sabato 5 settembre 2020

Le contraddizioni delle soluzioni “keynesiane” al problema della disoccupazione e la sfida del “piano del lavoro” - Riccardo Bellofiore

Da: https://www.facebook.com/notes - INTRODUZIONE a «Tornare al lavoro. Lavoro di cittadinanza e piena occupazione», a cura di Jacopo Foggi, Castelvecchi, Roma, 2019, pp. 17-27
riccardo.bellofiore è professore ordinario di Economia politica all’Università degli Studi di Bergamo. (Economisti di classe: Riccardo Bellofiore & Giovanna Vertova - https://www.riccardobellofiore.info)

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Il libro sui piani di lavoro garantito curato in modo esemplare da Jacopo Foggi per lo CSEPI è un volume importante, tanto per la qualità e la completezza di quello che contiene e che dice, quanto per quello che resta sullo sfondo e rimane ancora da articolare con più precisione e ricchezza, e magari da mettere meglio a fuoco. In queste poche righe di introduzione mi propongo di presentare al lettore, senza alcuna possibile pretesa di completezza, alcune considerazioni evidentemente soggettive, essendo io stesso parte attiva di questo dibattito in corso.

Il problema della disoccupazione in Italia è un problema che affonda le radici nel passato. Anche limitandoci al secondo dopoguerra, non solo esso non è stato mai risolto, ma alla sua risoluzione non hanno affatto contribuito né la apertura al commercio internazionale, né il miracolo economico, né gli abortiti tentativi di programmazione: semmai, l’emigrazione. La svolta degli anni ’80 prima peggiorò le cose, poi provvide una falsa soluzione nella sottoccupazione dovuta alla caduta della produttività e alla precarizzazione. Si può dubitare che sia mai davvero esistita da noi una fase keynesiana (molti guardano con nostalgia malriposta ai cosiddetti trent’anni gloriosi), e il keynesismo criminale stigmatizzato da de Cecco ne fu un povero sostituto. Il che lascia dubitare che sia possibile una soluzione keynesiana oggi, fondata sulla sola espansione della domanda effettiva, che rovesci l’austerità che ci accompagna da decenni. Si può dire che in varia forma la disoccupazione si sia tramandata tanto nello sviluppo quanto nella crisi, come anche che la crisi italiana sia di lunga durata, e risalga in realtà alle occasioni perse di metà anni ’60. È una crisi che ha aspetti strutturali, non solo congiunturali: e la stessa cosa si può dire della problematica della disoccupazione. La crisi recente, successiva alla nuova “grande crisi” esplosa nel 2007-2008 e aggravata dalle dinamiche interne all’area europea, va relativizzata come parte di questo quadro complessivo.

Il cuore del libro è costituito, di fatto, da una proposta di importazione chiavi in mano, ovviamente adattata al nostro paese, di una idea di origine anglosassone, l’insieme di programmi per un Job Guarantee, una volta denominata come proposta dello Stato come “occupatore di ultima istanza”, un’idea sostenuta con forza dalla corrente della cosiddetta Modern Money Theory. I “piani di lavoro garantito” vengono contrapposti con ragione, e qualche tentativo di mediazione, all’idea alternativa di un “reddito di esistenza”: è chiaro che mentre questa seconda politica di fatto accetta la precarizzazione e la disoccupazione permanente come un destino, cui mettere una pezza con sussidi prevalentemente monetari, i piani di lavoro garantito scommettono sulla compatibilità della piena occupazione permanente con la configurazione sociale capitalistica. I proponenti dell’Employer of Last Resort hanno scritto altrove che il punto è «ripensare il capitalismo»: i proponenti del basic income ritengono invece che il superamento del capitalismo si gioca essenzialmente su un piano distributivo.

