“Hegel è tutto fuorché un intellettualista: senza la creazione mediante l’azione negatrice non c’è contemplazione del dato. La sua antropologia è fondamentalmente differente dall’antropologia greca, per la quale l’uomo dapprima sa e si riconosce, quindi, agisce.” (Alexandr Kojève).
Negli anni Venti del nostro secolo, il
neopositivista Moritz Schlick sottolineava come conoscere (erkennen) sia propriamente un ri-conoscere (wieder-erkennen).
Com’è noto, questo tema del conoscere come riconoscere già lo abbiamo incontrato in Hegel;
dunque, può destare qualche meraviglia ritrovarlo in un ambiente (quello
neo-positivista), che di solito considera Hegel il campione del pensiero
speculativo e metafisico, contro cui si indirizza l’analisi linguistica,
proposta, a partire dal Wienerkreis (Circolo
di Vienna, 1929), quale strumento terapeutico contro gli abusi linguistici[1] e di
pensiero.
La stessa puntualizzazione, che chiarisce come per
Hegel non si tratti esattamente di erkennen/wiedererkennen
(riconoscere), ma sì di erkennen
/anerkennen (riconoscere, ma nel senso di legittimare), non ci toglie
dall’imbarazzo, dato che M. Schlick usa wiedererkennen,
intendendo dire che <conoscere X>
equivale a ritrovare in X la possibilità di ricondurlo a una certa forma
o regola, nella quale la ragione ritrova o riconosce
se stessa; dunque, per Schlick, affermare che la ragione conoscendo, riconosce
X, significa dire che la ragione legittima
X, testimonia della sua razionalità,
lo accetta nel dominio del razionale.
A questo punto wiedererkennen vale
esattamente anerkennen.
Da quanto detto, si possono ricavare due
conseguenze:
(i) comune a due grandi momenti del razionalismo
moderno (pensiero di Hegel e Wienerkreis[2]) è la
concezione del conoscere (che ha nella scienza la sua espressione più compiuta[3]) come
riconoscere/legittimare;
(ii) ciò posto, possiamo esaminare il tema nel
solo Hegel, pur avendo lo scopo di mettere in evidenza come
conoscere/riconoscere implichi certe condizioni, che valgono probabilmente per
qualunque razionalismo moderno.
In Hegel, anerkennen
(riconoscere/legittimare) gioca –non
per caso- un ruolo importante sia in ambito epistemologico[4], sia
in ambito etico-politico. Perché? Rispondere ci obbliga ad un breve détour.
Chiarisco che quando parlo di tradizione
dialettica intendo la linea di pensiero Leibniz – Hegel – Marx. Ciò non
significa, ovviamente, ignorare le profonde radici aristotelico-platoniche del
pensiero di Hegel (e quindi le
fondamenta nell’antichità classica dell’atteggiamento dialettico); né significa
ignorare il contributo grande, che alla dialettica hanno dato personaggi come
Descartes, Kant e lo stesso Fichte.
Significa semplicemente proporre i tre autori, che ho citato (Leibniz,
Hegel, Marx), come coloro, che più compiutamente hanno dato espressione
all’atteggiamento dialettico. Ora, di cosa si occupa la dialettica? Qual è lo
spazio, il dominio del suo svolgersi?
La risposta sembra indubbia: la dialettica è
qualcosa cha ha senso, entro il dominio dell’esperienza storico-naturale
dell’umanità.
In altre parole, la dialettica non ci parla del mondo, ma sì dell’esperienza
dell’uomo nel mondo; la dialettica non ci parla della società, ma sì dell’esperienza
dell’uomo nella società.
Detta altrimenti, la dialettica non parla di cose (il mondo, la società, la natura), ma sì di sistemi dinamici di relazione: dunque, se il suo dominio è quello dell’esperienza, ciò significa che è quello
del continuo, inarrestabile rapporto/scontro/conciliazione/ e così di
seguito, tra uomo, società e natura.
L’indagine dialettica mira fondamentalmente –al
suo livello più alto, speculativo- a definire la grammatica (per così dire) dell’inarrestabile dinamica
dell’esperienza, a coglierne le forme generali e il modo, la ragione del loro succedersi
l’una dall’altra. A questo livello, la dialettica può giungere ad una
comprensione piena dei processi –ma, appunto, a questo livello, in cui ciò che si conosce non sono determinate situazioni, determinati contenuti, ma sì la forma del loro svolgersi.
