giovedì 3 marzo 2016

Moneta unica (corso dei cambi)* - Gianfranco Pala

*Da:   http://www.gianfrancopala.tk/    (http://www.contraddizione.it/quiproquo.htm)
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole 


Sono ormai tanti gli anni di liturgiche litanìe passati intorno all’altare di Maastricht – tra vicissitudini varie, crisi reali e bolle speculative, en­trate e uscite dal serpentesco sistema monetario europeo, e tante altre amenità che certo non dipendono dai protocolli di Maastricht, i quali ne sono semmai solo un effetto. I cosiddetti “parametri di convergenza”, scritti in tedesco dai rappresentanti del grande capitale monopolistico finanziario a base europea, costituiscono il simulacro dietro il quale si celano i governi nazionali. La real­tà è tutta un’altra cosa. Tra l’altro perché essa procede per suo conto, antici­pando scadenze e slittamenti convenuti in via istituzionale. Una delle cerimonie più seguite è quella della Uem, riguardante l’unione mo­netaria europea, che ha come rito simbolico il segno della “moneta unica”. Appunto quella moneta segno, come anche Marx intese chiamarla, che con­venzionalmente caratterizza la denominazione del denaro che circola su un mercato nazionale. Proprio di questo si tratta, e quel mercato nazionale è ora il mercato unico della “nazione” europea. E come tale la questione va consi­derata.

Il passaggio da un mercato locale a un mercato nazionale è un processo stori­co che ha i suoi tempi definiti dall’allargamento della produzione e dell’accu­mulazione in quell’area. La storia della nascita e dell’ascesa del capitalismo inglese costituisce un utile insegnamento. E così quella del passaggio dal mercato nazionale inglese al mercato mondiale dell’ottocento, per il movi­mento delle merci, prima, e dei capitali britannici, poi. In un’epoca in cui, pu­re, era più immediato il riferimento al tallone aureo (gold standard), l’affermazio­ne della sterlina come moneta rappresentativa del denaro universale sul mercato mondiale si basava unicamente sulla capacità di dominio e accentra­mento unificante del capitale inglese sulla via dell’imperialismo.

Così stanno le cose per l’euro oggi. [Occorrerebbe rammentare le determina­zioni di “denaro”, in quanto merce, valore, distinte da quelle di “moneta”, se­gno e simbolo di una misura di valore predeterminata, insieme alle forme di passaggio da moneta locale a moneta nazionale, ossia da moneta “nazionale” a moneta europea. Ma è un’analisi più lunga da svolgere in altro momento]. Se si considera l’Europa come una “nazione” il cui mercato è in formazione, conseguentemente occorre analizzarne le componenti e le forme dominanti. Dunque, serve valutarne le tendenze e i tempi di effettiva integrazione. Tali tendenze e tempi non tengono in alcun conto le vicissitudini dei compromessi politici e delle rappresentazioni ideologiche. Seguono piuttosto le fasi della crisi, in maniera che gli slittamenti e i ritardi del processo di formazione del mercato unico corrispondano alle difficoltà della ripresa del ciclo di accumu­lazione del capitale. Nel frattempo i rapporti reali della produzione si consoli­dano e fanno prevalere chi ha più forza.

Nel processo di formazione del mercato unico europeo, si sa, il posto preso dalla Germania è assolutamente dominante. Ciò vuol dire, semplicemente, che i tempi e i modi di definizione della moneta unica europea seguono, e non precedono, l’assestamento del mercato (dei capitali) europeo. Questo mercato è determinato dal capitale a base tedesca. È per questo che la moneta europea – che si chiamasse “Euro” o in qual altro modo, dopo che “Ecu” era ormai squalificato – non può che seguire la storia del marco. E deve seguirla secondo le fasi della crisi del mercato mondiale. Il corso dei cambi è – parafrasando Marx – il baro­metro del movimento internazionale delle valute pregiate. La stabilizzazione, più o meno lenta, del corso dei cambi è solo la condizione, la premessa, per approdare a un’unica moneta prevalente su un particolare mercato. Ma a sua volta tale stabilizzazione può conseguire solo a un assestamento del processo di produzione e accumulazione del capitale nell’area considerata. Questo è il quadro di riferimento generale [cfr. Marx, Il capitale, III. V,33-35]. Per capire meglio quanto si riferisce all’Italia è bene partire dall’ultimo atto di questa storia.

