La
bibliografia e la storiografia dell’articolo, indicati dall’autore,
sono disponibili al seguente indirizzo web: http://www.contraddizione.it/scritti.htm
Un
lungo processo di lotta ideologica, ben condotta da parte del
capitale, volto a identificare nazismo e comunismo ha fatto sì che
quando si parli di campi di concentramento, si faccia immediato
riferimento a due realtà storiche: lager
(per lo più nell’accezione ristretta di campo di sterminio sul
modello di Auschwitz, Sobibór, Treblinka, ecc.) e gulag
(Glavnoe upravlenie
lagerei, Direzione
generale dei campi). Un paese che invece, impropriamente, non è mai
associato all’“universo concentrazionario” sono gli Usa.
Gulag
e lager
vengono sempre uniti all’interno dell’indefinita categoria di
“totalitarismo” [cfr. la
Contraddizione, no.
112] volta ad assimilare due sistemi sociali ed economici antitetici,
a nascondere come le matrici del nazismo facciano parte della
“tradizione occidentale” (razzismo, eugenetica, guerra totale,
sterminio seriale, colonialismo) e a tentare di occultare come i
fascismi, insieme alle “democrazie occidentali”, si inseriscano a
pieno titolo nel sistema economico e politico imperialistico. Al di
là di questo fraintendimento creato ad arte, anche nel caso
specifico dei campi di concentramento vi sono radicali differenze che
dovrebbero essere note: i lager
sono suddivisibili sostanzialmente in tre principali categorie:
Konzentrationslager
(campi di concentramento), Arbeitslager
(campi di lavoro forzato), Vernichtungslager
(campi di sterminio), tre realtà differenti che nel caso esemplare
di Auschwitz venivano a coincidere; nel gulag l’eliminazione
del prigioniero non è l’obiettivo ultimo, il gulag è uno
strumento, un mezzo per imprigionare i cosiddetti “nemici del
popolo”, e non gli è costitutivamente estraneo il problema della
“rieducazione” del condannato (impossibile nel momento in cui il
discrimine sia costituito dall’immodificabile elemento razziale),
mentre nel caso nazista l’eliminazione delle razze inferiori e dei
comunisti è un fine; la pena nel gulag ha una durata temporalmente
definita; nelle tipologie dei gulag non è presente il campo di
sterminio e la mortalità è molto più bassa, mediamente meno del
10% (il 4,8% prima dell’assassinio di Kirov nel 1934 che porta a
intensificare la lotta di Stalin contro i suoi avversari), mentre
l’eccezione è costituita dal periodo 1941-43 quando le condizioni
determinate dalla guerra rendono più alto il numero dei morti e si
può arrivare nel 1942 a una percentuale del 25%; i tassi di
mortalità nei lager tedeschi superano il 40-50% e ancor più
significativo un confronto con un campo di sterminio come Auschwitz:
ebrei sopravvissuti 5,6%, zingari 6,5%, sovietici 0,8%.
Dopo
l’apertura degli archivi sovietici, tutte le più recenti ricerche,
peraltro condotte da storici non accusabili di simpatie comuniste,
hanno ridotto drasticamente il numero delle vittime del periodo
staliniano. Richard Overy stima che fra il 1930 e il 1953 fra
esecuzioni e morti nei campi si arrivi come cifra massima a 2.700.000
vittime. Nel 1993 la prestigiosa American
historical review
pubblica una ricerca di Arch Getty, Gábor. T. Rettersporn e Viktor
N. Zemskov, relativa esclusivamente alla contabilità dei campi e
giunge a una cifra di morti che supera di poco il milione nel periodo
1934-53. Ludo Martens, autore di un’opera simpatetica con Stalin,
fra collettivizzazione delle campagne e repressione in ogni sua forma
arriva a 1.300.000. È poi importante capire la realtà di un paese
circondato a lungo da potenze ostili che cercano in ogni modo di
rovesciarlo, dalle invasioni a partire dal 1918 a sostegno delle
armate bianche ai tentativi di accordo delle “democrazie
occidentali” coi nazisti per spingere Hitler contro il “comune
nemico” e all’interno caratterizzato da fenomeni di “guerra
civile” che si reinfiamma regolarmente. In un arco di tempo simile
pressoché sovrapponibile agli anni di governo di Stalin (1924-1953)
il capitale ha mietuto oltre 80 milioni di vittime con le due guerre
interimperialistiche, per non parlare degli stermini coloniali.
Mentre solo nei lager
nazifascisti fra il 1933 e il 1945 si contano 11 milioni di vittime.
