domenica 18 agosto 2019

IL PAESE DELLE LIBERTÀ: stermini, repressione e lager nella storia degli Usa. - Maurizio Brignoli

La bibliografia e la storiografia dell’articolo, indicati dall’autore, sono disponibili al seguente indirizzo web: http://www.contraddizione.it/scritti.htm 



Gulag, lager e imperialismo

Un lungo processo di lotta ideologica, ben condotta da parte del capitale, volto a identificare nazismo e comunismo ha fatto sì che quando si parli di campi di concentramento, si faccia immediato riferimento a due realtà storiche: lager (per lo più nell’accezione ristretta di campo di sterminio sul modello di Auschwitz, Sobibór, Treblinka, ecc.) e gulag (Glavnoe upravlenie lagerei, Direzione generale dei campi). Un paese che invece, impropriamente, non è mai associato all’“universo concentrazionario” sono gli Usa.

Gulag e lager vengono sempre uniti all’interno dell’indefinita categoria di “totalitarismo” [cfr. la Contraddizione, no. 112] volta ad assimilare due sistemi sociali ed economici antitetici, a nascondere come le matrici del nazismo facciano parte della “tradizione occidentale” (razzismo, eugenetica, guerra totale, sterminio seriale, colonialismo) e a tentare di occultare come i fascismi, insieme alle “democrazie occidentali”, si inseriscano a pieno titolo nel sistema economico e politico imperialistico. Al di là di questo fraintendimento creato ad arte, anche nel caso specifico dei campi di concentramento vi sono radicali differenze che dovrebbero essere note: i lager sono suddivisibili sostanzialmente in tre principali categorie: Konzentrationslager (campi di concentramento), Arbeitslager (campi di lavoro forzato), Vernichtungslager (campi di sterminio), tre realtà differenti che nel caso esemplare di Auschwitz venivano a coincidere; nel gulag l’eliminazio­ne del prigioniero non è l’obiettivo ultimo, il gulag è uno strumento, un mezzo per imprigionare i cosiddetti “nemici del popolo”, e non gli è costitutivamente estraneo il problema della “rieducazione” del condannato (impossibile nel momento in cui il discrimine sia costituito dall’immodificabile elemento razziale), mentre nel caso nazista l’eliminazione delle razze inferiori e dei comunisti è un fine; la pena nel gulag ha una durata temporalmente definita; nelle tipologie dei gulag non è presente il campo di sterminio e la mortalità è molto più bassa, mediamente meno del 10% (il 4,8% prima dell’assassinio di Kirov nel 1934 che porta a intensificare la lotta di Stalin contro i suoi avversari), mentre l’eccezione è costituita dal periodo 1941-43 quando le condizioni determinate dalla guerra rendono più alto il numero dei morti e si può arrivare nel 1942 a una percentuale del 25%; i tassi di mortalità nei lager tedeschi superano il 40-50% e ancor più significativo un confronto con un campo di sterminio come Auschwitz: ebrei sopravvissuti 5,6%, zingari 6,5%, sovietici 0,8%. 

Dopo l’apertura degli archivi sovietici, tutte le più recenti ricerche, peraltro condotte da storici non accusabili di simpatie comuniste, hanno ridotto drasticamente il numero delle vittime del periodo staliniano. Richard Overy stima che fra il 1930 e il 1953 fra esecuzioni e morti nei campi si arrivi come cifra massima a 2.700.000 vittime. Nel 1993 la prestigiosa American historical review pubblica una ricerca di Arch Getty, Gábor. T. Rettersporn e Viktor N. Zemskov, relativa esclusivamente alla contabilità dei campi e giunge a una cifra di morti che supera di poco il milione nel periodo 1934-53. Ludo Martens, autore di un’opera simpatetica con Stalin, fra collettivizzazione delle campagne e repressione in ogni sua forma arriva a 1.300.000. È poi importante capire la realtà di un paese circondato a lungo da potenze ostili che cercano in ogni modo di rovesciarlo, dalle invasioni a partire dal 1918 a sostegno delle armate bianche ai tentativi di accordo delle “democrazie occidentali” coi nazisti per spingere Hitler contro il “comune nemico” e all’interno caratterizzato da fenomeni di “guerra civile” che si reinfiamma regolarmente. In un arco di tempo simile pressoché sovrapponibile agli anni di governo di Stalin (1924-1953) il capitale ha mietuto oltre 80 milioni di vittime con le due guerre interimperialistiche, per non parlare degli stermini coloniali. Mentre solo nei lager nazifascisti fra il 1933 e il 1945 si contano 11 milioni di vittime. 

