venerdì 30 novembre 2018

Il secondo e terzo volume del Capitale di Marx - Rosa Luxemburg (1919)

Da: https://www.marxists.org - Pubblicato nel capitolo 12 della Vita di Marx di Franz Mehring. Traduzione di Fausto Codino e Mario Alighiero Manacorda. Trascritto da Leonardo Maria Battisti, giugno 2018.
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    Il secondo e il terzo volume del Capitale subirono le stesse vicende che erano toccate al primo: Marx sperava di poterli pubblicare subito dopo che era uscito il primo, ma passarono lunghi anni, e non gli riuscì più portarli al punto da poter essere stampati.

Studi sempre nuovi e sempre più profondi, malattie penose e infine la morte gli impedirono di terminare tutta l’opera, e così Engels mise insieme i due volumi dei manoscritti incompiuti che il suo amico aveva lasciato. Erano minute, abbozzi, appunti, ora parti estese e continue, ora brevi annotazioni, quali uno studioso fa per proprio uso: un lavoro teorico immenso che si estese, con prolungate interruzioni, per il lungo periodo di tempo fra il 1861 e il 1878.

Queste circostanze ci fanno capire che nei due ultimi volumi del Capitale dobbiamo cercare non una soluzione pronta e compiuta di tutti i più importanti problemi di economia politica, ma in parte soltanto l’impostazione di questi problemi, e inoltre indicazioni sulla direzione da seguire per cercarne la soluzione. Come tutta la concezione del mondo di Marx, anche la sua opera principale non è una Bibbia, con verità inappellabili pronte e valide una volta per sempre, ma una fonte inesauribile di incitamento ad ulteriore lavoro teorico, a ulteriori ricerche e lotte per la verità.

Quelle stesse circostanze ci spiegano come mai anche esteriormente, nella forma letteraria, il secondo e terzo volume non sono così compiuti come il primo, non hanno lo stesso spirito lampeggiante e scintillante. Eppure proprio come nuda elaborazione di pensiero, incurante di ogni forma, essi offrono a molti lettori un godimento ancora più alto del primo volume. Nonostante che fino ad ora, purtroppo, non si sia tenuto conto di essi in nessuna opera di divulgazione, e quindi siano rimasti sconosciuti alla grande massa degli operai colti, per il loro contenuto questi due volumi costituiscono un’integrazione essenziale e un ulteriore sviluppo del primo volume, indispensabile per la comprensione di tutto il sistema. 

Nel primo volume Marx tratta della questione cardinale dell’economia politica: donde ha origine l’arricchimento, dov’è la fonte del profitto? La risposta a questa domanda, prima dell’intervento di Marx, era data secondo due direzioni diverse.

I difensori «scientifici» del migliore dei mondi nel quale viviamo, uomini che in parte, come Schulze-Delitzsch, godevano considerazione e fiducia anche presso gli operai, spiegavano la ricchezza capitalistica mediante tutta una serie di giustificazioni più o meno plausibili, e di astute manipolazioni: come il frutto di un sistematico aumento di prezzo sulle merci, a titolo di «risarcimento» dell’imprenditore per il capitale da lui generosamente «ceduto» per la produzione, come indennità per il «rischio» che corre ogni imprenditore, come compenso per la «direzione spirituale» dell’impresa, e così via. Secondo queste spiegazioni ciò che importava era solo di presentare la ricchezza degli uni, e quindi anche la povertà degli altri, come qualche cosa di «legittimo», e dunque di immutabile.

Dall’altra parte i critici della società borghese, cioè la scuola dei socialisti venuti prima di Marx, spiegavano l’arricchimento dei capitalisti per lo più come schietta truffa, anzi come furto a danno degli operai, reso possibile per l’intervento del denaro o per mancanza di organizzazione del processo di produzione. Prendendo le mosse da questi giudizi, quei socialisti arrivarono a formulare diversi piani utopistici, sul modo di abolire lo sfruttamento mediante l’abolizione del denaro, mediante l’«organizzazione del lavoro», e così via.

