"L'assoluto
è fra noi", quest'espressione significa che le concezioni che fino a Hegel
si sono avute dell'assoluto come di un qualcosa di non interamente dominabile
dall'uomo, ormai sono comprese e, essendo comprese, liberano l'uomo dal timore
che ci possa essere un qualcosa, un assoluto che lo trascenda o addirittura in
qualche modo lo minacci. L'assoluto è fra noi, ma non per questo l'assoluto è
compiuto; è cioè compiuta una concezione errata dell'assoluto, ma il sapere è
un sapere sempre totalmente aperto. (F. Valentini)
http://ilcomunista23.blogspot.it/2015/01/la-legge-la-liberta-la-grazia-remo_29.html ù
http://ilcomunista23.blogspot.it/2015/12/hegel-e-la-dialettica-remo-bodei.html
http://ilcomunista23.blogspot.it/2015/01/la-civetta-e-la-talpa-il-concetto-di.html
http://ilcomunista23.blogspot.it/2015/09/hegel-la-dialettica-valerio-verra.html
http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/03/hegel-e-la-sua-fenomenologia-fulvio-papi.html
http://ilcomunista23.blogspot.it/2015/08/hegel-la-comprensione-dellintero-carlo.html
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http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/04/soggetto-oggetto-commento-hegel-remo.html
http://ilcomunista23.blogspot.it/2015/05/del-ragionamento-dialettico-stefano.html
http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/05/liberta-e-necessita-hegel-sartre.html
http://ilcomunista23.blogspot.it/2015/08/il-riconoscimento-in-hegel-carla-maria.html
http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/06/hegel-la-ragione-come-mondo-costantino.html
https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/07/il-senso-della-politica-francesco.html
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"La fenomenologia dello spirito nel pensiero si Hegel" - Francesco Valentini (https://www.teche.rai.it/1990/06/la-fenomenologia-dello-spirito-nel-pensiero-hegel/)
Francesco Valentini, Soluzioni hegeliane, Milano, Guerini e Associati 2001
*Da: www.filosofia.it
L'oggettività è così quasi soltanto un involucro sotto il quale si trova nascosto il concetto. Nel finito non possiamo vedere o esperire che il fine viene veramente raggiunto. L'attuazione del fine infinito consiste così soltanto nel superare l'illusione che ancora non sia attuato. Il bene, ciò che è assolutamente bene, si compie eternamente nel mondo, e il risultato è che esso è già compiuto in sé e per sé, e non ha bisogno di aspettare noi. È questa l'illusione in cui viviamo e, al tempo stesso, è quest'illusione soltanto la forza operante su cui riposa l'interesse del mondo. [Soluzioni...p.233n]
Torneremo, nel corso di questa breve recensione, sull'idea
hegeliana del Bene e la sua genesi, seguendo il prezioso e limpido commento di
Francesco Valentini. Emergerà, in chi si appresta a leggere Soluzioni
hegeliane, l'esigenza di comprendere il pensiero di Hegel a partire da Hegel, e
al contempo l'esigenza sarà pienamente soddisfatta. Sarà, per es., soddisfatta
l'esigenza di chi voglia comprendere il realismo hegeliano, la soluzione
offerta da Hegel al problema kantiano del Bene e della sua realizzazione; il
lettore interessato, perciò, sospenda inizialmente il giudizio, se accogliere o
meno le soluzioni proposte da Hegel, e segua fino in fondo la traccia che F.
Valentini disegna così lucidamente attraverso tutta l'opera del filosofo.
