Vorrei cercare di dare una
lettura minskiana della crisi. Mi vorrei interrogare su quale capitalismo è
andato in crisi, su quale crisi globale, ed europea, abbiamo vissuto e stiamo
vivendo. Minsky a volte raccontava la storia, che noi conosciamo bene, del
comico – lui l’avrebbe chiamato “banana” – che fa finta di aver perso le chiavi
e le cerca sotto un lampione. Arriva un poliziotto e gli chiede cosa stia
cercando. Lui risponde che cerca le sue chiavi, e al poliziotto che a questo
punto gli domanda dove le ha perse, replica: “le ho perse laggiù”. “Ma come mai
allora le cerchi qui?”. “Le cerco qui perché qui è illuminato”. Minsky
polemizzava con le teorie che analizzano il capitalismo, e dunque le sue crisi,
dimenticando la sua natura monetaria. In realtà, se vogliamo sapere qual'era il
lampione sotto il quale cercava Minsky, lui su questo è molto trasparente. Cito
da un commento che fece a un convegno, dove disse: “Un altro grande filosofo americano,
Vincent Lombardi, che come già George Allen era un allenatore di football
americano di successo,una volta disse che vincere non è qualcosa, vincere è l’unica
cosa. Vorrei parafrasare questo vecchio saggio e proporre l’affermazione
radicale che per un’analisi delle economie capitalistiche la moneta non è
qualcosa, è l’unica cosa”.Credo che nella teoria economica sono abbastanza
pochi quelli che avrebbero aderito a questa impostazione. I più significativi
sono Schumpeter, Keynes e Marx. Nel mio caso, ho due lampioni. Credo che per
analizzare il capitalismo che è andato in crisi dobbiamo analizzare da un lato
il lavoro e dall’altro la dinamica della moneta e della finanza.
Qui abbiamo un
paradosso: perché in questo capitalismo che è stato definito, dalla metà degli
anni Ottanta fino alla crisi del 2007, come il capitalismo dellaGrande
moderazione, tutto sembrava andare bene, tutto sembrava stabile. All’improvviso
tutto è crollato, è diventato insostenibile, e si è avuta la Grande recessione.
In realtà la domanda “Potrebbe ripetersi?”, perché non è successo di nuovo il
Grande crollo come negli anni Trenta (per riprendere il titolo del libro famoso
di John Kenneth Galbraith), è una domanda alla quale Minsky avrebbe risposto:
non è successo di nuovo perché abbiamo imparato come evitare almeno quella cosa
lì. Quella domanda era sul tappeto in realtà di nuovo tra il’79 e l’82 del
secolo scorso, con l’applicazione del monetarismo. Siamo oggi abituati a dire
che è andato in crisi il neoliberismo e spesso si fa l’equazione neoliberismo =
monetarismo. Le cose non stanno così. Mi rendo conto di essermi negli anni
avvicinato progressivamente a ciò che qualche volta lo stesso Hy andava dicendo
a pranzo o a cena nei primi anni Ottanta. L’esperimento monetarista Minsky lo
dava abbastanza per morto praticamente già dal 1982, o poco dopo. Il
monetarismo di Volcker, Thatcher, del primo Reagan, vuol dire stretta
monetaria, alti tassi di interesse, caduta degli investimenti privati, spesa
pubblica compressa (soprattutto quella sociale), inizio della caduta dei salari
(relativi e spesso reali), come anche allora crisi dell’America Latina e
rischio di collasso del sistema bancario e finanziario. Quello era un momento
in cui veramente poteva darsi di nuovo una crisi come negli anni Trenta. Il
Grande crollo non si è ripetuto perché siamo stati salvati da due grandi
“keynesiani”. Il primo è stato Reagan – il secondo Reagan, per così dire,
quello che ha creato il doppio disavanzo: il disavanzo dello Stato all’interno,
ma poi anche quello della bilancia commerciale (e delle partite correnti) con
l’estero, che provvedeva domanda al resto del mondo. Così Giappone, Est Asiatico,
Germania ed Europa, i Paesi neomercantilisti, facevano profitti con le
esportazioni nette. Qui il discorso incontra un mio vecchio amore: Rosa
Luxemburg, che si rivela anche lei abbastanza attuale. Il secondo grande “keynesiano”
è Alan Greenspan. Perché in realtà il
capitalismo dal 1987 fino al 2007 è stato quello che Minsky ha chiamato un
money manager capitalism, il capitalismo dei gestori monetari, che sintetizzo
in tre figure. La prima è “il lavoratore traumatizzato” (qui capirete che
c’entra Marx, ma la definizione non è mia, vi assicuro, è dello stesso Alan
Greenspan), che dà un problema, perché con lui i costi si abbassano nella produzione,
ma c’è un problema di realizzazione del valore, e i capitalisti non producono
per il magazzino, producono per vendere. Il secondo è “il risparmiatore in fase
maniacale”, le famiglie che sono state incluse nella finanza, nello stock
exchange, e questo finisce con l’estendersi alla stessa casa trattata come
asset finanziario. Se tu hai, o credi di avere, della ricchezza prontamente
liquidabile, come titoli o case, perché risparmiare sul reddito? Puoi persino
andare dalle banche, banche di nuovo tipo rispetto al modello che aveva in
mente Minsky nei suoi primi scritti, che ti prestavano i soldi a fronte di un collaterale.