L’Employer of Last Resort fu parte organica della riflessione di Hyman Minsky, cui ho dedicato numerosi scritti e che ho cercato di diffondere nell’area del pensiero critico in economia: scritti che paiono però essere sfuggiti agli autori italiani che contribuiscono validamente a questo volume. All’estero, ma ancor più da noi, Minsky è ridotto a parte della scuola postkeynesiana, e in particolare all’ipotesi della instabilità finanziaria. Avere un quadro complessivo della sua riflessione mostra la centralità della coppia socializzazione dell’investimento (molto radicalizzata rispetto a Keynes) – socializzazione dell’occupazione (con una forte ripresa di Roosevelt e del New Deal): una coppia che ovviamente si deve accompagnare a una socializzazione della finanza. Tener presente tutto il pensiero di Minsky – non dimenticando gli ultimi due splendidi capitoli di Keynes e l’instabilità del capitalismo (di cui ho curato la ristampa nel 2008 [Minsky, 2008]), che nessuno però legge – ci aiuta a capire come il suo discorso si configuri come una critica radicale al keynesismo realmente esistente. I giudizi di Minsky sull’era keynesiana di alti profitti-alti investimenti, come quelli di Joan Robinson in La seconda crisi della teoria economica, sono durissimi, e fanno il paio con quelli di Michał Kalecki e di Paul Sweezy: si tratta di una società fondata sullo spreco, sulla distruzione dell’ambiente naturale, sull’erosione degli squilibri sociali, e che impedisce una autentica lotta alla povertà.

È per questo che ha particolare rilievo la raccolta Combattere la povertà: lavori non assistenza [Minsky, 2014] (ma il titolo originale è più duro: Ending poverty. Jobs, not welfare), che ho curato in italiano con Laura Pennacchi, e che è passato un po’ sotto silenzio per la gran parte della scuola minskyana italiana, affezionata ai modellini ciclici di instabilità finanziaria o nel mercato del lavoro, magari poi colorati in salsa stiglitziana: diciamo che si è preoccupata più della forma matematica dei modelli che della sostanza sociale. Il discorso di Minsky è chiarissimo: il capitalismo “liberista” è destinato alla crisi finanziaria, ma il successivo capitalismo “keynesiano” non soltanto non elimina la povertà e produce una composizione della produzione perversa, ma è destinato a una nuova forma di crisi apertamente o nascostamente stagflazionistica. La via di uscita consiste in un intervento diretto statale sul terreno dell’occupazione, in un comando sulla composizione della produzione via controllo dei towering heights, in un consumo di natura sempre più “comune” in termini di valori d’uso sociali. I sussidi monetari sono pericolosi e nemici di questa politica che – del tutto esplicitamente – Minsky configura con i caratteri di un possibile socialismo.

Questa forte ispirazione è tradotta, ma è anche un po’ annacquata, nella sua proposta di Stato occupatore di ultima istanza: lo Stato assume tutti coloro che lo desiderano a un salario di base (relativamente) basso, tale da non essere competitivo con il settore privato, da collocare l’esercito industriale di riserva tra gli occupati e non tra i disoccupati, e dunque da sostenere insieme occupazione e domanda. Lo Stato, peraltro, provvederebbe a spendere nei bisogni sociali insoddisfatti, nell’infrastruttura fisica, ambientale, e culturale, e così via. Non una spesa aggiuntiva generica, ma una spesa mirata. Dove stanno i rischi e gli annacquamenti? Un po’ traspaiono in alcuni contributi, sia di critici simpatetici nella prima parte dell’antologia, sia di autori italiani. L’intervento ha natura ciclica, per cui il polmone provvisto dal piano di lavoro garantito si amplia nella crisi e si sgonfia nello sviluppo. Ma è possibile, e forse persino probabile, che invece (come altrove intuisce lo stesso Minsky) la necessità di un intervento dello Stato sia strutturale e crescente, non congiunturale e temporanea. Il salario basso di assunzione garantisce dal rischio inflazionistico, ma non si sa quanto da quello deflazionistico e dalla povertà. È immaginabile che i disoccupati da 20 assumere siano anche o soprattutto qualificati, e non a bassa qualificazione come, con ragione rispetto agli anni in cui scriveva e al contesto americano, pensava Minsky. E si potrebbe continuare.

È indubbio che gli autori della MMT che intervengono nel volume hanno di molto migliorato e specificato il dettaglio tecnico della proposta. Ma il rischio che corrono è di collocarsi per lo più – proprio per il fine di mostrare che si tratta di una politica praticabile nel capitalismo – dal lato di una visione ciclica, non permanente, del ruolo dello Stato come occupatore stabile e di prima battuta, la cui quota dovrà essere crescente nel tempo. L’altra nota di cautela che avanzerei è questa. Rispetto a Minsky, gli autori che propongono politiche di Job Guarantee oggi, se riprendono l’ispirazione minskyana, lasciano da parte alcuni suoi timori e circospezioni. È dimostrabile che Minsky non vedesse come così scontato il fatto che persino uno Stato sovrano come gli Stati Uniti fosse a rischio di crisi del debito pubblico, o persino di fuga dalla propria valuta: la sua prospettiva era quella di una cooperazione internazionale, e probabilmente in una certa fase di coordinamento dei cambi in (mutevoli) fasce di oscillazione controllate dalle diverse banche centrali. Non direi che Minsky sarebbe stato tanto favorevole a quel passo indietro che è l’utopia (o la distopia) di tornare a un controllo meramente nazionale dell’economia, ammesso e non concesso che quella autonomia fosse reale. Inoltre, Minsky appare sensibile al tema di una attenta politica dell’imposizione fiscale per “giustificare” le politiche che favoriva.

