Leggi anche: Alessandro Mazzone, https://ilcomunista23.blogspot.com/2016/09/modo-di-produzione-capitalistico.html
Relazione al Forum Nazionale della Rete dei Comunisti, Roma 17/18 dicembre 2016 (Si ringrazia la compagna Rosalba Scinardo Ratto per aver sbobinato la registrazione, sulla cui base questo testo è stato redatto. https://ilcomunista23.blogspot.com/2016/12/epoca-fasi-storiche-capitalismi-forme-e.html) -
Con questo intervento cercherò, sulla base dei miei studi1, di precisare che cosa significa per Marx "storia" e "fase storica" Quando in altre occasioni ho presentato questo stesso tema, ho spesso preso come punto di riferimento i miei studenti, ai quali chiedo che cosa intendano per storia; loro guardano l'orologio e dicono che, partendo da ieri e andando all'indietro, più o meno tutto è storia, non facendo molte distinzioni in questo lungo lasso di tempo, cioè non riuscendo sostanzialmente ad andare oltre una definizione generica e non strutturata di che cosa storia significhi.
Dialettica di continuità e discontinuità storica
Marx, l'autore del quale mi sono interessato e in base al quale
cercherò di argomentare questa tesi, si è impegnato per tutta la
vita nel tentativo di elaborare un'idea di storia molto più
strutturata e complessa, che tenesse insieme non un generico "prima",
rispetto ad un altrettanto generico "presente", ma che
dimostrasse come questo "prima” e questo "presente"
avessero delle leggi di funzionamento, potessero essere strutturati
in periodi. Si trattava di tenere insieme due aspetti, che poi nel
dibattito successivo avrebbero prodotto tendenze conflittuali: la
continuità e la discontinuità storica. Elaborare una teoria della
storia che parlasse della storia degli uomini, per cui si
potesse dire che tutto quello che è successo possa essere
riferito in qualche modo agli esseri umani che lavorano insieme, ma
al tempo stesso come questa non fosse una storia indefinita di
uomini, ma si articolasse in periodi con dei punti di rottura, di
discontinuità, per cui esse fossero diverse fasi di una stessa cosa.
Le due derive che si determinano se non teniamo insieme le due cose sono, da una parte, teorie della storia essenzialiste, cioè teorie della storia in cui sostanzialmente c'è un'essenza umana o in origine, in un tempo non meglio definito, o delle caratteristiche intrinseche dell'uomo, che non cambiano mai e che poi vengono più o meno traviate negli eventi successivi. In questa prospettiva in realtà abbiamo una lunga storia di una non meglio definita alienazione, dalla quale alla fine si può venir fuori ristabilendo quella condizione originaria. È una teoria per cui l'uomo in fondo è sempre se stesso e nel tempo cambia fino ad un certo punto. Cambia nella misura in cui le sue qualità essenziali sono negate, quindi l'obiettivo politico sarà quello di riconciliare essenza ed esistenza.
L'altra deriva è lo "storicismo invertebrato", come lo
definiva Luporini negli anni 70, cioè una teoria della storia per
cui i vari periodi non "dialogano" tra di sé: ogni epoca
ha una sua essenza irriducibile che non comunica con le altre. Il
compito della ricerca storica è quindi quello di "rivivere"
lo spirito del tempo. Non è però possibile dire che una fase è
superiore o inferiore ad un'altra fase, perché l'idea di fondo è
che queste fasi tra di sé non comunichino; sono modelli,
ciascuno dei quali ha una sua irriducibile, intrinseca natura, che lo
rende incomparabile agli altri. La deriva di questo approccio è che
non esistono argomenti contro lo schiavismo, contro il nazismo,
contro il fascismo, contro niente, perché non c'è un modo razionale
argomentativo per dire che i principi fondanti di una certa
concezione del mondo sono sbagliati, perché si risponderebbe "e
beh quelli sono i miei principi fondanti". Qui, tra l’altro,
si vede la deriva potenziale del "ritorno alle radici" di
tutte quei movimenti che ancora oggi si appellano all'idea di queste
radici fondamentali da sostenere e riproporre come valore regolativo
del vivere sociale. Marx, secondo me, cerca di evitare queste due
cose e cerca di mettere insieme continuità e discontinuità, cioè
una teoria della storia in cui tutte le fasi siano umane e quindi
comparabili tra di sé in quanto fasi della stessa cosa, cioè della
riproduzione umana, ma allo stesso tempo abbiano delle rotture, ogni
periodo abbia una sua specificità che permetta di identificarlo come
tale.
