domenica 17 marzo 2013

IL PROFETA DELLA CRISI. TRIBUTO A HYMAN MINSKY - intervento di Riccardo Bellofiore - 5 dicembre 2011

http://www.fondazionezaninoni.org/pdf/quaderno19.pdf


Vorrei cercare di dare una lettura minskiana della crisi. Mi vorrei interrogare su quale capitalismo è andato in crisi, su quale crisi globale, ed europea, abbiamo vissuto e stiamo vivendo. Minsky a volte raccontava la storia, che noi conosciamo bene, del comico – lui l’avrebbe chiamato “banana” – che fa finta di aver perso le chiavi e le cerca sotto un lampione. Arriva un poliziotto e gli chiede cosa stia cercando. Lui risponde che cerca le sue chiavi, e al poliziotto che a questo punto gli domanda dove le ha perse, replica: “le ho perse laggiù”. “Ma come mai allora le cerchi qui?”. “Le cerco qui perché qui è illuminato”. Minsky polemizzava con le teorie che analizzano il capitalismo, e dunque le sue crisi, dimenticando la sua natura monetaria. In realtà, se vogliamo sapere qual'era il lampione sotto il quale cercava Minsky, lui su questo è molto trasparente. Cito da un commento che fece a un convegno, dove disse: “Un altro grande filosofo americano, Vincent Lombardi, che come già George Allen era un allenatore di football americano di successo,una volta disse che vincere non è qualcosa, vincere è l’unica cosa. Vorrei parafrasare questo vecchio saggio e proporre l’affermazione radicale che per un’analisi delle economie capitalistiche la moneta non è qualcosa, è l’unica cosa”.Credo che nella teoria economica sono abbastanza pochi quelli che avrebbero aderito a questa impostazione. I più significativi sono Schumpeter, Keynes e Marx. Nel mio caso, ho due lampioni. Credo che per analizzare il capitalismo che è andato in crisi dobbiamo analizzare da un lato il lavoro e dall’altro la dinamica della moneta e della finanza.
Qui abbiamo un paradosso: perché in questo capitalismo che è stato definito, dalla metà degli anni Ottanta fino alla crisi del 2007, come il capitalismo dellaGrande moderazione, tutto sembrava andare bene, tutto sembrava stabile. All’improvviso tutto è crollato, è diventato insostenibile, e si è avuta la Grande recessione. In realtà la domanda “Potrebbe ripetersi?”, perché non è successo di nuovo il Grande crollo come negli anni Trenta (per riprendere il titolo del libro famoso di John Kenneth Galbraith), è una domanda alla quale Minsky avrebbe risposto: non è successo di nuovo perché abbiamo imparato come evitare almeno quella cosa lì. Quella domanda era sul tappeto in realtà di nuovo tra il’79 e l’82 del secolo scorso, con l’applicazione del monetarismo. Siamo oggi abituati a dire che è andato in crisi il neoliberismo e spesso si fa l’equazione neoliberismo = monetarismo. Le cose non stanno così. Mi rendo conto di essermi negli anni avvicinato progressivamente a ciò che qualche volta lo stesso Hy andava dicendo a pranzo o a cena nei primi anni Ottanta. L’esperimento monetarista Minsky lo dava abbastanza per morto praticamente già dal 1982, o poco dopo. Il monetarismo di Volcker, Thatcher, del primo Reagan, vuol dire stretta monetaria, alti tassi di interesse, caduta degli investimenti privati, spesa pubblica compressa (soprattutto quella sociale), inizio della caduta dei salari (relativi e spesso reali), come anche allora crisi dell’America Latina e rischio di collasso del sistema bancario e finanziario. Quello era un momento in cui veramente poteva darsi di nuovo una crisi come negli anni Trenta. Il Grande crollo non si è ripetuto perché siamo stati salvati da due grandi “keynesiani”. Il primo è stato Reagan – il secondo Reagan, per così dire, quello che ha creato il doppio disavanzo: il disavanzo dello Stato all’interno, ma poi anche quello della bilancia commerciale (e delle partite correnti) con l’estero, che provvedeva domanda al resto del mondo. Così Giappone, Est Asiatico, Germania ed Europa, i Paesi neomercantilisti, facevano profitti con le esportazioni nette. Qui il discorso incontra un mio vecchio amore: Rosa Luxemburg, che si rivela anche lei abbastanza attuale. Il secondo grande “keynesiano” è Alan Greenspan. Perché in realtà il capitalismo dal 1987 fino al 2007 è stato quello che Minsky ha chiamato un money manager capitalism, il capitalismo dei gestori monetari, che sintetizzo in tre figure. La prima è “il lavoratore traumatizzato” (qui capirete che c’entra Marx, ma la definizione non è mia, vi assicuro, è dello stesso Alan Greenspan), che dà