Come si vede, la piena, assoluta conoscenza, che
la dialettica può raggiungere, ha un limite di un certo rilievo: è la piena,
compiuta conoscena di … nulla, di nulla
di determinato.
Ma esiste, anche, un altro livello: quello di
un’analisi più puntuale, dello studio per così dire di <insiemi
regionali>, di situazioni determinate,
che tuttavia costituiscano un tutto, sufficientemente definito.
Perché, in realtà, comprendere quale sia lo spazio
della dialettica significa, certo, cogliere la centralità della dimensione
dell’esperienza, ma appunto nei
termini, che abbiamo già usato –intendo l’<esperienza> in quanto sistema dinamico di relazioni uomo / natura / società. Ma questo è, appunto, un tutto, il quale –essendo un
inarrestabile rapporto/conflitto/conciliazione e così via-, non è qualcosa di
lineare, di sempre identico a sé; piuttosto è qualcosa di travagliato, ricco di
torsioni e tensioni, insomma, un <tutto>, che ospita dentro di sé la
contraddizione, lo scompenso, la disarmonia, il <no>.
E’ un tutto –in questo senso qualcosa di identico a sé-; ma un tutto travagliato,
contraddittorio –e che, dunque, ha dentro di sé l’altro da sé, ciò che lo smentisce, lo tormenta, lo minaccia. E’ un
tutto sì, ma dialettico, contraddittorio,
ed esattamente per questo dinamico,
inarrestabile.
Come si vede, il paradosso essenziale di questo tutto è di comprende entro di sé
l’uguale e il diverso, l’identitario <sì> e il differenziante <no>:
ciò significa che la realtà di questo tutto,
paradossalmente, sta proprio nel dinamico richiamarsi dell’identico e del
diverso, del positivo e del negativo, ognuno dei quali trova nell’altro la propria conferma.
Abbiamo già detto che il tutto di cui parliamo è l’esperienza storico-naturale, di cui
l’uomo è, ad un tempo, risultato a protagonista: ma qual è la condizione perché
esista una tale esperienza?
Evidentemente la vita sociale; solo in società,
infatti, l’uomo può avere rapporto con gli altri uomini e con la stessa natura;
solo in società, l’uomo può –mediante il rapporto sociale di lavoro-
trasformare la natura e, nello stesso momento, suscitare in sé nuove capacità,
plasmare sé stesso con nuove e più complesse abilità. Se comprendiamo questo,
comprendiamo facilmente come il tema del riconoscere/anerkennen, in Hegel, passi con totale facilità dal piano
propriamente epistemologico a quello etico-politico.
Ad es., per Hegel è vero che la mia volontà
diviene qualcosa di sicuro, stabile ed obiettivo, mediante la forma giuridica, cioè il riconoscimento sociale; dunque, in
ambito etico-politico, è vero che la possibilità di affermare <X è
obiettivo> rimanda all’esistenza di una collettività organizzata in modo
pubblico, ovvero mediante regole da tutti conosciute. In altre parole, in
quanto vivo nel contesto d’una esperienza sociale organizzata, è vero che
<obiettivo> significa riconosciuto da una volontà collettiva,
strutturata mediante istituzioni; in questo senso, la pubblicità del
diritto non è solo una garanzia per il singolo contro l’arbitrio del Potere, ma
sì anche un modo per dare effettiva consistenza all’individuo mediante la
società ed alla società mediante l’individuo.
II
Com’è noto, la Fenomenologia
hegeliana analizza la categoria scientifica di forza, in quanto appartenente alla dimensione conoscitiva
dell’intelletto (o –per dire la stessa cosa con altre parole-, in quanto
appartiene a quell’atteggiamento –non
solo conoscitivo-detto <intelletto>).