Secondo Marx lo snodo è il processo lavorativo. Il processo
lavorativo è quell'elemento che permette di tenere insieme, in primo
luogo, la continuità e la discontinuità con la natura. Questo è
ancora un altro punto: gli esseri umani non agiscono nel vuoto ed
essi stessi sono un prodotto dell'evoluzione naturale; ad un dato
momento si differenziano dalle altre specie animali in quanto
riescono a lavorare, ad instaurare questo processo che si articola
attraverso la loro attività, attraverso la loro azione finalizzata a
scopo su un oggetto di lavoro, attraverso dei mezzi di lavoro, con un
risultato, il prodotto, che può essere altro da loro stessi.
Riescono a dare una oggettualità esterna allo stesso individuo che
agisce. Alcuni animali riescono a farlo, ma comunque è l'uomo che ne
fa la sua attività principale. Questo primo elemento determina una
continuità e una discontinuità con il processo naturale in
generale, perché l'uomo, elemento naturale, agisce su altri elementi
naturali, per creare un mondo tipicamente umano, quindi
naturale-umano.
Su questa prima continuità/ discontinuità fra uomo [a sua volta
natura) e natura insiste l’altra, cui accennavo prima, fra storia
umana in generale e fasi specifiche di essa in particolare: gli
uomini, che sono tali in quanto producono, non produrranno sempre
nello stesso modo; ciò che li accomuna è che sempre produrranno,
sempre produrranno in forme associate, però non lo faranno sempre
nella stessa maniera. Le diverse modalità, attraverso le quali gli
elementi del processo lavorativo, che prima ricordavo, vanno ad
unirsi [questa unione permette l'effettiva realizzazione del processo
lavorativo) caratterizzano le diverse fasi storiche della produzione.
Per esempio, nel mondo schiavistico la forza-lavoro e i mezzi di
produzione sono tutte cose, anche la forza-lavoro è una cosa, che
appartiene al proprietario come gli appartengono gli altri strumenti
che vengono utilizzati.
Nella corvée il pluslavoro si estrinseca come prestazione gratuita
nel campo del signore o chi per lui. Il processo lavorativo in forma
capitalistica invece si caratterizza perché questa unione dei mezzi
di produzione e della forza-lavoro avviene attraverso la libera
compravendita, cioè attraverso la volontaria vendita da parte della
forza-lavoro della propria capacità di lavorare, che poi si
estrinseca come momento del capitale.
