Questo articolo, Dialogo sopra un minimo sistema
dell’economia – a proposito della concezione di Sraffa e degli “economisti in
libris” suoi discepoli, fu messo insieme, sistemato e redatto da
Gianfranco Pala, per la rivista Marxismo oggi, 3, Milano 1993. La parafrasi
del Dialogo galileiano qui scelta trae spunto da una serie di
circostanze. Innanzitutto, è da considerare in maniera un po’ sarcastica
l’esagerata importanza che, per seguir le mode, negli anni trascorsi fu data
all’opera di Sraffa che, conseguentemente è stata qui definita come “sistema
minimo” dell’economia; all’opposto, ma forse proprio per quell’esagerazione
pregressa, è altrettanto ingiustificata la dimenticanza in cui essa è stata poi
gettata, tanto più se la si compara con le “nuove” mode dell’economia
neoliberista dai “tratti demenziali”, come la connoterebbe Brecht. Tuttavia,
l’abbandono e la successiva sedimentazione del dibattito intorno a Sraffa può
oggi costituire un elemento vantaggioso per riparlarne post festum (e post
mortem).
In secondo luogo, per ciò che interessa maggiormente i
comunisti, vi è da soppesare il ruolo, che è stato attribuito alla teoria di
Sraffa e alla “sraffologia” in genere, da giocare contro il marxismo in
un supponente “superamento” o “approfondimento” o “rafforzamento” o
“miglioramento” di quest’ultimo; e quel ruolo, in quanto assegnato allo
sraffismo nei caldi anni 1960\70 in Italia, ha da essere guardato con legittimo
sospetto, in quanto l’ideologia dominante, mascherata a sinistra, cercava di
accreditare così la presunta “crisi del marxismo”, epperò presentandola dal di
dentro di quella che veniva suggerita come una delle possibili letture
del “marxismo-senza-Marx”. Ora, in una riflessione sul marxismo in Italia
nell’ultimo mezzo secolo e più, questo “dialogo” su Sraffa può contribuire a
diradare le nebbie di quella confusione, risarcendo anche il marxismo
italiano nella critica dell’economia politica.
Non è un caso che in quegli anni, anche nella cultura di
“sinistra”, il tentativo di distinguere nettamente Marx da Sraffa (e da
Ricardo, ma anche lo stesso Ricardo da Sraffa, nei termini della teoria del
valore e del plusvalore) fu minoritario ed emarginato – avendo “avuto ben
poca eco, sopraffatto dal miracolo sraffiano”, per dirla con Macchioro –
al punto da non ricevere mai adeguata risposta dalla “sraffolalia” prevalente,
adagiata nel solco del revisionismo [le “celebrazioni sraffiane”, allora pel
decennale della di lui morte, non contemplano di fatto alcun possibile
intervento critico marxesco sulla sua opera, venendo escluse a priori].
Quindi, la censura di quelle pochissime diverse opinioni e interpretazioni che
rammenta – alla lontana e in maniera farsesca, certo, fatte le
proporzioni storiche e scientifiche – toni da sant’inquisizione accademica,
suggeriscono istintivamente, in terzo luogo, la loro esposizione nella forma
del dialogo galileiano.
Cosicché, i “dialoganti” dell’opera galileiana, critici
Palviati (in forma esplicita e immediata) e Macredo (per via maggiormente
dubitativa, ancorché sintetica) possano “proporre e poi liberamente dire il
loro parere; esponendosi alla censura del signor Simplicio [a raffigurare la
lalìa degli attuali retori sraffologi], tanto strenuo campione e mantenitore
della nuova dottrina peripatetica”. Scimmiottando Galileo, ciò consente a un
tempo, al di là della critica analitica di Palviati [alias
Gianfranco Pala], di mettere nelle parole di Macredo [alias
Aurelio Macchioro] un condensato di alcune tra le prevalenti obiezioni
che da più parti sono state mosse a Sraffa e agli sraffologi, e di usare la
maniera di parlare rappresentata nel signor Simplicio con i detti autentici
del “Maestro” o dei suoi più eminenti e fedeli discepoli [a maggior beneficio
del lettore, che comunque non potrà mai essere sollevato dall’onere di
conoscere da sé la gran mole di retroscena che accompagnarono quel dibattito,
impossibile da riassumere].
Nell’elaborazione delle considerazioni che stanno dietro
alla stesura del “dialogo” – e delle altre considerazioni sullo “sraffismo” precedentemente
e altrove svolte – ci si è sono avvalsi enormemente della consuetudine di
discussione, dibattito a volte anche reciprocamente critico, e proficuo scambio
di idee, con Aurelio Macchioro [che al tempo di questo scritto aveva ... appena
78 anni], per il quale si espresse in quella occasione qui tutto l’apprezzamento
e gratitudine – sollevandolo al contempo, tuttavia, da ogni responsabilità, che
rimane interamente del curatore, alias Palviati, circa la maniera in cui si siano
sapute intendere e utilizzare indirettamente le sue acute osservazioni.
[D’altronde chiunque può leggere esaurientemente i suoi scritti in proposito: si
segnalano in particolare il saggio, subitaneamente licenziato per le stampe a
immediato ridosso dell’uscita del libro di Sraffa, a mo’ di recensione, Premesse
ad una critica della teoria economica e il sistema tipo, in Annali
Feltrinelli, Milano 1961 (ripubblicato in Il dibattito su Sraffa – a cura
di Franco Botta, De Donato, Bari 1974); l’intervento al iii convegno degli
storici del pensiero economico, Rileggendo tra Ricardo e Sraffa, in Neo-ricardiana:
Graziadei e Sraffa (a cura di Roberto Finzi), Il Mulino, Bologna 1977; il
paragrafo Soggettivismo e sraffologia, del capitolo-saggio Oggettivismo
e soggettivismo negli anni ‘70, dal volume Il momento attuale – saggi
etico-politici, Il poligrafo, Padova 1991; e l’articolo Da Sraffa a Marx,
in Mondoperaio, ottobre 1991: da quest’ultimo – ultimo qui anche in ordine di
tempo – sono tratte molte delle più importanti considerazioni e citazioni
testuali (ancorché non “virgolettate”, data la forma espositiva scelta)
riportate nelle parole attribuite al signor Macredo]. Pur se in questa forma
trasversale, per la maniera indiretta con cui si è dato conto della pregnante
analisi critica a Sraffa da parte di Macchioro\Macredo, adesso a
séguito della sua morte, a cento anni compiuti, anche questo ricordo ci è sembrato
un doveroso omaggio —— per non dimenticare.
Uno dei costumi più volgari e meschini degli
intellettuali parvenus nel “mondo accademico” è l’uso ripetuto fino
all’abuso delle autocitazioni: si perdoni per una volta qui un’eccezione,
rinviando il lettore – eventualmente interessato a uno sviluppo pseudo-analitico
delle critiche qui suggerite – al volume solo ora pubblicato dopo trenta
anni da Franco [perché quando fu scritto nel 1985 era già passata la moda
sraffolalica e la critica secondo Marx era, come detto, demonizzata e lasciata
cadere; quindi finora ne era stato fatto solo un dattiloscritto, fotocopiato
nel 1988 e fuori circolazione (poi scansionato e messo in rete)]. In esso erano
state raccolte sistematicamente tutte le considerazioni, soprattutto nell’analisi
teorica contenuta nelle note, elaborate per anni contro lo sraffismo (ma già
allora non direttamente, bensì nel testo in forma di “parodia” di una conosciuta
favola russa) come “favola economica” – cfr. Gianfranco Pala, Pierino
e il lupo – per una critica a Sraffa dopo Marx (ovvero, come fu che Pierino S
salvò il lupo Marxicano dai fucili dei cacciatori, epperò lo fece rinchiudere
in gabbia), ora Angeli, Milano 2015. Va da sé che in questa sede non
occorra dare riferimenti bibliografici sull’opera di Sraffa e degli sraffiani,
in quanto si presumono noti anche se non conosciuti, particolarmente ora, giacché
a suo tempo pubblicizzati, al contrario degli scritti critici.
DIALOGO SOPRA UN MINIMO SISTEMA DELL’ECONOMIA
Al discreto lettore.
Qual proporzione ha da
uno a mille?
E pure è proverbio
vulgato,
che un sol uomo vaglia
per mille,
dove mille non
vagliano per un solo.
Tale differenza
dipende dall’abilità diversa degl’intelletti,
il che io riduco
all’essere o non essere filosofo:
poiché la filosofia,
come alimento proprio di quelli,
chi può nutrirsene, il
separa in effetto dal comun esser del volgo.
[Galileo Galilei, Dialogo
sopra i massimi sistemi del mondo]
Mac\redo. Fu la conclusione e l’appuntamento di ieri, che
noi dovessimo in questo giorno discorrere, quanto più distintamente e
particolarmente per noi si potesse, intorno alle ragioni economiche e loro
efficacia, che per l’una parte e per l’altra sin qui sono state prodotte da i
fautori della posizione marginalistica keynesiana e sraffiana e dai seguaci
del sistema marxista. E perché, collocando il Marx la forza-lavoro tra i capitali
come lor parte variabile, viene a farla essa ancora una merce simile alle
altre, sarà bene che il principio delle nostre considerazioni sia l’andare
esaminando quale e quanta sia la forza e l’energia de i progressi degli
economisti peripatetici nel dimostrare come tale assunto sia del tutto
impossibile; attesoché sia necessario introdurre in economia sustanze diverse
tra di loro, cioè il capitale e il lavoro, quella impassibile e immutabile,
questa alterabile e caduca. Il quale argomento tratta egli nei libri del Capitale,
insinuandolo prima con discorsi dipendenti da alcuni assunti generali, e
confermandolo poi con esperienze e con dimostrazioni particolari.
Noi, seguendo l’istesso
ordine, proporremo e poi liberamente diremo il nostro parere; esponendoci alla
censura dello sraffiano signor Simplicio, tanto strenuo campione e mantenitore
della nuova dottrina peripatetica. È il primo passo del progresso peripatetico
quello dove l’“economia politica” prova l’integrità e perfezione del modo di
produzione capitalistico coll’additarci come le dimensioni armoniche non son
più che tre - capitale-interesse (o profitto), lavoro-salario, e terra-rendita;
e perché egli le ha tutte, nella formula trinitaria, avendo il tutto è
perfetto. Che poi, venendo dal semplice capitale quella magnitudine che si chiama
interesse o profitto, aggiunto il lavoro si costituisca il salario, e
sopraggiunta eventualmente la terra ne risulti la rendita [ciò che il Keynes
trascura e lo Sraffa divisa come inessenziale], e che doppo questi tre fattori
non si dia passaggio ad altro, alcuna trasformazione e movimento, sì che in
questa sola trinità si termini l’integrità e per così dire la totalità, avremmo
ben desiderato che da Sraffa e “tutti quanti” ci fusse stato dimostrato con necessità,
e massime potendosi ciò eseguire assai chiaro e speditamente.