Negli ultimi trent’anni dell’Ottocento assistiamo all’evoluzione imperialistica del modo di produzione capitalistico. La lotta fra capitali raggiunge una fase superiore caratterizzata dallo scontro fra i monopoli per la spartizione del mercato mondiale. La necessità di esportare un capitale, inoperoso all’interno degli stati imperialistici, congiunta a quella di allargare i “confini economici”, per procurarsi materie prime e allargare gli sbocchi per la produzione industriale, determina la spartizione, fra il 1875 e il 1914, di un quarto delle terre del pianeta. Durante l’espansione imperialistica vi è il ricorso a pratiche di distruzione e di sterminio, attraverso le armi prima e il lavoro poi, come nel caso esemplare degli herero sterminati dai tedeschi o del Congo che nel 1880, prima dell’oc­cupazione imperialistica, ha fra i 20 e i 25 milioni di abitanti e trent’anni dopo conta dieci milioni di morti per lavoro nelle miniere, repressione e carestie indotte dalla distruzione per rappresaglia dei raccolti.

Oltre allo sterminio e allo sfruttamento, anche con forme di lavoro coatto, fa la sua comparsa nel periodo imperialistico il campo di concentramento destinato a civili (compresi donne, bambini, vecchi), potenzialmente in grado di offrire aiuto ai combattenti nemici, la cui primogenitura non appartiene allora, come vuole la vulgata liberale, né ai bolscevichi, né a Hitler, ma va invece individuata nella storia dell’imperialismo. Nel 1896 gli spagnoli stanno tentando di domare la rivolta cubana e il generale Valeriano Weyler y Nicolau “inventa” il campo di concentramento (sarà poi compensato con la carica di ministro della guerra). Gli Usa seguono prontamente l’esempio e lo applicano dal 1900 nelle Filippine, gli inglesi nello stesso anno lo perfezionano in Sudafrica contro i boeri portando alla morte un numero altissimo di donne e bambini (si stimano fra i 20-28.000 morti sui 120-160.000 prigionieri, in totale un numero maggiore a quello delle vittime dirette della guerra anglo-boera), mentre l’imperialismo tedesco assocerà alla concentrazione il lavoro forzato nel 1904 in Namibia nella repressione degli herero. I primi grandi concentramenti per militari invece risalgono alla guerra di secessione statunitense (1861-65): Andersonville (Georgia), dove in un anno morirono 13.000 dei 30.000 prigionieri, e Salisbury (Carolina del nord) per i sudisti ed Elmira (New York) per i nordisti sono quelli più tragicamente noti per l’enorme numero di vittime.


Dal far west al Pacifico

Gli Usa si dedicano per quasi tutto l’Ottocento a un “colonialismo interno” con la conquista del far west che fungerà da colonia agricola e verso cui si indirizzeranno i capitali della costa atlantica. La conquista avviene con annesso genocidio dei pellerossa, per lo più inadatti a essere utilizzati come manodopera a basso costo e oltretutto poco propensi a farsi conquistare e massacrare pacificamente, con i sopravvissuti confinati entro le riserve, una sorta di campo di concentramento allargato, costituite per lo più da terre aride e con scarse risorse per la sopravvivenza dei deportati. Le guerre di sterminio, che iniziano già alla metà del XVIII secolo a opera degli inglesi, sono accompagnate da deportazioni ogni qual volta nei territori occupati dagli indiani si trovino terre fertili o giacimenti auriferi. La “soluzione finale”, per usare il termine dello storico e antropologo francese Philippe Jacquin, raggiungerà l’apice dal 1848 con la scoperta dell’oro in California e in particolare dalla fine della guerra di secessione (1865) quando i governi statunitensi approfitteranno dei milioni di immigrati europei per completare la colonizzazione del far west. Nel 1865 il generale William Sherman dichiara: “Ai Sioux dobbiamo rispondere con una violenta aggressività, anche se si deve arrivare a sterminare uomini, donne e bambini. Non c’è altra soluzione per risolvere il problema”, mentre il generale Patrick E. Connor ordina di uccidere ogni indiano maschio di età superiore ai dodici anni; ancora più famosa la dichiarazione del generale Philip H. Sheridan nel 1868: “l’unico indiano buono è un indiano morto”, Sheridan negherà di aver mai pronunciato simile frase (basteranno i massacri da lui compiuti) che invece è stata sicuramente profferita nel 1869 al Congresso dal deputato James M. Cavanaugh. 