Dunque, con la nozione di forza, abbiamo
sì lasciato il livello della certezza immediata, ma ancora non siamo giunti al
livello della ragione.[5]
In questa fase, precisa Hegel, la coscienza, nella
percezione, giunge a pensieri, che essa raccoglie, in primo luogo,
nell’universale incondizionato. Questo universale incondizionato è, ormai,
l’oggetto della coscienza, la quale, però, non
concepisce ancora il
proprio concetto come concetto (ovvero come suo prodotto): è per questo che essa non si riconosce nell’oggetto riflettuto.[6]
In altre parole, la conoscenza intellettuale si
basa sulla distinzione/separazione
tra un soggetto conoscente ed un oggetto da conoscere che sta di fronte al
soggetto, come qualcosa di esterno e di dotato di caratteristiche proprie.
Al soggetto non resta che prender atto che così e
così è quell’<universale incondizionato>; dunque, il soggetto non è
ancora consapevole che l’universale o concetto è il risultato della sua fatica, del suo sforzo, storicamente circoscritto, di organizzazione del reale.
Al contrario, il soggetto lo assume, questo reale, come un che di dato, di assoluto (infatti, Hegel usa l’espressione <universale incondizionato>).
Dunque, per
via di questo iato, tra soggetto e oggetto c’è mera contrapposizione e, nell’oggetto, il soggetto non è chez soi –ovvero, quel concetto o
quell’universale, che è il contenuto della conoscenza, risulta estraneo al soggetto, quest’ultimo non
sa riconoscersi in esso. La
conoscenza –entro la dimensione dell’intelletto o, se si vuole, posto l’atteggiamento intellettuale- è caratterizzata
-non per caso- dall’oggettivismo.[7]
Ma cosa significa esattamente per il soggetto <essere chez soi>
nell’oggetto (al contrario di quanto avviene nei limiti dell’intelletto)?
Significa che nella relazione conoscitiva la polarità
soggetto/oggetto risulta ormai mediata, ovvero, che l’opposizione di soggetto e
oggetto è ’tolta’ – in questo caso, la razionalità dell’oggetto (il concetto,
l’universale) si media con la razionalità del soggetto e, dunque, la pur
esistente contrapposizione fra i due risulta essere solo un lato della
medaglia, l’altro essendo il superamento di quella contrapposizione stessa e,
così, il riconoscersi (della
razionalità) del soggetto nell’oggetto (ovvero, nella sua razionalità).
Come esplica Kojève, “ogni verità –per Hegel- può e deve
essere espressa da parole. La
Verità è il reale rivelato dalla conoscenza, e questa
conoscenza è razionale, concettuale. Essa è dunque esprimibile mediante un
discorso razionale (Logos). … La
Vita (Leben), e
l’unità del soggetto e dell’oggetto in generale, si rivelano mediante la Ragione …” [8]
Per esprimere il punto di vista di Hegel, così scrive
Löwith: “la filosofia deve riconoscere come lo spirito sia per se stesso (dunque, nella
sua autonomia e completezza), solo nel caso in cui contrapponga a sé la
materialità, in parte come propria corporeità, in parte come mondo esterno in
generale, e solo nel caso in cui riconduca questa distinzione all’unità con sé,
mediata dall’antitesi e dal suo superamento (ecco, di nuovo, l’esser chez soi dello spirito). Tra lo spirito ed
il suo proprio corpo ha luogo naturalmente un collegamento ancora più intimo
che non quello tra il resto del mondo esterno e lo spirito. Proprio a causa di
questa connessione necessaria del mio corpo con la mia anima, l'attività
esercitata immediatamente da quest'ultima nei confronti del primo non è
affatto... semplicemente negativa. Io debbo quindi mantenermi anzitutto in
questa armonia immediata della mia anima e del mio corpo... Non devo trattare
quest'ultimo con disprezzo e ostilità ... Se io mi comporto conformemente alle
leggi del mio organismo corporeo, la mia anima è allora libera nel suo corpo...
L'anima non può tuttavia arrestarsi a questa unità immediata con il suo corpo. La forma dell'immediatezza di quella armonia contraddice al concetto dell'anima,
cioè alla sua determinazione di essere un'idealità riferentesi a se stessa. Per
diventare conforme al suo concetto, l'anima deve trasformare la sua identità
con il corpo in una identità mediata, ossia posta
dallo spirito, deve cioè impadronirsi del corpo, plasmarlo come strumento docile e adatto alla propria attività, deve trasformarlo in modo da poter in
esso riferire se a se stessa" .[9] La
pagina di Löwith serve bene a rimarcare un tratto fondamentale del pensiero di
Hegel.