Il punto chiave è questo: sono tutte diverse epoche del produrre;
esse inizialmente si differenziano per le modalità attraverso cui
questi elementi, che compongono il processo lavorativo, si uniscono e
permettono l'effettiva estrinsecazione dell'attività. Quello che è
tipico del modo di produzione capitalistico è che sia il capitalista
che il lavoratore sono individui liberi, nel senso che il codice
riconosce a ciascuno il diritto di vendere o non vendere, comprare o
non comprare. Questa poi si rivelerà essere una parvenza, ma
formalmente il codice riconosce questo come atto volontario e sono
liberi di farlo e stanno gli uni di fronte a l'altro come uguali,
tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge. I principi
fondamentali dei codici borghesi sono
Soggetti
storici. Lavoratore e operaio
Questo è, tuttavia, allo stesso tempo solo un punto di partenza
perché poi i diversi modi di produzione si differenziano
ulteriormente per le specifiche dinamiche che si innescano nella loro
processualità. Da questo punto di vista, nel modo di produzione
capitalistico quali sono le classi? Quali sono i soggetti che entrano
in relazione? Prima di affrontare più esplicitamente questo tema,
vorrei ricordare un modo di interpretare il primo libro del Capitale,
che è possibile, ma che secondo me è molto limitante, perché non
permette di capire a fondo la potenza delle categorie che Marx
sviluppa in questa parte. Qual è il punto fondamentale di questo
approccio che secondo me è sbagliato? Quello di "storicizzare’'
questo libro, nel senso di considerarlo una trattazione della storia
del capitalismo del 1800, della rivoluzione industriale
dell'Inghilterra del tempo. Verso questa lettura ha spinto per primo
lo stesso Engels per esempio. Egli introdusse l'idea che i primi tre
capitoli del primo libro del Capitale dedicati a merce e denaro ed
alla circolazione semplice trattassero non del capitalismo, ma di una
"produzione mercantile semplice", cioè di un'epoca
della produzione precapitalistica. Lui lo faceva perché aveva in
mente il problema della trasformazione dei valori in prezzi; propose
come via d'uscita da quella che sembrava un'impasse irrisolvibile
l'idea di considerare la legge del valore funzionante in questa
società precapitalista; essa sarebbe poi stata sostituita dalla
teoria dei prezzi di produzione del terzo libro in una società
pienamente capitalistica. Introducendo questa idea, dava
l'impressione che si trattasse di un'evoluzione storica, di una sorta
di fenomenologia dello sviluppo storico del capitalismo. Anche il
modo in cui per esempio lo sviluppo della forma di valore viene
trattata: sembra che prima si consideri uno scambio occasionale, poi
uno scambio più diffuso, poi uno scambio generalizzato. A quel punto
la trasformazione del denaro in capitale poteva essere interpretata
come la descrizione dell'avvento storico del capitalismo e poi,
soprattutto, tutta la sezione del plusvalore relativo poteva essere
letta proprio come una narrazione un po' teorizzata dello sviluppo
storico del capitalismo in Inghilterra. Per dare una visione più
concreta di questo, soprattutto nel capitolo sulla produzione sul
plusvalore relativo, Marx tratta argomenti come cooperazione,
manifattura, grande industria, tutti chiaramente esempi che avevano
un riferimento empirico molto facile e diretto nell'esperienza
storica di quel periodo in Inghilterra. Se andiamo avanti secondo
questa ricostruzione, facilmente si individuano i soggetti
antagonisti in quelli descritti in queste sezioni e quindi
sostanzialmente si tende a limitarli all'operaio della fabbrica.
Secondo me questa lettura è possibile, perché il testo la consente,
però è estremamente limitante, poiché perde di vista tutta una
serie di punti teorici e formali che permettono di utilizzare questa
teoria in maniera più ampia, al di là dell'effettiva presenza di
questi elementi storici che menzionavo.
Il primo punto è: chi è l'altro del capitale? Qual è l'antagonista
del capitale? Qui è anche una questione di come si traduce il testo
tedesco. Nelle edizioni italiane tradizionali e non solo, anche
nelle edizioni in altre lingue, si riscontrano due parole in questo
contesto: una è "lavoratore", una è "operaio".
In realtà nel testo tedesco c'è sempre la stessa parola che è
“Arbeiter". Qui il punto non è meramente linguistico, è una
questione chiave. Quando nelle traduzioni trovate talvolta
"lavoratore" e talvolta "operaio" è stato il
traduttore a fare questa scelta più o meno legittimamente.2 “Arbeiter"deriva
da "arbeiten" che significa "lavorare" e la "-er"
finale è come "-tore" in italiano. Questo non significa
che l'operaio non sia un lavoratore, ma, a mio parere, Marx sta
pensando in maniera più ampia. Il rapporto che si instaura è tra il
salariato, portatore materiale del lavoro in potenza, e il capitale
sono la forma storica di esistenza della forza-lavoro e dei mezzi di
produzione nella fase capitalistica e quindi la forma salariata di
questo rapporto è più larga dell'operaio. Ripeto, non esclude
assolutamente l'operaio, né significa che l'operaio non sia stato in
certi momenti, e possa essere nuovamente, un punto su cui fare leva,
però la soggettualità storica non è limitata a questo. Perché ciò
è importante? Perché, secondo me, incide anche sul modo di
interpretare tutta la sezione del primo libro del Capitale dedicata
al plusvalore relativo. Il punto chiave è infatti: a quale livello
di astrazione si sviluppa l'analisi di Marx? Marx di che cosa sta
parlando? Del capitalismo dell'Inghilterra dell'ottocento o sta
facendo una teoria del funzionamento del modo di produzione
capitalistico, vale a dire una cosa molto più astratta. Io penso che
sia il secondo caso. Egli elabora una teoria generale che dà le
definizioni di che cosa è capitale", "lavoro salariato",
"plusvalore" etc., che definisce cioè la grammatica del
modo di produzione capitalistico, che di per sé non è nessun
capitalismo. Nessun capitalismo è descritto nel Capitale e un po'
tutti.