Qui il punto non è meramente “tecnico”: sulla tecnica si può dare su molte cose più ragione agli autori MMT che a Minsky (e non si può non ringraziare quella corrente per aver combattuto, assieme a Lavoie, Toporowski, de Cecco o chi scrive, l’idea che la crisi globale od europea sia in ultima istanza una crisi da squilibri nelle partite correnti). Il punto è che il capitalismo non vede una scissione tra tecnica, società e politica: “economia” è a ben vedere l’insieme delle tre cose, su quel centro che sono i rapporti sociali di produzione.

Legate a quel che precede, sono due questioni che incrociano altri dibattiti. La prima ha a che vedere con la proposta alternativa di un basic income universale e senza condizioni, un “reddito di esistenza”. Più o meno tutti gli autori del volume, anche i contributi italiani della seconda parte, esprimono, come me, una filosofia diversa, che in un modo o nell’altro favorisce l’obiettivo della piena occupazione via intervento diretto dello Stato. Pure ed è questa la prima osservazione – quanto si è detto segnala quanto alcuni critici hanno obiettato. La Job Guarantee, come il basic income, potrebbe riprodurre l’incubo polanyiano del sistema di Speenhamland, che forniva sussidi in aggiunta al salario agganciati al prezzo del pane, per garantire un reddito minimo ai poveri indipendente dai loro guadagni. La registrazione delle conseguenze perverse di quel sistema era già in Marx: i poveri assistiti, o i poveri che lavorano, erano ridotti a mendicanti o a lavoratori sempre più poveri. Il basic income può cioè essere il grimaldello di un generale impoverimento, di un abbassamento dei salari, di uno smantellamento del welfare state. Certo, questo non è nelle intenzioni dei proponenti del Job Guarantee, come non lo è in quello dei proponenti del basic income: pure il rischio esiste, ed è insito nell’idea stessa di un “esercito industriale di riserva di occupati”. Per evitarlo, occorre perseguire una strategia di relativamente alti salari offerti dallo Stato; e, per quel che ho detto, anche di crescente e alta qualificazione dei lavoratori che lo stato domanda. Però a questo punto emerge, ovviamente, il problema kaleckiano della incompatibilità con il capitalismo di una piena occupazione permanente.

Prima di passare a questa questione, una osservazione laterale, e poi una più sostanziale. L’osservazione laterale è questa. Bene fanno Foggi e Scorrano a ricordare e ampiamente citare un importante contributo recente di Giovanna Vertova di critica del basic income (esistono altre critiche importanti di tenore non lontano, come quella di Laura Pennacchi). Ma la questione tutto è meno che recente, e forte è stata la disattenzione degli economisti critici italiani. Giovanna Vertova, pressoché unica all’epoca, aprì una discussione sul manifesto nel 2006 – si noti, prima dello scoppio della crisi del 2007-2008 – mostrando le mille falle teoriche e pratiche di quella idea. A quella messa in discussione risposero molti dei fautori del reddito di esistenza, in primis Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli. Tra gli economisti critici, le uniche presenze nel dibattito furono però, a mia memoria, quelle di Halevi e mia, in sintonia con Vertova. Per il resto, intervennero contro il basic income in salsa postoperaista e negriana voci importanti (in un elenco molto incompleto, mi limito a ricordare Ferruccio Gambino, Massimiliano Tomba, Devi Sacchetto, Edoarda Masi: insomma, storici, filosofi, sociologi, comunisti libertari). Ma di economisti, a parte i citati, e di economisti delle culture qui rappresentate (ben vivi e vivaci anche allora), allora, nemmeno l’ombra. Forse li spiazzava una discussione che non stava nell’orizzonte noto Keynes-Sraffa, e che non vedeva nei trent’anni seguiti alla fine del secondo conflitto mondiale una «Età dell’oro»: se non il comunismo realizzato, poco meno, come ha sostenuto esplicitamente chi ha fantasticato di un «modo statuale di produzione» allora tendenzialmente egemonico.