Negli
ultimi trent’anni dell’Ottocento assistiamo all’evoluzione
imperialistica del modo di produzione capitalistico. La lotta fra
capitali raggiunge una fase superiore caratterizzata dallo scontro
fra i monopoli per la spartizione del mercato mondiale. La necessità
di esportare un capitale, inoperoso all’interno degli stati
imperialistici, congiunta a quella di allargare i “confini
economici”, per procurarsi materie prime e allargare gli sbocchi
per la produzione industriale, determina la spartizione, fra il 1875
e il 1914, di un quarto delle terre del pianeta. Durante l’espansione
imperialistica vi è il ricorso a pratiche di distruzione e di
sterminio, attraverso le armi prima e il lavoro poi, come nel caso
esemplare degli herero
sterminati dai tedeschi o del Congo che nel 1880, prima
dell’occupazione imperialistica, ha fra i 20 e i 25 milioni di
abitanti e trent’anni dopo conta dieci milioni di morti per lavoro
nelle miniere, repressione e carestie indotte dalla distruzione per
rappresaglia dei raccolti.
Oltre
allo sterminio e allo sfruttamento, anche con forme di lavoro coatto,
fa la sua comparsa nel periodo imperialistico il campo di
concentramento destinato a civili (compresi donne, bambini, vecchi),
potenzialmente in grado di offrire aiuto ai combattenti nemici, la
cui primogenitura non appartiene allora, come vuole la vulgata
liberale, né ai bolscevichi, né a Hitler, ma va
invece individuata nella storia dell’imperialismo.
Nel 1896 gli spagnoli stanno tentando di domare la rivolta cubana e
il generale Valeriano Weyler y Nicolau “inventa” il campo di
concentramento (sarà poi compensato con la carica di ministro della
guerra). Gli Usa seguono prontamente l’esempio e lo applicano dal
1900 nelle Filippine, gli inglesi nello stesso anno lo perfezionano
in Sudafrica contro i boeri portando alla morte un numero altissimo
di donne e bambini (si stimano fra i 20-28.000 morti sui 120-160.000
prigionieri, in totale un numero maggiore a quello delle vittime
dirette della guerra anglo-boera), mentre l’imperialismo tedesco
assocerà alla concentrazione il lavoro forzato nel 1904 in Namibia
nella repressione degli herero.
I primi grandi concentramenti per militari invece risalgono alla
guerra di secessione statunitense (1861-65): Andersonville (Georgia),
dove in un anno morirono 13.000 dei 30.000 prigionieri, e Salisbury
(Carolina del nord) per i sudisti ed Elmira (New York) per i nordisti
sono quelli più tragicamente noti per l’enorme numero di vittime.
Dal
far west
al Pacifico
Gli
Usa si dedicano per quasi tutto l’Ottocento a un “colonialismo
interno” con la conquista del far
west che fungerà da
colonia agricola e verso cui si indirizzeranno i capitali della costa
atlantica. La conquista avviene con annesso genocidio dei pellerossa,
per lo più inadatti a essere utilizzati come manodopera a basso
costo e oltretutto poco propensi a farsi conquistare e massacrare
pacificamente, con i sopravvissuti confinati entro le riserve, una
sorta di campo di concentramento allargato, costituite per lo più da
terre aride e con scarse risorse per la sopravvivenza dei deportati.
Le guerre di sterminio, che iniziano già alla metà del XVIII secolo
a opera degli inglesi, sono accompagnate da deportazioni ogni qual
volta nei territori occupati dagli indiani si trovino terre fertili o
giacimenti auriferi. La “soluzione finale”, per usare il termine
dello storico e antropologo francese Philippe Jacquin, raggiungerà
l’apice dal 1848 con la scoperta dell’oro in California e in
particolare dalla fine della guerra di secessione (1865) quando i
governi statunitensi approfitteranno dei milioni di immigrati europei
per completare la colonizzazione del far
west. Nel 1865 il
generale William Sherman dichiara: “Ai Sioux dobbiamo rispondere
con una violenta aggressività, anche se si deve arrivare a
sterminare uomini, donne e bambini. Non c’è altra soluzione per
risolvere il problema”, mentre il generale Patrick E. Connor ordina
di uccidere ogni indiano maschio di età superiore ai dodici anni;
ancora più famosa la dichiarazione del generale Philip H. Sheridan
nel 1868: “l’unico indiano buono è un indiano morto”, Sheridan
negherà di aver mai pronunciato simile frase (basteranno i massacri
da lui compiuti) che invece è stata sicuramente profferita nel 1869
al Congresso dal deputato James M. Cavanaugh.