Alla fine del secolo gli Usa puntano al controllo degli oceani e la guerra contro la Spagna nel 1898 permette l’annessione di Portorico, Guam, Filippine (indispensabili come base proiettata verso la Cina), sempre nel ‘98, vi è l’occu­pazione delle Hawaii, strategiche per le rotte oceaniche, e nel ‘99 la spartizione delle Samoa con la Germania. Gli Usa non mirano, per lo più, al controllo diretto delle colonie potendo contare su un immenso territorio ricco di materie prime e su un mercato interno altrettanto sviluppato, necessitano piuttosto di nuovi mercati di merci e capitali più che aree chiuse destinate a uno sfruttamento monopolistico delle risorse. Così la politica imperialistica statunitense è volta alla creazione di un’area mercantile del dollaro e all’utilizzo di pressioni economiche, coadiuvate da interventi militari mirati. 

È nelle Filippine che gli Usa realizzano i loro primi campi di concentramento per sottomettere la lotta, scoppiata nel ‘99 e durata tre anni, di un popolo che avendo già proclamato una propria repubblica non accetta di buon grado il passaggio dal dominio spagnolo a quello a stelle e strisce. Il discorso del presidente repubblicano William McKinley (1897-1901), in occasione di un incontro del 1899 con un gruppo di esponenti della Chiesa episcopale metodista è chiaro: “Percorsi i corridori e le stanze della Casa Bianca notte dopo notte; e… in più di un’occasione mi lasciai cadere in ginocchio e pregai Dio onnipotente perché mi concedesse la sua luce e la sua guida. E una notte, a tarda ora… giunsi alle seguenti conclusioni: 1) che noi non potevamo assolutamente restituire le Filippine alla Spagna… 2) che noi non potevamo nemmeno affidarle alla Francia o alla Germania, nostre rivali commerciali in Oriente… 3) che noi non potevamo abbandonarle a loro stesse, poiché non erano in grado di darsi un governo autonomo… e 4) che non ci restava altro da fare se non occuparle e istruire i filippini, sollevarli dalla loro condizione, civilizzarli, cristianizzarli, e con l’aiuto di Dio fare del nostro meglio per aiutarli”; quale mezzo migliore se non il campo di concentramento per civilizzare e cristianizzare un popolo riottoso (peraltro già cristiano, ma l’ideologia imperialistica considera i sottomessi come “selvaggi senza Dio”) che si rifiuta di farsi dominare dal paese guidato dal “destino manifesto” di esportare la propria civiltà (cioè i propri capitali)?


I nemici interni

Durante la presidenza di Wilson (1913-21), e in particolare con l’ingresso nel primo conflitto mondiale interimperialistico nell’aprile del ‘17, si avvia una radicale persecuzione del dissenso. Con l’Espionage act (giugno 1917) diventa reato l’opposizione al reclutamento dei soldati (la renitenza alla leva aveva fin dal principio assunto dimensioni preoccupanti), le pene prevedono fino a 10.000 $ di multa e fino a vent’anni di carcere [Espionage act, sec.3]. Migliaia di oppositori vengono processati e incarcerati, il controllo sulla stampa e sulle opinioni si fa capillare: il Dipartimento di giustizia sovvenziona l’American protective league, un’associazione privata col compito di spiare e denunciare i casi di “slealtà”, e il Committee on public information, oltre a sviluppare una feroce campagna antitedesca – i cittadini statunitensi di origine tedesca saranno costretti ad “americanizzare” il loro nome e l’uso del tedesco sarà cancellato da molte scuole –, invita a denunciare al Dipartimento di giustizia chi diffonde informazioni disfattiste o si oppone allo sforzo bellico. Il Chicago Tribune auspica che il governo “la smetta di cincischiare con questi cosiddetti german-americani e che li metta in campi di concentramento fino alla fine della guerra”, speranza esaudita perché molti sono i tedeschi e gli austroungheresi presenti sul territorio statunitense (per lo più uomini adulti) che vengono deportati in campi di concentramento come alien enemies. Vi sono anche banchieri ed esponenti di famiglie economicamente influenti ai quali vengono sequestrate le proprietà, un sistema che adotteranno poi i nazisti a danno del capitale ebraico. Col Sedition act (maggio 1918) viene condannato chiunque, oltre a intralciare lo sforzo bellico, scriva o pronunci “frasi sleali, blasfeme, scurrili o ingiuriose nei confronti del governo degli Stati Uniti, o della sua Costituzione, o delle forze dell’esercito e della marina, o della bandiera degli Stati uniti” [Sedition act, title 1, sec. 3]. Anche qui pene fino a 10.000 $ e a vent’anni di carcere. 

