Devo scusarmi subito in apertura se arriverò a rispondere
alla questione solo dopo lunghi giri. Primo, [perché] mi sembra che la
questione in sé non sia stata finora sufficientemente chiarita. Secondo, e più
importante, perché scorgo nella situazione attuale problemi del tutto
particolari, che rinviano oltre una specificazione normale della questione
generale e la cui analisi soltanto consente teoricamente una risposta concreta.
I nostri ragionamenti devono dunque culminare nelle due
questioni seguenti, fra di loro strettamente connesse: esiste una
responsabilità specifica del filosofo, che va oltre la responsabilità normale
di ogni uomo per la propria vita, per quella dei suoi simili, per la società in
cui vive e il suo futuro? E inoltre: tale responsabilità nella nostra epoca ha
acquistato una forma particolare? Per la teoria dell’etica, entrambe le
questioni implicano il problema se la responsabilità contenga un momento
storico-sociale costitutivo. È un interrogativo che va posto subito all’inizio,
giacché proprio l’etica moderna, specialmente quella che si è sviluppata sotto
l’influenza di Schopenhauer prima e di Kierkegaard poi, pone l’accento sul
fatto che il comportamento etico dell’individuo «gettato» nella vita mira
proprio a tenersi lontano da tutto ciò che è storico-sociale per pervenire
all’essere ontologico, in contrapposizione netta a tutto l’essente. È
ovviamente impossibile trattare qui, sia pure per grandi linee, tutto questo complesso
di problemi. Possiamo occuparci solo di quegli aspetti che riguardano
oggettivamente il nostro problema.
1. Nell’etica, così come si è configurata sinora, possiamo
osservare – grosso modo** – due correnti decisive. La prima considera rilevante
esclusivamente l’atto in sé della decisione etica, del comportamento. Questa
concezione ha assunto nel corso dello sviluppo della nostra moralità
incarnazioni così diverse che troviamo un tale atteggiamento fondamentale nella
Stoa come in Epicuro, in Kant come nell’esistenzialismo, ecc. In base alla
nostra impostazione del problema, concentreremo l’attenzione soprattutto sul
tratto comune che abbiamo rilevato e tralasceremo di proposito le differenze,
il cui significato non deve essere ovviamente sottovalutato; esse non sono
tuttavia decisive per le questioni da chiarire in questa sede. Il momento
decisivo ci sembra consistere nel fatto che l’atto della decisione etica,
dell’assunzione di un comportamento eticamente rilevante viene posto come
indipendente dal corso causale della realtà storico-sociale, viene cioè
considerato come fondamento dell’etica la completa indipendenza reciproca dei
due «mondi» dell’essere e del dover essere. Dei grandi filosofi, Kant è colui
che ha compiuto nella maniera più decisa, fino al paradosso, questo
sdoppiamento della realtà. La frattura attraversa la personalità che agisce e
il suo atto. I presupposti e le conseguenze, anche quelle puramente spirituali,
appartengono tutti al mondo fenomenico e sono perciò sottoposti incondizionatamente
alla connessione inesorabile della causalità. L’actus purus della decisione
etica è invece un noumenon, un momento dell’esistenza intellegibile dell’uomo,
completamente indipendente dal fenomeno e dalla sua causalità.
Sembra spezzarsi così ogni collegamento fra l’esistenza
interna (etica) dell’uomo e quella esterna (naturale, sociale), per cui,
secondo una tale concezione, il nostro problema perderebbe ogni senso persino
come questione. Non è assolutamente questo il caso in Kant. La riduzione di ciò
che è eticamente rilevante alla personalità puramente intellegibile ha
piuttosto, come vedremo subito, lo scopo di subordinare la totalità della vita
umana al dover essere etico, di conferire ad essa una razionalità morale più
elevata di quanto sia possibile – secondo Kant – sul terreno fenomenico. Solo
se, come in Kierkegaard, l’abisso fra interno ed esterno acquista l’ampiezza
metafisica di un assoluto, solo se, di conseguenza, l’incognito impenetrabile
diviene la forma originaria dell’esistenza umana, la sua essenza ontologica, il
sacrificio di Isacco da parte di Abramo, con l’impossibilità di separare
dall’esterno il delitto dalla santità devota a Dio, può divenire il paradigma
più elevato della prassi, l’espressione della sua irrazionalità ontologica e
quindi della sua – altrettanto ontologica – essenza asociale, astorica. Non è
così in Kant. Già l’analisi dell’imperativo categorico dimostra che la
separazione rigida del fenomeno dal noumeno è rivolta proprio a fornire all’uomo
sociale della realtà criteri saldi per la prassi della vita quotidiana. Questa
intenzione è ciò che per noi è importante. Se dunque contraddizioni
insuperabili vengono in essere, allora vuol dire che la problematica che qui
emerge è una dimostrazione indiretta delle nostre tesi. Si tratta del contenuto
dell’imperativo, che deve scaturire proprio dalla sua essenza puramente
formale. Tutti conoscono il famoso esempio della – presunta – contraddizione
logica che sorge necessariamente quando si voglia sottrarre un deposito. Nella
sua critica, divenuta altrettanto famosa, Hegel rileva che, in questo modo,
Kant abbandona il campo dell’etica, che egli stesso aveva rigidamente
delimitato, e vuole determinare la questione se il deposito debba essere e che
cosa debba essere con categorie che sono inadatte a questo scopo secondo i suoi
stessi principi. (Del tutto diversamente per l’etica e per lo stesso Hegel).
Questo rinviare oltre l’actus purus dell’io noumenico in
Kant non è però un caso o una inconseguenza. Proprio i postulati della ragione
pratica mostrano che una tale trascendenza è per lui necessaria, se non vuole
far sfociare la sua etica nel vicolo cieco dell’individuo ontologicamente
isolato. Possiamo richiamarci di nuovo a connessioni universalmente note.