Nel primo volume del Capitale Marx scopre la reale radice dell’arricchimento capitalistico. Non è questione per lui di motivi di giustificazione per i capitalisti, né di accuse contro la loro ingiustizia: Marx mostra per la prima volta come ha origine il profitto e come va a finire nelle tasche dei capitalisti. Ciò egli spiega mediante due decisivi dati di fatto economici: primo, che la massa degli operai è costituita di proletari, che devono vendere la loro forza-lavoro come merce; secondo, che questa merce forza-lavoro possiede oggi un grado di produttività così alto che può fornire, in un determinato tempo, un prodotto molto maggiore di quanto è necessario al proprio sostentamento durante questo tempo. Questi due dati di fatto, puramente economici e in pari tempo forniti dall’obiettivo sviluppo storico, portano con sé che il frutto prodotto dal lavoro del proletario cade spontaneamente in tasca al capitalista, si accumula meccanicamente col perdurare del sistema del salario fino a diventare un patrimonio capitalistico sempre più immenso.

Marx dunque spiega l’arricchimento capitalistico non come una qualche indennità del capitalista per immaginari sacrifici e benefici, e neppure come truffa e furto nel senso corrente della parola, ma come un affare, uno scambio fra capitalista e operaio, pienamente legittimo secondo il diritto penale, che è regolato proprio con le stesse leggi che regolano qualsiasi altra compra e vendita di merci. Per mettere bene in chiaro questo affare irreprensibile, che reca frutti doro al capitalista, Marx dovette svolgere a fondo e applicare alla merce forza-lavoro la legge del valore fissata dai grandi classici inglesi alla fine del XVIII secolo e al principio del XIX, cioè la spiegazione delle leggi interne dello scambio delle merci. La legge del valore, da cui è dedotto il salario e il plusvalore, cioè la spiegazione di come il prodotto del lavoro salariato si ripartisca da sé, senza truffa violenta, in un tenore di vita miserevole per l’operaio e nella ricchezza senza lavoro del capitalista: questo è il contenuto principale del primo volume del Capitale. E in questo sta il grande significato storico di questo volume: esso ha dimostrato che lo sfruttamento potrà essere eliminato soltanto ed esclusivamente con l’abolizione della vendita della forza-lavoro, vale a dire del sistema del salario.

Nel primo volume del Capitale ci troviamo per tutto il tempo sul luogo del lavoro: in una singola fabbrica, nella miniera o in una moderna azienda agricola. Ciò che qui viene spiegato, vale per ogni impresa capitalistica. E’ il singolo capitale come tipo dell’intero modo di produzione col quale soltanto abbiamo a che fare. Quando chiudiamo il libro, il quotidiano nascere del profitto ci è chiaro, il meccanismo dello sfruttamento è illuminato in profondità. Stanno di fronte a noi montagne di merci di ogni sorta, come escono direttamente dalla fabbrica, ancora umide del sudore degli operai, e in tutte possiamo nettamente distinguere la parte del loro valore che proviene dal lavoro non pagato del proletario e che finisce in possesso del capitalista legittimamente, come tutta la merce. Qui noi tocchiamo con mano la radice dello sfruttamento.

Ma con ciò la messe del capitalista non è ancora stata messa nel granaio. Il frutto dello sfruttamento esiste, ma ancora in forma tale che l’imprenditore non ne può godere. Finché lo possiede sotto forma di merci ammucchiate, il capitalista non può rallegrarsi dello sfruttamento. Egli non è, appunto, il proprietario di schiavi del mondo antico, grecoromano, né il signore feudale del Medio Evo, che angariavano il popolo lavoratore soltanto per il proprio lusso e per le loro grandi corti. Il capitalista ha bisogno della sua ricchezza in denaro sonante, onde ingrossare continuamente il suo capitale, oltre che per mantenere il «tenore di vita conforme alla sua condizione». Per questo è necessario vendere le merci prodotte dal salariato, insieme col plusvalore che vi è riposto. La merce deve essere portata dal magazzino della fabbrica o dal granaio dell’azienda agricola al mercato, il capitalista la segue dall’ufficio alla borsa, nelle botteghe, e noi seguiamo lui nel secondo volume del Capitale.

Nel campo dello scambio delle merci, in cui si svolge il secondo capitolo della vita del capitalista, sorgono per lui parecchie difficoltà. Nella sua fabbrica, nella sua fattoria, il padrone era lui. Dominavano là la più rigida organizzazione, disciplina e pianificazione. Sul mercato delle merci invece domina anarchia completa, la cosiddetta libera concorrenza. Qui nessuno si occupa dell’altro, e nessuno si occupa dell’insieme. Eppure proprio attraverso questa anarchia il capitalista sente di dipendere sotto tutti i rispetti da altri, dalla società.

