La pandemia sta modificando gli equilibri e le strategia e livello internazionale. In Europa sarà un pretesto per ulteriori tagli ai salari e ai diritti sociali. Il Mes e il Recovery Fund sono inadeguati e l’uscita dall’Unine Europea è una condizione necessaria per la realizzazione del socialismo.
Domanda. La
pandemia da Covid-19 ha senz’altro fatto da detonatore della crisi
economica e l’ha inasprita. Secondo noi, però, la pandemia è
intervenuta in un momento già critico per l’economia mondiale per
cui non può essere considerata l’unica responsabile dei problemi
economici che stiamo vivendo. Per te qual è la natura di questa
crisi?
Risposta. Al
momento dello scoppio della pandemia, l’economia mondiale e quelle
dei principali Paesi, con poche eccezioni, erano
già nella fase fase discendente del ciclo economico,
essendo la crescita del Pil in rallentamento nel 2018 e ancor di più
nel 2019. Secondo i dati dell’Unctad, l’economia mondiale è
passata da una crescita del 3,31% nel 2017 a una crescita del 2,52%
nel 2019. La crescita della Ue è scesa dal 2,58 all’1,46%, in
particolare la Germania è passata dal 2,47% allo 0,56% e l’Italia
dall’1,72% allo 0,30%. Persino la Cina era in rallentamento,
essendo passata dal 6,76% al 6,10%. Di fatto alcuni Paesi, come la
Germania e l’Italia, erano già in recessione.
Inoltre,
bisogna considerare che la
Pandemia si è inserita in un quadro mondiale già segnato
negativamente dallo scontro commerciale tra Usa, Cina e Ue, che ha
visto l’innalzamento di numerose barriere protezioniste. In
questo senso, la pandemia accentua la tendenza a un certo
rallentamento della globalizzazione e dello scambio internazionale di
merci. Secondo Eurostat, tra gennaio e giugno 2020, rispetto allo
stesso periodo del 2019, le esportazioni dell'Ue verso il resto del
mondo sono diminuite del 12,4% e le importazioni sono calate del
12,6%, entrambe contrazioni senza precedenti. Di fatto, quando la
crisi pandemica è scoppiata, il mondo capitalista, soprattutto la
triade composta da Usa, Ue e Giappone, non si era ancora del tutto
ripreso dalla crisi del 2008-2009.
La
natura di fondo della crisi è quella di una crisi di
sovrapproduzione assoluta di capitale, cioè dovuta ad un eccesso di
investimenti rispetto alla capacità del capitale di valorizzarsi in
termini di profitto. In
ogni caso la crisi è una crisi del capitale, perché dimostra che
una economia basata sui rapporti di produzione privati non riesce a
far fronte a emergenze come quella pandemica anzi, a voler essere più
precisi, le sfrutta a proprio vantaggio contro la maggioranza della
popolazione, ossia i lavoratori salariati e i disoccupati.
D. La
pandemia ha messo in evidenza alcuni grandi limiti
dell’internazionalizzazione dei processi produttivi. Pensi che
questa crisi possa indurre le grandi aziende ed i loro governi a
rivedere questo modello?
R. Anche
in questo caso la pandemia interviene a rafforzare una tendenza,
quella alla reinternalizzazione delle produzioni, che era già nei
programmi di alcuni governi come quello Usa. Quanto a fondo si
spingerà la reinternalizzazione è però tutto da vedere, perché le
catene del valore, ossia la divisione del lavoro a livello mondiale,
sono molto articolate ed è difficile fare sostanziosi passi in
direzione di una reinternalizzazione. Di sicuro, fino ad ora, c’è
l’internalizzazione della produzione di alcuni dispositivi di
sicurezza, ad esempio le mascherine, e la produzione di certi
farmaci, come il vaccino anti Covid-19.
D. Pur
con differenze tra gli Stati, il sistema mondiale continua a essere
di tipo capitalistico. Pertanto, gli imprenditori non possono che
affrontare la crisi scaricandola sui lavoratori e innescando un
processo di centralizzazione che vede i grandi capitali fagocitare i
più piccoli. Quale ti sembra la strategia dei grandi gruppi
transnazionali per recuperare profitti e quali le misure
concretamente adottate per realizzarla?