Questo è il punto: è una teoria astratta di come questo
modello funziona, ma come tale questo modello non è mai esistito
nella sua purezza e mai esisterà. Marx usa infatti la parola
"capitalismo" in tutti i libri e manoscritti del
Capitale una sola volta, nel secondo. È qualcosa di simile alla
trattazione delle leggi astratte della fisica rispetto ai fenomeni
concreti in cui esse si realizzano. Marx parla dunque anche del
capitalismo dell'Inghilterra, ma non teorizza quel capitalismo
specifico, teorizza il modo di produzione capitalistico come tale. 11
modo di produzione non è il capitalismo e non è nessuno dei
capitalismi che conosciamo, perché per parlare della crisi attuale,
del capitalismo italiano nel contesto della crisi europea abbiamo
bisogno di una serie infinita di integrazioni, di scendere dal
livello di astrazione altissimo della teoria del modo di produzione e
aggiungere la teoria dello Stato, etc., diciamo tutti i libri che
Marx avrebbe voluto scrivere e che non ha mai scritto. È una teoria
molto potente, ma che, per essere utilizzata, va ampliata,
approfondita, come lo stesso Marx del resto suggeriva.
Sussunzione
del lavoro sotto il capitale. Forme e figure
Torno alla sezione che menzionavo prima, quella dedicata alla
produzione del plusvalore relativo; in essa si descrive come il
capitale cerchi, nella maniera a lui più consona, di aumentare
l’espropriazione di plusvalore. Normalmente la giornata lavorativa
si divide in una parte di lavoro necessario - quella necessaria alla
riproduzione della forza-lavoro - e in una parte in cui il
capitalista si appropria; egli infatti paga "giustamente” la
forza-lavoro al suo valore, ma poi, facendo lavorare il lavoratore
per più ore di quelle necessarie alla riproduzione della
forza-lavoro, estorce un plusvalore. Se il limite della giornata
lavorativa è fissato, come fa ad aumentare il plusvalore?
Riducendo il lavoro-necessario attraverso l’incremento
della produttività del lavoro. Per far questo, il modo di
produzione capitalistico modifica il modo di produrre, inizia a
introdurre delle modifiche strutturali al modo in cui si produce che
determineranno la specificità del modo di produzione capitalistico.
Lo stesso Marx distingue tra "sussunzione formalistica”3 e
"sussunzione reale” del processo lavorativo sotto il
capitale; la prima non modifica il modo di produrre dato, la seconda
sì. . La cosa straordinaria è che non è che si può lavorare o non
lavorare, non è una scelta “libera” come sembrerebbe secondo la
parvenza della circolazione semplice, la "libera"
compravendita di forza-lavoro; infatti non si può non lavorare se
l’umanità vuole riprodursi. Quindi, in realtà, quello che succede
è che la riproduzione umana avviene sotto forma di capitale. Questo
significa che è un rapporto di produzione. La riproduzione del corpo
umano associato avviene come momento del capitale. Quali sono le
caratteristiche peculiari di questo processo riproduttivo in forma
capitalistica? In questa parte Marx introduce i capitoli su
cooperazione, manifattura e grande industria, che, come dicevo, sono
stati letti più storicamente o sociologicamente che logicamente. La
mia proposta è di leggere queste parti anche storicamente, ma con un
occhio alle determinazioni di forma, cioè alla comprensione di come
il processo lavorativo si modifichi in forma capitalistica; ciò
permette di individuale modalità più generali che si possono
applicare a diverse configurazioni storiche del capitale.
