Da:
https://www.lacittafutura.it
-
Roberto
Fineschi
è
un filosofo italiano (Marx.
Dialectical Studies).
Leggi
anche: IL
PAESE DELLE LIBERTÀ: stermini, repressione e lager nella storia
degli Usa. - Maurizio Brignoli
Numerosi stratagemmi sono volti a disgregare e contrapporre gli sfruttati fra di loro, favorendo la guerra fra poveri che distrae dall’unica guerra realmente liberatoria per tutti: la guerra agli sfruttatori.
Come
ho argomentato
altrove,
lo sviluppo strutturale del modo
di produzione capitalistico nella sua fase “crepuscolare” porta
alla crisi
della vigenza del concetto di “persona”,
vale a dire dell’universale
uguaglianza e libertà degli esseri umani.
A onor del vero, il processo di universalizzazione nello stesso
contesto borghese della persona non è mai stato poi così lineare.
Lasciando stare le colonie,
dove la barbarie
schiavistica non
è mai cessata, sacche
di schiavitù formalmente legittime sono esistite a lungo in
seno ai più liberali dei paesi anche fino a tempi relativamente
recenti.
L’esempio
più facile sono i super liberi Stati
Uniti:
essi nascono con la schiavitù degli afroamericani addirittura nella
Costituzione. Non viene menzionata esplicitamente, ma compare
indirettamente attraverso la clausola dei 3/5. La questione era come
contare gli schiavi che nel sud erano una parte cospicua della
popolazione: come “esseri umani” per avere più rappresentanti o
come cosa per pagare meno tasse (che erano basate sul numero di
persone). La “soluzione” fu contarli per 3/5: uno schiavo, senza
che la parola fosse menzionata, valeva 3/5 di un bianco (articolo 1,
sez. 2, comma 3). La parola Schiavitù compare esplicitamente solo
nel XIII emendamento approvato tra il 1864 e 1865 dove si dice che,
finalmente, è bandita. È del resto noto come la tratta
degli schiavi fosse
gestita largamente dalla liberalissima Inghilterra.
Non bisogna tuttavia stupirsi; sempre
altrove ho
ricordato come tutto ciò non sia in contraddizione con la filosofia
del padre
fondatore del liberalismo, John Locke,
che addirittura la contempla nella Stato di natura accanto a libertà,
uguaglianza e proprietà.
Detto
questo, bisogna aver chiaro che l’universalizzazione
del concetto di persona,
vale a dire l’apogeo della cultura borghese progressista, non
cancella affatto la nuova forma di schiavitù tipica del modo di
produzione capitalistico: quella salariata.
Anzi, ne legittima, apparentemente, la giustezza e le fornisce il
criterio di legalità. Tuttavia, nei vari capitalismi storici ed in
particolar modo in quello crepuscolare, è strutturalmente possibile
e politicamente utile avere i due aspetti della schiavitù allo
stesso tempo.
Il
primo aspetto, la schiavitù
salariata,
rispetta la formale uguaglianza e libertà degli individui per cui la
gerarchizzazione sociale avviene apparentemente per merito o demerito
dell’attore sociale, più o meno bravo e impegnato
all'autorealizzazione. Il secondo tipo di schiavitù,
quella classica,
implica invece una gerarchia sociale non basata sulla performance, ma
su presunti elementi naturali, culturali, sociali che collocano
l’attore sociale in una posizione superiore od inferiore; una
gerarchia sociale di natura (qui si può includere, in una forma più
“morbida”, la forte discriminazione per es. dei meridionali al
nord, degli italiani in Germania, degli irlandesi una volta, dei
latini adesso negli Stati Uniti, ecc.).
Perché fa comodo avere tutte e due le tipologie contemporaneamente?
Cerchiamo
di rispondere a questa domanda.
Il
primo elemento utile in chiave conservatrice riguarda le prospettive
di emancipazione dello schiavo (o del discriminato in genere). Qui la
carta vincente è creare
la convinzione che la subordinazione sociale sia dovuta meramente
alla discriminazione e non ai meccanismi sociali di riproduzione.
Se si riesce a inculcare questa idea, i
discriminati lotteranno per diventare anche loro persone,
per ottenere pari diritti, la qual cosa è certamente progressiva;
tuttavia, una
volta diventati persone non sono certo sottratti al meccanismo di
sfruttamento del lavoro salariato che
continua a sussistere e che sarà la loro nuova forma di schiavitù.
Questo può provocare una reazione che chiamerei “frustrazione da
successo”: il successo dell’emancipazione politica (riconosciuta
personalità) non implica necessariamente un miglioramento delle
condizioni di vita, della status sociale e via dicendo. Ciò può
determinare una profonda frustrazione perché vanifica negli effetti
pratici il successo storico epocale dell’emancipazione e può
spingere a convincersi dell’assoluta inutilità della lotta
sociale, nonché dell’impossibilità di un cambiamento che non sia
formalistico.