Ma oltre all’opposizione politica alla partecipazione al conflitto interimperialistico ciò che interessa colpire è il movimento operaio: il capo socialista Eugene V. Debs pagherà con dieci anni di carcere, in ottemperanza al Sedition act, un discorso pronunciato contro la guerra. In particolar modo oggetto di repressione è l’Industrial workers of the world (Iww) [cfr. la Contraddizione no. 22]. A differenza dell’American federation of labor (Afl), che persege una politica corporativistica che gli varrà l’ingresso negli organismi governativi volti a coordinare lo sforzo bellico e a garantire la pace sociale impedendo gli scioperi in cambio dell’assunzione esclusiva degli iscritti a questo sindacato, l’Iww si oppone alla mobilitazione a favore dello scontro interimperialistico. 

Il terrificante esempio della rivoluzione bolscevica, che aveva fra le sue parole d’ordine e fra le sue cause scatenanti la necessità di por fine al massacro interimperialistico, non fa che rafforzare la convinzione della necessità della repressione nella classe dominante statunitense. Terminata la guerra, e in una situazione di crisi economica, abbiamo il red scare (terrore rosso), la prima versione della “caccia alle streghe” anticomunista, il cui culmine si raggiunge nel biennio 1919-20. Sotto la guida del Procuratore generale degli Usa (equivalente del ministro della giustizia) Alexander Mitchell Palmer (e del suo assistente John Edgar Hoover, futuro direttore dell’Fbi) si scatena la repressione. Palmer infiltra agenti segreti nelle cosiddette “organizzazioni radicali”, e in pochi mesi il governo arresta e incarcera senza processo più di 9.000 cittadini statunitensi, deportando con procedimenti sommari oltre un migliaio di stranieri. Non solo i comunisti o i membri dell’Iww, ma anche quelli del ben più moderato Socialist party of America vengono processati e condannati e si arriva a eliminare dalle assemblee elettive i membri del partito regolarmente eletti. Il socialista Victor Berger viene dichiarato decaduto dal mandato dal Congresso e condannato a vent’anni di reclusione. In trentadue stati dell’Unione vengono varate leggi che considerano reato la militanza nell’Iww e in altre organizzazioni sindacali. Caso simbolico di questa ondata repressiva è la vicenda dei due anarchici italiani Sacco e Vanzetti arrestati nel ‘20 e giustiziati innocenti nel ‘27. Solo con l’avvio della presidenza di F. D. Roosevelt (1931-45) si avrà un’amnistia. 

L’Alien registration act (Smith act) del 1940 prevede dure pene per chiunque costituisca gruppi o partiti volti a rovesciare il governo statunitense e impone la registrazione degli stranieri presenti sul territorio statunitense. Volto in teoria contro l’azione di agenti fascisti, in realtà viene usato contro i partiti della classe operaia e di fatto consentirà di condannare e incarcerare i membri del partito comunista per reati di opinione. 

Nel febbraio del 1942, dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbour, Roosevelt firma l’Executive order 9066 con cui si incarica il comando militare, al fine di prevenire azioni di spionaggio e sabotaggio, di individuare aree dell’esercito nelle quali “il diritto di chiunque di entrare, permanere o lasciare queste aree sarà soggetto a ogni restrizione che il Ministero della guerra o il competente comando militare ritenga di imporre a sua discrezione”. Anche se non si fa esplicito riferimento a cittadini di stirpe giapponese saranno proprio loro che nei mesi successivi verranno deportati nei dieci campi di concentramento allestiti dall’esercito. Si tratta di circa 120.000 civili (bambini e donne inclusi e sistemati in zone desertiche o paludose), in grande maggioranza cittadini statunitensi a tutti gli effetti, imprigionati senza che venga verbalizzata alcuna accusa, in assenza di prove e senza giudizio di alcun tribunale e qui rimarranno per tre anni fino alla fine della guerra, nonché costretti, prima dell’internamento, a vendere i loro beni. La palese violazione dei diritti civili dei cittadini di stirpe giapponese avviene non solo nella pressoché totale assenza di qualsivoglia opposizione, ma è anzi preceduta e avvallata da un’intensa campagna di stampa condotta da New York Times e Times. Sorte simile toccherà anche a migliaia di cittadini di origine italiana e tedesca. Vi è poi il caso di veri e propri prigionieri di guerra (tedeschi per lo più, ma anche italiani) che verranno lasciati morire di stenti e malattie nei campi di concentramento statunitensi destinati ai militari fra il 1945 e il 1946, cioè per lo più a guerra terminata. Le contestate ricerche dello storico canadese James Bacque stimano in 800.000 il numero di queste vittime.