Iniziamo con la cooperazione. Il punto chiave è che con il modo di
produzione capitalistico il carattere cooperativo del lavorare
diviene una forma strutturale del lavorare, cioè tendenzialmente si
lavorerà cooperando. La singola persona che lavora da sé sarà
sempre più marginale. Questo non necessariamente ha una forma
giuridica predefinita, per esempio il giornalista free-lance che è
indipendente, in realtà non è indipendente per niente, perché
senza un giornale che gli pubblica un articolo, o il direttore di
testata che dà la linea lui non lavorerebbe. Il punto è: come
opera? Può operare da solo? Con il sistema di produzione
capitalistico l'individuo che opera da solo tende a non esistere più.
Cioè il carattere del lavoro cooperativo del lavorare diventa
strutturale. Introducendo la manifattura Marx fa un altro passaggio,
vale a dire mostra come il singolo lavoratore non solo cooperi
genericamente, ma perda la capacità di realizzare tutto il prodotto
da solo e, quindi, riesca a farne solo una parte. La parte la
farà meglio ma non è più in grado di fare tutto. Attraverso questo
passaggio vediamo che il carattere cooperativo diventa intrinseco,
perché non si può più tornare indietro, la capacità di tornare
indietro è persa. Si potrà solo cooperare perché io so fare solo
un pezzetto del prodotto finale. Qui, in maniera ancora più
evidente, c'è una scissione tra la finalità complessiva del
processo e la mia finalità individuale di lavoratore, lo non ho più
il controllo del processo complessivo, che è sopra di me,
eterodiretto in quanto gestito dal capitalista ed è la mia finalità
individuale che deve integrarsi in modo che poi funzioni con il
tutto. La decisione di come il mio pezzettino si integri con il tutto
non è mia. Qual è il limite storico, ma anche concettuale di
questo? L'abilità personale del lavoratore nel realizzare il bene
ancora ha un valore. Ciò viene superato con la grande industria:
abbiamo la completa subordinazione dell'attività individuale in un
processo sempre più meccanizzato in cui il lavoratore diventa
appendice; da qui inizia un processo che con la robotizzazione e
l'intelligenza artificiale tendenzialmente può portare
all'esclusione della forza-lavoro stessa dal processo lavorativo.
In sostanza, quello che propongo in questa analisi è di distinguere
tra "forme” e "figure". Abbiamo delle figure
storiche: la cooperazione, la manifattura, la grande industria, che
sono esempi di come il modo di produrre si sia modificato. Quali sono
le modifiche del modo di produrre? La natura cooperativa, parziale,
di appendice dell'attività lavorativa; come tali esse non si
limitano affatto alle figure attraverso le quali sono apparse
storicamente. Se invece di limitarsi a considerare 1'esistenza di
queste figure storiche, ci si concentra sulle forme, si vede come, in
realtà, le modificazioni al modo di produrre instaurate dal modo di
produzione capitalistico sono tutt'ora presenti, perché la
stragrande maggioranza dei processi lavorativi avviene in forma
cooperativa, parcellizzata e subordinata e porta tendenzialmente
all'estromissione della forza-lavoro dal processo stesso. In questo
modo la teoria è molto più potente, abbiamo infatti una teoria del
modo di lavorare tipica del modo di produzione capitalistico, che
esisterà in figure storiche determinate; in questo modo non importa
se l'operaio non c'è più, ammesso e non concesso che questo sia
vero ovviamente; anche se così fosse, questo non inficia in niente
la validità della teoria di Marx, perché questa teoria mostra le
forme attraverso le figure.