R. La
pandemia del Covid-19 rappresenta per il capitale, o meglio, per
alcuni suoi settori, quelli più internazionalizzati e grandi,
un’occasione importante di riorganizzazione in modo solo
apparentemente paradossale. Come ho detto sopra, il mondo, e in
particolare i paesi più avanzati capitalisticamente, scontano ancora
una sovraccumulazione di capitale. Ebbene
la crisi consente di eliminare quella che Marx chiamava la pletora di
capitale, cioè l’eccesso di capitale, permettendo, in questo modo,
di “resettare” il sistema e riavviare il ciclo di accumulazione.
Il fallimento di imprese o il loro inglobamento in aziende più
grandi può risolvere, almeno temporaneamente, la sovraccumulazione
di capitale.
Davanti
al calo dei profitti e alla concorrenza sempre più agguerrita, e per
di più su una scala internazionale sempre più ampia, si rende
necessario un nuovo ciclo di fusioni e acquisizioni, che produca
campioni a livello europeo. Di questo processo abbiamo in Italia due
esempi importanti: la fusione di Fca e Psa, nel campo
automobilistico, e la acquisizione di Ubi da parte di Intesa, che è
solo il primo esempio di un processo di consolidamento che
attraverserà tutto il mondo bancario italiano e anche europeo, reso
necessario dalla costituzione del mercato unico finanziario e
dall’unione bancaria, che è uno dei prossimi obiettivi
dell’integrazione europea.
Inoltre,
la pandemia rappresenta anche un’occasione
per licenziare e ridurre i salari,
oltre che per ridurre parte dei costi fissi e aumentare la
produttività, come avviene con il cosiddetto lavoro agile o smart
working, che atomizza i lavoratori rendendoli ancora meno capaci di
quanto accada oggi di costruire un fronte unito contro il capitale.
Grazie alla pandemia il lavoro agile si è diffuso a livello di massa
in molti settori, rendendolo una modalità standard del lavoro
salariato, come ha ribadito recentemente la ministra del lavoro,
Nunzia Catalfo. Infine, la pandemia, anche grazie all’enorme
liquidità immessa dalle varie banche centrali e ai prestiti concessi
da organismi europei come la Bei (Banca europea per gli
investimenti), farà fluire ingenti
finanziamenti, anche sotto forma di garanzie statali ai prestiti
bancari, di cui si avvantaggeranno le grandi imprese, come Fca, che
beneficerà di 6 miliardi di euro di prestiti con garanzia dello
Stato.
D. Come
giudichi la reazione dei lavoratori che vivono in questo paese, dei
loro sindacati e dei partiti che dovrebbero rappresentarne gli
interessi?
R. È
ancora presto per fare una valutazione. Attualmente la situazione è
ancora sterilizzata, oltre che dalle misure di distanziamento dovute
alla pandemia, dalla cassa integrazione e dal blocco dei
licenziamenti. Già
da oggi, però, si prevedono eccezioni al blocco dei licenziamenti in
sei casi,
tra cui la cessazione definitiva dell’attività dell’azienda,
l’accordo aziendale di incentivo all’esodo, il fallimento senza
esercizio provvisorio dell’impresa, la modifica strutturale
dell’organizzazione, il termine di fruizione delle 18 settimane di
cassa integrazione, e dopo aver fruito dell’esonero contributivo,
al posto della cassa integrazione, per 4 mesi. Quando
verrà eliminato del tutto il blocco dei licenziamenti vedremo cosa
succederà. Sicuramente in autunno e in inverno la situazione
diventerà molto più “calda”.
Per
quanto riguarda i sindacati, la triplice (CGIL-CISL-UIL) sta portando
avanti la solita linea concertativa, che oggi si traduce nel concetto
che dalla crisi se ne esce insieme, lavoratori e imprese. La
verità è che la pandemia, come ho detto sopra, offre maggiori
possibilità di licenziare e di ricattare i lavoratori. Dall’altra
parte, la pandemia e la crisi che la sta seguendo sarà anche
l’occasione per vedere se il sindacalismo di base e conflittuale
saprà superare le sue divisioni interne e se sarà possibile
costruire un fronte unito dei lavoratori contro il capitale e la sua
crisi.
D. Pensi
che sia vincente una strategia che unifichi le rivendicazioni dei
lavoratori dipendenti con quelle delle altre classi, inclusa la
piccola borghesia, che stanno pagando il prezzo di questa crisi?