Deve stare al passo con tutti i suoi concorrenti. Se fino alla vendita definitiva delle sue merci perde più tempo di quello che sarebbe strettamente richiesto, se non si provvede di denaro sufficiente per acquistare al momento giusto le materie prime e tutto il necessario affinché l’impresa nel frattempo non subisca interruzioni, se non ha cura che il suo denaro, appena lo ha ripreso in mano dopo la vendita delle merci, non resti inattivo, ma sia messo a profitto da qualche parte, se non fa tutto questo il capitalista è sorpassato dagli altri. L’ultimo è morso dai cani, e il singolo imprenditore che non fa attenzione che i suoi affari, nel continuo andare e venire dalla fabbrica al mercato delle merci, vadano bene come nella fabbrica stessa, per quanto possa sfruttare coscienziosamente i suoi operai non potrà però arrivare al profitto usuale. Una parte del suo profitto «ben acquistato» andrà a finire chissà dove, ma non certo nelle sue tasche.

Non basta. Il capitalista può accumulare ricchezze soltanto se produce merci d’uso. Ma deve produrre proprio quelle specie e quei tipi di cui la società ha bisogno, e solo nella quantità di cui la società ha bisogno. Altrimenti le merci restano invendute e il plusvalore che vi è riposto va di nuovo in fumo. Ma come può sapere tutto ciò il singolo capitalista? Nessuno gli dice di quali e quanti beni di consumo la società volta per volta ha bisogno, appunto perché nessuno lo sa. Noi viviamo appunto in una società disordinata, anarchica! Ogni singolo imprenditore si trova nella stessa situazione. Eppure da questo caos, da questa confusione deve sorgere un qualche insieme che renda possibile tanto il singolo affare dei capitalisti e il loro arricchimento, quanto il soddisfacimento dei bisogni della società nel suo complesso e la continuazione della sua esistenza.

In termini più precisi, dalla confusione che regna nel caos del mercato si deve ricavare prima di tutto la possibilità della rotazione costante del capitale, la possibilità di produrre, di vendere, di comprare e di tornare a produrre, processo in cui il capitale muta continuamente la sua forma, da denaro a merce e viceversa: queste fasi devono armonizzarsi luna con l’altra, il denaro deve essere a disposizione come riserva, per approfittare di ogni congiuntura del mercato favorevole alla compera, per coprire le spese ordinarie dell’azienda; d’altra parte il denaro che progressivamente rifluisce a misura che le merci vengono vendute deve poter ritornare subito ad essere attivo. A questo punto i singoli capitalisti, che in apparenza sono del tutto indipendenti fra loro, si stringono già, di fatto, in una grande fratellanza, anticipandosi continuamente l’un l’altro il denaro necessario mediante il sistema del credito, delle banche, assorbendo il denaro di riserva e rendendo così possibile, per i singoli come per la società, il processo ininterrotto della produzione e della vendita delle merci. Il credito, che l’economia politica borghese non sa spiegare che come accorta istituzione per «agevolare il movimento delle merci», Marx lo presenta nel secondo volume della sua opera, ma proprio di passaggio, come un semplice modo di vita del capitale, come legame fra le due fasi della vita del capitale: fra la produzione e il mercato delle merci, e come legame fra i movimenti apparentemente autonomi dei singoli capitali.

In secondo luogo, nella confusione dei singoli capitali deve essere mantenuta in moto la rotazione costante della produzione e del consumo della società nel suo complesso, e ciò deve avvenire in modo che restino assicurate le condizioni della produzione capitalistica: fabbricazione dei mezzi di produzione, mantenimento della classe operaia, arricchimento progressivo della classe capitalistica, vale a dire crescente accumulazione e attivizzazione del capitale complessivo della società. Come l’insieme risulti dagli innumerevoli movimenti divergenti dei singoli capitali, come questo movimento dell’insieme attraverso continue deviazioni ora nella sovrabbondanza della congiuntura più favorevole, ora nel collasso della crisi, venga però sempre ricondotto nei suoi giusti rapporti per ritornare subito dopo ad uscirne; come da tutto ciò risulti su scala sempre più vasta quello che per la società attuale è solo il mezzo: il proprio mantenimento congiunto col progresso economico, e quello che è il suo scopo: la progressiva accumulazione di capitale; tutti questi punti sono stati se non risolti definitivamente da Marx nel secondo volume della sua opera, certo da lui impostati, per la prima volta dopo cento anni, dopo Adam Smith, sulle solide basi di leggi sicure.