Pal\viati. Il signor Simplicio dovrebbe sapere che
l’illustrissimo signor Lunghini ebbe a dire che Sraffa sapeva quali fossero i
limiti del suo discorso, “che probabilmente vale come glossa ricardiana al
secondo punto del capitolo cinquantesimo del libro terzo del Capitale,
circa la "parvenza della concorrenza"”. Questa è la ragione per cui,
decidendo di discorrere particolarmente e distintamente intorno alla nuova
dottrina peripatetica sraffiana, si è convenuto di definirla come “sistema minimo
dell’economia”.
Nel “luogo” ricordato,
Marx scrisse che “un aumento o una caduta generale del salario, provocando, se
rimangono invariate le altre circostanze, un movimento in senso opposto del
tasso generale del profitto, modifica i prezzi di produzione delle diverse
merci. L’esperienza mostra che il prezzo medio di una merce aumenta o
diminuisce, perché il salario è aumentato o diminuito. Ma ciò che
l’"esperienza" non mostra, è che queste modificazioni vengono
regolate segretamente dal valore delle merci, che non dipende dal
salario. La causa può sembrare l’effetto e l’effetto sembrare la causa,
come avviene anche nel caso del movimento dei prezzi di mercato. Tutte queste
esperienze confermano la parvenza propiziata dalla forma autonoma e rovesciata
delle parti costitutive del valore, come se il salario solo, o il salario e il
profitto insieme, determinassero il valore delle merci. Quando ciò accade in
generale in rapporto al salario, così che il prezzo del lavoro e il valore
prodotto dal lavoro sembrano coincidere, va da sé che tale parvenza si crei
anche per il profitto e la rendita. I loro prezzi, vale a dire le loro espressioni
in denaro, devono venire regolati indipendentemente dal lavoro e dal valore da
essi prodotto”. La parvenza è contrabbandata come il “dover essere”
della realtà.
Questa “trinità”
(eventualmente sminuita della rendita-terra) – che proviene dritta dritta
dall’economia volgare e dal marginalismo-keynesismo, in una armonica
obnubilazione della struttura di classe della società – ricompare in
Sraffa come mera “aritmetica possibile”. Ciò rende vano qualsiasi riferimento
al neo-ricardismo, rabbassando la di lui teoristizzazione a un
insignificante post-ricardismo “senza valore”, se ci capite!
Simplicio. L’indagine del Maestro Sraffa riguarda
esclusivamente quelle proprietà di un sistema economico che sono indipendenti
da variazioni nel volume della produzione e nelle proporzioni tra i “fattori” impiegati.
E questo punto di vista – a nostro avviso – è proprio quello degli economisti
classici, da Adamo Smith a Ricardo, che è stato sommerso e dimenticato in
seguito all’avvento della teoria “marginale”. Sotto questo riguardo, perciò,
occorre controbattere la teoria marginale sul suo stesso terreno, e non serve
affatto riferirsi al sistema economico nei termini della teoria delle classi.
Mac. Al contrario, signor Simplicio, si impone subito
la domanda: quale è la funzione di classe che sottende il sistema sraffiano?
Quello che sostiene il signor Pal al proposito è senza dubbio vero, ma occorre
anche dire che è la “sraffologia”, più che Sraffa, a divenire protagonista di
discorso. Anche perché Sraffa fece una scelta da anacoreta. Prevalse il suo
aspetto caratteriale, confinante con lo scetticismo, sentimentalmente
sinistreggiante e nel contempo ipotetico-formalizzante in bilico fra alta
filologia, filologismo e storiografia, inconsapevole della distinzione fra le
tre prese.
Fin dagli anni ‘20 – in
cui lui si occupava attentamente di Gramsci, traduceva Keynes, copiava Dmitrev,
ecc. – cominciò a rimuginare il materiale che poi fu dato alla luce nel 1960. È
veramente sconcertante che nei 23 anni di vertiginosa sraffian economics
succeduta al 1960, Sraffa (che è morto nel 1983) non abbia emesso fiato su come
lui interpretava se stesso – costringendo la sraffologia a includere nella di
lui mitizzazione il suo stesso silenzio. Come dobbiamo interpretare
psicologicamente questo astenersi, e come epistemologicamente? E soprattutto,
come interpretarlo nei contenuti, per quale tipo di classi e di società
scriveva l’amico di Gramsci e di Keynes?
Simpl. Qui non si tratta di questioni né psicologiche
né sociologiche. Sono problemi di pura teoresi, perciocché, avendo il Maestro
espresso compiutamente il suo pensiero, non havvi bisogno alcuno di scendere
nelle polemiche; affidando più tardi l’ulteriore critica, se la sua base terrà,
a qualcuno meglio attrezzato per l’impresa. Procediamo dunque con ordine.
Noi rigettiamo le
obiezioni svolte secondo il riferimento alla “formula trinitaria”, nel senso
marxiano testé ricordato dal signor Pal, e rimandiamo unicamente alla forma di relazione
inversa fra salario e profitto. Infatti, è la scarsità di terra che crea la
situazione da cui sorge la rendita: se non vi fosse scarsità, sarebbe usato il
metodo che produce grano a più buon mercato, e non vi potrebbe essere rendita.
Ma le restanti risorse naturali che, essendo scarse, ricevono una rendita non
possono aver alcun effetto sui prezzi delle merci e sul tasso del profitto: non
c’è bisogno di soffermarsi su tale dottrina. Sicché la terra che non dà rendita
è eliminata dalle equazioni dei prezzi e della distribuzione, così come
avviene per tutte le altre risorse “gratuite” le quali, pur essendo necessarie
alla produzione, non vengono annoverate fra i mezzi di produzione.
Restiamo fermi, allora,
al problema della distribuzione del reddito nazionale: la questione si pone,
come diremo, solo in presenza del sorgere di un sovrappiù (o profitto).
Evitiamo perciò l’uso del termine “capitale” e supponiamo che il “salario”
comprenda anche una parte del sovrappiù prodotto. Dunque, quando veniamo a
esaminare la ripartizione del sovrappiù fra “capitalisti” e “lavoratori” la
questione che si pone è squisitamente teoretica, e non pertiene al movimento
antagonistico delle classi sociali. Noi dobbiamo solo tentare di
scoprire quale sia la “proporzione” matematica che assicuri l’equilibrio
distributivo.
Sappiamo che, ove si
prenda il salario come unità di misura dei prezzi, viene a stabilirsi un
rapporto di proporzionalità fra una qualsiasi riduzione del salario e il
corrispondente aumento del tasso del profitto; ovvero, più in generale, che si
stabilisce una relazione inversa tra salario e profitto. Al punto che si
può rovesciare l’uso seguito di trattare il salario, e non il tasso del
profitto, come la variabile indipendente. Tanto più che quest’ultimo è
suscettibile di essere determinato da influenze esterne al sistema della
produzione, e particolarmente dal livello dei tassi dell’interesse monetario.
Mac. Così, l’unico “ricardismo” rimasto a Sraffa è
l’antagonismo puramente formale fra salari e profitti. Dico: puramente
formale, poiché esso si estrinseca indipendentemente dalla collocazione
ricardiana, secondo la quale il profitto (industrioso) corrente era
condizionato tanto dal tasso di interesse medio quanto dal conflitto
sussistenze-rendimento sulla terra “marginale”. Escludendo la rendita sulla
terra, le si attribuisce esclusivamente un ruolo di consumo improduttivo,
mentre il solo – proprio il solo – punto malthusiano di Ricardo era il
popolazionismo (che però a Ricardo serviva contro il landlordismo).
Non si capisce, perciò, come
gli sraffiani pretendano ora al titolo di neo-ricardiani, ora a quello
di neo-marxisti. Ma l’ambigua moda di far ricorso a quel prefisso
significa guardarsi indietro per vedere se gli antenati avrebbero o no
autorizzato la prosecuzione in neo. Dire che il concetto di sovrappiù
è neo-marxiano significa vedere se in Marx c’è qualcosa che autorizzi a
definire il plusvalore come sovrappiù; inoltre, se la radice
gnoseologica e storico-critica del plusvalore marxiano coincida con la radice
di plusvalore-sovrappiù, o se invece il concetto di sovrappiù non serva a
prendere una pignatta (il plusvalore) svuotandola del suo contenuto per mettervi
un diverso composto che conservi la pignatta come forma costante del nuovo
commestibile messovi dentro dichiarandolo neo; infine, se l’uso critico
di plusvalore trasmutato in sovrappiù serva come prima oppure diversamente:
supporre che intorno al sovrappiù si possa imbastire antagonismo sociale, come
intorno al plusvalore, significa che basti “antagonismo sociale” per fare del
marxismo teorico, il che Marx, proprio, respingeva.
Il “sovrappiù” andrebbe
piuttosto appiccicato alle scuole marginaliste (i cosiddetti neo-classici)
assai più che a Ricardo o a Marx: visto che normalmente – in equilibrio
concorrenziale neo-classico, nella postulazione walrasiana
l’imprenditore-capitalista concorrenziale chiude la sua giornata operativa
facendo ni profits ni pertes, contento del solo lavoro di direzione – i
profitti tendono a zero, questo significa introdurre un sovrappiù come
concetto, sul quale si incarna una sorta di contesa distributiva fra
capitalisti e classe operaia. Cosicché si possa salvare anche teoristicamente,
perdippiù, la capra (l’imprenditore, come servizio sociale rischioso, perché
concorrenziale) e i cavoli (i lucri temporanei, soltanto, per carità!,
temporanei).