Così emerge la terza figura, “il consumatore indebitato”. In questo mondo il
traino ultimo della domanda non erano più gli investimenti, su scala globale non
potevano essere le esportazioni, non era senz’altro la spesa pubblica, vista la
compressione salariale non potevano neppure essere i consumi dal reddito. Era
il consumo a debito. Questo è il capitalismo che è andato in crisi. Ora,
molti economisti eterodossi guardano al capitalismo contemporaneo con una gamba
sola, quella dell’analisi reale. Hanno una narrazione che racconta solo una
parte della verità. Questa: è peggiorata la distribuzione del reddito, è caduta
cioè la quota dei salari, e di qui emerge una crisi da insufficienza di domanda
effettiva. Si legge il capitalismo della Grande moderazione come fosse un capitalismo
stagnazionista. Francamente non lo credo. Secondo me questo capitalismo era in
grado di prodursi dall’interno la sua domanda, e la produceva proprio perché
era legato alla finanza perversa. Quello
che Marx chiamava il capitale fittizio ha determinato negli ultimi decenni
effetti assolutamente non fittizi; marxisticamente possiamo dire: maggiore
sfruttamento e però anche, al tempo stesso, maggiore domanda. In alcuni
scritti, per descrivere questa realtà, la chiamo una “sussunzione reale del
lavoro alla finanza”, a cui si accompagna una lunga capital asset inflation.
Altri economisti guardano invece solo all’aspetto finanziario, in una ottica
riduttiva. Anche qualche minskiano, anche qualche minskiano italiano: che
ancora a giugno del 2008 scriveva che il problema era un mero problema di
regolazione. In poche parole, industria buona – finanza cattiva. Le cose secondo
me non stanno così. Vorrei anzi aggiungere che, per Minsky come per Marx, le cose buone del capitalismo che abbiamo
vissuto negli ultimi secoli sono venute in fondo proprio dalla finanza
speculativa, prima che le posizioni speculative degenerassero in posizioni
Ponzi, nella finanza ultra-speculativa. Il vero dramma di questo capitalismo è
che la domanda, la produzione e l’espansione hanno prosperato solo grazie alla
finanza ultra-speculativa, in simultanea con un cambiamento del sistema bancario
enorme. Quando a un certo punto c’è stata la crisi finanziaria, questa si è
immediatamente trasmutata in crisi reale. Minsky ha visto giusto? Sì e no.
Troppe cose erano cambiate. Kregel, in un articolo molto tempestivo del 2008, ha
scritto che questa non è una crisi dovuta al passaggio da posizioni coperte a
posizioni speculative, che poi degenerano in posizioni Ponzi. Nel nuovo
capitalismo, le posizioni erano “delinquenziali” fin dall’inizio. La posizione
Ponzi è la degenerazione di posizioni di investimento che all’inizio non lo
sono. La banca era cambiata, non c’era più la banca in qualche modo
schumpeteriana di Minsky, la banca che si teneva il mutuo presso di sé e non lo
cartolarizzava, e così via. Ma non è nemmeno un capitalismo che ha visto
crescere l’indebitamento privato dal lato delle aziende non finanziarie, un
leverage delle imprese. Negli Stati Uniti, prima della crisi, le imprese non
finanziarie avevano un sacco di denaro, erano prestatori netti. Il fatto è che
Minsky ha avuto in fondo ragione perché la sua grande idea è stata quella di
analizzare l’economia attraverso gli stati patrimoniali, i loro bilanci. Gli
agenti ragionano, tutti, guardando alle loro entrate e uscite di denaro. Nel momento in cui l’indebitamento pubblico
è stato in qualche modo compresso, l’indebitamento privato doveva scoppiare, ma
è stato l’indebitamento privato delle famiglie. Ciò risulta molto chiaramente
anche dagli studi di Wynne Godley e del Levy Institute, a cui è stato legato lo
stesso Minsky nell’ultima fase della sua vita. Vorrei peraltro spezzare una
lancia a favore dell’indebitamento pubblico. L’indebitamento privato è strutturalmente instabile, prima o poi salta.