un problema, perché con lui i costi si abbassano nella produzione, ma c’è un problema di realizzazione del valore, e i capitalisti non producono per il magazzino, producono per vendere. Il secondo è “il risparmiatore in fase maniacale”, le famiglie che sono state incluse nella finanza, nello stock exchange, e questo finisce con l’estendersi alla stessa casa trattata come asset finanziario. Se tu hai, o credi di avere, della ricchezza prontamente liquidabile, come titoli o case, perché risparmiare sul reddito? Puoi persino andare dalle banche, banche di nuovo tipo rispetto al modello che aveva in mente Minsky nei suoi primi scritti, che ti prestavano i soldi a fronte di un collaterale. Così emerge la terza figura, “il consumatore indebitato”. In questo mondo il traino ultimo della domanda non erano più gli investimenti, su scala globale non potevano essere le esportazioni, non era senz’altro la spesa pubblica, vista la compressione salariale non potevano neppure essere i consumi dal reddito. Era il consumo a debito. Questo è il capitalismo che è andato in crisi. Ora, molti economisti eterodossi guardano al capitalismo contemporaneo con una gamba sola, quella dell’analisi reale. Hanno una narrazione che racconta solo una parte della verità. Questa: è peggiorata la distribuzione del reddito, è caduta cioè la quota dei salari, e di qui emerge una crisi da insufficienza di domanda effettiva. Si legge il capitalismo della Grande moderazione come fosse un capitalismo stagnazionista. Francamente non lo credo. Secondo me questo capitalismo era in grado di prodursi dall’interno la sua domanda, e la produceva proprio perché era legato alla finanza perversa. Quello che Marx chiamava il capitale fittizio ha determinato negli ultimi decenni effetti assolutamente non fittizi; marxisticamente possiamo dire: maggiore sfruttamento e però anche, al tempo stesso, maggiore domanda. In alcuni scritti, per descrivere questa realtà, la chiamo una “sussunzione reale del lavoro alla finanza”, a cui si accompagna una lunga capital asset inflation. Altri economisti guardano invece solo all’aspetto finanziario, in una ottica riduttiva. Anche qualche minskiano, anche qualche minskiano italiano: che ancora a giugno del 2008 scriveva che il problema era un mero problema di regolazione. In poche parole, industria buona – finanza cattiva. Le cose secondo me non stanno così. Vorrei anzi aggiungere che, per Minsky come per Marx, le cose buone del capitalismo che abbiamo vissuto negli ultimi secoli sono venute in fondo proprio dalla finanza speculativa, prima che le posizioni speculative degenerassero in posizioni Ponzi, nella finanza ultra-speculativa. Il vero dramma di questo capitalismo è che la domanda, la produzione e l’espansione hanno prosperato solo grazie alla finanza ultra-speculativa, in simultanea con un cambiamento del sistema bancario enorme. Quando a un certo punto c’è stata la crisi finanziaria, questa si è immediatamente trasmutata in crisi reale. Minsky ha visto giusto? Sì e no. Troppe cose erano cambiate. Kregel, in un articolo molto tempestivo del 2008, ha scritto che questa non è una crisi dovuta al passaggio da posizioni coperte a posizioni speculative, che poi degenerano in posizioni Ponzi. Nel nuovo capitalismo, le posizioni erano “delinquenziali” fin dall’inizio. La posizione Ponzi è la degenerazione di posizioni di investimento che all’inizio non lo sono. La banca era cambiata, non c’era più la banca in qualche modo schumpeteriana di Minsky, la banca che si teneva il mutuo presso di sé e non lo cartolarizzava, e così via. Ma non è nemmeno un capitalismo che ha visto crescere l’indebitamento privato dal lato delle aziende non finanziarie, un leverage delle imprese. Negli Stati Uniti, prima della crisi, le imprese non finanziarie avevano un sacco di denaro, erano prestatori netti. Il fatto è che Minsky ha avuto in fondo ragione perché la sua grande idea è stata quella di analizzare l’economia attraverso gli stati patrimoniali, i loro bilanci. Gli agenti ragionano, tutti, guardando alle loro entrate e uscite di denaro. Nel momento in cui l’indebitamento pubblico è stato in qualche modo compresso, l’indebitamento privato doveva scoppiare, ma è stato l’indebitamento privato delle famiglie. Ciò risulta molto chiaramente anche dagli studi di Wynne Godley e del Levy Institute, a cui è stato legato lo stesso Minsky nell’ultima fase della sua vita. Vorrei peraltro spezzare