L’impostazione, puramente
teoristica e equilibristica dell’antagonismo serve o per dichiarare il salario
variabile indipendente oppure il profitto. È questo il senso da attribuire
all’asserzione del signor Simplicio secondo cui “il discorso non cambierebbe se
si prendesse, invece che il salario espresso in termini di una qualsiasi merce,
il tasso del profitto come variabile indipendente”. Ora è di moda la seconda;
in particolare, più che in termini di tassi di profitto, attraverso la più
robusta sopravvivenza dei tassi di interesse sui diversi mercati che, insieme,
costituiscono il mercato dei teorici. Perciò oggi è il signor Abete che
potrebbe avvalersi, a contrario, della stessa categorizzazione di
“variabili indipendenti” usata dal pierre-carnitismo anni ‘70, sull’onda
intersoggettivistica dell’ultrasindacalismo “catartico”: potendosi ciò eseguire
assai chiaro e speditamente, sostituendo al salario, allora di moda, il
profitto, oggi prevalente, in una logica di pura “forza contrattuale” che
farebbe da referente implicito delle equazioni sraffiane.
Cosicché il tentativo,
intrecciato col pierre-carnitismo, che pretendeva di migliorare (o
“rafforzare”, come dice sovente il signor Simplicio) Marx liberandolo dal
fardello del valore-lavoro, per renderlo gagliardo di “aggressività sindacale”,
di “autunno caldo”, di “contrattazione a livello aziendale” – gagliardo, in una
parola, di salario come variabile indipendente – si è
inevitabilmente rovesciato, al ristabilimento della “forza contrattuale” del
capitale, in “aggressività padronale”, “congelamento delle lotte”,
“corporativizzazione della contrattazione nazionale”: in una parola, nel profitto
come variabile indipendente! Con il che si è dimenticato anche che fra
le molte rationes che inducevano Marx-Engels ad optare pel valore-lavoro
c’era anche che una classe operaia priva di una teoria generale del valore
perde la “coscienza di classe” e diventa pura combattività sindacale, e cioè
unicamente un elemento di compromesso interno al sistema capitalistico,
oscillante tra luddismo e tradeunionismo.
Pal. Ma in che mondo vive il signor Simplicio? Un
mondo in cui vi possa essere un uso “gratuito” della terra e delle risorse naturali
non è certo quello del modo di produzione capitalistico. [Ma, allora, non è un
caso che Sraffa attribuisca la rendita “differenziale” alla “scarsità” delle
risorse naturali, in piena sintonia con l’ideologia marginalistica, perdippiù
appiccicandola alla medesimezza delle risorse in quanto tali, e non alla loro
forma storica di appropriazione privata].
Così pure è un mondo
inesistente quello in cui viene calata l’ipotetica funzione di una “variabile
indipendente” – quale che essa sia, salario o profitto. Quanto a quest’ultimo,
l’assurdità dell’argomentazione sraffologica è stata giustappunto messa ben in
luce dal signor Mac. Rimarrebbe da chiedere al signor Simplicio che cosa
intenda dire allorché va affermando che i tassi dell’interesse monetario sono
determinati “da influenze estranee al sistema della produzione”!? E, di
grazia, da quali mai altre “influenze” – astrologiche, forse, o della dea
bendata – sarebbe toccato il governatore della banca centrale quando sceglie di
fissare il tasso dell’interesse monetario? Ma ciò non stupisce, sapendo
bene che la moneta per gli “economisti in libris” non è merce, merce
generale, denaro, e che dunque per loro essa cade sulla produzione
dall’esterno, dal più alto dei cieli.
Per ciò che attiene al
salario, invece, l’erroneità è anche – per così dirla, in termini graditi pure
agli esegeti (post)moderni – epistemologica. Appellarsi al salario come variabile
indipendente è innanzitutto un’imprecisione semantica, dappoiché per
poterlo dire “dipendente” o “indipendente” quel salario, così considerato,
dovrebbe trovarsi nelle condizioni di poter essere presupposto “variabile”. La
qual cosa è letteralmente indicibile. Non ha alcun senso discutere sui
possibili “aggettivi”, quando è il “sostantivo” stesso a essere messo in
questione. Insomma, in una parola, con buona pace del pierre-carnitismo, qui il
salario non è una variabile, semplicemente perché non può
esserlo, se non nell’idealtipo del sistema sraffiano. Ma proprio in quel sistema
tutte le grandezze sono date: cioè, si vogliono studiare le conseguenze
della distribuzione di un prodotto netto già dato, ottenuto in
condizioni date di mezzi di produzione e lavoro, giusta l’opportuna
scelta teorica di Sraffa. [I risultati di questo studio dovranno dare la
grandezza del tasso di profitto e l’insieme dei prezzi corrispondenti].
Ora, se tutto ciò
è dato, è anche perché lo è il lavoro in quanto attività nella sua
complessiva organizzazione sociale. Non si capisce come si possa sensatamente
pensare, in siffatta “fotografia” della società, che solo al salario sia
consentito di variare tra zero e l’intero prodotto netto (che Sraffa
aggrega come 1 — unità di conto). Se sono date le norme storiche
di produzione, in un dato luogo e in un dato periodo, saranno date
in media (consentendo solo piccolissime e irrilevanti oscillazioni) anche le
possibilità e le abitudini di consumo dei lavoratori. Già a James Mill – che
trasformava l’operaio in semplice venditore di merce, in cambio della
“partecipazione” a una quota del prodotto, per cancellare il carattere
specifico del rapporto di capitale – Marx rispondeva che “il salario,
grande o piccolo che sia, non è determinato dalla sua quota di prodotto, ma, al
contrario, la sua quota di prodotto è determinata dalla grandezza del suo
salario”: che è storicamente data —— checché ne pensi la sraffian
economics.
Forse il signor Simplicio
non ha capito che quando Marx definiva il salario innanzitutto come capitale
variabile, quella “variabilità” si riferiva al suo valore iniziale (dato)
capace – attraverso l’uso della forza-lavoro di cui può disporre il
capitalista – di accrescersi nella produzione di plusvalore. Codesta non
è la “variabilità” del salario. Allora, la dipendenza o l’indipendenza del
salario riguardano altre quistioni, che non la sua variabilità. Il salario è
sicuramente indipendente dai risultati del processo lavorativo; se
qualcuno invece pensasse di intenderlo come “quota” di milliana memoria — in una moderna ripresa post-marginalistica
della cosiddetta economia della partecipazione (o share economy).
Viceversa è dinamicamente dipendente, come avvertì Marx, dai movimenti assoluti
dell’accumulazione di capitale. [Corollario, troppo lungo per discuterlo ora,
di questi fraintendimenti sraffiani è l’uso surrettizio che in quel sistema
viene fatto – dicendolo e negandolo – dell’ipotesi di rendimenti costanti e di
artificiose proporzionalità].
Ma da quanto appena detto
circa il salario (di un lavoro che realmente non appare mai, in quanto tale,
nel suo uso, ma solo come quota di spesa per la “produzione di
merci a mezzo di merci”, senza lavoro e senza valore) emerge come immediata
conseguenza tutta la banalità della tanto conclamata relazione inversa
tra salario e profitto. Seguendo il depistaggio del vecchio Mill, quella
relazione può dirsi “inversa” per aver scambiato ancora una volta la causa con
l’effetto. Quando una grandezza è data, è ovvio che, qualora venga divisa tra
due persone (lavoratore salariato e capitalista, a esempio), la frazione
dell’uno può crescere o diminuire solo nella proporzione in cui quella
dell’altro diminuisca o cresca. Non occorre essere Marx per dire ciò, ma Marx
fu costretto a spiegarlo, e noi a ripeterlo, per gli evidenti tratti demenziali
che caratterizzano l’economia politica peripatetica.
Cosicché, il paziente
Karl fu costretto a precisare quanto segue: poiché il valore delle merci è
dovuto al lavoro degli operai, ciò che in ogni caso ne costituisce il
presupposto è questo lavoro stesso, che però è impossibile senza che l’operaio
viva e si mantenga, e quindi riceva il salario necessario. Salario e plusvalore
– queste due categorie in cui si distribuisce il valore della merce e lo stesso
prodotto – stanno dunque non solo in una relazione inversa l’uno
con l’altro, ma il prius, ciò che è determinante, è il movimento
dei salari. Il salario non aumenta o diminuisce perché il profitto (si dovrebbe
dire plusvalore) diminuisce o sale, ma, inversamente, è perché il
salario aumenta o diminuisce che diminuisce o sale il plusvalore (profitto).
Altrimenti, va detto che anche nei marginalisti (come insegna la neutra
freddezza di Wicksell) c’è, in forma corrispondente privata della sua genesi
causale, l’analoga relazione inversa tra salario e profitto: come vuole M. de
la Palice.
Perfino il “plagiato”
Dmitrev, che non è mai stato marxista, avvertì (inascoltato) che si attribuisce
spesso un’importanza esagerata alla proposizione, stabilita da Ricardo,
concernente quella relazione inversa. D’altronde, Marx aveva già completato il
suo commento critico, constatando come la scuola ricardiana avesse ridotto, e giustamente,
il problema a questa insulsaggine o esagerazione: poiché la comprensione di
questo fatto l’avrebbe costretta a scorgere che tra capitale e lavoro si
istituisce un rapporto del tutto diverso da quello della permuta. E costoro non
possono ammettere che il sistema borghese degli equivalenti si rovesci in una
appropriazione senza equivalenti. Il signor Simplicio – che almeno da questo
limitatissimo e distorto punto di vista non può non riconoscersi nella “scuola ricardiana”
– dovrebbe notare quel “giustamente”, per nulla ironico. Giustamente,
dal punto di vista di classe: e giustamente due volte, attesoché nel
sistema sraffiano è soppresso anche il lavoro come presupposto del valore
delle merci; facendo sì che il nesso causale di quella relazione
inversa, vieppiù insulsa, divenga oltremodo invisibile – sotto il falso nome di
“sovrappiù”.
Simpl. Al Maestro non sono mai piaciute le polemiche,
preferendo procedere normativamente e kantianamente – come ebbe a scrivergli
l’amico Gramsci – per classificazioni e definizioni. Dunque, atteniamoci a
codeste norme. Se l’economia produce più del minimo necessario per la sua
reintegrazione, vi sarà un sovrappiù da distribuire: a noi basta sapere questo,
e non ci interessa assolutamente indagare il perché e il come, ma soltanto il fatto
che questo sovrappiù “sorga”. La determinazione del sovrappiù è in linea di
principio assai semplice. Si suppongono noti: il salario reale
specificato in termini fisici, come aggregato di merci; il prodotto sociale,
anch’esso espresso come aggregato di merci; le condizioni di produzione,
vale a dire le quantità di mezzi di produzione e di lavoro necessarie alla
produzione. Ergo, i profitti hanno origine nel fatto che ai lavoratori
va meno di quanto viene prodotto (meno dell’intero prodotto netto).
