Scritto per il
convegno internazionale “Una candela che brucia dalle due parti. Rosa Luxemburg
e la critica dell’economia politica” (organizzato da Riccardo Bellofiore, 16-18
dicembre 2004, Università degli studi di Bergamo).
I rivoluzionari, specie comunisti, vengono oggi comunemente
rappresentati come gente di ferro, senza anima, oppure come fanatici: comunque
spietati e disumani, combattenti per principi astratti e lontani dalla concreta
reale vita degli individui – i soli apparentemente privilegiati dalle ideologie
correnti. Qualora si tratti di donne, ovviamente le si rappresenta prive di
quanto genericamente (e spesso impropriamente) vien definito femminilità.
Leggo
sul numero dello scorso 14 ottobre della Far Eastern Economic Review una
recensione, di Jason Overdorf, del romanzo autobiografico War Trash di Ha Jin,
dove si dice «[Yu, il protagonista] più osserva le decisioni dei dirigenti del
partito nel campo – per esempio, lotte simboliche per sventolare la bandiera
cinese – più arriva a credere che la loro fede non lascia spazio all’umanità.
‘Ero ambivalente sul tentativo di recuperare la bandiera’. Yu riflette: ‘Da un
lato, ammiravo il coraggio mostrato dai nostri uomini, e per un verso ero
colpito da reverente timore per la loro passione e per l’audacia che – dovevo
ammetterlo – io non possedevo. Dall’altro lato, mi chiedevo se valesse la pena
di perdere la vita di un uomo per una bandiera che, per quanto simbolica, era
solo un pezzo di stoffa.’ Rendendo esplicito il sorprendente parallelo fra
fervente comunismo e fanatismo religioso, Yu conclude: ‘Avevo notato una sorta
di fanatismo religioso in alcuni di quegli uomini, capaci di rinunciare alla
loro vita per un’idea’».
La mozione che nella difesa dell’individuo anche al
livello minimo implica una rivendicazione di umanità contro la mistificazione
delle grandi idee, religiose o laiche, ha una valenza positiva e anzi
rivoluzionaria ogni qual volta quanti sono in possesso degli strumenti di
dominio, valendosi strumentalmente e falsamente delle grandi idee, mirano ad
assoggettare gli individui per altri fini. Un grande significato positivo ha
avuto una simile mozione al tempo della prima guerra mondiale, quando le
bandiere dei vari patriottismi venivano sventolate a coprire la carneficina
promossa da quelli che Lenin chiamò “i briganti coronati” e gli sporchi
interessi di cui erano rappresentanti. Ma allora contro il patriottismo –
valido in tempi precedenti e ormai esaurito, la cui bandiera era divenuta
effettivamente solo un pezzo di stoffa – la difesa degli individui si
accompagnava all’affermazione di valori altri e più alti, assunti da
moltitudini associate nella lotta; portatrici di nuove bandiere: di nuove idee,
corrispondenti alle esigenze reali del tempo, e tali da motivare, nuovamente,
anche il sacrificio dei singoli individui che in esse si riconoscevano: non una
menzogna al fine della propria dipendenza ma uno strumento per la propria
affermazione.
Invece, secondo il modo di pensare oggi corrente, il fervore
religioso e la fede in un’idea equivalgono in ogni caso al fanatismo; chiunque
impegna la propria vita o si sacrifica “per un’idea” è un fanatico; una
bandiera infine è sempre solo un pezzo di stoffa. Allora, da Socrate a Gesù, e
via via dovunque e per i secoli – fino a Rosa Luxemburg assassinata e gettata
in un canale della Sprea – la storia appare come un susseguirsi di sacrifici
privi di senso cui si sono offerti individui privi di considerazione per la
propria individualità; non solo, ma con la conseguenza di imporre questa morale
distorta ad altri individui, sacrificandoli a loro volta.
La conclusione è una
morale che privilegia l’arroccarsi di ciascuno nella difesa del proprio
“particulare”. Non solo privandolo di quella “idea” o “religione” che esprima
il suo rapporto e la sua comunione con gli altri e potenzi la ricchezza della
propria umanità, ma anche lasciandolo, così isolato, privo dei mezzi di difesa
effettivi contro chi – in possesso di strumenti di dominio (economico,
militare, sociale, culturale) – intenda assoggettarlo. All’assenza di fede
religiosa e di adesione a grandi idee non si supplisce con la buona volontà.