Primo, al postulato di una coincidenza, in ultima istanza, fra l’applicazione
delle norme etiche purificate da ogni ammiccamento alla fortuna e la felicità
come stato permanente; secondo, a quello di un progresso infinito della
perfettibilità: ai postulati dell’esserci di Dio e dell’immortalità dell’anima.
Si tratta perciò di una trascendenza. Non soltanto si va oltre il mondo
terreno, per poter porre la realizzazione di colui che si perfeziona eticamente
come parte costitutiva del sistema, ma – in contrapposizione con molte
religioni che prevedono la realizzazione dell’essere terreno in un al di là –
si deve anche abbandonare l’intero ambito dell’essere, ritornare al dover
essere del postulato. Non ci interessa qui la problematicità di una tale
posizione. Ciò che abbiamo cercato di dimostrare si limita alla costatazione,
che resta molto astratta, che perfino l’etica più decisamente formale e più
ostinatamente orientata sull’atto puramente individuale della decisione è
costretta a trascendere questo suo punto di partenza e ad elevare le categorie
decisive della vita storico-sociale degli uomini (gli oggetti del loro agire,
la fortuna, il loro perfezionamento) a momenti integranti del suo sistema. È
chiaro che, in questo modo, l’uomo stesso in quanto essenza sociale, la sua
relazione con i suoi simili e quindi, in maniera mediata o immediata, la stessa
socialità, devono stare – indipendentemente se nell’al di qua o nell’al di là –
al centro della sistematica anche in un’etica costruita in maniera soggettivo-formale.
Tale connessione risulta ancora più chiara, quasi fino alla
trivialità, in quel gruppo di teorie etiche, che si è soliti etichettare
sinteticamente (e in maniera non molto convincente), come utilitarismo.
Anch’esse hanno come punto di partenza le intenzioni degli individui. Solo che
qui l’altro è posto sin dall’inizio ineliminabilmente come partner. La
dialettica fra egoismo e altruismo (non importa come queste espressioni
appaiono dal punto di vista terminologico) costituisce necessariamente il tema
centrale dell’etica, e pertanto il carattere sociale è metodologicamente
assicurato. Da un lato, il motivo egoistico può venire assolutamente in primo
piano, specialmente finché la regolazione automatica dell’agire individuale,
egoistico, mediante l’economia complessiva vale come dogma incrollabile;
dall’altro, proprio per questo, una tale struttura della società può essere
astratta dal divenire storico e idealizzata a condizione «eterna» della
relazione fra uomo e società. In casi estremi di tal genere, questa
considerazione etica si trasforma a tal punto che appaiono rilevanti solo le
conseguenze delle azioni umane. Ma ritorneremo fra breve su questa possibilità.
In generale, si tratta tuttavia di una relazione reciproca
reale fra egoismo e altruismo; per meglio dire, si tratta del tentativo di far
derivare da motivi egoistici le intenzioni e le azioni disinteressate e cariche
di abnegazione fino all’eroismo. Ragionamenti siffatti potrebbero apparire
spesso estremamente artefatti, sofisticati. Questo non può tuttavia offuscare
la grande idea che vi è insita. Cioè che un’etica, che ha come punto di
partenza uomini «naturalmente» egoisti, fa scendere tutto ciò che vi è di
grande e progressivo nello sviluppo dell’attività umana dal cielo della
trascendenza su questa terra della socialità reale, dei doveri e della
responsabilità puramente sociali. Se tale concezione ha avuto talvolta, finché
si è combattuto in suo nome per il «regno della ragione», un accento
sovrastorico, con la vittoria della borghesia si è trasformata in una
superficiale apologetica, mentre già con la teoria dell’«egoismo razionale» dei
democratici rivoluzionari russi è emerso chiaramente il suo carattere
progressivo. Il pensatore guida di questa tendenza, Cernicewskji, nel suo
romanzo Che fare? ha indicato vari tipi che, in quanto rappresentanti
dell’«egoismo razionale», [che va] da un’attività riformatrice nella vita
quotidiana propria e altrui fino all’eroismo rivoluzionario ascetico e pieno di
abnegazione, rendono chiare quelle conseguenze della responsabilità individuale
e storico-sociale, che derivano con necessità logica dai principi di questa
dottrina correttamente intesi.
Sebbene la trattazione adeguata dell’etica marxista sia
possibile solo più oltre e anche se essa, per sua essenza, non parte
assolutamente dall’intenzione, dall’atto etico, dobbiamo accennare brevemente
già a questo punto alla sua relazione con la dottrina dell’«egoismo razionale».
Già il giovane Engels, in una lettera a Marx, criticava il rifiuto astratto di
ogni egoismo da parte degli idealisti «veri socialisti» e rilevava che
anch’essi «sono comunisti anche per egoismo». Non è questa la sede per
soffermarsi sul come tale dottrina si sia formata innanzitutto attraverso lo
sviluppo della lotta di classe, degli interessi di classe, ecc. È importante
solo che, in questo modo, si è sostanzialmente concretizzata la corrente
storico-sociale in cui è inserita ogni vita individuale, che la vita
etico-individuale deve farsi carico inevitabilmente di una responsabilità storico-sociale
verso le decisioni, i comportamenti, ecc. e – ciò che è più decisivo – che
perfino le virtù più elevate, le più socialmente determinanti, non sono
contrapposte in maniera ascetico-dualistica all’uomo «naturale», ma in
circostanze favorevoli possono essere sviluppate organicamente dalle sue
proprietà «naturali». Questo è il fondamento etico-sociale del fatto che, per
Lenin, anche nel socialismo gli uomini devono diventare uomini nuovi attraverso
la realizzazione dei loro interessi individuali all’interno della nuova
società; tutte le misure economiche di una corretta via al socialismo hanno una
tale intenzione pedagogico-sociale: incanalare l’egoismo giustificato su base
naturale in una socialità socialista. Potremo tornare solo più oltre sul come queste
tendenze, qui rapidamente sfiorate, diventino le determinazioni più prossime
della responsabilità sociale.