Dalla
Prefazione: "Gli scritti raccolti nella parte prima di questo libro
concernono temi particolari del pensiero di Hegel, i due della parte seconda
sono dedicati alla filosofia di Eric Weil, pensatore nel quale la presenza di
Hegel è molto forte, a nostro avviso dominante. E tale presenza è stata
tematizzata. Anche questi scritti, dunque, possono considerarsi
hegeliani." (p.11)
I temi hegeliani trattati da F. Valentini nella prima
parte del suo testo sono la società civile, il mondo della ricchezza, la
moralità, le prime categorie della Logica, l'interpretazione dell'illuminismo,
il sapere assoluto, la genesi della razionalità. I testi hegeliani cui l'A. fa
riferimento sono la Fenomenologia dello spirito, la Scienza della logica,
l'Enciclopedia, ma anche l'Estetica e la Filosofia del diritto; il sistema
hegeliano viene presentato al lettore nella sua intima e viva articolazione,
un'opera che si vuole in sé completa, tuttavia 'plastica' e soprattutto
comunicante.
Se la difficoltà della comunicazione filosofica è avvertita da più
parti non solo come problema ma come condizione stessa del filosofare, le
soluzioni proposte da Hegel al riguardo, e presentateci qui dall'A., hanno lo
scopo dichiarato di sciogliere il nodo intorno a cui le filosofie della
riflessione, del dualismo, del finito, e del problema, continuamente si alimentano.
"È solo con il superamento delle filosofie della riflessione che l'uomo
può veramente dirsi libero, ossia del tutto al riparo dalla paura degli dèi e
dalla paura dell'Oggetto. Ed è questo dato essenziale […] che giustifica la
nozione di sapere assoluto, espressione di eventi essi stessi assoluti. Il qual
sapere assoluto non è, come molti stranamente dicono, un sapere definitivo e
inerrante, […] ma è un sapere che ha in sé e in sé soltanto la sua misura. Ma è
appunto un sapere […]." (p.12)
Le critiche rivolte a Hegel - allo Hegel
politico, alla <chiusura> del sistema, alla dialettica infedele a sé stessa, alla
fine della storia, al logocentrismo - sono a più riprese considerate dall'A.,
anche con precisi riferimenti bibliografici in nota, rappresentando nel loro
complesso "un caso particolarmente interessante nella storia della critica
filosofica, perché non sembrano tenere conto di un dato elementare, cioè del
fatto che Hegel considerava la filosofia come memoria e come espressione del
proprio tempo, non solo, ma anche come indizio sicuro di una crisi del tempo, e
perciò di sua natura ritardataria." (p. 14)
Questo semplice
fraintendimento che tuttavia persiste - Ricoeur e il suo coraggio di <rinunciare a Hegel> o
di considerarlo 'solo' come un interprete - deve pur avere le sue ragioni, e
l'A. indica nella <rivincita delle filosofie della riflessione> la ragione fondamentale di questo qui pro quo: il
"bisogno di tornare a una filosofia che parta dall'individuo e sottolinei
la sua tensione ineludibile verso l'Essere, a una filosofia del timor Domini e
in ogni caso del problema. […] L'hegeliano <coraggio della verità> diventa così coraggio del
dubbio, virile incertezza,[…]. Il Finito diventa principio ultimo di
spiegazione: è l'individuo Napoleone che spiega la sua opera politica, e non -
come sembra evidente - la sua opera politica che spiega Napoleone." (pp.
15-17)
Nella seconda parte del testo l'A. commenta la Logica della filosofia di
Eric Weil, concentrandosi sull'insoddisfazione manifestata da Weil nei
confronti proprio della nozione hegeliana del sapere assoluto, ritenendo quest'ultimo
che Hegel abbia lasciato incolmata la distanza tra il sistema e la realtà
rispecchiata. "Weil non trova in Hegel il concetto di azione ragionevole,
concetto che ritiene la scoperta essenziale del pensiero moderno e che si deve
a Kant. […] L'esigenza di Weil è quella della stretta unità del momento
teoretico e del momento pratico […]. In realtà l'uomo d'azione […] nell'atto
dell'agire <dimentica> il vero […]. Ci sembra cioè ineliminabile una
quasi-estrinsecità tra l'intendere e il volere, tra chi vuole conoscere il mondo
e chi vuole cangiarlo, in ultima istanza tra il Passato che è il luogo del Vero
e il Futuro che realizza il Bene. […] Di tutto ciò si troverà un qualche
svolgimento in queste pagine. E si vedrà che, a nostro avviso, non si tratta di
tornare a Kant dopo Hegel, ma piuttosto di ripensare Kant attraverso Hegel e
anzi apud Hegel" (pp.18-19)
Per il lettore interessato al pensiero e
all'opera di Hegel, Soluzioni hegeliane, questa raccolta di saggi di F.