Alla
fine del secolo gli Usa puntano al controllo degli oceani e la guerra
contro la Spagna nel 1898 permette l’annessione di Portorico, Guam,
Filippine (indispensabili come base proiettata verso la Cina), sempre
nel ‘98, vi è l’occupazione delle Hawaii, strategiche per
le rotte oceaniche, e nel ‘99 la spartizione delle Samoa con la
Germania. Gli Usa non mirano, per lo più, al controllo diretto delle
colonie potendo contare su un immenso territorio ricco di materie
prime e su un mercato interno altrettanto sviluppato, necessitano
piuttosto di nuovi mercati di merci e capitali più che aree chiuse
destinate a uno sfruttamento monopolistico delle risorse. Così la
politica imperialistica statunitense è volta alla creazione di
un’area mercantile del dollaro e all’utilizzo di pressioni
economiche, coadiuvate da interventi militari mirati.
È
nelle Filippine che gli Usa realizzano i loro primi campi di
concentramento per sottomettere la lotta, scoppiata nel ‘99 e
durata tre anni, di un popolo che avendo già proclamato una propria
repubblica non accetta di buon grado il passaggio dal dominio
spagnolo a quello a stelle e strisce. Il discorso del presidente
repubblicano William McKinley (1897-1901), in occasione di un
incontro del 1899 con un gruppo di esponenti della Chiesa episcopale
metodista è chiaro: “Percorsi i corridori e le stanze della Casa
Bianca notte dopo notte; e… in più di un’occasione mi lasciai
cadere in ginocchio e pregai Dio onnipotente perché mi concedesse la
sua luce e la sua guida. E una notte, a tarda ora… giunsi alle
seguenti conclusioni: 1) che noi non potevamo assolutamente
restituire le Filippine alla Spagna… 2) che noi non potevamo
nemmeno affidarle alla Francia o alla Germania, nostre rivali
commerciali in Oriente… 3) che noi non potevamo abbandonarle a loro
stesse, poiché non erano in grado di darsi un governo autonomo… e
4) che non ci restava altro da fare se non occuparle e istruire i
filippini, sollevarli dalla loro condizione, civilizzarli,
cristianizzarli, e con l’aiuto di Dio fare del nostro meglio per
aiutarli”; quale mezzo migliore se non il campo di concentramento
per civilizzare e cristianizzare un popolo riottoso (peraltro già
cristiano, ma l’ideologia imperialistica considera i sottomessi
come “selvaggi senza Dio”) che si rifiuta di farsi dominare dal
paese guidato dal “destino manifesto” di esportare la propria
civiltà (cioè i propri capitali)?
I
nemici interni
Durante
la presidenza di Wilson (1913-21), e in particolare con l’ingresso
nel primo conflitto mondiale interimperialistico nell’aprile del
‘17, si avvia una radicale persecuzione del dissenso. Con
l’Espionage act
(giugno 1917) diventa reato l’opposizione al reclutamento dei
soldati (la renitenza alla leva aveva fin dal principio assunto
dimensioni preoccupanti), le pene prevedono fino a 10.000 $ di multa
e fino a vent’anni di carcere [Espionage
act, sec.3]. Migliaia
di oppositori vengono processati e incarcerati, il controllo sulla
stampa e sulle opinioni si fa capillare: il Dipartimento di giustizia
sovvenziona l’American
protective league,
un’associazione privata col compito di spiare e denunciare i casi
di “slealtà”, e il Committee
on public information,
oltre a sviluppare una feroce campagna antitedesca – i cittadini
statunitensi di origine tedesca saranno costretti ad “americanizzare”
il loro nome e l’uso del tedesco sarà cancellato da molte scuole
–, invita a denunciare al Dipartimento di giustizia chi diffonde
informazioni disfattiste o si oppone allo sforzo bellico. Il Chicago
Tribune auspica che il
governo “la smetta di cincischiare con questi cosiddetti
german-americani e che li metta in campi di concentramento fino alla
fine della guerra”, speranza esaudita perché molti sono i tedeschi
e gli austroungheresi presenti sul territorio statunitense (per lo
più uomini adulti) che vengono deportati in campi di concentramento
come alien enemies.
Vi sono anche banchieri ed esponenti di famiglie economicamente
influenti ai quali vengono sequestrate le proprietà, un sistema che
adotteranno poi i nazisti a danno del capitale ebraico. Col Sedition
act (maggio 1918)
viene condannato chiunque, oltre a intralciare lo sforzo bellico,
scriva o pronunci “frasi sleali, blasfeme, scurrili o ingiuriose
nei confronti del governo degli Stati Uniti, o della sua
Costituzione, o delle forze dell’esercito e della marina, o della
bandiera degli Stati uniti” [Sedition
act, title 1, sec. 3].
Anche qui pene fino a 10.000 $ e a vent’anni di carcere.
Ma
oltre all’opposizione politica alla partecipazione al conflitto
interimperialistico ciò che interessa colpire è il movimento
operaio: il capo socialista Eugene V. Debs pagherà con dieci anni di
carcere, in ottemperanza al Sedition
act, un discorso
pronunciato contro la guerra. In particolar modo oggetto di
repressione è l’Industrial
workers of the world
(Iww) [cfr. la
Contraddizione no.