una lancia a favore dell’indebitamento pubblico. L’indebitamento privato è strutturalmente instabile, prima o poi salta. Il debito pubblico è sempre credito di qualcuno, è credito dei privati, è ricchezza. Il problema che dobbiamo porci è semmai per cosa viene acceso, se viene usato per fini di spreco, oppure se viene usato per cose socialmente utili. Questo, vi assicuro, non è il mio lato marxista, questo è il mio lato puramente minskiano. La crisi scoppia negli Stati Uniti, arriva in Europa. Togliamoci dalla testa l’idea che la crisi sia dovuta all’Europa o all’euro. La configurazione istituzionale dell’euro ha certo molto aggravato le cose, e noi Europei possiamo senz’altro essere la causa di un futuro drammatico aggravamento della Grande recessione. Ma la crisi europea è il rimbalzo della crisi globale. La crisi dei sub-prime ha subito colpito le banche francesi e tedesche, e così si sono diffuse le difficoltà finanziarie. Sono poi saltate le bolle finanziarie in Irlanda e in Spagna, oltre che in Gran Bretagna. È caduta dunque la loro domanda nei confronti degli altri Paesi europei. Visto che intanto andava cadendo la domanda negli Stati Uniti, cadeva pure la loro domanda verso la Cina, cadevano a seguire le esportazioni della Germania verso quel Paese, cadeva infine l’indotto dell’Italia verso la Germania. È una caricatura di quel che è successo, ma non lo è poi troppo. Si spiega così perché fino quasi a metà 2008 gli esportatori di manufatti in Europa andavano benissimo e all’improvviso sono andati malissimo. Condivido ciò che ha detto Kregel prima, ovvero tutti gli argomenti critici nei confronti della inattività della Banca centrale europea, ma anche della azione delle altre Banche centrali a supporto solo della finanza e non dell’economia reale. Sono pure convinto che non ci sia stata una vera manovra keynesiana di spesa in disavanzo da parte degli Stati Uniti. Obama l’aveva promessa, chi l’ha fatta davvero è stata la Cina all’inizio del 2009. Il problema dell’area europea è quello di un’area in cui le crisi di alcune regioni nella moneta dell’eurozona, quindi in un certo senso nella propria moneta, sono state gestite come se le nazioni aderenti alla moneta unica si fossero indebitate in valuta estera. Più o meno, alla fine, l’hanno detto tutti: se la Bce si impegnasse, non necessariamente sul mercato primario ma almeno su quello secondario – come poi ha dovuto comunque fare –, con l’annuncio che è disposta a rifinanziare illimitatamente i disavanzi dei governi, magari attraverso il sistema delle banche commerciali, il default non dovrebbe essere una opzione sul tappeto. Il rischio di fallimento della Grecia, del Portogallo e così via è un malanno che ci siamo auto-imposti. Consentitemi di aggiungere che tante delle affermazioni che oggi vanno molto a sinistra, del tipo: meglio il default, meglio il default con la svalutazione, viva il diritto all’insolvenza sono assolutamente insensate se proposte come qualcosa che attivamente si deve fare, e si pensa che migliorino le condizioni dei lavoratori. Non sto dicendo che non ci capiteranno magari sulla testa. Ma non mi pare proprio il caso di augurarsele alla stregua del “muoia Sansone con tutti i Filistei”. Da questo tipo di crisi si esce, se n’è sempre usciti, o con una lunga crisi – che Marx avrebbe definito di svalorizzazione del capitale, e che quindi dura come minimo dieci, quindici anni –, oppure con l’accoppiata di crescita e inflazione. È chiaro che chi pensa di uscire da una situazione di indebitamento con le politiche di austerità non sa come funziona una economia monetaria capitalistica. Anche qui non sto dicendo cose rivoluzionarie, l’inflazione tra il 6 e l’8% è stata proposta dall’ex-economista del Fondo monetario internazionale Kenneth Rogoff. Il problema è fare in modo che l’aumento dei prezzi non si accompagni al deterioramento delle condizioni di vita delle masse: avere inflazione senza una qualche forma di indicizzazione è un bel problema. A questo si aggiunge l’altra questione: che tipo di crescita bisognerebbe immaginarsi; per mio conto penso ci si dovrebbe muovere verso un nuovo sviluppo qualitativo. Nell’arsenale di Minsky di politica economica troviamo ben più che i soli big government e big bank, che sono in qualche modo legati a un big labour, le tre cose non a caso sono andate insieme. Se si vuole capire come lui ragionasse, non tanto su quale fosse l’uscita definitiva