Valentini, giunge non solo opportuna ma decisiva, ai fini della ricerca
filosofica e soprattutto della comprensione dei testi hegeliani, della loro
connessione reciproca, senza con ciò che si corra il pericolo, avvertito
certamente da chi vi si immerge anche con attenzione, di perdersi; di perdere
quel nesso teoretico, su cui l'A. insiste più volte e sul quale il sistema
hegeliano si fonda.
Le opere e gli scritti hegeliani, primo fra tutti la
Fenomenologia, ci parlano al passato, ci parlano di un processo compiuto, di un
divenire storico rimirabile perché conchiuso, divenuto e approdato a un
risultato fermo e liberissimo: "Questo lungo cammino è giunto al suo
termine al tempo di Hegel, nella cultura che Hegel elabora, e nello stato
moderno. Il Razionale vive in quella cultura come la grammatica vive nel concreto
linguaggio, e il razionale è nello stesso tempo il <<liberissimo>>, non ha nulla fuori
di sé che lo limiti. Qui il discorso si chiude, e tutto rimane, come oggi si
ama dire, totalmente aperto." (p. 17)
Vediamo allora in particolare uno
dei temi trattati nella presente raccolta di saggi: l'inizio della Logica.
Seguirà poi una breve intervista all'Autore, che ci auguriamo sarà gradita non
solo a coloro che già conoscono gli studi e gli insegnamenti di Francesco
Valentini, ma soprattutto a chi ancora non ha avuto modo e privilegio di
conoscerli.
Le prime categorie della <Logica>.
È il quinto dei saggi dedicati
da F. Valentini a Hegel; chi ha letto il testo di riferimento (il primo
capitolo della Logica), chi ha familiarità con le critiche rivolte al
"passaggio cruciale", dal DIVENIRE all'ESSERE DETERMINATO, conosce
l'andamento dei nessi stabiliti da Hegel tra quelle prime categorie
(ESSERE-NULLA-DIVENIRE) e sa che sulla presunta non plausibilità di quei nessi
viene messo in discussione tutto l'edificio della Logica.
Cominciare a pensare,
pensare senza ancora poter determinare (né parlare), eppure scegliere di
pensare. L'esperienza logica del Cominciamento appare senza dubbio paradossale
e per certi versi aporetica; un'esperienza tuttavia pienamente inserita da
Hegel all'interno della sua Logica, all'inizio, come il momento più astratto se
considerato con gli occhi di chi già pensa secondo categorie più concrete,
determinando il suo pensiero.
Ma, ed è questo il problema sollevato dalle
obiezioni classiche, come avviene il passaggio al Dasein ? Come avviene che da
un'esperienza a stretto rigore prelinguistica, indeterminata, eppure logica, si
passi al logos vero e proprio, cioè al pensiero e al linguaggio determinati e
correlati ?
Il passaggio è dialettico ? Segue cioè lo schema classico hegeliano
della negazione della negazione ? L'essere determinato risulterebbe così dal
dileguare del dileguare ? Come se il secondo dileguare arrestasse il primo ? Se
così fosse, la negazione determinata sarebbe surrettiziamente già operante
all'interno di quella astratta triade che volevasi, da parte di Hegel,
mantenere nell'indeterminatezza più assoluta. "Riteniamo che Burbidge veda
benissimo che le prime tre categorie siano in sostanza una sola categoria, una
monotriade. Ma non crediamo che il famoso passaggio al Dasein debba essere
inteso dialetticamente. Crediamo anzi che in questo primo capitolo lo schema
dialettico non sia operante, che ci si muova invece nel campo dell'opinione e
dell'ineffabile e che la Logica per così dire cominci con l'essere determinato,
perché non può non cominciare con il linguaggio." (pp. 144-145)
L'A.