2. L’unità dell’etica si manifesta ancora più chiaramente là
dove essa ha come punto di partenza l’estremo opposto, l’accentuazione solo o
prevalentemente delle conseguenze. Una tale concezione, considerata in senso
stretto nella sua applicazione coerente, dovrebbe negare ogni etica,
considerarla irrilevante per l’essere e il divenire della società, in quanto la
dottrina del diritto e dello Stato (o magari l’economia) farebbero le sue
funzioni. Questa dottrina non è mai stata applicata in maniera conseguente.
Essa emerge nel paradosso di Machiavelli, secondo cui il legislatore deve
partire dal fatto che tutti gli uomini sono cattivi (amorali); sta, cioè, alla
base della concezione machiavellica secondo cui azioni individuali cattive
possono avere conseguenze socialmente utili. Ma una dottrina orientata
semplicemente sulle conseguenze, che esclude completamente l’intenzione
soggettiva, non può essere applicata nemmeno a livello giuridico. Anche
un’imputazione puramente giuridica è costretta a prendere in considerazione
momenti soggettivi come l’intenzione, la convinzione, il quadro reale o
possibile delle circostanze, ecc. La questione del perché un uomo possa essere
considerato responsabile delle conseguenze del suo agire non può essere dedotta
dalla semplice catena delle cause e degli effetti, nemmeno da un punto di vista
giuridico. Ha, dunque, ragione Hegel quando rifiuta tanto la priorità dell’intenzione
quanto quella delle conseguenze.
Il necessario inserimento dell’intenzione nell’elaborazione
etica delle conseguenze mostra però già al primo sguardo una dialettica
alquanto complicata. Sarebbe ovvio e semplice affermare che nessuno è
eticamente responsabile per le conseguenze imprevedibili delle sue azioni.
Sarebbe comunque sostenibile una tale affermazione? Supponiamo che un uomo
voglia sparare a Pietro, la sua pallottola manca l’obiettivo e colpisce a morte
Paolo. Non vi è nessuna intenzione, e però non può nemmeno essere negata la
responsabilità morale appellandosi al caso. Infatti, ogni azione si stacca –
più o meno – da colui che la compie, acquista un suo proprio sviluppo immanente
nel mezzo delle relazioni reciproche degli uomini. «Un proposito è condiviso,
non è più tuo», dice il Wallenstein di Schiller. Il problema della
responsabilità consiste in questo, che la dialettica propria dell’azione non
[ne] elimina la paternità nel soggetto, nella sua intenzione e convinzione.
Diventa un problema solo questo: fino a che punto, sotto quale aspetto, fino a
quali conseguenze, diramazioni e implicazioni esiste una responsabilità? Non vi
sono dubbi sul collegamento in genere fra azione e agente anche nelle
mediazioni più complesse. Ciò che andrebbe concretamente elaborato in una
casistica etica sono la misura e la proporzione.
Ma naturalmente ciò è impossibile in questa sede. È tuttavia
necessario fornire almeno alcuni accenni metodologici sulle linee di soluzione.
Sotto questo aspetto, Hegel ha intravisto l’essenza della questione quando ha
detto: «devo conoscere la natura generale della singola azione». Entrambe
queste determinazioni, la natura generale e la conoscenza, sono ugualmente
importanti e problematiche.
Infatti, una semplice generalizzazione unilineare
dell’azione non fa fare un solo passo avanti dal punto di vista etico. Il
paragrafo del codice sotto cui deve essere giuridicamente sussunta un’azione
singola esprime nella maniera più chiara questa generalità astratta e dimostra,
nel contempo, che esso non può dare il minimo suggerimento per la soluzione
etica. (E d’altra parte, si può viceversa dire: le grandi difficoltà, che
emergono talvolta in tali sussunzioni giuridiche, derivano dal fatto che
l’opinione pubblica, e anche la coscienza giuridica della problematica etica,
si rendono conto della semplificazione). La generalità (die Allgemeinheit)
eticamente proficua, che illumina la responsabilità, può essere trovata solo se
noi consideriamo l’azione singola come momento mosso di un agire storico-sociale
nella sua concreta e altrettanto mossa totalità e continuità. Infatti, solo
sotto tale aspetto, la generalizzazione non è un’astrazione formale e priva di
contenuto, ma è un tipo di astrazione che viene compiuto dallo stesso processo
e riprodotto più o meno correttamente dalla coscienza esterna (anche da quella
dell’agente). La generalità ha cioè, in una decisione etica, il suo passato
storico-sociale e un futuro che sorge dallo stesso processo. È dunque
importante il posto che occupa nel processo storico-sociale, in virtù della
dialettica interna del suo nucleo essenziale, l’intenzione «di per se stessa» –
quella che è, in maniera oggettivamente immanente, alla base della singola
azione e che non è affatto necessariamente identica all’intenzione consapevole
dell’azione in questione –, in quale connessione essa si inserisce, quali
tendenze favorisce o ostacola. Solo così può venire in essere con chiarezza
crescente una generalità concreta, eticamente vincolante. Prendiamo la
relazione del poeta Stefan George con Hitler. L’esteta aristocratico ha
comprensibilmente rifiutato con asprezza la grettezza plebea di Hitler ed è
morto in esilio volontario piuttosto che divenire il poeta laureatus
dell’hitlerismo. E tuttavia, nella sua poesia più tarda si esprime un’idea, un
atteggiamento, la cui intenzione intima è orientata verso l’essenza
storico-sociale dell’hitlerismo incombente ed è oggettivamente parte della
preparazione di quest’ultimo. Il fatto che George abbia forse salutato un
fascismo aristocratico alla Mosley e rifiutato solo l’aspetto ordinario delle
forme fenomeniche tedesche non può diminuire la sua responsabilità, in quanto
il generale, nel senso in cui lo intendiamo noi, dell’hitlerismo è, in tutti i
fenomeni piccolo-borghesi, un aristocraticismo irrazionalistico, una
generalizzazione dell’intenzione più profonda di George.