Pal. Veramente una bella scoperta, questa del signor
Simplicio, per essere fatta nella seconda metà del xx secolo! Il povero vecchio
e malato Marx fu costretto, contro voglia e non per suo piacere, a scrivere il
lungo “scartafaccio” contro il programma socialdemocratico del partito operaio
tedesco, riunito a Gotha nel lontano 1875: per tentare di impedire che, in alto
sulla bandiera del partito, fosse scritta la parola d’ordine lassalliana del
“prodotto integrale del lavoro” (che, secondo quella falsa interpretazione,
spetterebbe ai lavoratori). Non a caso anche i lassalliani, prima degli
sraffiani, blateravano di “giusta ripartizione” del prodotto netto. E Marx – con
insofferente pazienza – mostrò che neppure nella società comunista i
lavoratori avrebbero potuto ottenere il “prodotto integrale del lavoro”. Cioè,
avrebbero necessariamente ricevuto “meno dell’intero prodotto netto” – a
dispetto della conclusione del discorso sraffiano, perdippiù applicato al modo
di produzione capitalistico – poiché le detrazioni dal prodotto netto sono una
necessità economica di qualsiasi società, che non hanno niente a che vedere con
l’equità. Dunque, che ai lavoratori vada meno di quanto viene prodotto è ovvio:
e, perdippiù, non dice niente.
Altro che sovrappiù! Non
a caso fu una delle cialtronate di Proudhon dire che, dal punto di vista
“soggettivo” – come da lui erano interpretate le forme sociali borghesi
– la merce, il denaro e il capitale sono “identici”. Da tale “soggettivismo”
secondo cui tutte le vacche sono grigie – come ebbe a far notare Marx da Hegel
– discende inevitabilmente un’imperativa e categorica definizione di
“sovrappiù” in chiave di bellissimo comandamento morale: “ogni lavoro deve
fornire un’eccedenza”. Se si rimuove il discorso marxiano sull’indeterminatezza
in sé e per sé della giornata lavorativa (di cui una sola parte può
costituire il lavoro necessario), la cui determinabilità pratica
costituisce un’antinomia, si sopprime di fatto la lotta – non sul
salario, valore di scambio della forza-lavoro, ma sul suo uso – tra
il capitalista collettivo, cioè la classe dei capitalisti, e l’operaio
collettivo, cioè la classe operaia. Non rimane che la miseria
categoriale del “sovrappiù”: la cui grandezza relativa al prodotto nel quale è
rappresentato il lavoro necessario, senza minimamente badare agli uomini che vi
stanno dietro, è lo scopo determinante della produzione di ricchezza per la
classe dominante – come sosteneva l’acritico e prolisso Arthur Young,
contemporaneo di Smith, definito da Marx “il fanatico del sovrappiù”. È un
fanatismo il cui contagio è giunto fino ai giorni nostri.
Continua, peraltro, a
rimanere un mistero gelosamente conservato dagli “economisti in libris”,
anche nella nuova dottrina peripatetica, il perché essi si ostinino a non dire
realmente donde “sorga” codesto sovrappiù. Ma non si avvede il signor Simplicio
delle implicazioni di ciò che dice? Le condizioni di determinazione del
sovrappiù – da lui supposte, e con le quali non si può che consentire appieno –
sono precisamente le medesime che stabiliscono, presso Marx, la determinazione
del concetto (come direbbe il vecchio Hegel) del valore, fornendo
altresì la base per procedere dal concetto alla determinazione possibile della grandezza
del valore medesimo (e di qui delle sue forme mutevoli). Codeste
condizioni rappresentano, dunque, i fondamenti stessi della teoria del
valore e del plusvalore, sia nel loro aspetto qualitativo sia in
quello quantitativo, che nel passaggio di forma dall’uno
all’altro e nelle loro trasformazioni interne a ogni grado dell’analisi
della realtà.
Perché allora la
sraffologia si danni l’anima per confutare la teoria marxiana del valore e del
plusvalore – al fine di ... “rafforzarla”! – complicandosi la vita, fino a
impiccarsi con subsistemi virtuali e fittizi e trasparenze ambite, circoli
viziosi e simultaneità formali surrettizie, prezzi “relativi” e variabili
indipendenti, diventa un mistero nel mistero. La realtà vera del modo di
produzione capitalistico, così com’è, con quelle condizioni poste, è lì bell’e
pronta per essere spiegata compiutamente – come Marx ha insegnato, senza complicazioni
inutili ed errori – ma gli “economisti in libris” si ostinano a non
vederla, e soprattutto a non farla vedere agli altri.
Gli è che – come ebbe a
sostenere ripetutamente un allievo russo di Marx – la verità è
rivoluzionaria, e ciò a molti peripatetici non fa piacere. Dappoiché la
domanda posta dalle condizioni, sociali e teoriche, di vigenza della teoria del
valore e del plusvalore di Marx contiene già in sé, implicitamente, la
risposta. E la risposta inequivocabile è: il comando sul lavoro
altrui da parte della classe proprietaria dei mezzi di produzione trasformati
in capitale, a fini di ottenimento di un plusvalore mediante sfruttamento
della classe affatto priva di proprietà. Non si tratta, cioè, né di un
generico e anodino “sovrappiù” fuori della storia, né pure di una romantica
lamentazione sullo “sfruttamento” dei lavoratori, recuperato a posteriori
come giudizio etico, bensì della sola possibile dimostrazione scientifica delle
modalità di funzionamento di tale rapporto sociale —— ossia della
comprensione della teoria del valore e del plusvalore in quanto teoria
economica delle classi sociali.
Alle spalle di tutto ciò
c’è l’individuazione del processo di formazione del prodotto netto (e
non, ancora una volta, del “sovrappiù”) in qualsiasi forma della produzione
sociale organizzata – massime in quella capitalistica – e della sua origine.
Basta chiedersi, molto semplicemente, a fronte di che sta il prodotto
netto [e poi il plusprodotto — che, insieme al pluslavoro, non è stato
“inventato” dal capitale, ma da esso solo trasformato in plusvalore, conforme
alla trasformazione del prodotto in merce]. Non c’è molto margine di scelta, ed
essa è tra l’altro molto facile: basta essere chiari ed espliciti. O si dice
esplicitamente che a fronte del prodotto netto c’è il lavoro vivo
[ciò che diventa neovalore e lavoro astratto nella forma sociale
capitalistica e nella corrispondente teoria scientifica del valore],
cosicché a fronte del plusprodotto si abbia il pluslavoro [ciò
che diventa, nell’omonima teoria scientifica, plusvalore e dunque anche lavoro
alienato non pagato], o si incorre nell’obbligo di apporre qualcos’altro di
fronte a ciò.
Ecco allora che l’erronea
“vulgata” fisiocratica vi pone la terra, détta così a mo’ di metonimo
quale “madre” di tutte le ricchezze della natura, per non lasciar al solo lavoro
vivo il merito della trasformazione attiva di essa e dunque della
produzione sociale — come invece realmente concepivano la cosa gli illuministi
dell’encyclopédie. E quel che più importa è che l’ideologia borghese,
fattasi dominante, col marginalismo neo-classico e col keynesismo di varia
sponda, non abbia esitato neppure un istante a generalizzare quella “vulgata”
onde giustificare il prodotto sociale con una supponente pluralità dei
fattori produttivi, più o meno definiti “originari”: la formula
trinitaria — terra, capitale, lavoro — rammentata all’inizio della
discussione è la rappresentazione compiuta dell’imbroglio. In codesta “vulgata”
tendente alla “pluralità” delle fonti di valore si trova a suo perfetto agio
Sraffa, in una logica che potremmo dire tecnocratica, giacché fa appunto
derivare il suo sovrappiù (immediatamente chiamato profitto) dai “metodi
di produzione” di cui consiste lo stato della tecnica – in una
rappresentazione onnicomprensiva e globale della società – già prima che
appaia il lavoro!
Mac. Le grandezze macroeconomiche di Sraffa sono
espresse in 1 [unità] e quelle microeconomiche come frazioni di 1
[unità]. In tal modo Sraffa dà per note le grandezze macroeconomiche ... che
poi sono fintamente macroeconomiche. Da dove venga quel massimo R,
tasso di profitto o di sovrappiù, che Sraffa dà come parametro, da quali
processi che stiano alle spalle del parametro e delle equazioni stesse, Sraffa
non ci dice. Egli definisce il profitto corrente r=R-Rw, come
percentuale massima ridotta di una percentuale su di essa che va al salario, facendo
operazioni concettuali che non hanno nulla a che fare con le operazioni concettuali
che servivano a Ricardo o a Marx. Non si riesce a capire, allora, in che senso
sia utile disquisire sul neo-ricardismo o meno, sul neo-marxismo o meno, di
Sraffa.
In generale in Sraffa, e
in genere nei formalisti, c’è la tendenza a misurare una quantità con un numero:
il numero può esprimere una quantità, ma la quantità ha una sua provenienza
storica traducibile in numero senza che, peraltro, perda i propri diritti di
specifica provenienza. In effetti, nella realtà, il Pil globale, certamente
algebrizzabile come 1 [unità] da spartire, è, nella realtà, un risultato
(e non un dato) statisticamente cumulativo, mentre nel discorso
sraffiano diventa una quistione di ripartizione di entità (ipoteticamente)
note. Oppure, quanti sono i lavoratori costituenti la mano d’opera totale? Sono
1, per Sraffa, che si frazionano in singole industrie – un trucchetto
per rendere unità di conto la massa dei salariati, renderla non solo data
ma nota. Leggendo Sraffa, sembra che egli abbia, piuttosto,
“sraffizzato” Ricardo per ottenere un nuovo ramo del sapere intitolato,
appunto, sraffian economics, fornito, all’occorrenza, di cattedre,
riviste e così via. [Quindi, fa molto peggio di quanto gli sraffiani suppongono
che facesse Marx nella “trasformazione”, muovendo da grandezze date senza
nessuna indagine sul loro costituirsi].
Pal. Che un tal risultato riesca sorprendente, non
v’è da farne un gran caso – direbbe Hegel – ma vi sarebbe piuttosto da meravigliarsi
di quella meraviglia che si mostra nella coscienza ordinaria e nel cosiddetto
senso comune, il quale non è precisamente il buon senso. Non basta che le cose
siano “note” per essere “conosciute”. “E la determinazione mi pare che si deva
prendere da quel che è uno e certo” – osservava giustamente Sagredo al
Simplicio dell’altro più famoso dialogo.