Il debito pubblico è sempre credito di qualcuno, è credito dei privati, è
ricchezza. Il problema che dobbiamo porci è semmai per cosa viene acceso, se
viene usato per fini di spreco, oppure se viene usato per cose socialmente
utili. Questo, vi assicuro, non è il mio lato marxista, questo è il mio lato
puramente minskiano. La crisi scoppia
negli Stati Uniti, arriva in Europa. Togliamoci dalla testa l’idea che la crisi
sia dovuta all’Europa o all’euro. La configurazione istituzionale dell’euro ha
certo molto aggravato le cose, e noi Europei possiamo senz’altro essere la
causa di un futuro drammatico aggravamento della Grande recessione. Ma la crisi
europea è il rimbalzo della crisi globale. La crisi dei sub-prime ha subito
colpito le banche francesi e tedesche, e così si sono diffuse le difficoltà
finanziarie. Sono poi saltate le bolle finanziarie in Irlanda e in Spagna,
oltre che in Gran Bretagna. È caduta dunque la loro domanda nei confronti degli
altri Paesi europei. Visto che intanto andava cadendo la domanda negli Stati
Uniti, cadeva pure la loro domanda verso la Cina, cadevano a seguire le esportazioni
della Germania verso quel Paese, cadeva infine l’indotto dell’Italia verso la
Germania. È una caricatura di quel che è successo, ma non lo è poi troppo.
Si spiega così perché fino quasi a metà 2008 gli esportatori di manufatti in Europa
andavano benissimo e all’improvviso sono andati malissimo. Condivido ciò che ha
detto Kregel prima, ovvero tutti gli argomenti critici nei confronti della
inattività della Banca centrale europea, ma anche della azione delle altre
Banche centrali a supporto solo della finanza e non dell’economia reale. Sono
pure convinto che non ci sia stata una vera manovra keynesiana di spesa in
disavanzo da parte degli Stati Uniti. Obama l’aveva promessa, chi l’ha fatta davvero
è stata la Cina all’inizio del 2009. Il problema dell’area europea è quello di
un’area in cui le crisi di alcune regioni nella moneta dell’eurozona, quindi in
un certo senso nella propria moneta, sono state gestite come se le nazioni
aderenti alla moneta unica si fossero indebitate in valuta estera. Più o meno,
alla fine, l’hanno detto tutti: se la Bce si impegnasse, non necessariamente
sul mercato primario ma almeno su quello secondario – come poi ha dovuto
comunque fare –, con l’annuncio che è disposta a rifinanziare illimitatamente i
disavanzi dei governi, magari attraverso il sistema delle banche commerciali,
il default non dovrebbe essere una opzione sul tappeto. Il rischio di
fallimento della Grecia, del Portogallo e così via è un malanno che ci siamo
auto-imposti. Consentitemi di aggiungere che tante delle affermazioni che oggi vanno molto a sinistra, del tipo:
meglio il default, meglio il default con la svalutazione, viva il diritto
all’insolvenza sono assolutamente insensate se proposte come qualcosa che
attivamente si deve fare, e si pensa che migliorino le condizioni dei
lavoratori. Non sto dicendo che non ci capiteranno magari sulla testa. Ma non
mi pare proprio il caso di augurarsele alla stregua del “muoia Sansone con
tutti i Filistei”. Da questo tipo di crisi si esce, se n’è sempre usciti, o con
una lunga crisi – che Marx avrebbe definito di svalorizzazione del capitale, e che
quindi dura come minimo dieci, quindici anni –, oppure con l’accoppiata di
crescita e inflazione. È chiaro che chi pensa di uscire da una situazione di
indebitamento con le politiche di austerità non sa come funziona una economia
monetaria capitalistica. Anche qui non sto dicendo cose rivoluzionarie,
l’inflazione tra il 6 e l’8% è stata proposta dall’ex-economista del Fondo
monetario internazionale Kenneth Rogoff. Il problema è fare in modo che
l’aumento dei prezzi non si accompagni al deterioramento delle condizioni di
vita delle masse: avere inflazione senza una qualche forma di indicizzazione è
un bel problema. A questo si aggiunge l’altra questione: che tipo di crescita bisognerebbe immaginarsi; per mio conto penso ci
si dovrebbe muovere verso un nuovo sviluppo qualitativo. Nell’arsenale di
Minsky di politica economica troviamo ben più che i soli big government e big
bank, che sono in qualche modo legati a un big labour, le tre cose non a caso
sono andate insieme. Se si vuole capire come lui ragionasse, non tanto su quale
fosse l’uscita definitiva dall’instabilità, che è intrinseca all’economia
capitalistica, ma su come minimizzarne gli effetti negativi, bisognerebbe
andare a rileggersi proprio il suo Keynes e l’instabilità del capitalismo. In
inglese il libro è uscito in originale nel 1975, ma credo – da quel che mi dice