Ma
una cosa è possibile: evitare che la disgraziata condizione del presente sia
proiettata all’indietro, a deformare il passato. Si può almeno educare chi oggi
è spossessato, privo di una speranza attiva, a conoscere che questa perdita è
contingente ma non inerisce alla condizione umana in quanto tale. A questo fine
– fondamentale per la rinascita di una resistenza efficace alle forze
distruttive che oggi operano anche all’interno delle coscienze – è essenziale
la trasmissione della storia. Non a caso le correnti ideologie funzionali alla
distruzione pretendono annullare la nozione stessa di storia e l’insegnamento
della storia come disciplina – quanto meno ai livelli più popolari.
L’attenzione alla biografia delle grandi personalità può essere un tramite al
recupero della storia.
Per quanto riguarda la storia del comunismo nel
ventesimo secolo, la conoscenza dei grandi comunisti nella loro individualità
aiuta a smentire la visione deformata e calunniosa che ne viene proposta da
quanti, annientandola alla radice, intendono garantirsi da una eventuale
rinascita nelle menti di qualsiasi ipotesi comunista. Nel contempo, aiuta a
restituire agli individui la giusta collocazione – non nel solitario isolamento
ma nell’adesione a grandi idee, che fa tutt’uno con la comunicazione e la
comunità con gli altri individui.
Nelle lettere di Rosa Luxemburg a persone
intime e ad amici emergono tratti non sempre immediatamente visibili nella
superficie della figura pubblica, che la illuminano e arricchiscono. Scrive nell’aprile
1899 a Leo Jogiches – il suo compagno per diciassette anni:
È la forma della mia
scrittura che non mi soddisfa più. Va maturando nella mia “anima” una forma
nuova, originale, che ignora ogni regola e convenzione. Le spezza col potere
delle idee e della forte convinzione. Voglio colpire come un tuono, infiammare
le menti non con i particolari ma con l’ampiezza della mia visione, la forza
della mia convinzione e il potere della mia espressione.
È la coscienza del proprio eccezionale valore e il coraggio
di manifestarla in termini appassionati. Il pensiero come passione è la forza
del genio femminile – della femminilità che si libera dalla soggezione e si
afferma, al di sopra “delle regole e delle convenzioni”. Uno dei grandi
equivoci dei mediocri nemici delle donne (condiviso in parte dal femminismo di
bassa lega) sta nel confondere il pensiero forte femminile con la durezza,
l’assenza di sensibilità, il “tutto cervello” e “niente corpo”; e in genere
credere che la profondità dei sentimenti e la sensibilità umana si
identifichino col sentimentalismo, il dolciastro “latte alle ginocchia”, la
mollezza scambiata per non violenza, il “pensiero debole”.
In una lettera del
dicembre 1916 scritta dalla prigione a Emanuele e Mathilde Wurm, nei riguardi
del pessimismo e del tono meschinamente lamentoso dei suoi interlocutori Rosa
Luxemburg usa toni così violenti da apparire quasi incredibili, giacché si
rivolgono a una cara amica; ma la polemica è tanto più forte quanto più
profondo è l’affetto, come si sente nelle ultime righe:
Ti basta così, come
auguri di Natale? Allora bada a rimanere uomo [Mensch]! Essere Mensch è la cosa
più importante! E questo significa: essere fermi, lucidi e allegri. Sì, allegri
nonostante tutto e tutto – giacché il piagnisteo è affare dei deboli. Essere
Mensch significa gettare gioiosamente tutta la propria vita sulla bilancia
della sorte, quando è necessario, ma nello stesso tempo godere di ogni giorno
chiaro e di ogni bella nuvola; oh, non posso scrivere nessuna ricetta su come
essere Mensch, so soltanto come lo si è, e anche tu lo sapevi quando
passeggiavamo qualche ora insieme nei campi di Südende e la luce rossa del
crepuscolo si stendeva sul grano. Il mondo è così bello nonostante tutto
l’orrore e sarebbe ancora più bello se non ci fossero i deboli e i vili.