22]. A differenza dell’American
federation of labor
(Afl), che persege una politica corporativistica che gli varrà
l’ingresso negli organismi governativi volti a coordinare lo sforzo
bellico e a garantire la pace sociale impedendo gli scioperi in
cambio dell’assunzione esclusiva degli iscritti a questo sindacato,
l’Iww si oppone alla mobilitazione a favore dello scontro
interimperialistico.
Il
terrificante esempio della rivoluzione bolscevica, che aveva fra le
sue parole d’ordine e fra le sue cause scatenanti la necessità di
por fine al massacro interimperialistico, non fa che rafforzare la
convinzione della necessità della repressione nella classe dominante
statunitense. Terminata la guerra, e in una situazione di crisi
economica, abbiamo il red
scare (terrore rosso),
la prima versione della “caccia alle streghe” anticomunista, il
cui culmine si raggiunge nel biennio 1919-20. Sotto la guida del
Procuratore generale degli Usa (equivalente del ministro della
giustizia) Alexander Mitchell Palmer (e del suo assistente John Edgar
Hoover, futuro direttore dell’Fbi) si scatena la repressione.
Palmer infiltra agenti segreti nelle cosiddette “organizzazioni
radicali”, e in pochi mesi il governo arresta e incarcera senza
processo più di 9.000 cittadini statunitensi, deportando con
procedimenti sommari oltre un migliaio di stranieri. Non solo i
comunisti o i membri dell’Iww, ma anche quelli del ben più
moderato Socialist
party of America
vengono processati e condannati e si arriva a eliminare dalle
assemblee elettive i membri del partito regolarmente eletti. Il
socialista Victor Berger viene dichiarato decaduto dal mandato dal
Congresso e condannato a vent’anni di reclusione. In trentadue
stati dell’Unione vengono varate leggi che considerano reato la
militanza nell’Iww e in altre organizzazioni sindacali. Caso
simbolico di questa ondata repressiva è la vicenda dei due anarchici
italiani Sacco e Vanzetti arrestati nel ‘20 e giustiziati innocenti
nel ‘27. Solo con l’avvio della presidenza di F. D. Roosevelt
(1931-45) si avrà un’amnistia.
L’Alien
registration act
(Smith act) del 1940 prevede dure pene per chiunque costituisca
gruppi o partiti volti a rovesciare il governo statunitense e impone
la registrazione degli stranieri presenti sul territorio
statunitense. Volto in teoria contro l’azione di agenti fascisti,
in realtà viene usato contro i partiti della classe operaia e di
fatto consentirà di condannare e incarcerare i membri del partito
comunista per reati di opinione.
Nel
febbraio del 1942, dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbour,
Roosevelt firma l’Executive
order 9066 con cui si
incarica il comando militare, al fine di prevenire azioni di
spionaggio e sabotaggio, di individuare aree dell’esercito nelle
quali “il diritto di chiunque di entrare, permanere o lasciare
queste aree sarà soggetto a ogni restrizione che il Ministero della
guerra o il competente comando militare ritenga di imporre a sua
discrezione”. Anche se non si fa esplicito riferimento a cittadini
di stirpe giapponese saranno proprio loro che nei mesi successivi
verranno deportati nei dieci campi di concentramento allestiti
dall’esercito. Si tratta di circa 120.000 civili (bambini e donne
inclusi e sistemati in zone desertiche o paludose), in grande
maggioranza cittadini statunitensi a tutti gli effetti, imprigionati
senza che venga verbalizzata alcuna accusa, in assenza di prove e
senza giudizio di alcun tribunale e qui rimarranno per tre anni fino
alla fine della guerra, nonché costretti, prima dell’internamento,
a vendere i loro beni. La palese violazione dei diritti civili dei
cittadini di stirpe giapponese avviene non solo nella pressoché
totale assenza di qualsivoglia opposizione, ma è anzi preceduta e
avvallata da un’intensa campagna di stampa condotta da New
York Times e Times.
Sorte simile toccherà anche a migliaia di cittadini di origine
italiana e tedesca. Vi è poi il caso di veri e propri prigionieri di
guerra (tedeschi per lo più, ma anche italiani) che verranno
lasciati morire di stenti e malattie nei campi di concentramento
statunitensi destinati ai militari fra il 1945 e il 1946, cioè per
lo più a guerra terminata. Le contestate ricerche dello storico
canadese James Bacque stimano in 800.000 il numero di queste vittime.