E quel che è uno e certo,
ma che deve ancora essere conosciuto o riconosciuto da tutta l’economia peripatetica,
è il lavoro nella sua centralità a fronte della formazione di valore:
e non a parole – magari sotto la metafora sraffiana del “salario del lavoro”
che prende il posto del lavoro come attività, ridotto a mera frazione di 1
nella ripartizione dei costi salariali tra le diverse industrie – ma ripetendo,
da Marx, che il lavoro è l’unica fonte di valore e l’unica fonte attiva
di valore d’uso. Dunque è da questa caratteristica generale della produzione
centrata sul lavoro – la quale diventa determinazione particolare
ricompresa e sussunta alle categorie del capitale – che trae il proprio
“cominciamento” la riflessione sul processo della produzione sociale, e
perviene attraverso lo sviluppo dialettico delle contraddizioni al “fondamento”
della teoria del valore (prima, nella forma semplice di merce) e del plusvalore
(poi, nella sua forma capitalistica).
Il valore, e la sua
“legge”, non può essere rabbassato a una quistioncella di “misura” – talché
Sraffa, malamente mutuando il primo Ricardo, possa impunemente pensare di
sostituire il lavoro col grano o con una “merce composita” idealtipica,
addivenendo al nulla di una “produzione di merci a mezzo di merci”,
anziché produzione di merci a mezzo di lavoro. [La curiosa doppia incongruenza
sulla “merce” forza-lavoro discenderà proprio di qui]. Ma, suvvia, il signor
Simplicio che cosa crede che intendesse dire Marx quando, fin dalle prime
pagine del Capitale, avvertiva che la duplicità del lavoro (seguita
alla duplicità della merce) è il perno intorno al quale ruota la comprensione
dell’economia politica?
Simpl. La distinzione tra lavoro concreto e
lavoro astratto, nei termini in cui la formulava Marx, chiaramente non è
accettabile, in quanto non si può identificare valore e lavoro (astratto). Dato
che la confusione tra i due tipi di lavoro fatta dall’economia volgare è stata
superata dalle moderne teorie marginalistiche, che hanno abbandonato la teoria
del valore-lavoro, la loro critica oggi non può più essere condotta con le
categorie di Marx, per cui occorre abbandonare sia quella distinzione sia la
teoria del valore-lavoro.
Un’analoga funzione di
chiarificazione della confusione del sistema marxiano del valore-lavoro sembra
essere fornita dallo spiegare l’importanza che Marx attribuiva alla distinzione
tra lavoro e forza-lavoro: l’estensibilità, in verità dubbia,
della legge del valore alla forza-lavoro non è argomentabile come per le altre
merci, perché la forza-lavoro non è prodotta da capitalisti come tutte
le altre merci. Dovrebbe essere ora comprensibile come mai vi sia stata una
diffusa resistenza da parte marxista a riconoscere il contributo di Sraffa come
un rafforzamento dell’impostazione di Marx.
Pal. Quel “perché” è mirabile! Dunque voi, per
cercare di venire a capo di un impiccio, ne aggiungete un altro. Si contempla
qui il mistero della merce. Sraffa muove da lontano, da “una società primitiva
che produce appena il necessario per continuare a sussistere”, definendo
ciononostante questi prodotti senz’altro come merci che “vengono
scambiate l’una con l’altra al mercato”: dunque concependo la necessità
dello scambio come innata e primigenia e caratterizzando così la forma
di merce del prodotto non già come un attributo sociale e storicamente determinato
ma solo come una definizione “tecnica” neutra. [È ovvio che una simile deformazione
debba avere conseguenze ancor più deleterie sull’annullamento della forma di
merce riferita alla forza-lavoro].
Infatti, codesta
concezione singolare si trasmuta subito nell’idea, sbagliata, che la merce sia
definita solo dall’esser prodotta capitalisticamente: col che si deve
presumere che quella “società primitiva” tecnicamente neutrale sia già fin
dall’inizio capitalistica. A tale idea si affianca l’altra, come corollario
dell’errore, secondo cui sembra che la “legge del valore” sia di pertinenza
precipua del modo di produzione capitalistico: laddove Marx è ben attento ad
avvertire che, parlando di valore nei primi tre capitoli e mezzo del Capitale,
non si ha ancora a che fare con il rapporto di capitale (e dunque neppure con
la trasformazione del lavoro in lavoro salariato e la riduzione della
forza-lavoro a merce).
Proprio per questo –
errore nell’errore – la sraffologia esclude dapprima la forza-lavoro dal
novero delle merci (in quanto non prodotta da capitalisti come tutte le altre
merci: e questa, tra parentesi, sarebbe l’unica affermazione giusta) – con
un’operazione non degna di uno scienziato, quanto piuttosto del vescovo di Roma,
Karol Wojtyła, che pur parlando di “mercato” del lavoro afferma contestualmente
che il lavoro (o, per meglio dire, la forza-lavoro) non è una “merce”: mercato
senza merce, e di che, allora? Dappoi la sraffian economics, per
concludere, smentisce se stessa – con un ulteriore errore elevato a potenza –
attesoché tra merci a mezzo delle quali si producono le altre merci ci sarebbe
anche il lavoro (non più nomato forza-lavoro). È così completata l’intera
fallacia proprio nell’unico punto in cui il lavoro – in quanto attività,
ossia valore d’uso della forza-lavoro – ha da essere considerato
come non-merce.
In tutto ciò – nonostante
il gran parlare di salario, variabile indipendente, lavoro più o meno trascorso,
e via inversamente relazionando – nel sistema sraffiano, in conformità con gli
occulti dettami marginal-keynesiani, non solo non opera mai il lavoro vivo in
quanto attività, come abbiamo già discusso, ma si perde anche ogni traccia del
rapporto di lavoro salariato in senso proprio. Se infatti il lavoro non
si scambia contro capitale – capitale variabile, per la precisione – ma
“partecipa” semplicemente alla ripartizione di una “quota” del reddito
nazionale, il “salario” è un puro nome, flatus vocis, essendo per
definizione immediatamente reddito senza mai essere stato prioritariamente
mediato dalla forma di capitale. Quel “salario del lavoro” non è lavoro
salariato, ossia in nessuna sua determinazione appare la forma “dipendente”
del lavoro e la sua sottomissione al capitale.
È questa appunto la
rappresentazione di una società di liberi e uguali produttori indipendenti,
fonte di ogni mistificazione ideologica borghese, che tenta di ignorare le
contraddizioni specifiche del modo di produzione capitalistico, risolvendo i
rapporti degli agenti di tale processo nelle relazioni semplici che sorgono
dalla circolazione delle merci: mistificazione contro cui Marx costruì tutta la
sua critica, divenuto invece luogo comune con cui anche Sraffa cerca di darsi
importanza. La specificità dello scambio fra lavoro e capitale viene dissolta nella
genericità dello scambio semplice di merci, azzerando la dimostrazione
analitica dello sfruttamento nella sua specifica forma capitalistica — forma,
appunto, cui occorre togliere la maschera di equità dello scambio.
Verbigrazia, che resta di Marx senza quella da lui stesso indicata come la sua
sola “scoperta”— la merce forza-lavoro, appunto — unica
connotazione scientifica per l’identificazione oggettiva della classe operaia?
Simpl. Ma tutto questo discettare sul lavoro e
sul valore che lo incorpora sembra essere fatto più per le implicazioni
civili e politiche che non per il rigore analitico. La matematica non è
un’opinione. Non nascondiamoci che lo stesso Marx si era accorto che le sue
equazioni erano difettose. La corretta determinazione dei rapporti di scambio,
dunque, mostra la presenza di un errore nella determinazione del tasso di
profitto in Marx, e mostra inoltre la superfluità delle misurazioni
in termini di lavoro incorporato, che Marx riteneva essenziali. Il
nostro risultato è che i valori-lavoro non sono necessari per la determinazione
del tasso di profitto e dei prezzi di produzione: queste grandezze
possono infatti essere determinate a partire direttamente da
coefficienti espressi in unità fisiche, piuttosto che in lavori contenuti.
La nostra dimostrazione
si basa sul seguente sillogismo: il ruolo della teoria del valore-lavoro in
Marx è essenzialmente lo stesso che in Ricardo, ossia quello di permettere una
determinazione del tasso di profitto e dei prezzi entro l’impostazione del
sovrappiù; la sostituzione di equazioni simultanee per la determinazione di
prezzi e profitto senza valori-lavoro alle equazioni di Marx consente un calcolo
corretto e rappresenta un “rafforzamento” della teoria economica di Marx; quindi,
la teoria marxiana del valore-lavoro è superflua e inutile.
Pal. Benissimo, veramente. E che dite voi signor
Simplicio? Poco fa ammettevate che le condizioni per la soluzione del sistema
sraffiano sono le stesse determinanti del valore in Marx, e ora al contrario
dite che la teoria del valore è inutile. Regola eccellente per non saper mai
conoscere né i valori né i prezzi; cosicché, senza determinazione del
plusvalore mediante il tempo di lavoro, il vostro profitto medio – come
scrisse Marx a difesa di Ricardo contro l’economia volgare – è media di niente,
pura fantasia!
Sraffa – mutuandola da
Leontiev, von Neumann & co. – assume come “nota” (ma non conosciuta!) la cosiddetta
matrice della tecnica. La trova bell’e pronta, come tabella di
“coefficienti” e l’eleva insediandola a livello di “sistema”. Ma gli sraffiani
non dicono mai una parola sulla nascita oscura di quella “tecnica”. Siccome
essa rappresenta la matematizzazione di un problema economico (dunque sociale),
essa non dice nulla finché non si chiarisca la natura di questo
problema. I coefficienti o parametri di quella matrice non sono numeri
qualsiasi, che si possano supporre “calcolati” da un ingegnere. Essi sono il
risultato di una articolata elaborazione che commisura una particolare massa
dei mezzi di produzione al volume del prodotto lordo sociale (preso come
unità). Ciò che andrebbe spiegato – e che tutta quanta l’economia peripatetica
“in libris” tace – è il fatto che quella trasformazione dei mezzi
di produzione in prodotto è tale, per quantità e composizione, solo in
virtù del lavoro erogato. La differenza tra quelle due masse è la massa
del prodotto netto, di fronte al quale c’è il lavoro vivo e basta, come
abbiamo già argomentato.