R. Il
discorso è molto complesso e delicato. Bisogna dire che, in
primo luogo, ci sarebbe bisogno di una strategia che unifichi i
lavoratori dipendenti, che sono molto frammentati al loro interno,
tra lavoratori pubblici e privati, tra i vari settori d’attività e
all’interno di ciascun settore per la molteplicità delle forme
contrattuali esistenti. Ma divisioni ci sono anche su base
territoriale, tra Nord e Sud del Paese, e sulla base della
nazionalità, tra lavoratori italiani e stranieri. Se
non si fa prima questo e se non si costruisce una reale autonomia di
proposta politica e economica del lavoro salariato è impossibile
pensare a una qualche forma di alleanza con la piccola borghesia,
perché si ricadrebbe sotto l’egemonia di quest’ultima.
In
secondo luogo, bisogna vedere cosa si intende per piccola borghesia,
un conto è parlare di imprenditori con decine di dipendenti ben
altro conto è parlare di chi è un lavoratore autonomo senza
dipendenti. Non credo che possano esserci le basi per una strategia
comune con i primi, mentre credo
che un ragionamento vada fatto sui secondi, specialmente su quelle
partite Iva che in realtà sono lavoratori dipendenti mascherati e
che scontano una situazione di mancanza di tutele spesso peggiore di
molti lavoratori salariati.
D. La
crisi ha fatto tornare all’ordine del giorno un modello di
capitalismo dove lo Stato non ha più soltanto il ruolo di
controllore ma anche quello di imprenditore, anche se in Italia e in
molte altre nazioni lo Stato pare svolgere prevalentemente una
funzione assistenziale verso il capitale, socializzandone le perdite.
Come giudichi questa svolta?
R. Anche
su questo si potrà giudicare quando avremo maggiori evidenze
fattuali. Al momento, però, si può osservare che non
si tratta di vere e proprie nazionalizzazioni, ma di ingresso in
talune aziende, tramite aumenti di capitale, da parte della Cassa
depositi e prestiti, con l’attenzione a non sostituire la
governance privata con quella pubblica.
Inoltre, la presenza del capitale pubblico sarà a tempo determinato.
In pratica, stiamo assistendo al solito schema che prevede
la privatizzazione
degli utili quando
le cose vanno bene, e la socializzazione delle perdite quando le cose
vanno male.
È
da notare, inoltre, che, tramite il rafforzamento del golden power,
lo Stato nazionale in tutta Europa si sta preoccupando anche
di difendere
il capitale a base nazionale da incursioni di imprese estere,
specialmente (anche se non solo) di quelle al di fuori della Ue, che
possono approfittare della situazione di crisi per fare shopping di
imprese in settori di punta o strategici.
D. Tra
le misure adottate da vari governi c’è il reddito di emergenza.
Noi pensiamo sia una risposta indispensabile per chi ha perso fette
importanti di salario durante la chiusura delle attività ma non può
essere la strategia da perseguire anche dopo l’emergenza, quando
bisognerà puntare a creare posti di lavoro e a ripartire equamente
il lavoro attraverso la riduzione dell’orario. Tu che ne pensi?
R. Sì,
certamente non bastano le pur necessarie misure
assistenziali, bisogna
che lo Stato entri nella produzione diretta di beni e servizi con
delle vere nazionalizzazioni,
con aziende che non siano società per azioni quotate in borsa e
quindi soggette a tutte le regole del mercato, compresa
l’ottimizzazione dei profitti, ma enti pubblici che abbiano come
finalità lo sviluppo economico e la crescita di posti di lavoro. Ma
questa è un’operazione che richiede rapporti di forza e un
contesto istituzionale, politico e sociale, nonché un’ampia
strategia di lotte organizzate da parte dei lavoratori che, per
ora, la rendono soltanto una prospettiva, ma che, però, è bene
cominciare a porsi, già da ora, come obiettivo tattico-strategico da
parte delle forze che aspirano a costruire un cambiamento in
direzione socialista della società.
D. Draghi
ha proposto di rispondere all’emergenza in atto trasformando il
debito privato in debito pubblico e anche le istituzioni europee non
sono più così intransigenti e hanno allentato di gran lunga la
stretta verso i paesi indebitati. Finita l’emergenza sarà
possibile tenere sotto controllo i conti pubblici e a quali costi per
i lavoratori?