espone sinteticamente alcuni punti del testo hegeliano, prende poi in
considerazione l'ineffabile e l'astratto, così come lo intende qui Hegel, e
riflette su alcuni testi della Fenomenologia, per poi concludere sul
significato ultimo delle prime categorie della Logica. L'indeterminato,
l'immediato ESSERE parmenideo è la prima categoria, ovvero il NULLA, poiché
"Nulla si deve presupporre […]. Bisogna considerare il pensare come tale,
e questo […] è frutto di una decisione che si può considerare arbitraria: si
sceglie il discorso e la ragione." (p.146) Ma il movimento evanescente e
istantaneo dall'ESSERE al NULLA e viceversa, ovvero il DIVENIRE stesso, non
continua all'infinito. Precipita in un risultato calmo. Il DIVENIRE è sì una
unione contraddittoria, ma che si distrugge da sé stessa. "Si tratta pur
sempre di passaggi immediati, diremmo automatici, non di contraddizioni che si
risolvono."(p.149)
Il punto di vista logico del DIVENIRE è la <pura riflessione del cominciamento>,
per intenderci quella hegeliana, l'autoriflessione che rispecchia il movimento
stesso dei concetti, la quale non sa ancora che l'iniziale monotriade è
l'indeterminato (risultato di un'astrazione), "onde - dice ancora Hegel -
il Nulla prorompe immediatamente nell'Essere e non si incorpora con lui.
L'autoriflessione mostra un tentativo di pensare, un opinare, un altalenare di
Essere e Nulla, mentre la riflessione astratta mostra una quieta astrazione,
l'Indeterminato" (p. 151)
Dunque, l'ineffabile (questa astratta e
rarefatta atmosfera mentale) "non è una semplice illusione. E che cosa è.
È il tentativo di esprimere quella esperienza singolare di fatti singolari e
talora inconsci, di cui Hegel parlerà nella prima parte dello Spirito soggettivo,
l'Antropologia, e che ha il suo equivalente nel mondo della vita della
Fenomenologia […].
Si tratta del puro vivere in una condizione di
semicoscienza, in cui rientrano largamente manifestazioni patologiche o
extranormali." (pp. 154-155) Si tratta dell'<anima>, intesa da Hegel
proprio come eterno passato dello spirito, come sonno-sogno dello spirito, la
cui fenomenologia anticipa la fenomenologia lucida della coscienza. "È una
sorta di ombra che precede la luce, caratterizzata da un'ottusa quasi-indifferenza
tra me e le cose e da un'originaria simpatia tra anima singola e anima del
mondo." (p. 155)
Le esperienze sopra descritte, allora, possono essere
considerate prelogiche, suscettibili di diventare irrazionali e patologiche,
quando non riescano a svilupparsi secondo logica o quando il tentativo di
pensare non scelga definitivamente il pensiero determinato e la ragione. Nella
storia della filosofia il primo che ha tentato di pensare senza determinare
"e si è innalzato al regno dell'idea è stato Parmenide. Tentativo
importantissimo ma non riuscito appunto perché tentativo e non ancora vero
pensiero.[…] E non escluderemmo che certe odierne tendenze ad andare al di là
dell'ente, del determinato, verso l'Essere possibile non resisterebbero alle
classiche critiche di Hegel." (p.157)
BREVE INTERVISTA AL PROF. FRANCESCO
VALENTINI
Le vorremmo cortesemente rivolgere, a conclusione della nostra
recensione, tre domande, e precisamente la prima proprio sul <passaggio cruciale> dal
DIVENIRE all'ESSERE DETERMINATO, la seconda sull'idea del Bene, così come Hegel
ne parla alla fine della Logica, e l'ultima sul rapporto fra la società civile
e lo Stato descritti da Hegel nella sua Filosofia del diritto.