Allora, la misura
di quei coefficienti “tecnici” della matrice è tanto poco tecnica quanto invece
è sociale – nel senso che in tali elementi è già incluso tutto ciò che serve
per la determinazione del concetto di valore, dianzi ricordata, talché è
l’effettuarne o no il “calcolo” che diventa del tutto inessenziale. Ciò che è
essenziale è che, nelle condizioni storicamente determinate del modo di
produzione capitalistico, la “conoscenza” (e non semplicemente la “notorietà”)
di codesti elementi vale come rispecchiamento analitico del porre teoreticamente
il valore: se gli sraffiani pensano, negandolo verbalmente, di sfuggire
a ciò, è solo affar loro.
D’altronde, alla radice
del tutto, c’è un problema di principio molto più profondo. Anche la
sraffologia, normativa e kantiana, dovrebbe interrogarsi su che cosa sia una
“grandezza” e perché essa sia “misurabile”. Inserendosi criticamente nella
disputa – un po’ “caprina”, e sulla quale non è qui possibile insistere più di
tanto – tra Ricardo e Bailey, circa la considerazione del carattere, assoluto o
relativo, del valore, Marx critica quel “cacasenno di Samuel Bailey” perché
vorrebbe determinare il valore delle merci mediante il valore di un altra merce
[il non meglio identificato “valore del lavoro”, il che significa già
presupporre il lavoro in quanto merce]: ma lo sraffismo non fa altrettanto?
Anzi, peggio: attesoché, avendo eliminato il valore, passa direttamente ai
prezzi, si costringe così da se stesso a ricercare spasmodicamente una “misura
invariabile” di tali prezzi.
Non comprendendo il
problema di una misura immanente – che non può essere il valore o prezzo
di un’altra merce, perché chiunque dovrebbe sapere che il concetto e
l’unità di misura devono essere indipendenti da ciò che si vuole
misurare – quel problema viene identificato, ed è perfino istintivo che sia
così, finché le due cose vengano confuse, con la ricerca di una “misura
invariabile”. Seppure il valore di una merce espresso in rapporto al tempo di
lavoro (che non è merce) può essere convenzionalmente definito valore “assoluto”,
va da sé che il valore di una merce in termini di un’altra merce è
necessariamente, per definizione, “relativo”: tanto che riferirlo al valore
di scambio delle merci diventa perfino un nonsenso, non potendo essere
altrimenti. Ma, frastornati dal loro abbandono della base di valore e confusi
nella ricerca dell’invariabilità di una misura di cui non conoscono
l’immanenza, gli sraffiani pleonasticamente insistono a definire i loro
rapporti di scambio come prezzi relativi —— come se il prezzo potesse
avere un altro carattere!
Simpl. No, è la necessità in cui ci troviamo di dover
esprimere il prezzo di una merce in termini di un’altra – la quale viene
scelta arbitrariamente come misura dei valori – che complica lo studio dei
movimenti di prezzo che accompagnano ogni cambiamento nella distribuzione del
reddito nazionale. Se potessimo scoprire una merce composita, le cui variazioni
di prezzo rispetto ad altre merci abbiano origine esclusivamente nelle
peculiarità di produzione delle merci con cui essa è confrontata, e non nelle
sue proprie, saremmo in possesso di una misura invariabile dei valori
capace di isolare le variazioni di prezzo di qualsiasi altra merce, in modo da
poterle osservare come in vacuo. Una mescolanza di tal genere – in cui
le varie merci vengano prodotte nelle stesse proporzioni in cui si ritrovano
nel complesso dei mezzi di produzione – costituisce la merce composita tipo o merce-tipo.
I matematici, interrogati come esperti, ci assicurano che nell’individuazione
formale della merce-tipo non si incorre in incongruenze matematiche.
Mac. C’è da cadere dalle nuvole, all’affermazione del
signor Simplicio: che c’entra un discorso di congruenze realmente plausibili
(di realizzabilità possibili) con un discorso di congruenze algoritmiche?
Sraffa muove dalla merce invariabile di valore enfatizzando una preoccupazione
teorica di Ricardo, da cui nei fatti Ricardo era assai meno preoccupato. Il che
significa rendere formale – teoristizzare – la mancanza reale di tale merce.
Chiamerei questo, piuttosto, un trabocchetto-tipo dell’economia formale.
Supposto un Ricardo
preoccupatissimo di una possibile merce invariabile di valore, è conseguenza
ovvia per Sraffa accedere alla strampalatissima fabbricazione di un submercato
fornitore di merce-tipo. Ovverosia, una volta deciso che la merce invariabile
del valore sia la preoccupazione principale di Ricardo (e che Sraffa sia da
interpretare, secondo gli sraffologi, in chiave di “problema della
trasformazione”) non rimane che vedere se, manipolando il mercato dato, lo si
possa ridurre in un altro mercato che possieda le stesse equazioni pur
essendo vincolato ad avere paniere di valore immutabile. Il matematico ci
informa che la cosa è possibile. Se ho ben capito il salariato sarà pagato nel
mercato originario in unità di merce-tipo — diciamo “sesterzi-tipo”. Ma qui c’è
qualcosa che non mi è chiaro.
Pal. Chiariamolo subito, allora. Sraffa stesso
definisce il marchingegno del sistema-tipo come ausiliario, virtuale e
immaginario. In effetti è facile mostrarne l’incoerenza e l’inutilità, poste le
condizioni che sono richieste per individuarlo a confronto con le tre
condizioni accettate dal signor Simplicio per determinare facilmente il
sovrappiù. Orbene, date queste ultime, non c’è nessunissimo bisogno di
inventarsi alcun sistema sub-normale da scovare in nuce nel sistema
reale, con la presunzione di rendere questo più “trasparente”. Esso è già di
per sé trasparentissimo, basta avere occhi per vedere. Già Marx criticava così
il “programma di Gotha”: “il socialismo volgare (e con esso una parte della
democrazia) ha ereditato dagli economisti borghesi l’abitudine di considerare e
trattare la distribuzione come indipendente dal modo di produzione, e perciò di
rappresentare il socialismo come qualche cosa che riguarda essenzialmente la
distribuzione. Ma dato che i rapporti reali sono stati da molto tempo
messi in chiaro, perché tornare indietro?”.
A maggior ragione risulta
assurda e incomprensibile la conseguente misurazione, anche del salario, in
merce-tipo. Sraffa dice, en passant, che le proprietà del sistema
immaginario corrispondono a quelle del sistema reale alla sola
condizione che il salario sia espresso in termini di prodotto-tipo. Molto si è
discusso sul significato da attribuire a quel “espresso in termini” —— tanto
che il signor Mac ebbe a chiedersi che senso potesse avere, rispetto alla
realtà della società civile, ipotizzare la corresponsione del salario in “sesterzi-tipo”.
Senza dilungarsi su quest’altra futile quistioncella sraffologica, basterà dire
che quella “sola” condizione invalida tutta la costruzione virtuale dello sraffismo.
Infatti si danno i
seguenti casi: uno - se si pensasse di “esprimere”, misurare o pagare, i
salari in merce-tipo (che include bulloni, olio combustibile e quant’altro) non
si saprebbe mai che cosa potrebbero farci con tutto ciò i lavoratori, se non scambiarli
con mezzi di sussistenza; per la qual bisogna si dovrebbero conoscere proprio
quei rapporti di scambio o prezzi da cui la sraffologia è rifuggita per
gingillarsi col marchingegno-tipo; due - se invece, come preferiscono
fare alcuni allievi del Maestro per invocare maggiore credibilità, si partisse
dalla composizione data e nota (ma, ahinoi, evidentemente non conosciuta)
del salario nei cui termini esprimere, questa volta a contrario, il
prodotto-tipo, si perverrebbe a due sottocasi, diversi ma entrambi distruttivi
del subsistema virtuale sraffiano; ossia, due-bis. si scivolerebbe in
una variante simmetrica al caso uno, giacché questa volta sarebbero i capitalisti
che non saprebbero cosa farsene di aringhe affumicate, olio d’oliva e
manicaretti vari, se non scambiarli con mezzi di produzione; con tutto
ciò che segue per quanto riguarda il ruolo dei prezzi; due-ter. si può,
invece – “e massime potendosi ciò eseguire assai chiaro e speditamente” –
partire dalla vera conoscenza del salario materiale, nella sua
composizione merceologica media, per determinare tutte le “grandezze” che si
desiderino o che occorrano direttamente nel sistema reale, con assoluta
“trasparenza”; e ciò per la banale ragione che le informazioni necessarie,
rientrate dalla finestra nella composizione merceologica del salario
materiale, sono in numero esattamente uguale a quelle date dai prezzi
cacciati dalla porta: con il che il presunto vantaggio chiarificatore del
sistema-tipo e dei suoi ammennicoli vari di salario-tipo, rapporto-tipo,
eccetera-tipo, si dissolve come neve al sole.
In effetti, con quei
medesimi dati che servono per determinare il sovrappiù del sistema reale
– ordinati e disposti in una diversa maniera, adeguata al nuovo scopo [ma la
matematica serve a questo, anzi solo a questo, e non a farne corpo
mistico del falso scientismo] – è possibile, all’occorrenza qualora lo si
desideri, calcolare tasso di profitto e prezzi, senza nessuna interferenza o
ambiguità e, soprattutto, senza doversi appellare a nessuna “misura
invariabile”. D’altronde, sarebbe bastato ricordare che le “conoscenze” che
stanno alla base di quegli eventuali calcoli pseudo-ingegneristici sono proprio
quelle della teoria del valore, opportunamente predisposte.
Ecco perché del libro di
Sraffa del 1960 bastano le prime ventuno proposizioni e pagine corrispondenti.
Il signor Mac ha opportunamente rammentato dianzi, all’inizio della
discussione, che Sraffa negli anni ‘20, quando aveva appena cominciato il suo
definitivo romitaggio cantabrigense, occupandosi attivamente di Gramsci,
studiando Walras e Ricardo e traducendo il suo carissimo amico Keynes, leggeva
con grande attenzione le pagine dell’originale russo di un libro – la cui unica
copia disponibile in occidente era in suo possesso, non essendone reperibile
ancora neppure alcuna traduzione – dell’economista matematico Vladimir Karpovič
Dmitrev. Ma non sa, forse, il signor Simplicio che cosa contenesse quel
prezioso libriccino?