Di
nuovo il “pericolo rosso”
Finita
la guerra il bersaglio principale tornano a essere i comunisti – il
culmine del “secondo red
scare” viene a
coincidere col “maccartismo” fra il 1950 e il 1954 – con il
varo di una serie di leggi antisovversive, cioè anticomuniste. Nel
marzo 1947 Truman lancia il Federal
employee loyalty program
(Executive order
9835) il cui scopo è eliminare i dipendenti federali comunisti: “Non
possiamo permettere agli impiegati del governo federale di essere
classificati come sleali o potenzialmente sleali verso il loro
governo... Provvedimenti sono stati presi per fornire al… Ministero
della giustizia il nome di ogni organizzazione, associazione,
movimento o gruppo di persone, straniero o nazionale, che, dopo
appropriate indagini, venga designato come totalitario, fascista,
comunista o sovversivo” [H. Truman, Statement
by the President on the Government’s Employee Loyalty Program,
14 novembre 1947]. Non verrà scoperta nessuna spia, ma fra il ‘47
e il ‘54 più di 7 milioni di lavoratori saranno indagati e
migliaia licenziati. L’obiettivo, quindi, più che colpire il
piccolo Partito comunista degli Stati Uniti (Cpusa), i cui iscritti
passeranno fra il 1946 e il 1957 dal già esiguo numero di 70.000 a
10.000, è colpire l’organizzazione di classe dei lavoratori.
Nel
giugno 1947 il Labor
management relations act,
noto anche come Taft-Hartley
act, mira a colpire i
sindacati rendendoli legalmente responsabili della rottura dei
contratti e delle eventuali violenze commesse dagli iscritti durante
le lotte sindacali, impone un lasso di tempo di ottanta giorni prima
di indire lo sciopero, vieta l’assunzione dei soli iscritti al
sindacato e impedisce ai comunisti la possibilità di ricoprire
cariche sindacali imponendo un giuramento di non appartenenza al
partito. Le leggi antisovversive, volte a controllare le lotte
operaie, vanno concretamente a colpire le organizzazioni sindacali di
classe e così la Congress
of industrial organizations (Cio),
tra il 1948 e il 1949, espelle dalla sua organizzazione i sindacati a
componente comunista perdendo un milione di aderenti. Si nega anche
il diritto di sciopero ai dipendenti pubblici.
Nel
1949 i dirigenti del Cpusa vengono processati e condannati, senza
prove effettive di un qualsiasi specifico reato se non quello
costituito dalle opinioni degli imputati, basandosi sullo Smith
act del 1940,
inizialmente rivolto contro i fascisti ma prontamente riconvertito in
funzione anticomunista, che prevede pene per chi costituisca gruppi
volti a rovesciare il governo statunitense.
Nel
1954 sarà la volta del Communist
control act che priva
il Partito comunista di “tutti i diritti, privilegi e immunità”
[Communist control act,
sec. 3] garantiti agli altri partiti, mettendo in pratica fuori legge
il partito stesso: “Chiunque coscientemente e volontariamente
divenga o rimanga membro del partito comunista... sarà soggetto ai
provvedimenti e alle pene dell’Internal Security Act del 1950”
[Communist control act,
sec. 4]. Nel 1954 viene varato con gli stessi obiettivi l’Espionage
and sabotage control act.
Fra
le molte leggi anticomuniste approvate fra il 1947 e il 1954, in base
alle quali migliaia di persone perderanno il lavoro o saranno
incarcerate e condannate a morte, giova soffermarsi sull’Internal
security act (1950) e
sul suo secondo titolo l’Emergency
detention act: “Esiste
un movimento mondiale comunista... il cui scopo è, attraverso
l’indottrinamento, l’inganno, l’infiltrazione, lo spionaggio,
il sabotaggio, il terrorismo… di stabilire una dittatura
totalitaria comunista nei paesi di tutto il mondo tramite lo
strumento di un’organizzazione comunista mondiale” [Internal
security act, title I,
sec.2.1]. La retorica e i contenuti sono quelli che erano stati
utilizzati per denunciare il complotto “giudaico” per dominare il
mondo. “Negli Stati Uniti gli individui che coscientemente e
intenzionalmente prendono parte al movimento mondiale comunista nei
fatti ripudiano la loro fedeltà agli Stati Uniti” [Internal
security act, title II
sec. 101.7]. Nel 1952 il Congresso stanzia 775.000 $ per il
ripristino dei campi già usati per la detenzione dei
nippostatunitensi e per approntarne di nuovi. L’iniziativa
legislativa per l’Emergency
act parte da un gruppo
di senatori democratici, ma raccoglie subito consensi importanti
anche in campo repubblicano. Del resto fra i principali firmatari
dell’Internal
security act
ricordiamo i futuri presidenti John F. Kennedy (1961-63), Lyndon
Johnson (1963-69), Richard Nixon (1969-74). Per l’applicazione del
provvedimento di detenzione per i comunisti può essere sufficiente
la proclamazione da parte del presidente di uno stato di “emergenza
interna” [Internal
security act, title
II, sec. 102]: “in qualunque momento si realizzasse tale emergenza,
il Presidente, agendo attraverso il Procuratore generale è
autorizzato a prendere in custodia e trattenere… ogni persona per
la quale vi sia il ragionevole motivo di sospettare che probabilmente
prenderà parte o cospirerà con altri in azioni di spionaggio o
sabotaggio” [title II, sec. 103].