La questione più sostanziale è questa. La proposta di basic income era allora sostenuta sulla base, in sostanza, dell’idea che il nuovo capitalismo produceva di fatto ricchezza e (plus)valore. Si trattava di rivendicare di essere, come viventi, “produttivi”, e di distribuire valore e ricchezza secondo una diversa logica. Purtroppo a quest’ordine di idee si è accodato il peraltro più interessante Paul Mason nel suo Postcapitalismo [cfr. Bellofiore, 2017]. Era una tesi falsa, vista la nascosta instabilità e la costitutiva insostenibilità di quel nuovo capitalismo, che in sostanza non era altro che un paradossale keynesismo privatizzato e finanziario, destinato a una crisi prossima ventura che avrebbe fatto svanire la (perversa) sorgente di valore e ricchezza, come osservammo nel 2006 Halevi ed io, in qualche modo presentendo la turbolenza in arrivo. Pure, vi è evidentemente qualcosa di significativo nella proposta, specie se ci si allontana dalla riproposizione in salsa italiana e si va all’origine migliore, gli scritti di Philippe van Parijs, con cui ne discussi a Louvain-la-Neuve nel 1985, quando ero visiting professor in quella sede. Se ne rendono conto alcuni autori in questo volume che, pur centrando il discorso sull’asse di politiche per il pieno impiego, azzardano un qualche raccordo con l’ipotesi di reddito di esistenza.

Se è consentito un ricordo personale, una via del genere la provai io stesso, prima che il basic income divenisse una moda in una certa sinistra, in salsa puramente distributiva. Mi riferisco a uno scritto – Per una ripresa alternativa del welfare state [Bellofiore, 1993] – che, data la sede inconsueta per un saggio di tema economico, non lesse, immagino, nessuno – pubblicato dalla rivista del dissenso cattolico Bozze, diretta da Raniero La Valle. L’idea era di vedere in un’erogazione universale di un “reddito minimo garantito” per tutti, come chiamavo allora il basic income, (non, quindi, un salario minimo per i soli disoccupati), la contropartita di attività socialmente utili prestate dai beneficiari. Sussidiario rispetto al welfare, il reddito minimo garantito ne avrebbe ridotto la dimensione, ma doveva essere accompagnato a una generalizzata riduzione e riorganizzazione dell’orario di lavoro (di riduzione di orario, si badi, non ne parla più quasi nessuno, anche se è nel DNA della sinistra), e a un comando mirato sull’occupazione e sulla composizione della produzione via intervento diretto dello Stato nell’assunzione di lavoratori e nell’investimento. La filosofia sottostante era quella di una autentica flessibilità del lavoro e di una socializzazione del settore capitalistico, per opporsi alla vigente flessibilità del capitale (che produce precarizzazione e occupazione povera) ed alla privatizzazione dello Stato sociale. È una idea che ho ripreso ed aggiornato assieme a Giovanna Vertova in Crisi del welfare e crisi del lavoro, dal fordismo alla Grande Recessione: un’ottica di classe e di genere [Bellofiore e Vertova, 2014].

I riferimenti principali di questo filo di ragionamento, oltre a un Minsky riveduto e corretto, sono un po’ diversi da quelli che vengono nominati in questo volume, ma vi si incastrano bene, aiutando a sciogliere limiti e ambiguità. C’è il Parguez fautore dei «buoni disavanzi» – disavanzi di stato voluti ex ante, pianificati, che si collocano per così dire naturalmente in una politica di lungo termine, e che sfociano nella produzione di uno stock di risorse tangibili e intangibili: non solo infrastrutture fisiche, non solo o tanto grandi opere, ma anche investimenti nella ricerca, nell’istruzione, nella salute, e così via. Una produzione di valori d’uso sociali che da principio non può che essere finanziata in disavanzo – sempre, nelle economie capitalistiche, e dunque monetarie, il reddito segue alla spesa, come il risparmio all’investimento, e ancora come le imposte alla spesa pubblica – ma che in realtà, al termine degli effetti che ha indotto, finisce comunque con l’autofinanziarsi. Un altro riferimento implicito era, evidentemente, l’«Esercito del lavoro» di Ernesto Rossi, l’idea poi ripresa da Paolo Sylos Labini, come ci viene ricordato ancora una volta recentemente nel loro Nuovi lineamenti di economia politica da Marcella Corsi e Alessandro Roncaglia [2017]. Nell’esercito del lavoro andrebbero arruolati tutti i cittadini per un determinato lasso di tempo, o a intervalli regolari per più brevi periodi. In questo caso si tratterebbe anche di spartire i lavori meno gradevoli. Ma la proposta, almeno nella ripresa che ne facemmo Halevi ed io quasi quindici anni fa, si estendeva a un vero e proprio Piano del lavoro che esplicitamente rimandava a quello della CGIL del 1949-50.