R. I
vincoli dei trattati europei, in particolare il limite del 3% al
deficit e del 60% al debito pubblico non sono stati eliminati, ma
solo sospesi momentaneamente. Il
vice presidente della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, ha
specificato che, dopo la fase di emergenza più acuta, bisognerà
necessariamente ritornare a una politica di riduzione del deficit e
del debito,
secondo quanto stabilito dai trattati europei. Quanto ciò sarà
possibile è tutto da vedersi, perché già oggi si parla di un
debito pubblico italiano al 157% sul Pil. Sarà molto difficile
ridurre il debito a fronte di una crisi di proporzioni senza paragoni
(in Italia il Pil è previsto dalla Commissione europea al -11,2% nel
2020), se non con gli anni finali della Seconda guerra mondiale, e
non sembra che se ne prospetti un andamento a V, cioè non si prevede
una robusta ripresa né nell’immediato né nel prossimo biennio.
D. Nonostante
l’emergenza, è durata mesi a livello Ue la trattativa sui
meccanismi, l’entità, le modalità e i tempi di restituzione o
meno degli aiuti agli stati membri. È adeguata la risposta europea
alla gravità della situazione? È opportuno mettere in campo la
rivendicazione di un’uscita dell’Italia dall’Ue (e quindi
dall’euro)?
R.
La risposta della Ue alla crisi non solo è lenta e insufficiente,
specie se confrontata con le cifre messe in campo da Usa e Giappone,
ma tende a rafforzare il controllo esterno sulla spesa e sulle
politiche pubbliche dei singoli paesi, che è il vero mantra
dell’integrazione europea, insieme alla deflazione salariale.
Il
Recovery fund, il cui varo è stato sbandierato come un grande
successo dell’Ue, è di fatto un Mes rafforzato. In cambio dei
fondi, il Paese richiedente è obbligato a presentare dei piani che
contemplino le riforme raccomandate dalla Commissione europea. Le
varie tranche dei fondi saranno pagate dopo l’accettazione dei
piani da parte della Commissione e dal Comitato economico e
finanziario, dove sono rappresentati tutti i Paesi. Basta quindi che
un solo Stato fra i 27 della Ue si opponga per rimettere la decisione
al prossimo Consiglio europeo. In pratica, si tratta di uno strumento
per costringere all’implementazione di quelle controriforme che non
sarebbero state effettuate per la via “nazionale”. In
particolare, per
quanto riguarda l’Italia, verrà implementato il taglio del costo
del lavoro e l’attuazione piena delle passate riforme
pensionistiche,
in particolare della Fornero, al fine di ridurre il peso della
pensioni sulla spesa pubblica.
Inoltre,
i fondi del Mes, del Sure e, in parte anche quelli del Recovery fund,
sono prestiti che andranno non solo a incrementare il debito
pubblico, ma andranno anche ad ampliare lo spread. Infatti, i
prestiti europei sono senior, cioè hanno la precedenza nel rimborso
rispetto al resto del debito pubblico, cioè i titoli emessi dallo
Stato, che di conseguenza vedranno aumentare i tassi d’interesse
per compensare i creditori dell’ipotetico maggiore rischio di
insolvenza.
Se a tutto questo aggiungiamo che i vincoli al deficit e al debito
sono stati solo momentaneamente sospesi, come dicevamo sopra, e che
la Banca centrale europea non può svolgere la stessa funzione di
prestatore di ultima istanza delle altre banche centrali, non
possiamo che chiederci se abbia ancora senso l’esistenza della Ue e
dell’euro.
Per
sintetizzare, credo
che per i lavoratori l’uscita dalla Ue e dall’euro sia un
condizione necessaria anche se non sufficiente.
Necessaria, perché i trattati e l’euro sono un chiaro strumento
del grande capitale multinazionale contro il lavoro salariato, oltre
a introdurre rigidità che impediscono di far fronte a shock esterni
come la pandemia. Non sufficiente perché, una volta usciti, il
sistema rimane capitalistico e perché bisogna accompagnare l’uscita
con alcune importanti misure come la realizzazione di vere
nazionalizzazioni e la trasformazione della banca centrale italiana
in prestatore di ultima istanza, così come lo era prima del 1981,
quando si sancì il famoso divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro. In
sostanza l’uscita
dalla Ue e dall’euro non può che essere, dal mio punto di vista,
un passaggio, che è necessariamente fondamentale, nella lotta, di
lunga durata, per la realizzazione del socialismo in Italia ed in
Europa.
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