Non è naturalmente necessario che questa generalità acquisti
una forma così chiara solo nel corso della storia. Può essersi già delineata
nel corso dello sviluppo sociale fino a questo momento. Si pensi ancora una
volta all’esempio del deposito di Kant. Simmel l’ha criticato in questi
termini: se l’individuo che lo sottrae nega in generale la proprietà privata,
l’argomentazione di Kant perde il suo fondamento. Io credo che qui Simmel non
colga il reale senso profondo di Kant. Egli è rispetto a Hegel nel torto quando
chiarisce che la sua sottrazione contraddice logicamente il concetto oggettivo
di deposito; ma l’intenzione – nel senso stabilito sopra – di colui che se ne appropria
contiene un’affermazione della proprietà privata e, insieme, del deposito e fa
emergere quindi una contraddizione etica.
Proprio queste analisi delle conseguenze dimostrano che
Hegel ha rigettato con buone ragioni entrambe le concezioni etiche, unilaterali
ed estreme. Infatti, la responsabilità etica deriva da una particolare sintesi
che unifica in sé tanto l’intenzione quanto la conseguenza, ma in un modo che
le supera e le modifica entrambe. L’idea che così ne deriva si rafforza ancora
se riflettiamo sul momento soggettivo della determinazione hegeliana trattata
sopra: sulla conoscenza (della generalità). Che cosa conosciamo e come? Non si
tratta nemmeno, in questo caso, di un concetto di imputazione astrattamente
giuridico, come forse nella cura previdente del diligens pater familias. La
conoscenza appartiene da un lato alla vita storico-sociale, è dunque momento di
un processo; dall’altro non è identica alla previsione delle conseguenze attese
nel momento dell’azione. Ciò è impossibile già per il fatto che l’oggetto di
questa conoscenza è il generale già trattato. Se però, d’altro canto, vogliamo
prendere in considerazione la dialettica soggettiva strettamente collegata con
questa dialettica oggettiva, dalla quale deriva, dobbiamo tener conto del fatto
che è possibile prevedere il corso della storia – e anche questo soltanto col
marxismo – solo in modo molto generale. Dietro l’espressione hegeliana, che
suona forse mitologica, dell’«astuzia della ragione», vi è il fatto
indiscutibile della vita storico-sociale: che, cioè, le conseguenze delle
azioni umane – siano esse individuali o collettive – non corrispondono alle
intenzioni, che esse vanno qualitativamente oltre queste ultime.
Se questo è giusto – e si tratta di un fatto fondamentale
dell’essere umano – quale senso può ancora avere il «conoscere» hegeliano? Noi
crediamo che proprio in questo si esprime il giusto significato etico del
generale. Se le conseguenze fossero esattamente prevedibili – per un intelletto
addestrato a tale scopo –, l’agire sociale diventerebbe qualcosa di meramente
tecnico. La responsabilità per il sì o per il no riguarderebbe un semplice
calcolo e non necessiterebbe di un’analisi etica, proprio come l’ingegnere è
responsabile del fatto che il ponte non crolli. Ciò che viene affermato o
negato è tuttavia un generale più o meno determinato, ma in ogni caso concreto;
ad esempio, i seguaci o gli oppositori della Rivoluzione francese non sapevano,
e non potevano sapere, che favorivano o ostacolavano oggettivamente il sorgere
del capitalismo francese. Per la loro responsabilità etica, questa conoscenza a
posteriori non entra nemmeno in discussione.
L’«astuzia della ragione» determina dunque un orizzonte –
storicamente diversificato – ma sempre ampiamente definito, nel cui ambito si
può parlare di responsabilità in senso etico. In questo ambito di vita essa
tuttavia sussiste e l’individuo non vi si può sottrarre. Certo, possono
sopravvenire circostanze che provocano un pentimento, un cambiamento, ma
neanche ciò può cancellare completamente la responsabilità precedente. I
girondini a partire da un dato momento hanno combattuto contro i giacobini, ma
una tale svolta non poteva annullare la loro corresponsabilità per tutto ciò
che era accaduto fino a quel momento. Proprio l’accanimento con cui gli
apostati lottavano contro coloro che erano stati loro compagni di ideali
dimostra come questa struttura sia profondamente ancorata all’essenza
dell’uomo.
Il medesimo stato di cose emerge, in maniera forse ancora
più chiara, se tentiamo di chiarire ulteriormente l’essenza etico-sociale
dell’agire. Finora abbiamo parlato solo di quella responsabilità che si lega ai
fatti concreti degli uomini. Il concetto sociale di agire ha però anche
un’altra dimensione. Nessun atto umano si esaurisce, infatti, in un ambiente
sociale esattamente determinabile, ma è nel contempo e inseparabilmente, nei
limiti in cui si riconnette alla vita pubblica, un momento che favorisce e
ostacola un processo sociale. Da ciò consegue che il concetto di neutralità,
dell’astenersi dall’agire qui non ha senso; sotto questo aspetto, anche il non
agire è un agire che – in relazione alla responsabilità – non si differenzia,
in linea di principio, dall’agire attivo vero e proprio. Hegel ha formulato in
maniera molto plastica questa costellazione nella Fenomenologia: «Innocente è
quindi soltanto il non operare come l’essere, non di un fanciullo, ma
addirittura di una pietra». Questo vuol dire che l’astenersi dall’agire implica
sempre un’accettazione o una negazione di quella situazione, struttura,
istituzione, ecc., ciò che di solito in un’azione attiva, orientata
positivamente o negativamente, forma il nocciolo dell’intenzione.