Ma con tutto ciò il compito spinoso del capitalista non è ancora esaurito. Infatti, dopo che il profitto è diventato e mentre diventa oro in misura crescente, sorge la grossa questione di come la preda debba essere ripartita. Gruppi affatto diversi avanzano le loro pretese: oltre l’imprenditore il commerciante, il capitalista del credito, il proprietario fondiario. Tutti costoro hanno reso possibile, ciascuno per la sua parte, lo sfruttamento dell’operaio salariato e la vendita delle merci da lui prodotte, e ora richiedono la loro parte di profitto. Ma questa ripartizione è un compito molto più complicato di quello che potrebbe sembrare a prima vista. Infatti anche fra gli imprenditori, secondo la specie dell’impresa, esistono grandi differenze nel profitto realizzato, così come esso esce, per così dire, appena attinto dalla fabbrica.

In un ramo di produzione la fabbricazione delle merci e la loro vendita vengono effettuate molto rapidamente, e il capitale ritorna aumentato in brevissimo tempo; si può impiegare alla svelta per nuovi affari e nuovi profitti. In un altro ramo il capitale è immobilizzato per anni nella produzione e non porta profitto che dopo lungo tempo. In certi rami l’imprenditore deve investire la massima parte del suo capitale in mezzi di produzione morti: edifici, macchine costose ecc., che di per sé non producono nulla, non generano profitto, per quanto siano necessari per produrre il profitto. In altri rami l’imprenditore può impiegare il suo capitale, con una spesa modestissima, principalmente per reclutare operai, ciascuno dei quali è per lui la brava gallina che gli depone uova d’oro.

Così nella stessa produzione del profitto sorgono grandi differenze fra i singoli capitali, che agli occhi della società borghese rappresentano una «ingiustizia» molto più clamorosa della singolare «ripartizione» fra il capitalista e l’operaio. Come si può arrivare a un accomodamento, a una «giusta» ripartizione della preda, in modo che ad ogni capitalista tocchi «il suo»? E tutti questi compiti per di più devono essere risolti senza nessuna regola cosciente, pianificata. Infatti la distribuzione nella società odierna è anarchica come la produzione; anzi, non avviene alcuna vera e propria «distribuzione», secondo una qualsiasi disposizione sociale: avviene solo lo scambio, solo la circolazione delle merci, solo la compra e vendita. Come fa dunque ogni strato di sfruttatori, e fra loro ogni singolo, ad ottenere col solo mezzo del cieco scambio delle merci una porzione «giusta» (dal punto di vista del dominio capitalistico) della ricchezza attinta dalla forza-lavoro del proletariato?

A queste domande Marx risponde nel suo terzo volume. Dopo aver analizzato, nel primo volume, la produzione del capitale e con ciò il segreto della produzione del profitto, dopo aver mostrato, nel secondo volume, il movimento del capitale fra la fabbrica e il mercato delle merci, fra la produzione e il consumo della società, nel terzo volume esamina la divisione del profitto. L’esame è sempre condotto, anche qui, tenendo fermi tre presupposti fondamentali: che tutto ciò che avviene nella società capitalistica si svolge in maniera non arbitraria, cioè secondo determinate leggi, che agiscono regolarmente, anche se a completa insaputa degli interessati; in secondo luogo che i rapporti economici non sono fondati sui metodi violenti della rapina e del furto; e infine che nessuna ragione sociale esercita la sua influenza sull’insieme nel senso di una pianificazione. Con perspicua logica e chiarezza Marx svolge successivamente tutti i fenomeni e i rapporti dell’economia capitalistica, muovendo esclusivamente dal meccanismo dello scambio, cioè dalla legge del valore e dal plusvalore da essa dedotto.