Dmitrev fu il primo ad
analizzare comparativamente le opere di Ricardo e di Walras, allo scopo
esplicito di mettere – abbastanza arbitrariamente, ma con molta originalità per
l’epoca – le vesti formali del secondo sul corpo del primo, per costruire una
teoria formale della distribuzione e dei prezzi “senza valore”,
in una configurazione algebrizzata di equilibrio economico generale. Vladimir
Karpovič dimostrò colà la perfetta e completa equivalenza tra il calcolo dei
prezzi come lavoro di epoche diverse (in un corretto sviluppo in serie di
Taylor, e cioè senza presunti “residui” di merci) e la loro soluzione come
sistema di equazioni lineari omogenee (ossia, come soluzione solo formalmente
simultanea) – ciò che includeva anche i casi-limite matematici, evitando così
di scivolare in interpretazioni mistiche sui supposti meriti del lavoro
“datato” trascorso. Costruì pure una “merce composita”, ma solo per misurare
“invariabilmente”, a posteriori, i prezzi. Mise in luce l’importanza
della composizione merceologica del prodotto globale rispetto all’insieme dei
mezzi di produzione (ciò che in seguito sarebbe stata chiamata merce-base),
e soprattutto della composizione del salario rispetto alla soluzione del
sistema [per queste motivazioni puramente matematiche, sottolineò i vantaggi,
appena formali, della possibile individuazione di un sub-sistema economico
virtuale che producesse solo, direttamente e indirettamente, le merci per il
salario]. Date queste basi analitiche, non commise neppure l’errore
dell’economia peripatetica sraffiana sull’individuazione delle determinanti
del tasso del profitto, potendo indicare perciò pure il senso – invero da lui
stesso considerato del tutto limitato – della “relazione inversa” tra salario e
profitto.
Ma tutto questo lavorìo
fu progettualmente svolto da Dmitrev proprio con l’intento di svuotare la
pignatta ricardiana del valore (e a fortiori quella marxiana del
plusvalore) per metterci dentro il commestibile walrasiano. Ricardo era ridotto
a un caso particolare di Walras. Il signor Simplicio si chiederà che cosa
c’entri Sraffa in tutto ciò. Bene: innanzitutto, quanto ai contenuti
teoristici, il suo stesso sistema post-ricardiano senza-valore, pallida
copia di quello, è destinato a seguire la medesima sorte, senza poter dunque
accampare nessuna ragione per pretendere un qualche riferimento a Marx e al
marxismo; e ciò giacché, in secondo luogo, tutte le trovate di Dmitrev appena
elencate sono esattamente quelle che Sraffa ha travasato senza pudore nel suo
scritto durato oltre i 23 anni della sua vita e almeno 35 fino all’attuale sopravvivenza.
Né interessa ora più di tanto accusar Sraffa di plagio – che pur è ravvisabile,
anche se nessuno nella ricerca scientifica inventa mai qualcosa di
assolutamente nuovo – ancorché non finisca di stupire la circostanza misteriosa
per cui Sraffa, nei suoi acknowledgements, non fece la menoma menzione
di quel libro, più unico che raro: a meno di pensare che ciò non fu tanto per
questione di immagine personale, bensì per salvaguardar l’operazione “politica”
di inscenato “rafforzamento” del marxismo perseguita dai nuovi peripatetici,
che altrimenti sarebbe stata svilita e impedita pregiudizialmente per
l’appartenenza “walrasiana” della fonte primaria medesima.
Mac. In tal modo, dunque, la nuova economia
peripatetica, la sraffian economics congiuntamente con la sraffian
mathematics [occorre abituarsi all’idea che esiste il matematico-economico
professionista (pagato come tale, come in un nuovo “mandarinato”) addetto a
controllare la congruenza formale dei papers] ha trasformato un problema
sociale in un problema algebrico. Noi siamo garantiti dalla possibilità
algebrica che un mercato dato sia riducibile a un altro mercato
che possieda le stesse equazioni di struttura, pur essendo il mercato “ridotto”
(ovvero manipolato) possessore di una merce-tipo con cui pagare i salari in
quello dato.
Simpl. Il Maestro ha già dimostrato che con i prezzi si
può fare benissimo a meno dei valori, e che, grazie all’esperimento in vacuo
del sistema-tipo, non c’è altro da aggiungere. Ma se i signori Mac e Pal hanno
ancora soverchi dubbi in merito al significato del sistema sraffiano, occorrerà
spiegar loro che cosa noi intendiamo, nella nostra soluzione formale, per simultaneità.
Le cose, a nostro parere, stanno nel modo seguente.
La difficoltà non può
essere superata col distribuire il sovrappiù prima che i prezzi siano
determinati. La ragione di ciò è che il sovrappiù dev’essere distribuito in
proporzione ai mezzi di produzione, e una siffatta proporzione fra due
aggregati di merci eterogenee (e cioè il tasso del profitto) non può essere
determinata prima che si conosca il prezzo delle merci. D’altra parte, non si
può differire la ripartizione del sovrappiù fin dopo che i prezzi siano
conosciuti, perché i prezzi non possono essere determinati prima che sia
conosciuto il tasso del profitto. Ne risulta che la ripartizione del sovrappiù
deve avvenire attraverso lo stesso meccanismo e nello stesso tempo in cui
avviene la determinazione dei prezzi delle merci.
Il problema sorge dunque sol
perché la misurazione del tasso del profitto è fatta come rapporto di
due aggregati di merci (profitti e capitale anticipato) di cui occorre conoscere
i prezzi; ma nella determinazione di questi entra necessariamente quel tasso
del profitto, che è così da determinare simultaneamente con quei prezzi,
onde evitare un pericolo di circolarità.
Mac. Tramite questa preoccupazione Sraffa (o la
sraffologia) passa al “problema della trasformazione”. E cioè arriva al problema
della trasformazione con preoccupazioni assai diverse da quelle di Marx. Per la
verità, Sraffa neppure accenna al problema di Marx [di cui fa appena il nome
solo tre volte nell’appendice sulle fonti, ma a proposito del sovrappiù in
agricoltura, del tasso massimo del profitto e del capitale fisso]. È stata la
sraffologia che gli ha affibbiato questo proposito come un merito, dal momento
che Sraffa avrebbe finalmente risolto l’annoso problema: facendolo scomparire
in una sorta di “chi l’ha visto?” teorico.
Il “tragico dilemma”
della trasformazione in Marx? Esiste? Marx muove dal concetto base che i
capitalisti costituiscono una classe (macrosociologia) la quale sfrutta
un’altra classe (macrosociologia), in quanto – direbbe oggi Marx, osservando
nell’empirìa odierna le multinazionali e le finanziarie, e poi il piccolo ch’è
bello subalterno al grande ch’è meglio – una classe capitalista, sia pure
algoritmicamente non precisabile, deve pur esistere da qualche parte, anche pur
a dispetto di un tasso di profitto concorrenziale. Più che mai appare che
questa macrosociologia – muovendo da pluslavoro, forza-lavoro, ecc., per
postulare l’esistenza di un monte profitti (chiamabile plusvalore) da parte di
una classe (chiamabile capitalistica) – sia oggi fortemente esplicativa del
reale. La classe capitalistica sfrutta la classe fornitrice di forza-lavoro, e,
tramite, la concorrenza, ripartisce la massa del profitto in tasso corrente
medio.
Pal. Signori, non vorremo di certo qui impelagarci
mica nell’annoso e sconveniente “problema della trasformazione”? Quanto c’era
da dire è stato detto da tutti, e anche da noi, altrove. Inutile rimbalzarci le
accuse, tanto più che le orecchie dei peripatetici sembrano vieppiù sorde per
intendere il senso proprio della quistione. Vorrei piuttosto solo ricordare che
di ogni domanda si conviene discernere il grado di semplicità – nel
senso hegeliano – per adeguarvi la risposta, anziché procedere all’opposto,
capovolgendo l’ordine logico delle cose e complicandone inutilmente il senso.
In ciò dicendo, mi piace rammentare il motto del signor Galilei secondo cui
“conviene che i movimenti semplici sieno de i corpi semplici”: altrimenti, si
rischia di favorire i trucchi del peripatetico, il quale con “tutti gli indizi
che egli ha, mira di cambiarci le carte in mano, e di voler accomodare
l’architettura alla fabbrica e non costruire la fabbrica conforme ai precetti
dell’architettura”.
Ciò che non comprendono
gli “economisti in libris” è il fondamento di valore del
modo di produzione capitalistico, epperò anche il suo cominciamento di lavoro.
Sicché la cecità loro rende impossibile vedere che la trasformazione – anche
quella del valore, in grandezza di valore, in forma di valore, in valore di
scambio, in prezzi (monetari), in prezzi di produzione, di riproduzione, di
mercato, ecc. – non è altro che mutamento di forma, per l’appunto “tras-forma-zione”.
E che natura e proprietà di ciascuna forma mutevole non è per niente
indifferente, bensì è essenziale, adeguata alla “semplicità” che si
conviene. Prima di giungere allo stadio in cui il passaggio ai prezzi
diviene un problema “puramente matematico” – come anche Marx indica – occorre
aver esaurito l’esame di tutti i “movimenti semplici” di forma dietro ai
quali è in agguato la peculiare domanda sul cui contenuto la mente che
riflette è chiamata a rispondere. Tale è la natura del processo di svolgimento
dei prezzi. Rabbassarlo ad algoritmo numerico significa perderne ogni contenuto
e non capirne l’essenzialità della forma. Ma di ciò è inutile discutere coi
formalisti.
La circolarità viziosa
della determinazione dei prezzi e del tasso del profitto, temuta dal signor
Simplicio, è appunto una conseguenza di quel formalismo, con l’aggravante che
la semplicità necessaria vien fatta scomparire anche nel ritenere, senza alcuna
motivazione plausibile, che il tasso del profitto debba necessariamente
calcolarsi come rapporto di due aggregati: di due “ferri di legno”, direbbe
Hegel. In realtà, perciò, quella è solo una circolarità viziosa del suo
discorrere. Lo stesso Sraffa avvertì, nella nota sulle fonti, che il processo
economico da lui esaminato è caratterizzato da un flusso di circolarità
reale della produzione, anziché essere connotato, come nei marginalisti,
quale percorso a “senso unico” da fattori di produzione a prodotti. Ma poi, di
tale avvertimento, tutta la sraffologia, incluso il suo fondatore, sembra non
tenere conto.
Quel conclamato vizio di
circolarità del ragionamento – che gli sraffiani non riescono a far
corrispondere alla circolarità delle cose economiche – essi cercano di
risolverlo algebricamente attraverso una concezione sublimata della simultaneità
formale della soluzione. Non si avvedono, cioè, che quella simultaneità
delle equazioni lineari raggruppate in un sistema omogeneo è, per l’appunto,
solo formale – ovverosia, detto altrimenti, è solo una simultaneità di scrittura.