Di nuovo il “pericolo rosso”

Finita la guerra il bersaglio principale tornano a essere i comunisti – il culmine del “secondo red scare” viene a coincidere col “maccartismo” fra il 1950 e il 1954 – con il varo di una serie di leggi antisovversive, cioè anticomuniste. Nel marzo 1947 Truman lancia il Federal employee loyalty program (Executive order 9835) il cui scopo è eliminare i dipendenti federali comunisti: “Non possiamo permettere agli impiegati del governo federale di essere classificati come sleali o potenzialmente sleali verso il loro governo... Provvedimenti sono stati presi per fornire al… Ministero della giustizia il nome di ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo di persone, straniero o nazionale, che, dopo appropriate indagini, venga designato come totalitario, fascista, comunista o sovversivo” [H. Truman, Statement by the President on the Government’s Employee Loyalty Program, 14 novembre 1947]. Non verrà scoperta nessuna spia, ma fra il ‘47 e il ‘54 più di 7 milioni di lavoratori saranno indagati e migliaia licenziati. L’obiettivo, quindi, più che colpire il piccolo Partito comunista degli Stati Uniti (Cpusa), i cui iscritti passeranno fra il 1946 e il 1957 dal già esiguo numero di 70.000 a 10.000, è colpire l’organizzazione di classe dei lavoratori. 

Nel giugno 1947 il Labor management relations act, noto anche come Taft-Hartley act, mira a colpire i sindacati rendendoli legalmente responsabili della rottura dei contratti e delle eventuali violenze commesse dagli iscritti durante le lotte sindacali, impone un lasso di tempo di ottanta giorni prima di indire lo sciopero, vieta l’assunzione dei soli iscritti al sindacato e impedisce ai comunisti la possibilità di ricoprire cariche sindacali imponendo un giuramento di non appartenenza al partito. Le leggi antisovversive, volte a controllare le lotte operaie, vanno concretamente a colpire le organizzazioni sindacali di classe e così la Congress of industrial organizations (Cio), tra il 1948 e il 1949, espelle dalla sua organizzazione i sindacati a componente comunista perdendo un milione di aderenti. Si nega anche il diritto di sciopero ai dipendenti pubblici. 

Nel 1949 i dirigenti del Cpusa vengono processati e condannati, senza prove effettive di un qualsiasi specifico reato se non quello costituito dalle opinioni degli imputati, basandosi sullo Smith act del 1940, inizialmente rivolto contro i fascisti ma prontamente riconvertito in funzione anticomunista, che prevede pene per chi costituisca gruppi volti a rovesciare il governo statunitense. 

Nel 1954 sarà la volta del Communist control act che priva il Partito comunista di “tutti i diritti, privilegi e immunità” [Communist control act, sec. 3] garantiti agli altri partiti, mettendo in pratica fuori legge il partito stesso: “Chiunque coscientemente e volontariamente divenga o rimanga membro del partito comunista... sarà soggetto ai provvedimenti e alle pene dell’Internal Security Act del 1950” [Communist control act, sec. 4]. Nel 1954 viene varato con gli stessi obiettivi l’Espionage and sabotage control act

Fra le molte leggi anticomuniste approvate fra il 1947 e il 1954, in base alle quali migliaia di persone perderanno il lavoro o saranno incarcerate e condannate a morte, giova soffermarsi sull’Internal security act (1950) e sul suo secondo titolo l’Emergency detention act: “Esiste un movimento mondiale comunista... il cui scopo è, attraverso l’indottrinamento, l’inganno, l’infiltrazione, lo spionaggio, il sabotaggio, il terrorismo… di stabilire una dittatura totalitaria comunista nei paesi di tutto il mondo tramite lo strumento di un’or­ganizzazione comunista mondiale” [Internal security act, title I, sec.2.1]. La retorica e i contenuti sono quelli che erano stati utilizzati per denunciare il complotto “giudaico” per dominare il mondo. “Negli Stati Uniti gli individui che coscientemente e intenzionalmente prendono parte al movimento mondiale comunista nei fatti ripudiano la loro fedeltà agli Stati Uniti” [Internal security act, title II sec. 101.7]. Nel 1952 il Congresso stanzia 775.000 $ per il ripristino dei campi già usati per la detenzione dei nippostatunitensi e per approntarne di nuovi. L’iniziativa legislativa per l’Emergency act parte da un gruppo di senatori democratici, ma raccoglie subito consensi importanti anche in campo repubblicano. Del resto fra i principali firmatari dell’Internal security act ricordiamo i futuri presidenti John F. Kennedy (1961-63), Lyndon Johnson (1963-69), Richard Nixon (1969-74). Per l’applicazione del provvedimento di detenzione per i comunisti può essere sufficiente la proclamazione da parte del presidente di uno stato di “emergenza interna” [Internal security act, title II, sec. 102]: “in qualunque momento si realizzasse tale emergenza, il Presidente, agendo attraverso il Procuratore generale è autorizzato a prendere in custodia e trattenere… ogni persona per la quale vi sia il ragionevole motivo di sospettare che probabilmente prenderà parte o cospirerà con altri in azioni di spionaggio o sabotaggio” [title II, sec. 103]. 