In
questa fase va ricordato il ruolo di rilievo rivestito dall’House
of un-american activities committe
(Huac) un organismo investigativo della camera dei rappresentanti
fondato nel 1938, il cui presidente John Wood va considerato, insieme
al senatore democratico Pat McCarran, il padre dell’Internal
security act, che
rivestirà una funzione importante anche nei decenni a venire.
Il
maccartismo non nasce, né tanto meno finisce, col senatore del
Wisconsin (nel 1954 McCarthy porrà fine alla sua carriera cercando
comunisti nelle forze armate statunitensi), ricordiamo solamente che
McCarthy godeva dell’appoggio dei Kennedy e che Nixon fu uno
degli agenti al suo servizio, infatti in tutto, o in parte, queste
leggi sono ancora in vigore.
Dalle
lotte del popolo negro all’“Impero del Male”
Negli
anni ‘60 assistiamo alle lotte contro la segregazione razziale e
alle riforme di Johnson (1963-69) con le leggi sui diritti civili e
sul diritto di voto. Le condizioni economiche dei negri però, con un
tasso di disoccupazione doppio rispetto alla media nazionale, non
migliorano. Nella parte politicamente più cosciente del proletariato
negro si diffondono, seppure minoritarie, posizioni politiche
pericolose come quelle delle Black Panthers o dell’ultimo Malcolm X
(assassinato il 21 febbraio 1965) che iniziano a intravedere l’unione
del proletariato al di là delle differenze di razza. Mentre Martin
Luther King partito da un discorso volto alla cooptazione
corporativistica del popolo negro – rispondente alle esigenze di
sviluppo di un neocorporativismo più ampio che, anche in funzione
anticomunista, superi le distinzioni di razza (Washington, 17 maggio
1957) – conclude l’evoluzione della sua parabola politica
criticando la guerra del Vietnam (seppur in ritardo rispetto a
Malcolm X che ne aveva già denunciato il carattere imperialistico)
definita “una delle guerre più ingiuste che sia stata combattuta
nella storia del mondo”(Washington, 31 marzo 1968), ma soprattutto
delineando una dura critica agli assetti sociali statunitensi e del
sistema capitalistico: “una struttura sociale che produce povertà
ha bisogno di essere riorganizzata da cima a fondo” (New York, 4
aprile 1967); “Non è solo all’estero che vediamo la povertà;
vorrei ricordarvi che nella nostra stessa nazione vi sono circa 40
milioni di persone colpite dalla povertà” (Washington, 31 marzo
1968), che lo porteranno a mostrare crescenti simpatie socialiste
(come emerge dalle intercettazioni dell’Fbi delle riunioni di King)
e a dialogare con il comunista negro William E. B. Du Bois, e ad
affermare infine che il suo sogno si è tramutato in incubo: “Nel
1963, in un soffocante pomeriggio di agosto, eravamo a Washington e
parlavamo alla nazione di molte cose. Verso la fine di quel
pomeriggio cercai di parlare alla nazione del sogno che avevo, e devo
confessarvi oggi che poco dopo aver parlato di quel sogno ho
cominciato a vederlo trasformarsi in un incubo, solo poche settimane
dopo averne parlato... Vidi quel sogno trasformarsi in incubo mentre
passavo attraverso i ghetti della nazione e vedevo le mie sorelle e i
miei fratelli neri che perivano in un’isola desolata di povertà,
in mezzo al vasto oceano della prosperità materiale... Vidi quel
sogno trasformarsi in incubo mentre guardavo le mie sorelle e i miei
fratelli neri… che ingaggiavano rivolte scriteriate per cercare di
risolvere i loro problemi. Vidi quel sogno trasformarsi in un incubo
mentre constatavo l’escalation
della guerra nel Vietnam” (Atlanta, 24 dicembre 1967). Con queste
posizioni King si troverà isolato e il mettere in discussione
l’approccio corporativistico e cooptativo di cui era stato fino a
ora un buon elemento determinerà la sua condanna a morte.
Nel
1965 a Los Angeles inizia la rivolta dei ghetti delle città del nord
e dell’ovest e nel ‘67 sono coinvolte un centinaio di città.