1 Domanda
Abbiamo visto, nel suo saggio dedicato all'inizio della Logica, che la Ragione
hegeliana si mostra come una conquista storico-filosofica moderna (a far tempo
da Parmenide), ma anche semplicemente come il risultato di una scelta. Volevamo
sapere da Lei, a questo proposito, se sia proprio questo carattere
quasiarbitrario dello scegliere (di pensare, di parlare e determinare) a
giustificare l'immediatezza del passaggio dal DIVENIRE all'ESSERE DETERMINATO.
Là dove l'astrattezza dei contenuti ci rimanda a sfere prelogiche e inconsce
del pensiero, l'uomo hegeliano, per così dire, ha difronte a sè la realtà
concreta e in suo pieno possesso la capacità di esprimerla. La scelta, allora,
sembra essere quasi scontata: ci sono tutte le condizioni favorevoli al
pensiero determinato, manca solo il sì, irrinunciabile e 'irriflesso', di chi
potrebbe comunque sempre scegliere diversamente.
Risposta 1
Il passaggio dal
Divenire all'essere determinato - così ho creduto di interpretare - non è un
passaggio dialettico (una negazione della negazione), ma un passaggio
immediato, una scelta che mi fa passare dall'ineffabile al dicibile,
dall'opinare al pensare. La natura immediata di questo passaggio ripropone il
passaggio dalla Certezza sensibile alla Percezione nella Fenomenologia. Qui
abbiamo l'intervento di un fattore non linguistico, l'indicare, mediante il
quale la terza esperienza della sensibilità trapassa nella percezione, e posso
finalmente pensare la cosa con le sue proprietà (il famoso cristallo di sale).
Loro si domandano che rapporto vi sia tra questa scelta di pensare il
determinato dopo il Divenire e l'originaria scelta di pensare, che Hegel pone
all'inizio e come inizio della Logica. In effetti Hegel dice che il
cominciamento della Logica non ha presupposti (altrimenti non sarebbe
cominciamento): infatti esso coincide con "la risoluzione (che si può
riguardare anche come arbitraria) di voler considerare il pensare come
tale". Questa scelta, secondo Hegel, si deve a Parmenide. Inutile
aggiungere che Hegel non vuole dire che prima di Parmenide non si pensasse:
Hegel sostiene che con Parmenide si prende coscienza della natura del pensare,
si considera il pensare come tale. Parmenide dunque sceglie di pensare e
comincia a pensare, e tuttavia non pensa ancora nel pieno senso del termine,
tenta di pensare. E ciò è confermato dalla lettera del testo di Hegel. Le definizioni
delle prime categorie non sono vere definizioni, sono soltanto nomi:
"Essere, puro essere"; "Nulla, il puro nulla": due
universali vuoti come l'Ora e il Qui della Certezza sensibile nella
Fenomenologia. A rigore, questi semplici nomi non sono ancora linguaggio,
perché il linguaggio implica l'articolazione intellettuale. Si tratta dunque di
un semplice cominciamento, di un'alba di pensiero a cui segue il passaggio
immediato all'essere determinato. E qui direi che le due scelte coincidono, la
prima, quella apparentemente originaria, onde decido di pensare, è la scelta
storica di Parmenide, la seconda, quella del passaggio dal Divenire all'essere
determinato, è la scelta del Parmenide "autocritico", cioè del
Parmenide interpretato da Hegel. E questa scelta rende intellegibili ex post le
prime tre pseudocategorie. Loro si domandano se la scelta non sembri quasi
scontata, se non c'erano tutte le condizioni per effettuarla. Credo che si
possa rispondere distinguendo . La scelta è stata libera e, in questo senso,
contingente; ma è pensata come necessaria. E ciò è tipico della mentalità di
Hegel. Pensatore eminentemente storico, egli interpreta i fatti ricercandone la
razionalità, beninteso quella che a lui sembra essere la razionalità, ossia la
progressiva presa di coscienza della libertà umana. Il che implica anche una
visione selettiva degli accadimenti. Stabilito o "stipulato" ciò, la
"doppia verità" libertà-necessità è la Verità.