Sicuramente, in questa prospettiva come in quella dei piani di lavoro garantiti, una questione dirimente è quella della compatibilità con un orizzonte capitalistico. Non si tratta di una sterile discussione se si debbano accettare le compatibilità date: nella storia, qualsiasi cambiamento in senso progressivo del capitalismo (se volete, chiamatelo pure un risultato riformatore) ha avuto come condizione un rifiuto delle compatibilità del momento (se volete, chiamatelo pure un atteggiamento rivoluzionario). Il problema è evidentemente quello posto da Kalecki nel 1943. In una ottica, a me pare, tutta chiusa in un orizzonte strettamente economicistico e “tecnico”, gli autori di questo volume non vedono il vero punto del ragionamento dell’economista polacco. Che non è tanto o solo quello di un richiamo al ruolo dell’esercito industriale di riserva nel regolare il salario e la distribuzione, o nel disciplinare i lavoratori, o di segnalare un contrasto puramente politico al pieno impiego da parte dei capitalisti. La questione a me pare un’altra, e cioè che Kalecki coglie bene che condizione essenziale del capitalismo è il comando capitalistico sul lavoro (sull’uso della forza-lavoro, innanzi tutto, non sul suo prezzo) e sulla composizione della produzione (di qui la preferenza allo spreco o al militarismo, piuttosto che a una politica di investimenti pubblici). Come ho scritto prima, immaginarsi una possibile separazione di tecnico e politico, di economico e sociale, significa ragionare di una realtà che non è quella capitalistica (Marx lo avrebbe probabilmente definito proudhonismo).

Proporre una sfida su questi due punti – una piena occupazione vera, che favorisca un aumento del potere del lavoro; e una produzione di valori d’uso sociali, che metta in scacco il primato del valore (di scambio) – può avere soltanto successi limitati e temporanei, non generalizzati e permanenti. Non significa che non vada tentata, evidentemente: per condizionare le scelte capitalistiche; e perché successi limitati e temporanei sono pur sempre successi. Si tratta di attrezzarsi alla reazione del sistema, e di comprendere che la questione di una uscita dal capitalismo, di un cambiamento del modo di produzione, di un ripensamento di una pianificazione in senso proprio, non può essere data per chiusa dalla storia, se davvero si vuole una piena occupazione di lavoratori che oltre che godere di un diritto al lavoro esercitino anche un controllo sul proprio lavoro.

È qui che, in conclusione, si rivela significativo il riferimento al Piano del lavoro della CGIL 1949-50. Il mio consiglio al lettore è quello di affiancare a questo libro, utile per orientarsi nella realtà di oggi, un vecchio volume che dovrà procurarsi in biblioteca (non esiste solo internet). Mi riferisco a Il Piano del lavoro della CGIL, che raccoglie gli atti di un bel convegno organizzato dalla Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Modena, il 9-10 maggio 1975, ed edito da Feltrinelli nel 1978 (quanta acqua era passata sotto i ponti in quei tre anni!) [AA.VV., 1978]. È da leggere tutto: relazioni, interventi nel dibattito, comunicazioni. Scrive Fernando Vianello nella premessa che «[c]hiunque voglia prendere sul serio questa parola d’ordine [del pieno impiego], non degradandola a vuota formula di propaganda, ma considerandola come un concreto – ancorché ambiziosissimo – obiettivo di politica economica, si troverà inevitabilmente a proporre qualcosa di non molto diverso da un nuovo Piano del lavoro. È chiaro, infatti, che l’occupazione non può essere aumentata in misura paragonabile alla necessità senza un deciso intervento pubblico, specificamente diretto alla creazione di posti di lavoro. La consapevolezza che la situazione richiede rimedi eccezionali comincia del resto a farsi strada. Com’è testimoniato da una proposta così poco convenzionale come quella [di Ernesto Rossi, che Vianello in nota qualifica come assai più radicale], rimessa in onore da Paolo Sylos Labini, di costituire un “esercito del lavoro”» [ibid., p. 5].