L’afflusso di valuta pregiata e il miglioramento del cambio di una determina­ta moneta avviene prevalentemente in due momenti: in una prima fase di ri­duzione del tasso di interesse, che segue a una fase acuta della crisi e riflette la riduzione della produzione, la recessione (ed è quanto avvenuto in Italia nel 1996). Poi, in una seconda fase, anche quando il tasso di interesse aumenta, ma prima che esso abbia raggiunto il suo livello medio, può continuare l’ap­prezzamento della moneta considerata (e si tratterà di verificare ciò per l’Italia, nei prossimi anni, qualora l’oscillazione al rialzo non sia semplicemente riassorbita nella moneta unica). Infine, una terza fase corrispondente al crollo (guidato) dei tassi d’interesse ... La seconda fase è quella in cui l’afflusso di valute pregiate è significativo, il credito commerciale può allargarsi, e quindi la domanda di capitale da prestito, produttivo d’interesse potrebbe non aumentare col ritmo al quale, invece, sarebbe capace di ampliar­si la produzione, se la speculazione non si conquistasse sempre maggiori spazi. Certo, le contraddizioni del ciclo di produzione del plusvalo­re e accumulazione su scala mondiale sono tali per cui non necessariamente il capitale monetario può trovare sbocchi produttivi. In ambedue le fasi ormai compiute, in cui il capitale da prestito è relativamente abbondante, infatti, l’afflusso eccedente di capitale che esiste nelle forme monetarie pregiate, cioè sotto una forma in cui esso può operare in un primo momento soltanto come capitale da prestito, deve avere un’influenza notevole sul tasso di interesse (sono questi i segnali internazionali richiamati in Bankitalia da Fazio).

Senonché il perdurante ristagno degli investimenti produttivi può provocare l’effetto di un ritiro continuato di capitale – come spiega Grossmann a proposito della critica all’imperialismo – in una forma in cui esso esiste diret­tamente come capitale monetario da prestito, e stornare codesto medesimo capitale verso attività speculative: la creazione dei “fondi pensione”, con la ri­forma previdenziale targata Fmi, ha precisamente questo obiettivo tampone, attraendo verso di essi anche i precedenti crediti privati a lungo depositati nel debito pubblico. Se un simile processo di aggiustamento reale riesce a riscuotere anche il suc­cesso monetario, il corso dei cambi delle monete coinvolte si stabilizza e il barometro valutario internazionale si ferma. La moneta unica, a questo punto, esisterebbe già, indipendentemente dai protocolli istituzionali e dalla denomi­nazione, e sarebbe sostanzialmente determinata dalla valuta (o insieme di va­lute) più forte: nel caso in esame, il marco tedesco, mascherato da Euro o da “marco” italiano. Guardando indietro alla storia recente, allora, si capisce il senso della “con­vergenza” verso i parametri dell’Uem. L’Italia, insieme ad altri paesi, aveva visto (e, per favorire le proprie esportazioni, anche agevolato) la svalutazione della propria moneta nazionale. Un tale deflusso valutario era il segno che i mercati erano saturi, e che l’apparente prosperità (se così “appare”, come presso i neomonetaristi reaganiani) veniva mantenuta soltanto mediante il credito, la centralizzazione finanziaria e la speculazione.

