ciò consumato; lo Stato, un tempo estraneo al popolo, e la nazione
stessa, formano ora una salda unità di cui l'idea nazionale posta al servizio
della politica è la forza propulsiva. I contrasti tra le classi sono svaniti e
superati a favore di un ideale della collettività. Al posto della lotta delle
classi, pericolosa e senza via d'uscita per i padroni, subentra l'azione comune
della nazione tutta, tesa alla conquista della grandezza nazionale.
Tale ideale, che sembra costituire un nuovo legame capace di
tenere insieme la dilacerata società borghese, è destinato a riscuotere
consensi entusiastici, perché nel frattempo il processo di disgregazione della
società borghese è andato ulteriormente aggravandosi.
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