Per esser più chiari [anche nei confronti di chi non sia avvezzo ai giochi
matematici, tra i quali vi sono tuttavia anche molti di coloro che credono
opportuno seguire le peripezie sraffiane]: è fatto ordinario che un “sistema”
di equazioni – per esser definito tale e non inteso appena come “mucchio” di
equazioni – ancorché omogeneo, sia scritto mettendo simultaneamente
sulla carta tutti i parametri e tutte le variabili, sia quelle additive, che
conferiscono l’attributo di linearità, sia quell’unica moltiplicativa che ne
designa l’omogeneità. Ma, fatto ciò, il problema, venendo prima, va oltre la
scrittura.
È una questione di logica,
e non solo e non tanto di logica formale. La logica del reale – la dialettica
delle cose – richiede, come Marx indica chiaramente, che il tasso del profitto
venga determinato prima dei prezzi, poiché i prezzi (di produzione) non
rappresentano altro che le grandezze relative capaci di garantire che quel
tasso di profitto che li ha definiti abbia effettivamente a verificarsi, nella
circolazione e nello scambio reali. Se la matematizzazione del processo reale è
corretta, la medesima successione logica non può che rispecchiarsi anche
nella forma algebrica. E così è, in quanto alla “scrittura simultanea”
del sistema di equazioni corrisponde una priorità di determinazione
della variabile moltiplicativa (che rappresenta appunto il tasso di
profitto, senza che occorra addivenire al “ferro di legno” del “rapporto tra
aggregati”) rispetto alle variabili additive (che rappresentano i
prezzi). Pur essendo costoro formalisti, è stato finora impossibile riuscire a
far capire agli sraffiani una tale semplice e inconfutabile verità “formalmente
formale” (come la chiamerebbe Marx).
Da tale impoverimento
della dialettica materialistica della storia del capitale – in cui la relazione
fra i diversi capitali (o “industrie”, come preferisce chiamarle anche Sraffa,
sulla scia dei peripatetici) si riduce alla regola aurea dell’uniformità
contabile del tasso di profitto affinché si abbia equilibrio armonico – deriva
che, nell’economia peripatetica, anche della concorrenza vi sia assoluta
mancanza reale, ovvero semplice parvenza formale. Essa è detta, ma non opera.
Simpl. Se mi si chiede ora, a sproposito, che cosa sia
la concorrenza, stento a capire la domanda. Va da sé che il tasso di
profitto debba essere uniforme per tutte le industrie, se si vuole spiegare
l’equilibrio del sistema. D’altronde, mi pare che anche Marx fosse del medesimo
avviso quando parlava del tasso generale del profitto. È patrimonio
comune di tutta l’economia politica considerare la concorrenza come quella
legge di mercato in virtù della quale le decisioni prese indipendentemente dai
diversi agenti economici divengono reciprocamente compatibili e conducono a un
equilibrio armonico del sistema. Pregio fondamentale di questa legge è che
secondo essa il comportamento concorrenziale risulta essere l’unico
perfettamente razionale, e dunque vantaggioso, tanto per i consumatori quanto
per i produttori.
Sembra una naturale
conseguenza di ciò, allora, che anche tutte le altre situazioni, più o meno
concrete, che si allontanano da quell’ipotesi teorica, siano definite “in
negativo” rispetto al caso ideal-tipico. Peraltro, anche il mio amico baronetto
Keynes – al pari dei suoi maestri neoclassici – considera talmente implicita nelle
cose economiche l’ipotesi concorrenziale in funzione della stabilità sociale,
da non darle una specifica rilevanza. A parte un paio di rimandi storici e una
considerazione di eccezione alla regola concorrenziale, Keynes vi fa
riferimento due volte soltanto — come semplici condizioni di regolare
funzionamento del sistema e in via del tutto inessenziale.
Mac. Ma non si avvede, il signor Simplicio, che
proprio di qui sorge il dilemma della concorrenza: come sfuggire
alle leggi della concorrenza. Per ricondizionare i tassi di plusvalore
diversamente lucrabili per aziende a diverse composizioni organiche del
capitale, il problema centrale marxiano per il cosiddetto “imprenditore
rappresentativo” si presenta come quello di lottare contro la libera
concorrenza nel momento stesso ch’egli è in lizza per la libera
concorrenza. Gli sforzi del singolo capitalista consistono nel lottare
con accorgimenti (plusvalore relativo, cottimi, straordinari, sviluppo
tecnologico del capitale costante, concentrazione, fusioni, assorbimenti, investimenti
in aree depresse, appalti, ricorso a legislazione protetta, abolizione dello
sciopero, ecc.) tutti rivolti al perseguimento di quel fine: ma il risultato è
che la concorrenza mangia se stessa.
Pal. La lotta mortale tra “fratelli nemici” è ciò che
Marx intende per concorrenza. Ristabilendo, ancora una volta, il
corretto rapporto tra causa ed effetto, capovolto dall’ideologia
borghese, Marx mostra come sia la discesa del tasso di profitto a scatenare la lotta,
ossia la concorrenza, e non già quest’ultima a operare al fine di livellare
verso il basso – il mitico livello zero! – il cosiddetto tasso di profitto di
equilibrio di lungo periodo. Di nuovo, soltanto nell’analisi marxiana, e non
nell’economia peripatetica tutta, sraffian economics inclusa, il discorso
muove dalla sfera della produzione dove realmente lottano i diversi capitali;
mentre nell’altro caso la concorrenza si riduce a una mera “forma di mercato”,
nella sfera della circolazione.
È la molteplicità dei
capitali che caratterizza la peculiarità effettivamente operante del
contesto marxiano: quella molteplicità che, a ben guardare, al di là delle
dichiarazioni verbali e delle formule, non c’è da nessuna parte nella
teoresi economica borghese. Non sembri un paradosso. Gli “economisti in
libris” (come anche i “socialisti della cattedra”) di tutte le
scuole trattano in effetti come oggetto della loro analisi un ipotetico
“Capitale” con la C maiuscola senza contraddizioni interne e operante
come unico centro di decisione – anche quando c’è la parvenza
dell’infinità di capitali atomistici, non a caso raffigurati nella metafora
dell’“impresa rappresentativa”, o l’empirìa del capitale oligopolistico,
regolarmente confluente in modelli cosiddetti “collusivi”, ossia non
conflittuali.
Una teoria segnata dalla
mancanza di molteplicità, di conflittualità e di contraddizioni dei capitali,
non può neppure pensare di formulare il concetto di crisi —— come
categoria immanente e dunque necessaria, non già accidentale e perciò solo
empiricamente possibile. [È questo il caso keynesiano, che può trarre in inganno
per il suo pragmatismo aconcettuale: ma un sistema in cui si prevede che una
situazione (di crisi) possa essere evitata a priori non può includere
tale situazione tra le proprie categorie scientifiche – e, a dire il vero, non
assurge neppure al rango di “teoria”]. Contro il lavoro salariato l’interesse
del capitale è uno, e come tale viene rappresentato dai suoi accademici.
Non stupisca neppure, allora, che il “capitale” sia scritto solo come una parola,
poiché come rapporto sociale esso di nuovo non c’è. Sraffa non fa
eccezione.
Mac. Discettare sull’algebra della trasformazione e
teoristizzare sulla forma, senza indagare sulla struttura sociale di classe significa
evadere dal marxismo e dalla realtà concreta. Con la disoccupazione femminile e
giovanile, il dilagare di nuove caterve di miserabili, con frammezzo le
categorie più o meno protette degli occupati-in-regola, e via dicendo, a che servirebbe
a Marx sapere che Sraffa gli ha “risolto”, ridotto ad algoritmo, il problema
della trasformazione? Quale trasformazione? Facendo scomparire il problema nel
neo-ricardismo (quale neo-ricardismo?) o nelle elaborazioni della sraffian
economics, omologata all’economia politica accademica?
Il marxismo in Italia
ebbe, sia pure con molte incertezze ed eccessiva episodicità, ben altre
fortune. Certo, nel campo che per esso sarebbe dovuto essere quello principe –
l’economia politica e la sua critica – quelle incertezze e
quell’episodicità sono state anche maggiori di quanto lo siano state sul
versante, per così dire, umanistico. Prima i preoccupanti neo-marxismi
variamente assortiti, poi gli pseudo-marxismi coniugati infelicemente
con attribuzioni spurie (dal cattolicesimo al keynesismo), fino alle più
recenti demenziali derive post-marxiste, hanno tenuto largamente il campo: il
che significa, senza nessuna ironia, che chi non ha capito nulla sono (siamo) i
marxisti, dappoiché in ogni esercizio è la riuscita che conta.
Cionondimeno, la “riuscita” di codeste tendenze è stata effimera: e dunque, in
una rivisitazione ponderata delle sorti del marxismo in Italia – anche dell’economia
marxista – c’è grande spazio da restituire a quegli insegnamenti e a quei nomi
che più di altri oggi possono guidare ancora nella comprensione della nostra
realtà.
Primo fra tutti – anche
storicamente – Antonio Labriola; poi perfino Pietro Grifone, di cui troppo
presto si è accantonato e dimenticato il magistrale studio del capitale
finanziario; o Giulio Pietranera, nonostante certe sue incongruenze teoriche,
forse dovute a uno spurio sincretismo tra la sua pregressa formazione culturale
e l’invadente non sempre felice influenza dellavolpiana; o puranche Antonio
Pesenti, il meno dimenticato perché più “ufficiale”, e perciò forse un po’
troppo scolastico (ma ce ne fosse oggi di tale “scolasticismo”!); o finanche
Raniero Panzieri, il quale – nonostante la sua grave insufficienza dialettica
accoppiata all’esasperazione di una “soggettività inorganizzata” che era,
invero più che a lui, attribuibile post mortem al successivo panzierismo
operaistico, in quanto basato sulla “scoperta” del grundrissismo
intersoggettivistico e insubordinazionistico, contrapposto surrettiziamente
all’oggettivismo del Capitale [fino all’ultima deriva fenomenologica
irrazionalistica, che potrebbe denominarsi husserlgrundrissismo, di cui
Panzieri non può certo ritenersi responsabile] – fu tuttavia presente alle
trasformazioni storiche del modo di produzione capitalistico, con
l’intelligenza del Capitale e di Lenin, alla quale è importante ricondursi,
liberando così anche il suo pensiero preso in ostaggio dal movimentismo
superpartitico. Su tutte queste tendenze – piuttosto che su Sraffa, sraffismo.
sraffologia e sraffolalia – sarebbe utile riflettere, discutere e anche
criticare.
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