L’ordine viene ripristinato con i paracadutisti e con la guardia
nazionale. Quando viene assassinato Martin Luther King (4 aprile
1968) si teme una rivolta ancora più ampia. L’Huac, in un
documento intitolato Guerrilla
warfare advocates in the United States
(6 maggio 1968), di fronte a quella che definisce una strategia di
guerriglia di “comunisti e nazionalisti neri” propone una
chiusura totale dei ghetti con coprifuoco al tramonto e ordine di
sparare su chiunque cerchi di entrare o uscire, la schedatura degli
abitanti e la sospensione dei diritti civili: “le forze di polizia
devono essere messe in grado di operare arresti... con la sospensione
delle garanzie abitualmente previste dalla Costituzione”. Ogni atto
di violenza viene equiparato a un atto di guerra e i “combattenti”
conseguentemente “devono essere privati dei loro diritti come in
tempo di guerra. Il McCarran act contempla vari centri di
detenzione... che possono essere utilizzati per il temporaneo
imprigionamento dei guerriglieri”. Per reprimere le rivolte si
propone dunque l’intervento dell’esercito, il ricorso ai campi di
concentramento previsti dall’Emergency
detention act e
importanti capi delle Pantere nere verranno assassinati nel ‘69. Da
un’indagine governativa nota come Rapporto
Kerner (marzo 1968)
emerge che il “rivoltoso tipico” è un lavoratore dequalificato,
tra i 15 e i 24 anni di età, vittima delle oscillazioni del mercato,
con un livello d’istruzione superiore alla media degli abitanti dei
ghetti. Un’analisi condotta sugli arrestati durante la rivolta di
Detroit del 1967 mostra che il rivoltoso è un operaio con più di
trent’anni d’età, oltre undici anni di scuola, residente a
Detroit da più di quindici anni. La lotta nel ghetto non è dunque
(solo o prevalentemente) lotta razziale, ma lotta di classe di un
proletariato (in particolare i dati di Detroit sono significativi)
sempre più cosciente e conseguentemente pericoloso.
In
seguito ai disordini degli anni ‘60 verrà elaborata l’Operation
garden plot, applicata
poi durante la rivolta di Los Angeles nel ‘92, che prevede
l’intervento di esercito e guardia nazionale in caso di disordini
civili sul territorio statunitense. Nel 1971 l’Emergency
detention act viene
cancellato dal Congresso, pur restando in vigore l’Internal
security act, ma
vengono trovati altri strumenti per impedire il dissenso e la
contestazione, siamo in piena guerra del Vietnam e l’Fbi
intensifica la sua azione repressiva contro le formazioni che si
oppongono alla guerra o si battono per i diritti civili.
Con
la presidenza di Reagan (1981-89) viene approvato il Readiness
exercise 1984 (Rex 84)
volto a testare la capacità da parte delle strutture federali di
tenere in stato di detenzione un gran numero di prigionieri in caso
di emergenza nazionale. In presenza di disordini, dimostrazioni e
scioperi che possano intaccare la continuità dell’azione di
governo è prevista l’autorizzazione per l’esercito di provvedere
alla deportazione della popolazione civile a livello federale e
statale, l’introduzione della legge marziale e le basi militari
possono essere trasformate in campi di detenzione. Nell’ottica
della crociata contro l’“Impero del Male” sovietico Reagan
autorizza la Cia a spiare all’interno degli Usa i cittadini e le
organizzazioni politiche statunitensi e l’Fbi a infiltrarsi in
qualsiasi organizzazione che possa essere “sotto influenza
straniera”. Gli arresti durante la presidenza Reagan si succedono a
migliaia, in quanto possono essere considerate “terroristiche”
tutte le organizzazioni che lottano per i diritti umani, contro
l’apartheid,
per la giustizia sociale, mentre con le direttive sulla sicurezza
nazionale si prevede la costruzione di altri campi di concentramento.
Le esercitazioni relative al Rex 84 si svolgono tuttora regolarmente.