E alla stessa amica nel febbraio 1917, sempre dalla
prigione:
Tutto il tuo argomento
contro il mio motto “Qui sto, non posso altrimenti” si riduce a: Bene, sia
pure, ma le masse sono troppo vili e deboli per tanto eroismo. Ergo, si deve
adattare la tattica alla loro debolezza e all’assioma: “Chi va piano va sano e
va lontano”. Che visione storica limitata, agnellino mio! Non c’è nulla di più
mutevole della psicologia umana. La psiche delle masse come l’eterno mare porta
in sé ogni possibilità latente: la calma mortale e la tempesta, la più bassa
viltà e il più fiero eroismo. La massa è sempre quello che deve essere secondo
le circostanze del tempo e la massa sta sempre per diventare qualcosa di
completamente differente da quello che sembra essere. Che capitano sarebbe uno
che tracciasse la sua rotta dall’apparenza momentanea della superficie
dell’acqua e fosse incapace di prevedere l’arrivo di una tempesta dai segni nel
cielo o dalle profondità! Mia cara ragazza, la “delusione sulle masse” è la
prova di maggiore vergogna per un dirigente politico. Un vero dirigente adatta
la sua tattica non all’umore momentaneo delle masse ma alle leggi ferree dello
sviluppo; si attiene a questa tattica, a dispetto di ogni “delusione” e per il
resto lascia tranquillamente che la storia porti a maturazione il suo lavoro.
[...] Che fare di questa particolare sofferenza degli ebrei? Le povere vittime
delle piantagioni di gomma di Putumayo [Colombia], i negri dell’Africa con i
cui corpi gli europei giocano a una partita di caccia, mi sono più vicini […].
Qui, come in molte altre occasioni, si rivela il fortissimo
senso del proprio io, la responsabilità della dirigente che non risponde solo
di sé, che fa storia, e una sorta di profonda serenità che le viene da questo,
e le consente di porsi al di sopra dei giudizi basati sullo psicologismo; e
come ebrea, al di sopra del misero piagnisteo per esprimere invece la più alta
qualità dello spirito universalistico ebraico. L’interesse umano immediato per
la gente colonizzata e calpestata non è senza rapporto con l’internazionalismo
autentico e la ricerca teorica sul capitalismo nelle zone periferiche. Da una
lettera a Sonja Liebknecht nel maggio 1917 [Wronke]:
Una mattina l’aprile
scorso, ricordi, vi ho chiamati d’urgenza al telefono alle dieci per andare a
sentire l’usignolo che dava un concerto nell’orto botanico. [...] Che cosa
leggo? Per la maggior parte, scienze naturali: geografia delle piante e degli
animali. Sempre più la silvicoltura sistematica, il giardinaggio e
l’agricoltura vanno distruggendo a passo a passo la nidificazione e la
riproduzione naturale. Alberi cavi, terreni incolti, roveti, foglie secche sul
suolo dei giardini. Mi ha talmente addolorata leggerlo. Non per i canti che
cantano per la gente, ma è piuttosto l’immagine della silenziosa, irresistibile
estinzione di quelle piccole creature senza difesa che mi colpisce fino a farmi
piangere. Mi ricordava un libro russo che avevo letto quando ero ancora a
Zurigo, , un libro del professor Sieber sul massacro dei pellerossa nel Nord
America. Esattamente nello stesso modo, a passo a passo, sono stati scacciati
dalla loro terra agli uomini civili e abbandonati a perire in silenzio e
crudelmente. Forse sono un po’ spostata a sentire tutto così intensamente. Sai
a volte mi sembra di non essere realmente una creatura umana ma piuttosto un
uccello o una bestia in forma umana. Mi sento molto più a casa in un
giardinetto come qui, e ancor più nei campi quando l’erba ronza per le api, che
in uno dei nostri congressi di partito. Posso dirtelo, giacché tu non mi
sospetterai immediatamente di tradire il socialismo! Sai che, nonostante tutto,
veramente spero di morire al mio posto, in un combattimento di strada o in
prigione. Ma il mio io più intimo appartiene più alle mie cinciallegre che ai
“compagni”. Non perché io trovi nella natura un rifugio riposante come tanti
politici moralmente falliti. Al contrario, anche nella natura, a ogni passo,
trovo tanta crudeltà che ne soffro molto. Per esempio, pensa che non posso cacciare
dalla mente questa piccola esperienza. La scorsa primavera stavo rientrando a
casa da una passeggiata nei campi lungo la mia via silenziosa, stretta, quando
notai un piccolo segno scuro sul pavimento. Mi chinai e vidi una tragedia
silenziosa: un grosso scarabeo giaceva sul dorso, difendendosi disperatamente
con le zampe, mentre un gruppo di formichine brulicava su di lui e lo mangiava
vivo! Mi si accapponò la pelle! Tirai fuori il mio fazzoletto e presi a
scacciare quegli animaletti brutali. Ma erano così insolenti e ostinati che
dovetti combattere contro di loro una lunga battaglia. Quando finalmente
liberai la povera vittima e la raddrizzai sull’erba, vidi che due delle zampe
erano già state mangiate.... Me ne andai col sentimento angoscioso che alla fine
gli avevo reso un assai dubbio favore. [...]