2 Domanda
Vogliamo
tornare, riprendendo la citazione hegeliana di apertura, sull'idea del Bene e
sulla sua genesi. Nel suo saggio su La virtù, il corso del mondo, la
razionalità, l'ottavo della raccolta, Lei prende in considerazione il quinto
capitolo della Fenomenologia, le figure dell'uomo della virtù e dell'uomo del
corso del mondo; analizza e commenta poi lo stretto e necessario rapporto che
intercorre fra di esse, spiegando come per Hegel la razionalità dell'agire o il
Senso della storia, si venga formando, in età moderna, attraverso una presa di
coscienza da parte dello <spirito>, consapevole ormai di essere a casa propria
come nel mondo e nel mondo come a casa propria. Successivamente, Lei si
sofferma su un altro testo hegeliano, l'ultimo capitolo della Logica, là dove
Hegel parla proprio dell'idea del Bene, distinguendo l'atteggiamento pratico da
quello teoretico, e impostando il rapporto fra i due in modo confessatamente
kantiano, riuscendo tuttavia a sciogliere le difficoltà che i postulati
kantiani presentavano in sede sia morale sia teoretica. A questo proposito, Le
volevamo chiedere in che senso la soluzione proposta da Hegel - il sillogismo
del Bene - ci fa dire, insieme a Sartre che Lei cita in conclusione del saggio,
che al dunque siamo <condannati> a essere liberi; la libertà essendo così avvertita
come un peso dell'esistenza.
Risposta 2
La reminiscenza sartriana, il
"siamo condannati a essere liberi", non vuole alludere alla libertà
come peso dell'esistenza. Vuole alludere invece - e direi che nello stesso
Sartre, nel Sartre filosofo della libertà, c'è questo motivo - vuole dunque alludere
alla morale della responsabilità e - aggiungerei - alla durezza di Hegel nei
confronti del singolo. Penso specialmente all'ultima parte del quinto capitolo
della Fenomenologia, in cui la Cosa stessa, come Hegel dice, cioè il corso
storico e la sua razionalità, ricomprende in sé l'azione del singolo, che
fatuamente ne rivendica la proprietà. La pietra lanciata dalla mano è del
diavolo, dice Hegel riprendendo un antico proverbio. Agendo mi espongo ai
voleri della Fortuna, cioè la mia azione si intreccia con quelle altrui e con
il complesso delle circostanze, la Cosa stessa ora accennata. E tuttavia la
Cosa stessa non mi è estranea, perché si appunta nell'autocoscienza, è la
"mia" Cosa, ho comunque contribuito a produrla. È stato detto che in guerra
non vi sono vittime innocenti, e Hegel potrebbe condividere questa espressione
che allude alla universale responsabilità. Per un verso dunque la mia azione è
poca cosa, perché è destinata a perdersi nel miro gurge del corso storico, per
un altro verso il corso storico mi appartiene o - ma in questo caso è la stessa
cosa - io appartengo al corso storico. Hegel spinge sino in fondo la sua
geniale tesi. Il corso storico ha la sua logica di fronte a cui l'opera del
singolo è irrilevante. Persino il famoso grand'uomo di Hegel, Alessandro magno,
Giulio Cesare, non sono dei veri creatori, non somigliano per nulla agli uomini
di Nietzsche o di Carlyle, perché la loro azione non va oltre il portare alla
luce una situazione virtualmente presente. La repubblica romana era virtualmente
cesariana quando Cesare vi dispiegò la sua azione politica. Hegel infatti parla
di un "cupo tessere dello spirito", cioè di un corso delle cose che
si viene svolgendo inconsciamente, sicchè l'uomo d'azione interviene a cose
quasi fatte, l'uomo di pensiero, il filosofo, interviene a cose fatte e anzi
quando la situazione non solo si è consolidata, ma è già in crisi, sta per
mutare (l'uccello di Minerva che inizia il suo volo al crepuscolo). Potrebbe
sembrare che questa dottrina possa spingere a un atteggiamento quietista: se la
mia azione è poca cosa non vale la pena di impegnarsi troppo. E invece abbiamo
visto che l'atteggiamento hegeliano è di assoluta responsabilità. Certo la mia
azione è eminentemente rischiosa, può perdersi nel non-senso e comunque solo
tardi, solo a processo compiuto saprò o altri saprà quale sarà stato il
risultato e quindi il significato del mio impegno. Ma nel mio agire devo
credere (qui il temine è appropriato) di realizzare il Bene (l'ineludibile
motivo kantiano). È una illusione necessaria che governa la mia libertà. E
Hegel mostra che sfuggire a questa libertà è impossibile perché è impossibile
sfuggire alla mia essenza di uomo.