Se si considera la grande opera nel suo complesso, si può dire che il primo volume con la spiegazione della legge del valore, del salario e del plusvalore mette a nudo le fondamenta della società odierna, il secondo e il terzo volume mostrano i piani dell’edificio che su di essa poggia. Oppure, con un’immagine del tutto diversa, si potrebbe anche dire che il primo volume ci mostra il cuore dell’organismo sociale, in cui è prodotta la linfa vitale, il secondo e il terzo volume mostrano la circolazione del sangue e il nutrimento di tutto l’organismo fino alle estreme cellule epidermiche.

Per quanto riguarda il contenuto, il secondo e terzo volume ci fanno muovere su un piano diverso dal primo. Qui si scopriva la fonte dell’arricchimento capitalistico nella fabbrica, nella profonda miniera sociale del lavoro. Nel secondo e terzo volume ci muoviamo alla superficie, sulla scena ufficiale della società. Magazzini, banche, borsa, affari finanziari, «agrari bisognosi» con le loro preoccupazioni affollano qui il proscenio. Qui l’operaio non ha alcuna parte. E anche nella realtà egli non si preoccupa di queste cose che si svolgono dietro le sue spalle, dopo che gliele hanno date di santa ragione; e anche nella realtà, nella ressa chiassosa della gente occupata, noi incontriamo gli operai soltanto quando, sul far dell’alba, si affrettano in frotte alle loro fabbriche e quando, sul far della sera, le fabbriche li risputano fuori in lunghe file.

Può darsi quindi che non appaia chiaro quale interesse possano avere per gli operai le svariate preoccupazioni private dei capitalisti nella corsa al profitto, e le loro contese per la divisione della preda. Ma in realtà il secondo e il terzo volume del Capitale sono necessari quanto il primo per conoscere esaurientemente l’odierno meccanismo economico. Essi non hanno certo, come il primo, un valore storico così decisivo e fondamentale per il movimento operaio moderno; ma contengono un grandissimo numero di osservazioni penetranti che hanno un valore inestimabile anche per la preparazione ideologica del proletariato alla lotta pratica. Ne diamo soltanto un paio di esempi.

Nel secondo libro, accanto alla questione di come dal dominio caotico dei singoli capitali possa risultare il mantenimento regolare della società, Marx tocca naturalmente anche la questione delle crisi. Non ci si può attendere qui una trattazione sistematica e dottrinale delle crisi, ma solo qualche rapida osservazione: ma il trarne partito sarebbe di grande utilità per gli operai illuminati e coscienti. Tra i temi di propaganda più radicati nell’agitazione socialdemocratica e soprattutto sindacale c’è la affermazione secondo cui le crisi hanno origine prima di tutto per la miopia dei capitalisti che non vorrebbero assolutamente capire che le masse dei loro operai sono i loro migliori clienti, e che basterebbe pagare loro i salari più alti per conservarsi una clientela che avrebbe possibilità di comprare e per sventare il pericolo di crisi.

Per quanto popolare sia questa idea, essa è completamente sbagliata, e Marx la confuta con le seguenti parole: «E’ una pura tautologia, dire che le crisi hanno origine per la mancanza di consumo in grado di pagare, o di consumatori in grado di pagare. Il sistema capitalistico non conosce altri consumatori che quelli che pagano, eccettuati quelli mantenuti dalla carità pubblica e i ladri. Se delle merci sono invendibili, ciò non significa altro se non che per esse non si sono trovati compratori in grado di pagare, dunque consumatori. Ma se a questa tautologia si vuol dare l’apparenza di un fondamento più profondo, affermando che la classe operaia riceve una parte troppo limitata del prodotto del proprio lavoro e che quindi l’inconveniente sarebbe riparato se essa ne ottenesse una parte maggiore e il suo salario di conseguenza aumentasse, allora basta osservare che ogni crisi è sempre preparata da un periodo in cui il salario generalmente sale e la classe operaia ottiene una partecipazione relativamente maggiore alla parte del prodotto annuo che è destinata al consumo. Dal punto di vista di questi paladini del sano e ‘semplice’ buon senso, quel periodo dovrebbe, al contrario, allontanare le crisi. Sembra dunque che la produzione capitalistica racchiuda in sé condizioni indipendenti dalla buona o cattiva volontà, che consentono solo momentaneamente quella relativa prosperità della classe operaia, che poi non è mai altro che la procellaria che annuncia una crisi».