Vi sono qui naturalmente differenziazioni, che possono
perfino avvicinarsi a zero, se l’azione in questione ha un carattere
prevalentemente privato. (Va qui notato di passaggio che una simile dialettica
si ha anche nella vita privata, solo che oggetto dell’intenzione sono gli
individui singoli). Naturalmente, le situazioni che la vita sociale produce
sono, proprio sotto questo aspetto, enormemente diverse. E questo già in
relazione alla semplice possibilità del non agire; se, ad esempio, scioperano
le maestranze di una fabbrica, vi è oggettivamente solo un sì o un no;
l’«astensione» è qui semplicemente identica al no. Ma anche là dove la
situazione, considerata in astratto, consente molto bene una neutralità, questa
ha comunque, a seconda dello stadio dello sviluppo storico, una convergenza
sull’accettazione o sul rifiuto della generalità in questione e questa tendenza
si fa strada o si blocca a seconda della situazione storica. Il giovane Hegel
si richiama al fatto che ad Atene, all’epoca delle rivolte, era stata
pronunciata la sentenza di morte contro gli «apragmosini politici» e prosegue,
nella direzione delle nostre considerazioni iniziali: «l’apragmosina
filosofica, per sé [non disposta] a scegliere un partito, è per se stessa
carica di morte per la ragione speculativa». Per lo stadio attuale della nostra
ricerca, da ciò consegue, in primo luogo, che per quel che riguarda la
responsabilità, tutti questi modi di comportamento devono essere
straordinariamente differenziati anche a seconda dell’individualità, della sua
situazione sociale, ecc. Può variare profondamente non solo il reale giudizio
degli individui, ma – ciò che è più importante – anche la possibilità oggettiva
della conoscenza di quella generalità che è in ultima analisi alla base
dell’intenzione espressa nell’azione. L’espressione di Cristo «non sanno ciò
che fanno» indica qui un polo [della questione], mentre l’espressione hegeliana
citata sopra sull’apragmosina politica e filosofica indica l’altro.
Tuttavia, la differenziazione storica procede ancora oltre.
Si pensi alla nostra conoscenza attuale circa la mancanza di sbocchi economici
dell’economia schiavistica antica. È chiaro che dobbiamo, di conseguenza,
giudicare le utopie reazionarie dell’antichità in maniera storicamente diversa
da quelle dell’epoca moderna, con le prospettive oggettive dell’economia
capitalistica che si allargano; dunque Platone diversamente da De Maistre.
Sebbene in nessuno dei due casi potesse essere presente questa idea né su un
piano oggettivamente sociale, né su quello soggettivo personale, resta tuttavia
aperta la questione se essa non sia stata attiva, e non in maniera
latente-immanente, in ciò che sin qui abbiamo chiamato intenzione dell’azione.
Perfino in un consenso condizionato la responsabilità dovrebbe essere formulata
diversamente. Oppure, prendiamo l’esempio del don Chisciotte. La inevitabile
comicità delle sue azioni, che scaturisce dalla sua convinzione più pura,
rinvia a una tale ignoranza oggettiva della generalità che è impossibile
trascurarla completamente nell’analisi della responsabilità.
Tutto questo deve circoscrivere semplicemente l’ambito della
problematica che sorge a questo punto e non vuole affatto significare che si
pretenda di elencare anche solo le possibilità tipiche più importanti e, ancora
meno, di trattarle concretamente.
Ma già questo quadro astratto rinvia a tratti essenziali del
modo etico di trattare la responsabilità. Vediamo che la storia crea per
l’etica un Giano bifronte di continuità e cambiamento qualitativo della
struttura. Prendere in considerazione soltanto il secondo momento potrebbe
portare facilmente a un relativismo storico. Solo nella inseparabilità
dialettica dal primo – e quindi dalla continuità dell’eredità etica, dei valori
etici – può sorgere quell’assoluto etico, i cui tratti essenziali sono da un
lato una contraddittorietà dialettica (quindi, all’opposto di Kant: il
conflitto dei doveri, il conflitto all’interno della responsabilità come uno
dei punti centrali dell’etica); e, dall’altro, un assoluto che contiene in sé
sempre la relatività storico-sociale come momento superato e da superare. Una
trattazione soddisfacente di un problema quale il conflitto Antigone-Creonte ci
sembra altrimenti impossibile. E anche a un livello più generale della
connessione e del conflitto nella trasformazione storica del bourgeois e del
citoyen, incontriamo la stessa connessione, la quale può essere chiarita solo
mediante il riferimento dialettico reciproco e il superamento reciproco di
continuità e trasformazione qualitativa e strutturale.
3. Crediamo: con l’entrata in scena del marxismo tutte le
questioni qui trattate, che riguardano la responsabilità, si pongono in una
luce nuova. Sembra dunque opportuno discutere brevemente almeno i principi più
generali della nuova impostazione. Cominciamo con una delimitazione negativa:
la dissoluzione, divenuta necessaria e di cui abbiamo parlato finora, delle due
polarizzazioni unilaterali dell’etica non è una proprietà distintiva del
marxismo. La si trova – sia pure in termini contenutistici e metodologici
diversi – in Aristotele, nella Scolastica, in Hegel; il marxismo dà a questa
tendenza solo un accento nuovo. In quanto detto finora, abbiamo mostrato che
qualunque sia il punto di partenza ideologico e metodologico dell’etica, le sue
sintesi sfociano sempre necessariamente nello sviluppo storico-sociale
dell’umanità. Fra atto etico, convinzione etica e responsabilità da un lato, e
destino sociale dall’altro, vi è dunque una connessione che, sia pure complessa
e mediata, è tuttavia ineliminabile. L’elemento comune a ogni etica premarxista
è tuttavia che in questa relazione reciproca le tendenze etiche che
privilegiano l’individuo detengono il primato su quelle sociali. Anche quando i
singoli sistemi sono contrapposti sotto tutti gli altri aspetti – pensiamo
semplicemente a Platone e a Epicuro –, su quest’unica questione regna tuttavia
un accordo generale. E nemmeno eventi così violenti come la grande Rivoluzione
francese sono riusciti a smuovere completamente tale convinzione. Si può
tutt’al più notare in alcune rappresentazioni pessimistiche, come le lettere
estetiche di Schiller, una ritirata appena accennata. Resta comunque
predominante l’etica dell’individuo, sia pure in una relazione più o meno
conseguente col suo destino sociale.