In questa fase va ricordato il ruolo di rilievo rivestito dall’House of un-american activities committe (Huac) un organismo investigativo della camera dei rappresentanti fondato nel 1938, il cui presidente John Wood va considerato, insieme al senatore democratico Pat McCarran, il padre dell’Internal security act, che rivestirà una funzione importante anche nei decenni a venire. 

Il maccartismo non nasce, né tanto meno finisce, col senatore del Wisconsin (nel 1954 McCarthy porrà fine alla sua carriera cercando comunisti nelle forze armate statunitensi), ricordiamo solamente che McCar­thy godeva dell’appoggio dei Kennedy e che Nixon fu uno degli agenti al suo servizio, infatti in tutto, o in parte, queste leggi sono ancora in vigore.


Dalle lotte del popolo negro all’“Impero del Male”

Negli anni ‘60 assistiamo alle lotte contro la segregazione razziale e alle riforme di Johnson (1963-69) con le leggi sui diritti civili e sul diritto di voto. Le condizioni economiche dei negri però, con un tasso di disoccupazione doppio rispetto alla media nazionale, non migliorano. Nella parte politicamente più cosciente del proletariato negro si diffondono, seppure minoritarie, posizioni politiche pericolose come quelle delle Black Panthers o dell’ultimo Malcolm X (assassinato il 21 febbraio 1965) che iniziano a intravedere l’unione del proletariato al di là delle differenze di razza. Mentre Martin Luther King partito da un discorso volto alla cooptazione corporativistica del popolo negro – rispondente alle esigenze di sviluppo di un neocorporativismo più ampio che, anche in funzione anticomunista, superi le distinzioni di razza (Washington, 17 maggio 1957) – conclude l’evoluzione della sua parabola politica criticando la guerra del Vietnam (seppur in ritardo rispetto a Malcolm X che ne aveva già denunciato il carattere imperialistico) definita “una delle guerre più ingiuste che sia stata combattuta nella storia del mondo”(Washington, 31 marzo 1968), ma soprattutto delineando una dura critica agli assetti sociali statunitensi e del sistema capitalistico: “una struttura sociale che produce povertà ha bisogno di essere riorganizzata da cima a fondo” (New York, 4 aprile 1967); “Non è solo all’estero che vediamo la povertà; vorrei ricordarvi che nella nostra stessa nazione vi sono circa 40 milioni di persone colpite dalla povertà” (Washington, 31 marzo 1968), che lo porteranno a mostrare crescenti simpatie socialiste (come emerge dalle intercettazioni dell’Fbi delle riunioni di King) e a dialogare con il comunista negro William E. B. Du Bois, e ad affermare infine che il suo sogno si è tramutato in incubo: “Nel 1963, in un soffocante pomeriggio di agosto, eravamo a Washington e parlavamo alla nazione di molte cose. Verso la fine di quel pomeriggio cercai di parlare alla nazione del sogno che avevo, e devo confessarvi oggi che poco dopo aver parlato di quel sogno ho cominciato a vederlo trasformarsi in un incubo, solo poche settimane dopo averne parlato... Vidi quel sogno trasformarsi in incubo mentre passavo attraverso i ghetti della nazione e vedevo le mie sorelle e i miei fratelli neri che perivano in un’isola desolata di povertà, in mezzo al vasto oceano della prosperità materiale... Vidi quel sogno trasformarsi in incubo mentre guardavo le mie sorelle e i miei fratelli neri… che ingaggiavano rivolte scriteriate per cercare di risolvere i loro problemi. Vidi quel sogno trasformarsi in un incubo mentre constatavo l’escalation della guerra nel Vietnam” (Atlanta, 24 dicembre 1967). Con queste posizioni King si troverà isolato e il mettere in discussione l’approccio corporativistico e cooptativo di cui era stato fino a ora un buon elemento determinerà la sua condanna a morte. 