La
guerra al terrorismo
Il
Patriot act
(2001) di Bush jr. (2001-09), del quale l’Anti-terrorism
and effective death penalty act
(1996) di Clinton (1993-2001) costituisce una sorta di anticipazione,
ridurrà drasticamente i diritti civili e darà il via a migliaia di
arresti senza garanzie giuridiche, a deportazioni e torture. Col
Patriot act
(2001) si è giunti a sospendere per gli stranieri, a differenza
addirittura da quanto previsto dall’Emergency
detention act [title
II, sec. 116], il diritto di habeas
corpus che permette a
chi sia imprigionato dal governo di ottenere una giustificazione
giuridica della legalità della detenzione, nel momento in cui si
sospende questo diritto nessun tribunale può intervenire a disporre
il rilascio del prigioniero nel caso di detenzione illegale. Inoltre
il Patriot act,
permettendo al Procuratore generale di usare l’esercito contro la
popolazione civile, pone fine al Posse
comitatus act del 1878
che impediva l’uso dell’esercito in funzioni di polizia
all’interno dei confini della federazione, anche se il Posse
act era nato con
l’intento reazionario di chiudere il periodo cosiddetto della
“ricostruzione” seguito alla guerra civile in cui l’esercito
era stato utilizzato negli stati sudisti per garantire i diritti
degli schiavi liberati. Nel 2007 il Posse
act verrà
definitivamente emendato da Bush jr. col John
Warner national defense authorization act for fiscal year 2007
consentendo al governo federale il controllo della guardia nazionale
e di dislocare l’esercito ovunque sia ritenuto opportuno sul
territorio degli Usa in caso di “emergenza nazionale”.
L’apice
della politica concentrazionaria pare sia stato raggiunto solo nel
primo decennio del nuovo secolo: 800 campi di concentramento sono
stati costruiti, o sono in via di completamento, su tutto il
territorio statunitense. Basta un decreto presidenziale e si può
procedere all’imprigionamento dei cittadini presenti in una lista
sottoscritta dal Procuratore generale. Le operazioni previste dal Rex
84 e dall’Operation
garden plot sono
dirette dalla Federal
emergency management agency
(Fema), un organismo creato nel 1979 da Carter (1977-81). La
costruzione di campi di concentramento costituisce fra l’altro un
buon affare: nel 2006 la Kbr, un’azienda dipendente dalla
multinazionale Halliburton specializzata in lavori pubblici, ha
dichiarato di aver avuto un appalto di 385 mln $ per la consegna di
strutture detentive per il Dipartimento di sicurezza nazionale.
In
questo momento il pericolo principale per la classe dominante non
viene certo da un attacco comunista interno o esterno (cosa possibile
solo in film di fantastoria reaganiani come Alba
rossa (1984) di John
Milius), bensì deriva dalle possibili conseguenze della devastante
crisi economica che sta impoverendo sempre più il proletariato e le
classi medie e dalla rabbia e disperazione che ne derivano. Queste
norme sono pensate per lo più per i cittadini degli Usa (e in
subordine gli immigrati illegali). Il più capiente dei campi si
trova in Alaska ed è capace di ospitare fino a 500.000 prigionieri e
ricompaiono anche i vecchi siti usati per la detenzione dei cittadini
di stirpe giapponese. Intanto esperienze di rastrellamento e
convogliamento di popolazione in centri appositi, con sospensione dei
diritti civili e passaggio del potere nelle mani dei militari, sono
state sperimentate dal Fema quando l’uragano Katrina ha colpito la
Florida nel 2005.
Nel
2006 il Congresso ha approvato il Military
commission act che
prevede per gli stranieri classificati come “combattenti nemici”
di essere detenuti a tempo indefinito senza accusa, senza le tutele
quindi dei “prigionieri di guerra” come accade nel campo di
Guantanamo dal 2002.
La
presidenza di Obama (2009-oggi) si apre con una serie di “belle
promesse” e “buone intenzioni”: nell’aprile 2009, Obama
ordina la pubblicazione dei memoriali Cia sulle cosiddette “tecniche
brutali”, per il volgo più semplicemente torture,
usate negli interrogatori contro i (presunti) terroristi islamici; ma
– a parte il fatto che nel giro di un mese Obama ha un ripensamento
e per “non aumentare i rischi per la sicurezza dei soldati
statunitensi in Iraq e Afghanistan” non solo vieta la pubblicazione
di nuove immagini degli abusi sui detenuti di Bagdad e Kabul, ma
ordina ai legali della Casa Bianca di opporsi al tribunale di appello
che aveva accolto la richiesta dell’ American
Civil Liberties Union
di eliminare il segreto di stato su quei documenti –
contemporaneamente, seguendo i consigli giuridici del Dipartimento di
giustizia, decide di non sottoporre a processo i funzionari della Cia
che avevano messo in pratica le torture garantendo così loro
l’impunità [Corriere
della Sera, 18 aprile
e 14 maggio 2009].
In
conclusione il paese che ha usato e usa il concetto di
“totalitarismo” come accusa infamante ne ha realizzato gli
aspetti più significativi, non solo arresti arbitrari, condanne a
morte, giuramenti di fedeltà, ma anche una completa uniformità e
omologazione: il Communist
control act viene
approvato con il solo voto contrario di un senatore in tutto il
Congresso, mentre al contempo il campo di concentramento percorre
come un filo rosso la storia della repressione degli oppositori del
paese che esporta, su mandato divino, libertà e democrazia (e
capitale) in tutto il mondo.
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