Si esprime qui una grande idea: l’uomo, in quanto creatore
responsabile del suo proprio destino, determina così il destino dell’umanità,
di quel tipo di uomo che diventa predominante. Molte tendenze significative
dell’etica concentrano le forze essenziali nell’elaborazione dei tratti
fondamentali di quei tipi che sono adatti a condurre l’umanità sulla strada
giusta. È sufficiente richiamare qui: l’antico saggio, il suo ritorno sotto
diversa forma nel sage dell’Illuminismo, la dottrina dei discepoli di Cristo.
(Anticipando ciò che sarà detto più oltre, emerge già qui almeno un lato del
nostro problema specifico. La questione non è, infatti, che il filosofo in
certi casi si assuma una particolare responsabilità per la dimostrazione
sociale del tipo da lui indicato come modello). Solo per accennare alla
ricchezza dei problemi che qui sorgono, si pensi al dramma di Tolstoj La luce
nelle tenebre.
Ritorniamo al tema specifico: il marxismo ha una posizione
radicalmente nuova proprio sulla questione del primato: in breve, è lo sviluppo
sociale, più precisamente lo sviluppo delle forze produttive, che crea gli
uomini ad esso necessari. Poiché, sin da quando il marxismo è sorto, si è
sentito ripetere l’obiezione che non ha un’etica e che sostituisce questa con
l’economia o la sociologia, vogliamo inserire qui alcune note chiarificatrici.
Prima di tutto: non si può scambiare il principio sociale del marxismo con
nessuna delle teorie del milieu sociale, ecc. Queste rispecchiano la
cosificazione delle relazioni umane nel capitalismo e le fanno irrigidire
concettualmente molto oltre il modello; contrappongono perciò l’individuo
(l’uomo) a un ambiente codificato soggetto a una legalità propria, estranea
all’uomo, inumana. Le leggi dell’economia e quelle della società sono certo
anche per il marxismo leggi oggettive, cioè tali che funzionano
indipendentemente dalla coscienza conoscente. Però non è un’oggettività
estranea all’uomo a costituire l’oggetto e il sostrato dell’economia, bensì
solo e soltanto il sistema (e il mutamento) delle relazioni fra gli uomini, le
cui leggi essi – considerati individualmente – non hanno creato, ma che possono
essere poste esclusivamente mediante il loro agire, le loro influenze
reciproche, il loro influsso individuale e comune sulla natura in movimento. Nel
marxismo viene dunque elaborata per la prima volta in maniera coerente l’idea
che economia, società, storia non sono altro che lo sviluppo del sistema delle
relazioni umane, che le leggi oggettive specifiche che in esse sorgono –
d’altronde complicate e largamente mediate – sono sintesi delle azioni umane.
Ciò che in Hegel appare ancora in forme mitologiche, acquista qui
un’oggettività scientifica.
Questa presentazione sommaria, piuttosto unilaterale, deve
semplicemente servire a dare una prospettiva ai problemi dell’etica e prima di
tutto, naturalmente, a quelli che riguardano la responsabilità. Se dianzi
abbiamo definito una grande idea la considerazione che l’uomo è il creatore del
suo proprio destino, il marxismo diventa sotto questo rispetto la concretizzazione
e il coronamento dello sviluppo dell’etica fino a questo momento. Infatti, la
tesi secondo cui l’uomo crea se stesso viene condotta fuori dalla concezione
idealistica hegeliana solo dal materialismo dialettico: il lavoro, in cui
l’uomo diventa uomo, fa di se stesso un uomo, può acquistare un significato
universale solo quando venga considerato alla lettera come lavoro fisico (che è
nello stesso tempo anche spirituale, il demiurgo della spiritualità), se dunque
dall’ontologia dell’uomo sparisce ogni trascendenza sovrumana.
Non è oggetto della nostra ricerca approfondire una
concezione immanente del mondo. Sia consentita solo un’osservazione: che in
questo modo anche dal concetto etico di responsabilità viene eliminato
altrettanto radicalmente ogni rinvio a elementi trascendenti – abbiano questi
il carattere di un essere trascendente, come in molte religioni, o quello di un
postulato trascendente come in Kant. Questa negazione si trasforma però qui in
un’affermazione concreta: il rifiuto di ogni al di là non fa ricadere su
un’individualità isolata né conoscenza, né coscienza, come nel vecchio
materialismo, ma, all’opposto, stabilisce un’unione intima, anche se certamente
contraddittoria e alquanto mediata, fra l’uomo in quanto personalità e in quanto
ente generico; e qui è da notare che per il marxismo il genere è un concetto
non soltanto biologico-antropologico, ma anche, e soprattutto, storico-sociale.
Non si deve dunque costruire un ponte complicato – come in ogni etica
idealistica – su un dualismo autocreato; l’unità dialettica delle tensioni è,
piuttosto, data naturalmente e socialmente. «L’individuo è – dice Marx –
l’essenza sociale (…) La vita individuale e quella generica dell’uomo non sono
distinte». Solo la loro forma relativa di realizzazione, la dialettica
dell’unità delle contraddizioni si trasforma costantemente nel corso dello
sviluppo storico-sociale. Il fondamento di questa unità, che si ottiene e si
riproduce continuamente nel mutamento, è il lavoro. Dice Marx: «L’oggetto del
lavoro è (…) l’oggettivazione della vita generica dell’uomo».