Questi non intende affatto né negare le duplicità e
opposizioni, che si offrono nel reale; né pretende sacrificare questo opposto in nome di quell’altro –ad es., la
sensibilità, la passione, in nome della ragione, l’irrazionale in nome del suo
opposto. Tutt’al contrario, prender atto dell’opposizione serve a Hegel per
costruire una prospettiva di riconoscimento.
Ovvero, una prospettiva, in cui l’opposizione tra mediato
e immediato, tra sensibilità e riflessione, si ricomponga in una nuova
dimensione, in cui la sensibilità, il corpo –pur nella loro realtà, nella loro differenza- siano, però, la sensibilità
e il corpo dello spirito.
In questo senso, non si trova in Hegel la negazione
idealistica del corporeo, ma sì la volontà di umanizzazione di quest’ultimo, di sua trasformazione da mero
opposto dello spirito, a componente dello stesso, dunque, in qualcosa, in cui
lo spirito può riconoscersi.
Ma, è chiaro, questa umanizzazione
del corporeo o, in altri termini, questo riconoscersi dello spirito nell’altro da sé è, realmente, un processo,
una storia che si sviluppa.[10] Per
questo, non va perduta la puntualizzazione di Lukàcs, quando scrive che è stato
“Hegel ad avvertire per primo sia la struttura complessa dei fenomeni, sia la
processualità della loro essenza, dei loro nessi, ed a metterle (questa struttura e questa processualità)
al centro dell’edificio metodologico di qualsivoglia filosofia.”[11] Non
può certo meravigliare se questo suo ‘taglio’ la filosofia di Hegel lo esibisca
pure in ambito politico.
“Anche la filosofia politica di Hegel –rimarca Löwith- è
un riconoscimento, una conciliazione con <ciò che è>. Il pensiero è ora
tutto presso di sé e, al tempo stesso, come idea organizzata, abbraccia
l’universo, cioè il mondo divenuto <intelligente> comprensivo e
trasparente … <Sembra che allo Spirito del mondo sia ora riuscito di
sbarazzarsi da ogni essenza estranea e oggettiva e … di generare da sé ciò che
gli diviene oggettivo e, comportandosi con calma, di tenerlo in suo potere.”[12]
Vediamo, dunque, che nel linguaggio di Hegel, <conciliazione con ciò che è> non ha, banalmente, un significato
conformistico, conservatore, di chi insomma si
contenta dello stato di cose esistente (senonché, questa è
l’interpretazione che di solito vien data, quando si insiste sull’idealismo di
Hegel).
Significa, invece, che è possibile la mediazione tra lo
spirito e “ciò che è”, nel senso che il primo può riconoscersi nel secondo, ovvero che “ciò che è” è conoscibile,
è retto, è guidato nel suo movimento, nella sua storia –così come capita anche
al soggetto, che lo conosce- dal dinamismo
della ragione.
Giusta questa impostazione, è facile comprendere
l’ostilità hegeliana nei confronti di ogni forma di soggettivismo politico e morale ed, al contrario, il suo orientarsi
verso una fondazione oggettiva
(razionale) del movimento e dell’agire politici, nonché della scelta morale.[13]
Come osserva Cassirer, dall’hegeliana Filosofia del diritto ricaviamo questo:
“cosa sia diritto e dovere, in quanto elemento in sé e per sé razionale delle
determinazioni volitive, non è essenzialmente proprietà particolare di un
individuo, né [è qualcosa, che si dà]
nella forma del sentimento … ma [sì
qualcosa, che si offre] essenzialmente [nella
forma] delle determinazioni
universali pensate, cioè nella forma delle leggi e dei precetti.”[14]
Prima di procedere nella citazione di Cassirer, è bene
precisare che, per Hegel, il sentimento è una semplice forma soggettiva, è il
modo nel quale qualcosa è in me, in quanto sono il soggetto di qualcosa. Questa
forma rimane uguale in sé, in tutte le diversità del contenuto, ed è dunque in
sé individualità propria.[15]
Essendo questa forma che “rimane uguale in sé, in tutte
le diversità del contenuto”, il sentimento è un che di astratto e di separato,
scisso dal suo contenuto proprio: in questo senso si può parlare di formalismo del sentimento, di una sua
incompletazza; ed allora comprendiamo bene Hegel, quando scrive che “il
contenuto del sapere costituisce la determinazione del sentimento”.[16]
Insomma, il sentimento è qualcosa che ha bisogno di altro
per precisarsi, per determinarsi: ha
bisogno, per riprendere un’espressione tipica di Marx, di un finish. E questo finish, questo completamento determinante è il contenuto del sapere, dunque, un elemento razionale.