3 Domanda
Le volevamo porre un'ultima
domanda. Questa volta in riferimento a una questione particolare, trattata
ampiamente da Hegel nella Filosofia del diritto, e da Lei presentata nel primo
saggio della raccolta dal titolo Aspetti della <società civile> hegeliana. Rimandiamo
il lettore direttamente al testo del saggio, estremamente interessante e chiaro
nell'esposizione, poiché qui vogliamo solo suggerire quanto segue. Lei afferma
che l'<alienazione> della società civile descritta da Hegel - nella Filosofia del
diritto ma anche nel VI capitolo della Fenomenologia - è solo apparentemente
vinta dalla corporazione e dallo Stato; ossia, il passaggio dalla logica
economico-civile della società moderna a quella dello Stato politico, non
risolve appieno l'estraneazione che pure Hegel aveva indicato come il carattere
specifico del mondo smithiano della ricchezza, dell'utile e dell'economia
politica. D'altra parte, Lei dice, Hegel si mostra consapevole non solo di
questa 'mancanza' interna al passaggio (non del tutto tesaurizzatore), ma ne
mostra anche il connaturato aspetto negativo, e cioè a dire, la formazione
della plebe in sede civile rimane un problema aperto e un fattore di
irrazionalità nella costruzione politica hegeliana, ovverosia nello Stato
moderno descritto da Hegel. Alla luce di quanto si è detto, sembrerebbe che la
soluzione qui avanzata da Hegel sia piuttosto una constatazione disincantata
del persistere, nell'eticità civile e politica, di una contraddizione
irrisolta: il 'nervo scoperto' (scoperto appunto da Hegel) della società
civile, e cioè la produzione di una massa d'uomini esclusa sostanzialmente
dalla possibilità economico-politica di riprodursi, è ciò che, in ultima
istanza, contraddistingue la modernità di questa società e di questo Stato. Ma
è questa, o ci siamo sbagliati, la lettura che Lei dà di questo passaggio
hegeliano?
Risposta 3
Certamente. Questa è la lettura che ho creduto di dover
fare della filosofia politica di Hegel. Il suo Stato - e bisogna dire che
ancora una volta Hegel è nostro contemporaneo - porta con sé due problemi
irrisolti, il problema della guerra e il problema della plebe. I testi sono
chiarissimi. Verso la fine della Filosofia del diritto del 1821, al § 333,
Hegel dice che gli stati sono "nello stato di natura gli uni di fronte
agli altri", stato di natura dunque e non di diritto. La loro sorte
dipende dalla loro volontà particolare, e l'eventuale conflitto non può essere
risolto se non con la guerra. E notiamo che Hegel definisce la guerra una
"condizione di non giuridicità, di violenza e accidentalità".
Aggiungiamo ancora che Hegel critica la concezione kantiana della pace perpetua,
perché sostiene che una lega di stati, come quella prevista da Kant, sarebbe
pur sempre un intreccio di volontà statali particolari, e dunque sarebbe
affetta da accidentalità. Manca una "volontà universale costituita a
potere", che quindi stia al di sopra delle volontà dei singoli stati. In
sostanza manca uno stato mondiale. Ed è la violenza in ultima analisi a
decidere. La violenza troviamo anche all'interno e, diremmo, contro la
costruzione razionale dello stato moderno, e la troviamo nella formazione della
plebe. La plebe, frutto del movimento dell'economia, compare nella
"società civile", ma riaffiora nella trattazione dello stato, quasi a
confermare che la razionalità dello stato non riesce ad averne ragione.