dall’instabilità, che è intrinseca all’economia capitalistica, ma su come minimizzarne gli effetti negativi, bisognerebbe andare a rileggersi proprio il suo Keynes e l’instabilità del capitalismo. In inglese il libro è uscito in originale nel 1975, ma credo – da quel che mi dice anche Esther Minsky – fu scritto agli inizi degli anni Settanta, in parte a Cambridge, in Inghilterra. Qualcuno si stupirà, ma alla fine del volume, nella parte di filosofia sociale, Minsky addirittura riscopre in qualche modo una sua personale forma di socialismo: non bolscevico, sicuramente democratico, ma pur sempre socialismo. Minsky scrive che il capitalismo keynesiano è stato un capitalismo che ha risolto il problema della piena occupazione con la combinazione di alti profitti, alti investimenti, un welfare fatto di trasferimenti monetari, in cui lo Stato di fatto non produceva granché. Lo Stato di Minsky dovrebbe invece produrre, e più che fornire trasferimenti deve occupare direttamente i lavoratori, dando loro dignità e risolvendo in questo modo il problema della disoccupazione. Vi faccio notare che con la Grande moderazione, un sistema fatto invece di alti profitti e bassi investimenti, il problema si è ripresentato sostanzialmente identico, anzi aggravato. Minsky prosegue: “Siamo costretti a ritornare alla questione normativa di fondo per uscire da questo sistema, a favore di chi devono essere fissate le regole del gioco, che tipo di beni devono essere prodotti, perché in questa situazione storica” – e sta parlando del keynesismo realizzato, che lega anche alla prevalente forma militare della spesa – “l’ambiente biologico e sociale si inquina”. L’uscita dal keynesismo non ha risolto, ha incancrenito il problema che ci squaderna qui Minsky. Ancora: “Durante l’era Kennedy-Johnson viene formalizzata e applicata una strategia economica basata su investimenti elevati, alti profitti e massicce spese militari”. Oggi c’è un’alternativa, sostiene, l’alternativa è “un’economia dove i settori guida (towering heights) sono socializzati, dove i consumi collettivi (communal consumption) soddisfano una grossa quota di bisogni privati, dove la tassazione dei redditi e della ricchezza tende a ridurre le disparità economiche, dove esistono leggi che limitano le possibilità di speculare sulla struttura delle passività: una tale economia potrebbe dimostrarsi capace di raggiungere e mantenere uno stato di piena, o quasi, occupazione”. Qui una cosa solo correggerei: il capitalismo la piena occupazione temporaneamente la produce – il neoliberismo ha prodotto una piena occupazione di lavoratori sotto-occupati, in mezzo c’è stata una disoccupazione di massa, adesso stiamo vivendo la fase che va verso la piena disoccupazione di lavoratori precarizzati. Il punto è che noi vogliamo una buona occupazione, e questo richiede (mi riaggancio integralmente a quanto detto da Pennacchi): la socializzazione degli investimenti, di cui Minsky dà un’interpretazione un po’ più radicale di quella di Keynes; la socializzazione delle banche, che non significa salvare le banche too big to fail, perché spesso non finanziano attività reali ma solo la speculazione; la socializzazione dell’occupazione, cioè lo Stato come occupatore diretto. Il modello è chiaramente un inedito New Deal, un New Deal keynesiano. Il New Deal storico era ossessionato dal problema del disavanzo, tant’è che nel 1937 Roosevelt tirò le redini proprio per rientrare dai disavanzi. Si uscì dalla crisi solo con la Seconda guerra mondiale. Però l’idea è quella: uno Stato che interviene sul livello e la composizione della produzione, determinando una quota significativa dell’occupazione, cosa, come e per chi si produce. Siamo tornati alle questioni di base: chi fissa le regole, che cosa deve essere prodotto.

1 commento:

  1. Analisi che condivido completamente. Il problema però che io non riesco a risolvere così semplicemente come l'autore è quello relativo alle risorse.
    Se è vero che abbiamo passato il picco del petrolio, oramai lo dice anche chi non militava tra i "picchisti", ed intrecciando questo fatto con questa crisi e con le risposte, sbagliate, date, non riesco a vedere un futuro. Perché il petrolio non è solo benzina o riscaldamento, ma anche tessuti, fertilizzanti, materie plastiche etc. Insomma è il reale motore della produzione ed il semi lavorato maggiormente usato.

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