Dall’astrattezza,
dal formalismo del sentimento, si esce mediante la ragione. A questo punto
possiamo tornare a Cassirer:
Lo “Stato non può riconoscere la coscienza morale nella
sua forma caratteristica, cioè in quanto sapere soggettivo; tanto poco quanto,
nella scienza, l’opinione soggettiva, l’assicurazione e il richiamo ad
un’opinione soggettiva hanno un valore.” Una conseguenza è che ogni tentativo
di costruire un cosiddetto stato ideale in conformità ai nostri canoni morali
soggettivi è dunque da giudicarsi vano e futile. La filosofia può immergersi
nella realtà e conoscerne il principio; ma non può creare la realtà dal nulla,
né modificarne la sostanza. Questo pensiero è espresso in maniera assai
notevole nelle celebri parole con cui Hegel conclude la prefazione della Filosofia del diritto: “Del resto, a
dire anche una parola sulla dottrina di come dev’essere il mondo, la filosofia
arriva sempre troppo tardi. Come pensiero del mondo, essa appare per la prima
volta nel tempo, dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione ed
è bell’e fatta. Questo è ciò, che il concetto insegna e la storia mostra
necessario: che, cioè, prima l’ideale appare di contro al reale, poi, nella
maturità della realtà, costruisce questo mondo medesimo … in forma di regno
intellettuale.”[17].
A questo punto, andiamo a qualche conclusione significativa per la nostra
ricerca.
Ricostruito in questo modo il pensiero di Hegel,
comprendiamo perfettamente come il filosofo tedesco tematizzi diversamente da
Rousseau il momento dell’autocoscienza, ovvero della presa di coscienza di sé
da parte del soggetto.
Rousseau, abbiamo visto, per realizzare il <conosci te
stesso> aveva bisogno di separare l’uomo dalle proprie circostanze di vita,
dalle ‘deformazioni’ introdotte in lui dalla vita sociale.
Al contrario, già con la Fenomenologia,
Hegel non ha dubbi circa il fatto che la formazione dell’autocoscienza implichi
l’esistenza di una pluralità di coscienze, tra le quali si realizza una
complessa dialettica, che è la condizio sine qua non del sorgere, appunto, del Selbsbewußtsein (autocoscienza).
Ciò significa, in altre parole, che la formazione
dell’autocoscienza consegue ad un processo di riconoscimento, per il quale io
son riconosciuto dall’altro, dunque, io
implico l’altro.
L’autocoscienza –scrive Hegel- comporta l’esser
riconosciuto: quindi, l’autocoscienza è
in e per sé, nella stessa misura in cui è
per un altro; il concetto di autocoscienza non è possibile coglierlo, se
non in questo incrocio, multilaterale e dai vari significati, i cui momenti (le singole autocoscienze) vanno,
comunque, assunti come contrapposti.[18]
Non dunque contrapposizione tra coscienza di sé e vita
sociale, ma ben al contrario quest’ultima intesa come condizione necessaria
della coscienza di sé.
[1]
- Versprechien –si noti che questo
termine fa parte del vocabolario freudiano.
[2]
- Sia pure per ragioni apposte, collocare il pensiero di Hegel e il Wienerkreis
entro lo svolgimento del razionalismo moderno può destare qualche importante
riserva. Evidenti motivi di opportunità, ci inducono –ora- a mettere tra
parentesi tale questione.
[3]
- Naturalmente è importante sottolineare una differenza: in Hegel, la scienza (Wissenschaft) coincide con il punto di
vista speculativo o della ragione; per il Wienerkreis, al contrario, il modello
della scientificità è dato dal dominio delle scienze particolari (Einzel - wissenschaft), che Hegel
differenziava, invece, dallo Scientifico in
senso pieno, così come differenziava l’intelletto dalla ragione.