Nell'annotazione al § 301, sempre della Filosofia del diritto del 1821,
leggiamo che "appartiene all'opinione della plebe, al punto di vista della
negatività in generale", presupporre nel governo una cattiva volontà. La
plebe è infatti un fattore di sovversione che potrebbe, se dovesse svilupparsi,
mettere in pericolo l'unità dello stato, generando una sorta di anarchia, cioè
di lotta tra le varie componenti sociali. Bisogna perciò evitare il formarsi
della plebe. E Hegel allude a degli interventi che evitino il degradarsi delle
vite individuali, favorendo l'accesso al lavoro, cioè favorendo il realizzarsi
dell'etica della società civile, fondata appunto sul lavoro individuale come
fonte della propria sussistenza. Oggi diremmo diritto al lavoro e dovere di
esercitare questo diritto. Ma è ciò possibile? La trattazione di Hegel non
lascia dubbi. È interessante notare che Hegel, dopo aver detto che i vari
interessi devono essere regolati e governati, aggiunge che la garanzia della
partecipazione dei singoli alla ricchezza generale è sottoposta a varie accidentalità
(ancora quella accidentalità, che abbiamo incontrato nei rapporti tra stati. In
questo caso condizioni di salute, di attitudini, di proprietà dei singoli). Ma
scrive anche : "senza dire che questa garanzia deve restare
incompiuta". Questo "deve" è in tedesco muss, come dire
"non può non": vuol designare una sorta di necessità quasi naturale,
di quella seconda natura che è il meccanismo economico. Il qual meccanismo
economico dà luogo alla formazione della plebe, cioè di una massa di uomini che
decadono al di sotto di quello che oggi diremmo il minimo vitale, con gravi
conseguenze anche di ordine morale. Inoltre la formazione della plebe "al
tempo stesso porta con sé, in cambio, la più grande facilità di concentrare in
poche mani ricchezze sproporzionate". Hegel non precisa altro, ma è
probabile che pensi alla "utilità" dei bassi salari. Ora, evitare la
formazione della plebe non è possibile. Non è possibile mediante interventi
umanitari, privati o pubblici, perché, a parte la loro inevitabile accidentalità,
essi sarebbero contrari all'etica della società civile che implica che ciascuno
provveda a sé col suo lavoro. E non è possibile col ricorso a nuove occasioni
di lavoro, perché in tal modo la produzione aumenterebbe, ma non aumenterebbe
con questo il consumo, e quindi si avrebbero difficoltà insormontabili per la
produzione successiva. E infine Hegel si riferisce, in particolare pensando
all'Inghilterra, al colonialismo, cioè alla creazione di una nuova società
civile in altra regione. Ma è evidente che ciò sposterebbe e non risolverebbe
il problema. Appare dunque chiaro, come Hegel dice, che la società civile, per
quanto ricca, non è ricca abbastanza e genera povertà accanto a ricchezza. E
bisogna notare che in tutto questo Hegel è fedele a Smith, che chiaramente lo
ispira: Smith infatti parla della ricchezza individuale come fattore di
benessere generale, ma parla anche del fatto che per ogni uomo ricco occorre
che vi siano almeno cinquecento poveri e che l'abbondanza di pochi presuppone
l'indigenza di molti. È dunque il meccanismo economico che genera
l'ineguaglianza come in un processo naturale. Ma Hegel non manca di
sottolineare la differenza. Mentre nei confronti della natura, egli dice, non
si possono invocare diritti, nella società l'indigenza prende forma di
un'ingiustizia patita da questa o quella classe sociale. Onde questo problema
agita e tormenta le società moderne. Potremmo aggiungere: comprese le nostre
società. Se leggiamo, per esempio, quanto ha recentemente scritto Amartya Sen,
Nobel dell'economia del '98, a proposito della mondializzazione, troviamo che
nell'essenziale non dice molto più di quanto Hegel diceva dell'economia del suo
tempo.
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