giovedì 29 novembre 2018

La fatuità della cultura - Georg Wilhelm Friedrich Hegel

Da: Hegel, Fenomenologia dello spirito, (trad. E. De Negri) 


    Il contenuto del discorso che lo spirito tiene di se stesso e intorno a se stesso è dunque l’inversione di tutti i concetti e di tutte le realtà; è il generale inganno di se medesimi e degli altri; e l’impidenza di enunciare questo inganno è appunto perciò la suprema verità. Tale discorso è la frenesia di quel musico “che ammucchiava e mescolava trenta arie, italiane e francesi, tragiche e comiche, di ogni risma; ora scendeva con nota da basso profondo sino all’inferno; ora, contraendo l’ugola, lacerava col suo falsetto le altezze dell’aria, a volta a volta furente e mansueto, imperioso e schernitore”. – Alla coscienza posata, la quale fa onestamente consistere la melodia del bene e del vero nell’eguaglianza dei toni, cioè nell’unisono, siffatto discorso appare come “un guazzabuglio di saggezza e di demenza, una miscela di capacità e istrioneria, di idee giuste e di false, di completa perversione del sentimento, di completa sfrontatezza, e insieme di piena sincerità, di piena verità. Non si potrà fare a meno di passare per tutti questi toni, di percorrere su e giù l’intera gamma dei sentimenti, dal più profondo dispregio e dalla più profonda abiezione fino alla suprema ammirazione e alla suprema commozione. In questi ultimi sentimenti si diffonderà un che di ridicolo a caratterizzare la loro natura”; i primi invece avranno nella loro sincerità perfino un                                                                                                                che di conciliante; avranno nella loro sconvolgente profondità quella nota che tutto domina e che                                                                                                                  restituisce lo spirito a se stesso.

    Se di fronte al discorso di questa confusione chiara a se stessa, noi consideriamo il discorso di quella coscienza semplice del vero e del bene, ecco che, rispetto all’aperta eloquenza, e di sé consapevole, dello spirito della cultura, tale discorso può essere soltanto un monosillabo; siffatta coscienza non può infatti dire niente a quello spirito, qualora esso non lo sappia e non lo dica da sé. Se questa coscienza va oltre al suo monosillabo essa dice allora quella stessa cosa che anche quello spirito dice; ma con ciò commette inoltre la pazzia di credere di dire qualcosa di nuovo e di diverso. Già le sue scempie e spregevoli sillabe sono questa pazzia; quello spirito infatti le dice di se stesso. Se nel suo discorso esso inverte tutto ciò che ha un tono solo, poiché questa identità con se stesso è mera astrazione, mentre nella sua effettualità è invece l’inversione in se stessa; e se per contro la coscienza retta prende sotto la sua egida il buono e il nobile, - vale a dire ciò che nella sua estrinsecazione si mantiene eguale, - nell’unico modo che qui è possibile, in modo cioè ch’esso non perda il proprio valore per quanto sia congiunto o mischiato al male (questa è infatti la sua condizione e necessità, questa è la saggezza della natura); - allora tale coscienza credendo di contraddire, altro non ha fatto che costringere il contenuto del discorso dello spirito entro una forma triviale; questa forma senza pensiero, rendendo il contrario del nobile e del buono condizione e necessità del nobile e del buono, crede di dire qualcos’altro da ciò: che il cosiddetto nobile e buono è nella sua essenza l’inverso di se medesimo, al modo stesso che, per contro, il cattivo è l’eccellente.

    Se la coscienza semplice sostituisce questo pensiero privo di spirito con l’effettualità dell’eccellente, esponendo quest’ultimo nell’esempio di un caso immaginato o anche di un aneddoto vero, - e se essa mostra in tal guisa che l’eccellente non è per nulla un vuoto nome, anzi è presente, allora l’effettualità universale dell’operare invertito sta di contro a tutto il mondo reale, ove quell’esempio costituisce dunque solo qualcosa di interamente singolarizzato, solo una espéce; e rappresentare l’esserci del bene e del nobile come un aneddoto singolo, sia esso immaginato o vero, è quel che di peggio del bene e del nobile si possa dire. – Se la coscienza semplice richiede infine il dissolvimento di tutto questo mondo dell’inversione, essa tuttavia non può chiedere all’individuo di allontanarsi da quel mondo; infatti anche Diogene nella botte è condizionato da quello; e la richiesta fatta ai singoli è appunto ciò che vale come il cattivo: ché il cattivo consiste nell’aver cura di sé come singolo. Ma rivolta all’individualità universale l’esigenza di questo allontanamento non può voler dire che la ragione debba di nuovo abbandonare la coltivata coscienza spirituale, alla quale è pervenuta; non può voler dire ch’essa debba di nuovo immergere la vasta ricchezza dei suoi momenti nella semplicità del cuore naturale, ricadendo nella selvatichezza di una coscienza pressoché animalesca, chiamata natura o innocenza; anzi l’esigenza di questo dissolvimento può rivolgersi soltanto allo spirito stesso della cultura, affinché esso, dalla sua confusione, ritorni in se medesimo come spirito, guadagnando una coscienza ancora più elevata.