Questa immanenza in tutto ciò che riguarda l’uomo, la
stringente necessità oggettiva in tutto ciò che segue dalle leggi di movimento
delle relazioni umane, sono state molto spesso equivocate come fatalismo e,
perciò, come esclusione dell’etica dal sistema del marxismo. Le due cose sono
connesse e sono facilmente confutabili. Anche chi conosce Marx solo
superficialmente deve sapere che nella sua economia le leggi si trasformano
continuamente in tendenze, che esse in casi decisivi delimitano solo uno spazio
oggettivo all’interno del quale l’azione umana prende la decisione. Si pensi
alla definizione della giornata lavorativa. Marx mostra le tendenze
capitalistiche che spingono verso il massimo e quelle proletarie che aspirano
al minimo, un’antinomia i cui due termini «vengono entrambi stabiliti allo
stesso modo dalla legge dello scambio delle merci». È dunque la lotta fra
capitalista complessivo e operaio complessivo che decide sulla giornata
lavorativa.
Non si dica che qui si tratta solo di categorie
«sociologiche»; una tale affermazione non tiene, infatti, in nessun conto
l’essenza della cosa: che, secondo la concezione di Marx, il sociale non è
altro che una determinazione precisa dell’uomo stesso, della sua relazione con
gli altri uomini. Capitalista complessivo e operaio complessivo sono dunque qui
solo sintesi sociale; in realtà, si tratta del fare e del tralasciare degli
uomini, i quali, nella grandezza come nella miseria, fanno la propria storia, però
«non in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle
circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinata dai fatti
e dalla tradizione». Per quanto le leggi dell’economia, le mediazioni fra
individuo e ente generico possano essere così molteplici e mediate, la
struttura indicata sopra di uno spazio concreto – entro il cui ambito concreto
vengono prese dall’uomo decisioni concrete – di un’antinomia concreta che lo
induce a una scelta responsabile, continua a sussistere per la totalità della
vita umana.
Non possiamo qui naturalmente nemmeno accennare a tutta la
ricchezza delle determinazioni che così sorgono. Basti solo ricordare il fatto
che Marx, per l’individuo, concepisce perfino l’appartenenza di classe, che
l’idea fondamentale di Lenin, per quel che riguarda la concezione del partito e
di altre organizzazioni sociali, negli aspetti decisivi, prende questa
direzione. Se noi dunque concludiamo la nostra breve panoramica con l’accenno
alla relazione del marxismo con l’utopia, lo facciamo prima di tutto per
mettere in luce in maniera ancora più chiara di quanto sia stato fatto finora
la sua essenza determinante per l’etica. Il rifiuto dell’utopismo ha qui due
momenti importanti. Il primo contesta al marxismo la possibilità di una
predeterminazione utopica di quelle concrete forme di società che sono chiamate
a sciogliere le contraddizioni di una formazione sociale. Proprio perché qui,
per la prima volta, sta al centro la conoscibilità scientifica delle leggi e
della tendenza di sviluppo della vita sociale, viene sottolineato con forza il
suo carattere di approssimazione, la sua riduzione ai principi della linea
evolutiva. Lenin rifiutò, perché metodologicamente impossibile, l’ideale
conoscitivo di Bucharin, di una sociologia capace di fare previsioni
«astronomicamente esatte». In secondo luogo, questo rifiuto
teoretico-conoscitivo dell’utopismo è collegato con i processi di pensiero che,
attraverso la mediazione della concezione generale della storia, sfociano nei
problemi dell’etica. L’utopia come forma pone uno stadio già pronto, i cui
contenuti e le cui forme devono garantire la convivenza armonica degli uomini,
la quale – in qualche modo sempre – agli uomini, in quanto singoli e in quanto
genere umano totale, piove dal cielo. Al contrario, il marxismo sottolinea,
anche per il futuro, che gli uomini fanno da sé la loro storia, che essi e il
sistema di riferimento ai loro simili sono il risultato della loro propria
attività, che tutti i contenuti e le forme del futuro si sono sviluppate e si
svilupperanno dal concreto fieri dell’umanità, indipendentemente dal fatto che
questo avvenga con falsa o giusta coscienza. La giusta coscienza del socialismo
fondato da Marx è dunque, prima di tutto, quella della giusta strada: dello scopo
nei suoi principi generali, dei rispettivi mezzi nella loro particolare, spesso
mutevole specificità, dei passi successivi nella loro particolarità. Che da qui
seguano differenziazioni specifiche della responsabilità lo si può vedere –
crediamo – già da questo brevissimo schizzo. La teoria della conoscenza del
marxismo, secondo cui la prassi fornisce il criterio della teoria, ha
conseguenze profonde anche per l’etica (supera, in un certo senso, il dualismo
di ragion «pura» e ragion «pratica»).
Non è questo il luogo per trattare dell’influsso del
marxismo sul pensiero filosofico. Esso è molto più forte di quanto di solito si
supponga ufficialmente; se, infatti, la polemica impone a una filosofia una
determinata struttura nell’impostazione dei problemi, uno spettro di posizioni,
uno svuotamento della concezione dell’uomo che non porta a nulla, allora è
presente un influsso, proprio come nel caso di filiazioni che tendono a
sminuirlo. Inoltre, determinate analogie sorgono anche dal fatto che il
marxismo, come molte altre correnti, è una reazione alla crisi dell’umanità
iniziatasi nella metà del XIX secolo. In tali casi, possono sorgere
parallelismi metodologici nella domanda e nella risposta, anche nella totale
contrapposizione delle direzioni. Quanto più acuta diventa questa crisi, quanto
più chiaramente si delineano le divergenze, tanto più fortemente tali tendenze
possono giungere a espressione.
4. Tralasciamo la storia dello sviluppo del marxismo con i
suoi molteplici punti di svolta, per riuscire a concretizzare il problema che
ci siamo posti partendo dalla situazione del presente, dalle decisioni di cui
essa ci fa carico, dalla responsabilità che queste ultime comportano.