Quando l’esportazione e il deflusso di valuta pregiata (investimenti all’estero, prestiti internazionali, manovre speculative, ecc.) assume una dimensione si­gnificativa e si prolunga nel tempo, le riserve bancarie sono intaccate e il mercato monetario – per prima la banca centrale – prende immediate misure di difesa. Queste consistono essenzialmente in una stretta monetaria e creditizia (a barriera dell’inflazione crescente) e in un aumento del tasso di interesse. Quest’ultima è una conseguenza ovvia della pesantezza del mercato moneta­rio, nelle circostanze in cui la domanda di capitale da prestito e speculativo nella forma monetaria superi notevolmente l’offerta. Il tasso ufficiale di sconto (tus) fissato dalla banca centrale non è una misura arbitraria o una “scelta” di politica economica (come anche numerosi econo­misti illuminati suppongono), ma corrisponde alla situazione di fatto e si im­pone sul mercato. La banca centrale, mediante operazioni di “mercato aper­to”, rende il “denaro scarso”, come si usa dire, creando così una situazione che giustifichi un aumento del tasso di interesse. Senonché questa manovra di anno in anno le diventa più difficile, poiché il corso dei cambi viene influen­zato dal rapporto tra i tassi di interesse in vigore in quei paesi del cui corso dei cambi si fa questione. L’aumento del tasso di interesse, aumentandone il “differenziale” con altri paesi, invece di limitare l’attività creditizia, e con essa l’indebitamento, l’al­larga e porta a impegnare all’eccesso tutte le risorse monetarie, approfonden­do la crisi e causando i periodici e improvvisi crolli borsistici. Inoltre, se su­bentra il timore generale che questa tendenza si sviluppi crescendo, gli specu­latori in primo luogo formulano delle aspettative in base alle quali cercano di “scontare il futuro” (i future, li chiamano gli anglosassoni d’oggi) per avere a propria disposizione in quel “futuro” la maggior quantità possibile di titoli di credito, primari o derivati.

La pura e semplice quantità delle valute pregiate e dei titoli in esse denomina­ti, sia importate che esportate, non agisce però come tale, ma agisce in primo luogo attraverso il loro carattere specifico come capitale sotto forma moneta­ria, e in secondo luogo – prosegue Marx – “come la piuma che, aggiunta al peso della bilancia oscillante, è capace di farla traboccare da una parte”: agisce, perché sopravviene in circostanze in cui qualsiasi cosa in più da questa o quella parte è decisiva. Già i banchieri del secolo scorso sapevano che “tutte le oscillazioni degli affari sono vantaggiose per coloro che conoscono il me­stiere”; senza parlare – aggiunge Marx – dei profitti privati che cadono di per se stessi in grembo ai signori direttori in seguito alle eccezionali possibilità che essi hanno di conoscere la situazione generale degli affari (oggi si chiama insider trading, o più volgarmente aggiotaggio). Altri “rispettabili banditi” di­cevano già allora che la politica monetaria fatta attraverso il corso dei cambi, in tempi di crisi, provoca “un enorme aumento del tasso di interesse. Le spese derivanti dalla ristabilizzazione del corso dei cambi cadono sull’industria pro­duttiva del paese”: Inghilterra 1844 o Italia 1996?

I flussi valutari sono fondamentalmente sintomo di modificazioni delle condi­zioni del commercio internazionale, e queste a loro volta sono sintomo della maturazione della crisi. Senonché i caratteri della crisi “appaiono” fenomeni­camente solo dopo che si siano manifestate le perturbazioni nel corso dei cambi, ingannando l’osservazione superficiale, e provocando negli ignari la parvenza di un’inversione della causa con l’effet­to. Anzi, spesso quando una nuova fase della crisi – la terza, di cui sopra – recessiva interviene è già avvenuta l’inversione dei flus­si valutari e del corso dei cambi (si pensi al 1996 italiano: recessione con ri­duzione del tasso d’interesse e rivalutazione della lira). L’intero processo, permettendo alla banca del paese a valuta debole di inverti­re la manovra, si risolve così attraverso un movimento internazionale dei ca­pitali che si trasferiscono da un paese all’altro finché esso non si stabilizzi. Non appena simili fasi della crisi sono esaurite, le valute pregiate defluiscono dal paese che ne aveva una quota superiore al normale per affluire in un altro, secondo l’importanza – afferma Marx – che ogni paese riveste nel mercato mondiale. Quando le bocce si saranno tutte fermate intorno al marco tedesco, che fa da pallino, il mercato unico europeo potrà esser “segnato” in Euro. “Sono necessari i più grandi sacrifici sulla ricchezza reale” – conclude Marx, commentando le azioni di quei “rispettabili banditi” che sono finanzieri e speculatori – per conservare, in momenti critici, la base monetaria, la quale diventa “il capitale par excellence, alla cui conservazione qualsiasi altra for­ma di capitale e di lavoro deve essere sacrificata. La discussione verte soltan­to sul grado maggiore o minore, sul modo più o meno razionale di trattare l’i­nevitabile”. 


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