Nel 1965 a Los Angeles inizia la rivolta dei ghetti delle città del nord e dell’ovest e nel ‘67 sono coinvolte un centinaio di città. L’ordine viene ripristinato con i paracadutisti e con la guardia nazionale. Quando viene assassinato Martin Luther King (4 aprile 1968) si teme una rivolta ancora più ampia. L’Huac, in un documento intitolato Guerrilla warfare advocates in the United States (6 maggio 1968), di fronte a quella che definisce una strategia di guerriglia di “comunisti e nazionalisti neri” propone una chiusura totale dei ghetti con coprifuoco al tramonto e ordine di sparare su chiunque cerchi di entrare o uscire, la schedatura degli abitanti e la sospensione dei diritti civili: “le forze di polizia devono essere messe in grado di operare arresti... con la sospensione delle garanzie abitualmente previste dalla Costituzione”. Ogni atto di violenza viene equiparato a un atto di guerra e i “combattenti” conseguentemente “devono essere privati dei loro diritti come in tempo di guerra. Il McCarran act contempla vari centri di detenzione... che possono essere utilizzati per il temporaneo imprigionamento dei guerriglieri”. Per reprimere le rivolte si propone dunque l’intervento dell’esercito, il ricorso ai campi di concentramento previsti dal­l’Emergency detention act e importanti capi delle Pantere nere verranno assassinati nel ‘69. Da un’indagine governativa nota come Rapporto Kerner (marzo 1968) emerge che il “rivoltoso tipico” è un lavoratore dequalificato, tra i 15 e i 24 anni di età, vittima delle oscillazioni del mercato, con un livello d’istruzione superiore alla media degli abitanti dei ghetti. Un’analisi condotta sugli arrestati durante la rivolta di Detroit del 1967 mostra che il rivoltoso è un operaio con più di trent’anni d’età, oltre undici anni di scuola, residente a Detroit da più di quindici anni. La lotta nel ghetto non è dunque (solo o prevalentemente) lotta razziale, ma lotta di classe di un proletariato (in particolare i dati di Detroit sono significativi) sempre più cosciente e conseguentemente pericoloso. 

In seguito ai disordini degli anni ‘60 verrà elaborata l’Operation garden plot, applicata poi durante la rivolta di Los Angeles nel ‘92, che prevede l’intervento di esercito e guardia nazionale in caso di disordini civili sul territorio statunitense. Nel 1971 l’Emergency detention act viene cancellato dal Congresso, pur restando in vigore l’Internal security act, ma vengono trovati altri strumenti per impedire il dissenso e la contestazione, siamo in piena guerra del Vietnam e l’Fbi intensifica la sua azione repressiva contro le formazioni che si oppongono alla guerra o si battono per i diritti civili. 

Con la presidenza di Reagan (1981-89) viene approvato il Readiness exercise 1984 (Rex 84) volto a testare la capacità da parte delle strutture federali di tenere in stato di detenzione un gran numero di prigionieri in caso di emergenza nazionale. In presenza di disordini, dimostrazioni e scioperi che possano intaccare la continuità dell’azione di governo è prevista l’autorizzazione per l’esercito di provvedere alla deportazione della popolazione civile a livello federale e statale, l’introduzione della legge marziale e le basi militari possono essere trasformate in campi di detenzione. Nell’ottica della crociata contro l’“Impero del Male” sovietico Reagan autorizza la Cia a spiare all’interno degli Usa i cittadini e le organizzazioni politiche statunitensi e l’Fbi a infiltrarsi in qualsiasi organizzazione che possa essere “sotto influenza straniera”. Gli arresti durante la presidenza Reagan si succedono a migliaia, in quanto possono essere considerate “terroristiche” tutte le organizzazioni che lottano per i diritti umani, contro l’apartheid, per la giustizia sociale, mentre con le direttive sulla sicurezza nazionale si prevede la costruzione di altri campi di concentramento. Le esercitazioni relative al Rex 84 si svolgono tuttora regolarmente.