Le dimostrazioni del secondo e terzo volume conducono infatti a vedere più addentro nell’essenza delle crisi, che risultano essere niente altro che conseguenze inevitabili del movimento del capitale, di un movimento che nel suo slancio impetuoso e implacabile verso l’accumulazione e l’accrescimento, suol tendere subito a superare ogni barriera del consumo, anche se questo consumo viene molto allargato mediante l’aumento delle capacità d’acquisto di un singolo strato sociale o la conquista di mercati di vendita completamente nuovi. Allora deve essere abbandonata l’idea, che fa capolino dietro quel diffuso motivo d’agitazione sindacale, dell’armonia d’interesse fra capitale e lavoro, idea che verrebbe disconosciuta solo per la miopia degli imprenditori, e deve essere pure abbandonata ogni speranza di assestare e attenuare l’anarchia caotica del capitalismo. La lotta per l’elevamento materiale dei proletari salariati ha a disposizione infinite armi teoriche troppo buone per avere bisogno di un argomento teoricamente insostenibile e praticamente equivoco.

Un altro esempio. Nel terzo volume Marx dà per la prima volta una spiegazione scientifica di quel fenomeno, osservato con meraviglia e perplessità dall’economia politica fin dal suo sorgere, per cui in tutti i rami di produzione i capitali, per quanto investiti sotto diverse condizioni, rendono di solito il cosiddetto profitto «usuale». A prima vista questo fenomeno sembra contraddire una spiegazione che lo stesso Marx ha dato, cioè la spiegazione della ricchezza capitalistica come derivante unicamente dal lavoro non pagato del proletariato salariato. Come accade infatti che il capitalista che deve investire, in mezzi di produzione morti, relativamente grosse porzioni del suo capitale, ottiene lo stesso profitto del suo collega che ha meno spese di questo genere e può quindi mettere all’opera più lavoro vivo?

Marx risolve questo enigma con semplicità sorprendente, dimostrando come per la vendita di una sorta di merce al di sopra del suo valore, e di un’altra al di sotto del suo valore, le differenze del profitto si pareggino e ne risulti un «profitto medio» uguale per tutti i rami della produzione. Senza che i capitalisti ne abbiano il sospetto, senza nessun accordo cosciente fra loro, nello scambio delle loro merci essi agiscono in modo da portare allo stesso mucchio, in un certo senso, il plusvalore che ciascuno di loro ha attinto dal lavoro dei suoi operai, e da dividere fraternamente fra loro tutto il raccolto dello sfruttamento, dando a ciascuno secondo la grandezza del suo capitale. Il singolo capitalista dunque non gode del profitto da lui prodotto personalmente, ma soltanto della quota che gli spetta dei profitti conseguiti da tutti i suoi colleghi. «I singoli capitalisti si comportano in questo, per quel che riguarda il profitto, come semplici soci azionisti di una società per azioni, in cui le partecipazioni al profitto vengono ripartite in percentuali uguali e quindi sono diverse per i diversi capitalisti soltanto in base alla grandezza del capitale che ciascuno ha investito nell’impresa complessiva, secondo la sua relativa partecipazione all’impresa complessiva».

Questa legge del «tasso medio del profitto», apparentemente così arida, come permette di penetrare profondamente con lo sguardo nelle solide fondamenta materiali della solidarietà di classe dei capitalisti che, per quanto nella pratica quotidiana siano come fratelli in guerra fra loro, di fronte alla classe operaia formano però come una lega di massoni nel modo più vivo e personale interessata al suo sfruttamento totale! Senza che i capitalisti, come naturale, siano minimamente consapevoli di queste leggi economiche obiettive, nel loro istinto infallibile di classe dominante si manifesta però un senso dei loro interessi di classe e della loro opposizione al proletariato, che purtroppo si conserva attraverso tutte le tempeste della storia più fermo della coscienza di classe del proletariato, illuminata e fondata scientificamente proprio grazie alle opere di Marx ed Engels.

Questi due esempi, brevi e presi a caso, possono dare un’idea di quanti nascosti tesori di stimolo intellettuale e di approfondimento per gli operai progrediti si trovino ancora negli ultimi due volumi del Capitale e attendano un’esposizione divulgativa. Incompiuti come sono, offrono qualche cosa di infinitamente più prezioso di ogni compiuta verità: l’incitamento al pensare, alla critica e all’autocritica, che è l’elemento più originale della dottrina che Marx ha lasciato. 

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