anche Esther Minsky – fu scritto agli inizi degli anni Settanta, in parte a Cambridge,
in Inghilterra. Qualcuno si stupirà, ma alla fine del volume, nella parte di
filosofia sociale, Minsky addirittura
riscopre in qualche modo una sua personale forma di socialismo: non bolscevico,
sicuramente democratico, ma pur sempre socialismo. Minsky scrive che il
capitalismo keynesiano è stato un capitalismo che ha risolto il problema della
piena occupazione con la combinazione di alti profitti, alti investimenti, un
welfare fatto di trasferimenti monetari, in cui lo Stato di fatto non produceva
granché. Lo Stato di Minsky dovrebbe
invece produrre, e più che fornire trasferimenti deve occupare direttamente i
lavoratori, dando loro dignità e risolvendo in questo modo il problema della
disoccupazione. Vi faccio notare che con la Grande moderazione, un sistema
fatto invece di alti profitti e bassi investimenti, il problema si è ripresentato
sostanzialmente identico, anzi aggravato. Minsky prosegue: “Siamo costretti a
ritornare alla questione normativa di fondo per uscire da questo sistema, a
favore di chi devono essere fissate le regole del gioco, che tipo di beni
devono essere prodotti, perché in questa situazione storica” – e sta parlando
del keynesismo realizzato, che lega anche alla prevalente forma militare della
spesa – “l’ambiente biologico e sociale si inquina”. L’uscita dal keynesismo
non ha risolto, ha incancrenito il problema che ci squaderna qui Minsky.
Ancora: “Durante l’era Kennedy-Johnson viene formalizzata e applicata una
strategia economica basata su investimenti elevati, alti profitti e massicce spese
militari”. Oggi c’è un’alternativa, sostiene, l’alternativa è “un’economia dove i settori guida
(towering heights) sono socializzati, dove i consumi collettivi (communal
consumption) soddisfano una grossa quota di bisogni privati, dove la tassazione
dei redditi e della ricchezza tende a ridurre le disparità economiche, dove
esistono leggi che limitano le possibilità di speculare sulla struttura delle
passività: una tale economia potrebbe dimostrarsi capace di raggiungere e mantenere
uno stato di piena, o quasi, occupazione”. Qui una cosa solo correggerei:
il capitalismo la piena occupazione temporaneamente la produce – il
neoliberismo ha prodotto una piena occupazione di lavoratori sotto-occupati, in
mezzo c’è stata una disoccupazione di massa, adesso stiamo vivendo la fase che
va verso la piena disoccupazione di lavoratori precarizzati. Il punto è che noi vogliamo una buona occupazione, e questo richiede (mi
riaggancio integralmente a quanto detto da Pennacchi): la socializzazione degli investimenti, di cui Minsky dà
un’interpretazione un po’ più radicale di quella di Keynes; la socializzazione
delle banche, che non significa salvare le banche too big to fail, perché
spesso non finanziano attività reali ma solo la speculazione; la socializzazione
dell’occupazione, cioè lo Stato come occupatore diretto. Il modello è
chiaramente un inedito New Deal, un New Deal keynesiano. Il New Deal
storico era ossessionato dal problema del disavanzo, tant’è che nel 1937
Roosevelt tirò le redini proprio per rientrare dai disavanzi. Si uscì dalla
crisi solo con la Seconda guerra mondiale. Però l’idea è quella: uno Stato che interviene sul livello e la
composizione della produzione, determinando una quota significativa
dell’occupazione, cosa, come e per chi si produce. Siamo tornati alle questioni
di base: chi fissa le regole, che cosa deve essere prodotto.
La teoria Marxista poggia la sua forza sulla scienza... che ne valida la verità, e la rende disponibile al confronto con qualunque altra teoria che ponga se stessa alla prova del rigoroso riscontro scientifico... il collettivo di formazione Marxista Stefano Garroni propone una serie di incontri teorici partendo da punti di vista alternativi e apparentemente lontani che mostrano, invece, punti fortissimi di convergenza...
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Analisi che condivido completamente. Il problema però che io non riesco a risolvere così semplicemente come l'autore è quello relativo alle risorse.
RispondiEliminaSe è vero che abbiamo passato il picco del petrolio, oramai lo dice anche chi non militava tra i "picchisti", ed intrecciando questo fatto con questa crisi e con le risposte, sbagliate, date, non riesco a vedere un futuro. Perché il petrolio non è solo benzina o riscaldamento, ma anche tessuti, fertilizzanti, materie plastiche etc. Insomma è il reale motore della produzione ed il semi lavorato maggiormente usato.