L’ispirazione era quella di creare immediatamente posti di lavoro, allargare il mercato interno, rimuovere strozzature e rafforzare la matrice intersettoriale dei settori, creando nuova e migliore capacità produttiva, più autonoma dal contesto internazionale (esigenze valide anche oggi: ma, si sveglino i sognatori, praticabili ai nostri giorni su scala europea, non più del singolo stato-nazione). Era – e questo è cruciale – non una proposta “tecnica”, era anche essenzialmente e simultaneamente un invito alla lotta sociale, politica, e culturale più in generale. Una ispirazione, possiamo aggiungere, che si può definire a un tempo – strano ossimoro – “keynesiana” e “produttivistica”: d’altra parte, nessuno degli economisti che gravitarono attorno al Piano del lavoro (Breglia, Fuà, Pesenti, Steve, ma anche Caffè, Napoleoni, Sylos Labini, ed altri ancora) era keynesiano tout court, perché forte era una ispirazione strutturale, l’influenza di Marx e Schumpeter, il ricordo del New Deal, la sintonia con la prima “economia dello sviluppo”. Qui basti osservare che le ragioni della sconfitta del Piano del lavoro non stavano soltanto nella scelta politica di una accelerata integrazione al mercato internazionale che fece dell’Italia una economia “aperta” e “dualistica”. Stavano anche, se non soprattutto, nella sconfitta sindacale e politica degli anni immediatamente precedenti.

Va anche riconosciuto che allora – a differenza di oggi, verrebbe da dire – acuta era la coscienza della difficoltà costituita dalla incerta compatibilità con il capitalismo di politiche di pieno impiego. Basta andare a leggersi alcune citazioni contenute nel volume sul Piano del lavoro. Ad esempio quella di Giorgio Fuà: «[I]l dubbio generale che si affaccia è insomma questo: forse che dobbiamo rassegnarci all’idea che l’ordine economico-sociale esistente preclude, per il modo stesso in cui è organizzato, un serio perseguimento di fini sociali? Io non vi invito affatto ad arrendervi completamente a questo dubbio. Ma badate: se uno volesse abbandonarsi a questo dubbio, ridursi a questa posizione negativa, sia chiaro che la sua posizione non potrebbe valere in alcun modo come una critica particolare al piano CGIL, ma avrebbe invece il significato generale, incontrovertibile, della pronuncia di una richiesta di condanna capitale a carico della struttura economico-sociale esistente» [ibid., p. 99]. O quella di Sergio Steve, secondo cui l’onere della prova non ricadeva sulla CGIL ma su «coloro che vogliono e pensano che sia opportuno non mutare la struttura economica e sociale del nostro Paese» [ibid., p. 91].

Mi colloco, ahimé, tra gli scettici, e reputo che su questo sbagliasse di grosso Federico Caffè – il cui insegnamento rimane comunque fondamentale, in favore di una «economia dei controlli» [cfr. Bellofiore, 2013]. Non sbagliava nell’avvertire della sterilità di un atteggiamento di attesa inconcludente del crollo del sistema capitalistico: lì aveva anzi mille volte ragione. Sbagliava invece nella sua lode di un «riformismo gradualistico», e di quelle riforme-grano che miravano puramente alla razionalizzazione del sistema e alla riduzione del costo del lavoro, contro cui aveva avvertito Claudio Napoleoni un paio di anni prima. Era uno sbaglio nella forma della contraddizione, perché in realtà di gradualistico il riformismo di Caffè non aveva un bel niente, era anzi radicale: prefigurando controlli sul commercio con l’estero, controlli sui prezzi, controlli sulla localizzazione delle industrie, estensione dell’azione dello Stato anche ai fini della regolamentazione complessiva dell’investimento privato, e così via. Appunto: una vera e propria economia dei controlli: meglio, una amministrazione globale dell’offerta. Un riformismo, quello di Caffè, destinato purtroppo esso stesso a un fallimento, forse proprio perché ostinava a pensarsi come riformismo gradualistico. La sua economia dei controlli e la sua amministrazione globale dell’offerta è però da riproporre oggi, come ho accennato, sulla nuova scala del conflitto dei nostri giorni, cioè sulla scala europea, costruendone con pazienza le condizioni sociali e politiche.