Considerato dal punto di vista della nostra questione,
neanche il marxismo è lo stesso di un secolo fa. Proprio a partire da questa
distanza, non è la stessa cosa se si tratta di un piccolo gruppo, spesso
illegale, di un partito di massa nel capitalismo, di un partito dominante della
lotta per il socialismo in un paese minacciato da un intervento armato, ecc. Il
presente è certamente il risultato di tutta questa storia. Esso contiene però –
crediamo – anche qualcosa di qualitativamente nuovo. Bisogna perciò prima di
tutto domandarsi: l’attuale situazione dell’umanità contiene effettivamente
momenti che si possono con ragione considerare realmente nuovi nella storia?
Giacché, altrimenti, il problema dovrebbe essere riferito primariamente alla
generalità della storia e solo determinate applicazioni contenutistiche
designerebbero l’esigenza del giorno. Mentre, a nostro avviso, si tratta di
molto di più: che il problema dell’oggi si fonda naturalmente sui risultati
della storia, è accresciuto da questi.
In che cosa consiste il nuovo per un agire responsabile ai
nostri giorni? Cominciamo con lo sviluppo della tecnica: durante le due guerre
mondiali essa ha imposto una crescente totalizzazione della strategia di
guerra. È superfluo parlare del suo ulteriore sviluppo dopo il 1945. È noto
che, con l’entrata nell’epoca atomica, si è affermata sempre più a livello di
massa la sensazione della decadenza della cultura umana. Non senza fondamento
oggettivo. Certo, a livello politico è spesso al servizio di un dominio
imperialistico del mondo, a livello ideologico si mescola altrettanto spesso
con gli accenti fatalistici secondo cui la tecnicizzazione è già andata molto
in là nel controllo dell’umanità e la «massificazione», altrettanto fatale,
costituisce il tratto fondamentale della vita sociale della nostra epoca.
Questa tendenza è stata ancora più rafforzata da un’altra caratteristica
essenziale della guerra divenuta totale. Mentre ancora la prima guerra mondiale
scoppiò cogliendo di sorpresa l’opinione pubblica, ora la guerra ha bisogno di
un’ampia preparazione ideologica di tutte le masse. È allora un contrassegno
importante del nostro tempo che la propaganda ideologica dell’annientamento
fatale inevitabile si sia trasformata in una rivolta senza precedenti contro
tale fatalità. Centinaia di milioni credono ormai fermamente che lo scoppio
della guerra si possa evitare, che il raggiungimento di tale obiettivo dipenda
dall’attività delle masse – e quindi degli individui che le compongono. E
queste non sono cieche speranze, illusioni infondate. Si tratta piuttosto di un
prodotto di importanti eventi storico-mondiali. Sarà sufficiente elencare
semplicemente i più rilevanti: il superamento del socialismo in un solo paese,
costantemente minacciato, e la formazione di Stati socialisti con una
popolazione di 800 milioni di persone; la lotta di liberazione dei popoli
coloniali che trasforma una riserva materiale e umana esclusiva
dell’imperialismo aggressivo in una zona potenzialmente neutra. La volontà
sempre più determinata e consapevole delle masse a conquistare la pace poteva
crescere solo su questo terreno; il suo rafforzamento retroagisce, tuttavia,
sul solidificarsi di tali condizioni.
Viene così disegnato – crediamo – lo spazio storico e
delineato l’ambito reale per esprimere chiaramente il problema della specifica
responsabilità sociale oggi. Il contenuto centrale ci è già divenuto chiaro: è
la responsabilità della guerra o della pace. Ciò che prima era la
responsabilità di una cerchia relativamente ristretta, ora è diventata una
questione dell’umanità. Soprattutto nell’epoca moderna, le masse sono diventate
sempre più semplici oggetti della guerra. A partire dal contromovimento, il
pacifismo ha annunciato una pura etica dell’intenzione: il rifiuto individuale
di ogni partecipazione ad esso ha l’accento di un modello, di un comportamento
intenzionalmente imitativo. Poiché, tuttavia, la struttura ideologica
scaturisce da azioni individuali – e passive – ed è esclusivamente da ciò
spinta a scatenare una reazione a catena, e poiché il rifiuto generalmente
astratto della guerra elimina ogni concretezza sociale, dall’etica
dell’intenzione sorge necessariamente un utopismo. Il tipo di comportamento
socialista rivoluzionario (trasformazione della guerra imperialistica in una guerra
borghese) pone certamente il problema storico-sociale in termini affatto
concreti; contiene la negazione della guerra concepita in termini determinati e
concreti e carica l’individuo che agisce di una grande responsabilità: egli non
deve fermarsi alla semplice negazione e alle conseguenze che ne derivano per il
suo proprio destino, ma porta una responsabilità anche per il mezzo a cui
ricorre nella sua mediazione e per il risultato degli atti compiuti. Già queste
linee molto generali mostrano la complicata dialettica nell’agire sociale
concreto. La responsabilità primaria decisiva è per la deliberazione stessa:
nella decisione qui presa viene infatti negato un determinato fenomeno
storico-sociale, la guerra imperialistica. La responsabilità della deliberazione
contiene dunque già la responsabilità per la giustezza del giudizio che vi è
sotteso. Inoltre, il no qui espresso non è più una negatività astratta come nel
pacifismo; esso contiene in maniera inseparabile un controstrumento sociale, il
dovere di suscitare un contropotere sociale di opposizione alla guerra. La
responsabilità si allarga e si concretizza dunque anche qui a partire dal
contenuto sociale del movimento di opposizione da porre in moto. Infine, poiché
suscitare un agire sociale concreto di quanti più uomini possibile è lo scopo
posto, i mezzi impiegati, il destino degli uomini che vi prendono parte sono
allo stesso modo oggetto di responsabilità.
**Così nel testo. (N.d.T.)
Scritto negli anni sessanta, questo appunto non poteva certo prevedere l'imbarbarimento dei nostri giorni quando, chi vuole schierarsi contro l'imperialismo, è costretto ad accettare come compagni di strada personaggi di cui, potendo, farebbe volentieri a meno. Certo la ragione non è solo astuta ma anche ironica e feroce.
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