Qui, come da un brano di un’altra lettera a Sonja Liebknecht
di metà dicembre 1917 [Breslau], ricordato nel film di Margarethe von Trotta,
dove si rappresenta l’appassionata condivisione dello strazio di un bufalo
malmenato, emerge l’empatia per tutte le sofferenze non solo degli uomini ma di
ogni creatura, la comunione fra gli esseri viventi. Questo sentire, che è anche
un pensare, si collega, ripeto, alla visione autenticamente internazionalista che
porta Rosa Luxemburg al di là dell’etnocentrismo, al suo tempo presente se pur
non dichiarato in tanti marxisti; la porta pure ad anticipare di quasi un
secolo l’allarme per la distruzione dell’ambiente e delle specie viventi. Leggo
un brano da un’altra lettera del dicembre 1917, sempre indirizzata a Sophie
Liebknecht:
[...] La scorsa notte
andavo pensando: “Come è strano che io sia sempre in una sorta di allegra
ubriachezza, senza motivo sufficiente. Qui giaccio in una cella scura su un
materasso duro come la pietra; l’edificio ha la sua solita quiete da
camposanto, tanto che si potrebbe essere già seppelliti; attraverso la finestra
cade sul letto un barlume di luce dalla lampada accesa tutta la notte davanti
alla prigione. A intervalli posso udire debole nella distanza il rumore di un
treno che passa o, qui vicino, la tosse secca del guardiano della prigione che
nei suoi pesanti stivali fa quattro passi per stirarsi le membra. Lo
scricchiolio della ghiaia sotto i suoi piedi suona così disperato che tutto il
tedio e la futilità dell’esistenza sembrano irradiarsi nella notte umida e
cupa. Io giaccio qui sola e in silenzio, avvolta nel multiforme involucro di
oscurità, tedio, non-libertà, e inverno – eppure il mio cuore batte con una
incommensurabile e incomprensibile gioia interiore, come se mi muovessi nella
radiante luce del sole attraverso un prato fiorito. E nell’oscurità sorrido
alla vita, come possedessi un talismano che mi permettesse di trasformare tutto
ciò che è male e tragico in serenità e felicità.” Ma se cerco nella mia mente
la causa di questa gioia, non la trovo, non posso che ridere di me. Credo che
la chiave dell’enigma sia semplicemente la vita stessa. Questa profonda
oscurità della notte è morbida e bella come velluto, se solo la si guarda nel
modo giusto. Lo scricchiolio della ghiaia umida sotto il passo lento e pesante
del guardiano della prigione è simile a un’amabile canzoncina della vita – per
una che abbia le orecchie per udire. In momenti simili penso a te, e vorrei
poter consegnare anche a te questa chiave magica. Allora, in qualsiasi tempo e
in qualsiasi luogo, potresti vedere la bellezza e la gioia della vita; allora
anche tu potresti vivere nella dolce ubriacatura, e camminare attraverso un
prato fiorito. Non pensare che ti offra gioie immaginarie, o che vada
predicando l’ascetismo. Voglio che tu gusti tutti i reali piaceri dei sensi. Il
mio solo desiderio è di darti in più il mio inesauribile senso di benedizione
interiore[...].
Il dolore individuale si perde in quello collettivo e
l’individuo si risolve in forza (non solo di tipo stoico, né nel solo ottimismo
della volontà) ma nel sentire della gioia. Così nei grandi mistici (san
Francesco, molti buddhisti) e nei grandi materialisti, dove la gioia è nel
sentimento stesso della vita, e nel dare forma. Anche, forma al futuro.
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