[4]
- Uso il termine semplicemente nel senso di pertinente
il conoscere.
[5]
- Così A. Kojève descrive l’orizzonte
del sapere scientifico-intellettuale, nella prospettiva della Fenomenologia di Hegel: ““Dapprima si
presenta –dalla parte dell’oggetto- il vuoto Aldilà, senza contenuto, la pure
negazione del <fenomeno sensibile>. Dalla parte del soggetto: il
sillogismo. In seguito, grazie ad una interazione del sillogismo con l’Aldilà,
si arriva al <calmo mondo delle leggi>: è la scienza (newtoniana). Viene
poi la critica di questa scienza cara a Kant: questa scienza è mera tautologia
(…).” (A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Milano 1996: 59). Naturalmente,
così come la dimensione della conoscenza intellettuale può essere correttamente
indicata come un certo atteggiamento,
che l’uomo assume in una determinata fase della sua storia; parimenti è vero
che certezza immediata e ragione, anch’esse, stanno ad indicare altrettanti atteggiamenti, storicamente assunti
dell’uomo.
[6]
- Hegel, Phénoménologie de l’Esprit, I,
traduction de J. Hyppolite, Paris 1941: 109s).
[7]
- Hegel, Phénoménologie …, op. cit.: 110.
[8]
- Kojève, op. cit.: 57, 59.
[10]
- “L’unità tra uomo e mondo –[per Hegel]- non si constata, non è un dato:
essa deve essere realizzata mediante l’azione.” (Kojève, op. cit.: 64).
[12]
- K. Löwith, op. cit.: 79s.
[13]
- Dovrebbe essere inutile sottolineare come questo anti-soggettivismo venga
pienamente ereditato da Marx. Senonché, farlo non è per nulla pleonastico, se
si tien presente certo bizzarro coniugare Marx ed utopia, in cui frequentemente
oggi ci si imbatte. Il nucleo razionale che, con molta liberalità, si può
riconoscere a questa tematizzazione utopistica di Marx, consiste nell’indicare,
in qualche modo, un problema reale: come mostra in modo particolarmente chiaro
l’elaborazione di Lenin, esiste per il marxismo il problema di coniugare il marcato suo senso dell’obiettività del dinamismo storico con
l’altra sua indubbia componente, ovvero, la consapevolezza della necessitò di
un intervento -cosciente, volontario e
organizzato- dell’uomo nella storia. Su questo, cf. “Lenin: la riflessione
sul Partito. Un uso della dialettica”, in S. Garroni, Dialettica e socialità, Roma 2000: 117ss.
[14]
- E. Cassirer, Simbolo, mito e cultura,
Bari 1965: 119. Si ricordi, d’altronde, il §. 377 dell’Enciclopedia hegeliana, in cui si legge che <conosci te
stesso> non significa conosci l’individuo con le sue particolarità, il suo
carattere, aspirazioni, ecc.; ma sì conosci ciò che è vero nell’uomo, la sua
essenza. E nell’Aggiunta al §. Hegel chiarisce che la
conoscenza filosofica è la conoscenza più
concreta, ma dell’idea che realizza se stessa. “Soltanto in tempi in
cui la realtà è un’esistenza vuota, priva di spirituale e di carattere, -scrive
Hegel- può essere consentito all’individuo di ritrarsi indietro dalla vita
reale, nell’interiorità. Socrate sorse nel tempo della corruzione della
democrazia ateniese; egli volatilizzò ciò che esisteva e si ritrasse in sé, per
cercarvi il diritto e il bene. Anche ai nostri tempi avviene, più o meno, che
il rispetto per ciò che esiste non c’è più, e che l’uomo vuole avere ciò che
vale in quanto sua volontà, in quanto cosa da lui riconosciuta.” (v. F.
Valentini, Soluzioni hegeliane,
Milano 2001: 93).
[15]
- G.W.F. Hegel, Lezioni sulle prove
dell'esistenza di dio, Bari 1970: 53.
[16]
- G.W.F. Hegel, op. cit.: 44.
[17]
- Cassirer, op. cit.: 119.
[18]
- G.W.F. Hegel, Phänomenologie des
Geistes, I. Frankfurt/Main 1998: 145s.
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