È
quindi una strategia di potere molto efficace combinare
discriminazione e sfruttamento propriamente capitalistico. Dopo il
drammatico esempio classico della rivoluzione industriale inglese, i
capitalisti e le classi dirigenti di altre nazioni si sono fatti
accorti ed hanno pensato a come evitare uno scontro fratricida
puramente di classe: se sono inglesi contro inglesi è di per sé
evidente che il conflitto sociale riguarda la configurazione
socio-economica. Se invece si riesce a combinare la funzionalità di
classe a una dinamica etnico-razziale, si maschera meglio il rapporto
di classe. Avere non autoctoni, che magari immediatamente neppure
godono della piena personalità giuridica sul territorio nazionale,
permette di stigmatizzare la questione sociale non come dinamica
funzionale della contrapposizione di classe del modo di produzione
capitalistico, ma come problema dell’immigrazione, razziale, e via
dicendo. Avere
quindi gli schiavi salariati che
sono pure nella stragrande maggioranza meridionali, latini, algerini,
ecc. facilita
la creazione di un blocco sociale conservatore dove gli autoctoni -
pure sfruttati in quanto salariati - preferiscono stare dalla parte
del capitale in cambio di un trattamento migliore e per maggiore
affinità culturale,
ecc. ecc. È, per farla breve, uno dei tanti modi di organizzare
dall’alto la guerra
tra poveri.
Si
pensi così alla migrazione di decine di migliaia di polacchi
verso
la Ruhr
nella
seconda metà dell’ottocento a lavorare nelle miniere.
Muovendosi come comunità essi conservano la propria lingua,
tradizioni, costumi; isolati all’estero tendono anzi a rafforzarli
in modo da essere ancor meglio stigmatizzati come “altri” dai
locali di più lunga data. Ancora più facile se hanno la pelle di
colore diverso: nelle rivolte del 1863 nella città di New
York,
capeggiate dagli irlandesi
fino
ad allora rappresentanti dell’ultimo gradino della gerarchia
sociale, i manifestanti scelsero come obiettivo privilegiato gli
afroamericani,
accusati di accettare condizioni di lavoro ancora peggiori delle
loro, massacrandone numerosi. Allo stesso modo in Germania
i
polacchi stagionali venivano utilizzati in caso di scioperi o per
livellare il salario al ribasso, per rompere il fronte dei
lavoratori. Invece di additare l’aguzzino capitalista e fare fronte
comune, accade spesso di puntare il dito verso il più disgraziato di
te, “colpevole” del dumping salariale. Gli italiani
emigrati
in Francia, Germania, Belgio, ecc. sanno bene di che cosa si tratta,
come lo sanno i meridionali emigrati nella grandi fabbriche del nord
durante e dopo il boom economico.
Sintetizzando,
si ha quindi il miraggio
dell'eguaglianza individuale come
prospettiva rivoluzionaria migliorativa, che è effettivamente
migliorativa, ma che fa
ricadere nella schiavitù salariale del modo di produzione
capitalistico.
L’abbinamento della gerarchia naturale al funzionamento strutturale
del modo di produzione capitalistico serve a scatenare una guerra tra
poveri e pure a disunirli nella prospettiva del cambiamento sociale:
alcuni si illuderanno che, diventando borghesi, la loro condizione
cambierà e accetteranno così soluzioni di compromesso che non
modificano la struttura sociale. Basti andare a vedere negli Stati
Uniti, in Sudafrica ed altri paesi analoghi quanto questo tipo di
emancipazione abbia cambiato alla radice le cose.
Per
chiudere vorrei aggiungere al quadro un elemento caratteristico del
capitalismo crepuscolare: una disoccupazione
di massa non
elastica che fa sì che l’offerta di lavoratori per una tipologia
infinita di lavori sia eccedente. Abbinato a un aumento esponenziale
della popolazione, ciò implica livelli salariali costantemente in
ribasso e una pletora senza fine di lavoratori. La lotta non è più
per un lavoro, ma per accaparrarsi le briciole che cadono dal tavolo
e sopravvivere. Incanalare
queste dinamiche sociali verso una spiegazione razzista, oltre a
consentire di non cambiare la struttura economica, pone le premesse
di una soluzione violenta estrema contro chi si trova nella posizione
più svantaggiata.
È una scelta profondamente stupida perché rimanda solo al futuro la
propria caduta nella categoria da attaccare ed estirpare (basti
pensare al caso italiano dove Salvini è diventato il nuovo eroe
anche dei meridionali - che fino a ieri voleva bruciati dall’Etna e
dal Vesuvio - nel fronte comune contro gli immigrati: ma fino a
quando?). È una scelta suicida, perché tanto, prima o poi, gli
altri siamo noi. Solo una diversa dinamica di riproduzione sociale
può risolvere il problema - in teoria assurdo - dell’abbondanza
(ce n’è per tutti) coesistente con la miseria di moltissimi.
Nessun commento:
Posta un commento