Coglie nel segno, nel volume sul Piano del lavoro, Andrea Ginzburg quando delinea una opposizione tra “analisi” keynesiana e “politica” keynesiana (una distinzione del genere era peraltro presente anche negli scritti di Claudio Napoleoni su Realtà Economica, il bollettino dei Consigli di gestione che l’economista abruzzese diresse e redasse quasi integralmente da solo nella seconda metà degli anni ’40). Ieri come oggi l’analisi keynesiana (sul rapporto risparmi-investimenti) era ed è fondamentale per far emergere contraddizioni e limiti dell’andamento spontaneo del sistema capitalistico, come anche la natura di classe delle politiche deflazionistiche. Le politiche puramente keynesiane (generici investimenti pubblici, o gli incentivi indifferenziati attraverso la manovra del credito o delle imposte) hanno invece respiro limitato, e incontrano difficoltà di vario genere. Scriveva Ginzburg – vien da dire, con preveggenza, se si fa caso all’inquietante tendenza dei più giovani economisti critici a scivolare proprio in questo errore banale – che «si sarebbe potuto trovare nella tradizione marxista una solida base per evitare di cadere nella trappola di assumere posizioni di principio fra quelle false alternative che l’ideologia dominante costantemente propone: autarchia o liberismo, concorrenza o monopoli, iniziativa privata o intervento pubblico: alternative false in quanto entrambi i termini di queste opposizioni rappresentano prodotti, o momenti particolari, del capitalismo e del suo sviluppo» [ibid., p. 132, corsivo nel testo].

Occorre una socializzazione degli investimenti, oltre che dell’occupazione. La seconda non sta senza la prima. Ma la prima impone, prima o poi, di guardare in faccia la natura di classe del sistema, che non si adatta ad essere semplicemente “ripensato”. Starei attento a non mettere il carro davanti ai buoi, eviterei di interrogarmi puramente e semplicemente sulla praticabilità tecnica dei “piani del lavoro garantito”. Prima, come sempre, vengono i rapporti sociali di produzione, e il ristabilimento di un conflitto nella società e nella politica come parte della lotta per la piena occupazione.

Riferimenti Bibliografici

Aa. Vv., (1978), Il piano del lavoro della CGIL : 1949-1950: atti del Convegno organizzato dalla Facoltà di economia e commercio dell’Università di Modena, 9-10 maggio 1975, Feltrinelli, Milano.
Bellofiore R., (1993), “Per una ripresa alternativa del Welfare State”, Bozze, n. 3, pp. 29-54.
Bellofiore R., (2013), “L’economista in tuta da lavoro. Federico Caffè e il capitalismo in crisi”, Postfazione a Caffè F., Economia senza profeti. Contributi di bibliografia economica, Studium, Roma, pp. 119-165.
Bellofiore R. e Halevi J., (2015), “New Deal, socializzazione degli investimenti e «piano del lavoro». L’eredità problematica di Roosevelt e Keynes”, in Pennacchi L. e Sanna R. (a cura di), Riforma del capitalismo e democrazia economica. Per un nuovo modello di sviluppo, Ediesse, Roma, pp. 187-199.
Bellofiore R. e Pennacchi L., (2014), “Crisi capitalistica, socializzazione degli investimenti e lotta all’impoverimento”, in Minsky H. (2014), pp. 11-44.
Bellofiore R. e Vertova G., (2014), “Crisi del welfare e crisi del lavoro, dal fordismo alla Grande Recessione: un’ottica di classe e di genere”, La Rivista delle Politiche Sociali, n. 1, pp. 103-122.
Kalecki, M. (1943), Political Aspects of Full Employment, in Kalecki M. (1971), Selected Essays on the Dynamics of the Capitalist Economy, 1939-1970, pp. 138-45, Cambridge University Press, New York. Trad. it., in Aspetti politici della piena occupazione, Celuc, Milano, 1975.
Minsky H.P., (2014), (a cura di Bellofiore R. e Pennacchi L.), Combattere la povertà. Lavoro non assistenza, Ediesse, Roma. Traduzione di Ending Poverty: Jobs, not Welfare, 2013, The Levy Institute of Bard College.

Vertova G., (2017), “Potenzialità e limiti del reddito di base”, Etica & Politica/Ethics & Politics, XIX, 2017, 1, pp. 143-160.

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