La guerra al terrorismo

Il Patriot act (2001) di Bush jr. (2001-09), del quale l’Anti-terrorism and effective death penalty act (1996) di Clinton (1993-2001) costituisce una sorta di anticipazione, ridurrà drasticamente i diritti civili e darà il via a migliaia di arresti senza garanzie giuridiche, a deportazioni e torture. Col Patriot act (2001) si è giunti a sospendere per gli stranieri, a differenza addirittura da quanto previsto dall’Emergency detention act [title II, sec. 116], il diritto di habeas corpus che permette a chi sia imprigionato dal governo di ottenere una giustificazione giuridica della legalità della detenzione, nel momento in cui si sospende questo diritto nessun tribunale può intervenire a disporre il rilascio del prigioniero nel caso di detenzione illegale. Inoltre il Patriot act, permettendo al Procuratore generale di usare l’esercito contro la popolazione civile, pone fine al Posse comitatus act del 1878 che impediva l’uso dell’esercito in funzioni di polizia all’interno dei confini della federazione, anche se il Posse act era nato con l’intento reazionario di chiudere il periodo cosiddetto della “ricostruzione” seguito alla guerra civile in cui l’esercito era stato utilizzato negli stati sudisti per garantire i diritti degli schiavi liberati. Nel 2007 il Posse act verrà definitivamente emendato da Bush jr. col John Warner national defense authorization act for fiscal year 2007 consentendo al governo federale il controllo della guardia nazionale e di dislocare l’esercito ovunque sia ritenuto opportuno sul territorio degli Usa in caso di “emergenza nazionale”. 

L’apice della politica concentrazionaria pare sia stato raggiunto solo nel primo decennio del nuovo secolo: 800 campi di concentramento sono stati costruiti, o sono in via di completamento, su tutto il territorio statunitense. Basta un decreto presidenziale e si può procedere all’imprigionamento dei cittadini presenti in una lista sottoscritta dal Procuratore generale. Le operazioni previste dal Rex 84 e dall’Operation garden plot sono dirette dalla Federal emergency management agency (Fema), un organismo creato nel 1979 da Carter (1977-81). La costruzione di campi di concentramento costituisce fra l’altro un buon affare: nel 2006 la Kbr, un’azienda dipendente dalla multinazionale Halliburton specializzata in lavori pubblici, ha dichiarato di aver avuto un appalto di 385 mln $ per la consegna di strutture detentive per il Dipartimento di sicurezza nazionale. 

In questo momento il pericolo principale per la classe dominante non viene certo da un attacco comunista interno o esterno (cosa possibile solo in film di fantastoria reaganiani come Alba rossa (1984) di John Milius), bensì deriva dalle possibili conseguenze della devastante crisi economica che sta impoverendo sempre più il proletariato e le classi medie e dalla rabbia e disperazione che ne derivano. Queste norme sono pensate per lo più per i cittadini degli Usa (e in subordine gli immigrati illegali). Il più capiente dei campi si trova in Alaska ed è capace di ospitare fino a 500.000 prigionieri e ricompaiono anche i vecchi siti usati per la detenzione dei cittadini di stirpe giapponese. Intanto esperienze di rastrellamento e convogliamento di popolazione in centri appositi, con sospensione dei diritti civili e passaggio del potere nelle mani dei militari, sono state sperimentate dal Fema quando l’uragano Katrina ha colpito la Florida nel 2005. 

Nel 2006 il Congresso ha approvato il Military commission act che prevede per gli stranieri classificati come “combattenti nemici” di essere detenuti a tempo indefinito senza accusa, senza le tutele quindi dei “prigionieri di guerra” come accade nel campo di Guantanamo dal 2002. 

La presidenza di Obama (2009-oggi) si apre con una serie di “belle promesse” e “buone intenzioni”: nell’aprile 2009, Obama ordina la pubblicazione dei memoriali Cia sulle cosiddette “tecniche brutali”, per il volgo più semplicemente torture, usate negli interrogatori contro i (presunti) terroristi islamici; ma – a parte il fatto che nel giro di un mese Obama ha un ripensamento e per “non aumentare i rischi per la sicurezza dei soldati statunitensi in Iraq e Afghanistan” non solo vieta la pubblicazione di nuove immagini degli abusi sui detenuti di Bagdad e Kabul, ma ordina ai legali della Casa Bianca di opporsi al tribunale di appello che aveva accolto la richiesta dell’ American Civil Liberties Union di eliminare il segreto di stato su quei documenti – contemporaneamente, seguendo i consigli giuridici del Dipartimento di giustizia, decide di non sottoporre a processo i funzionari della Cia che avevano messo in pratica le torture garantendo così loro l’impunità [Corriere della Sera, 18 aprile e 14 maggio 2009]. 

In conclusione il paese che ha usato e usa il concetto di “totalitarismo” come accusa infamante ne ha realizzato gli aspetti più significativi, non solo arresti arbitrari, condanne a morte, giuramenti di fedeltà, ma anche una completa uniformità e omologazione: il Communist control act viene approvato con il solo voto contrario di un senatore in tutto il Congresso, mentre al contempo il campo di concentramento percorre come un filo rosso la storia della repressione degli oppositori del paese che esporta, su mandato divino, libertà e democrazia (e capitale) in tutto il mondo. 



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