    Ma in effetto lo spirito ha già compiuto in sé tutto ciò. La coscienza disgregata che, consapevole della sua disgregatezza, la esprime, è la risata ironica sull’esserci nonché sulla confusione dell’intiero e su se stessi; è in pari tempo l’eco lontana, che tuttavia avverte se stessa, di tutta quella confusione. – Questa fatuità, che avverte se stessa, di ogni effettualità e di ogni concetto determinato, è la duplice riflessione del mondo reale in se medesimo; riflessione che ha luogo una prima volta entro questo Sé della coscienza come questo Sé; l’altra volta nella pura universalità di esso ossia nel pensare. Secondo quel primo lato lo spirito, pervenuto a sé, ha diretto lo sguardo al mondo dell’effettualità, e lo ha tuttora a proprio fine e a proprio contenuto immediato. Ma, dall’altro, il suo sguardo è diretto in parte soltanto a sé e negativamente a qual mondo, e in parte, lungi da questo mondo, è rivolto al cielo, e l’al di là di questo mondo è suo oggetto.

    In quel lato del ritorno nel Sé, la fatuità di ogni cosa è la fatuità propria del Sé; ovverosia esso è fatuo. E’ il essente per se, che non solo sa tutto giudicare e di tutto cianciare, ma anche sa enunciare nella loro contraddizione e con ricchezza di spirito tanto le salde essenze dell’effettualità, quanto le salde determinazioni che il giudizio pone; e questa contraddizione è la loro verità. – Considerando la cosa secondo la forma, il sa tutto estraniato da sé, sa l’esser-per-sé separato dall’esser-in-sé, sa l’opinato e il fine scissi dalla verità, e sa da entrambi, a sua volta, separato l’essere per altro; sa il simulato separato dall’opinione vera e dalla cosa e dall’intenzione vere. – Esso sa dunque ogni momento contro l’altro, sa in generale di esprimere esattamente l’inversione di tutti i momenti, sa quello che ciascuno di essi è, meglio di quel che non sappia che esso è, sia pur determinato come si voglia. Poiché conosce il sostanziale secondo il lato della disunione e della contesa ch’esso tiene in se medesimo, ma non dal lato di questa unità, è in grado di giudicare molto bene il sostanziale, ma ha perduto la facoltà di attingerlo. – Questa fatuità ha bisogno allora della fatuità di tutte le cose per dare a se stessa, derivandola da loro, la coscienza del ; essa fatuità produce perciò essa medesima la vanità delle cose ed è l’anima che le sostiene. Potere e ricchezza sono i fini supremi del travaglio del Sé; esso sa coltivarsi, attraverso la rinunzia e il sacrificio, ad universale; di riuscire al possesso di questo, e di avere, in tale possesso, universale validità; potere e ricchezza sono le forze effettualmente riconosciute. Ma questo suo valore è, alla sua volta, vano; e proprio mentre il Sé si impadronisce di quelle, sa ch’esse non sono essenze autonome, sa anzi se stesso come la loro potenza; ma esse come vane. Ch’esso dunque, così, pur possedendole, ne sia fuori, lo rappresenta nel linguaggio scintillante di spirito, che è perciò il suo supremo interesse e la verità dell’intiero. In tale linguaggio questo Sé, come questo puro Sé non appartenente alle determinazioni effettuali o pensate, diventa a sé lo Spirituale che ha veramente una validità universale. Il Sé è la disgregatasi natura di tutte le relazioni e la loro consapevole disgregazione; ma solo come autocoscienza ribelle sa la sua propria disgregatezza, e, in questo saperla, si è immediatamente sollevato al di sopra di lei. In quella fatuità ogni contenuto diventa un negativo che non può venir colto positivamente; l’oggetto positivo è soltanto il puro Io stesso, e la coscienza disgregata e in sé questa pura eguaglianza con sé dell’autocoscienza ritornata a sé.

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