Questo tipo di approccio funziona così bene, che permette di
spiegare limiti e valore di celebri interpretazic r.. del passato;
per esempio, quando in passato si è fatto leva sulla classe operaia
come antagonista del capitai-, era giusto, perché in quel momento lì
la figura storica che corrispondeva nella maniera più efficace alle
forme era propria la classe operaia. Se però si riduce la forma
sulla figura che succede? Insieme alla figura, la classe operaia come
soggetto antagonista principale scompare anche la forma. Questo è un
errore capitale. Se invece distinguiamo fra forme a figure, la
scomparsa della figura non implica la scomparsa della forma. Oggi,
infatti, le figure sono potenzialmente altre, ma le forme non sono
andate via: il rapporto salariato, che sia formalmente o non
formalmente riconosciuto, il carattere cooperativo, parziale,
subordinato dell'attività lavorativa; il carattere eterodiretto del
processo in cui la finalità complessiva viene dal capitalista, tutto
questo non è scomparso per niente. Ciò permette di applicare questa
teoria ad una casistica molto più ampia e permette anche di cercare
i soggetti potenzialmente antagonisti in una più ampia
stratificazione sociale4.
La
missione storica del capitale
Altra cosa cui vorrei solo brevemente accennare e che non svilupperò
è che il modo di produzione capitalistico instaura delle tendenze di
lungo periodo che pure ne determinano la specificità storica; Marx
le formulò su basi puramente teoriche quando scrisse il Capitale;
esse si sono dimostrate tutt'altro che fallaci. Se, infatti,
osserviamo almeno due delle tendenze più importanti che Marx ritiene
intrinseche al modo di produzione capitalistico vediamo che oggi, ben
più che ai suoi tempi, esse si sono verificate. Una è la cosiddetta
"globalizzazione". Secondo Marx, un esito di lungo periodo
dello sviluppo del modo di produzione capitalistico sarà
l'integrazione della produzione a livello mondiale. L'altra tendenza
fondamentale è l'aumento della produttività del lavoro: secondo la
teoria di Marx, il modo di produzione capitalistico tenderà ad
incrementare questa attività in un modo così poderoso che alla fine
entrerà in contraddizione con le stesse capacità del sistema di dar
esito a questa incredibile forza produttiva.
Ha
visto lontano, dunque, anche sulla dialettica di funzione e
conflitto; la funzione che le forze produttive hanno
nell'integrazione dell'umanità e nell'aumento della loro potenza ad
un certo punto entra in conflitto con le forme nelle quali esse
stesse si sono esplicate e che quindi ora bloccano il loro ulteriore
sviluppo5.
Questo è il limite storico del modo di produzione capitalistico6.
Qui il limite è la limitazione intrinseca del modello, non è tanto
un limite esterno, non è una cosa che sta di fronte, è proprio una
limitatezza interna per cui da un certo punto di vista esso crea
delle condizioni che lui stesso non riesce a sviluppare. Pensiamo
all'umanità: per secoli l'ideale umano è un'idea astratta, la
comune umanità. Il modo di produzione capitalistico crea anche
l'idea dell'essere umano in astratto ma non solo, esso crea l'umanità
concretamente. Come sappiamo bene l'interconnessione della produzione
mondiale fa sì che un problema mio in Italia sia il mediato effetto
di una crisi negli Stati Uniti, in Cina, etc.. Significa che esistono
problemi che solo a livello mondiale si possono porre e superare.
Quindi la contraddizione non è tra un'origine che sta chissà dove e
il presente; la contraddizione è dentro al presente. È lo stesso
modo di produzione capitalistico che crea gli ideali universali e li
nega. È lo stesso modo di produzione capitalistico che crea la
produttività più potente mai esistita e la nega. Quindi "storicità"
significa che questi sono limiti intrinseci di questo modello. Da ciò
non si deve dedurre che dopodomani il capitalismo per questo crolli.
Il passaggio da questo livello teorico delle contraddizioni
fondamentali all'applicabilità di questa teoria con finalità
politiche richiede tutta una serie di passaggi che in parte sono già
stati fatti, ma che ancora necessitano di ulteriori momenti di
analisi. Questo è il lavoro che ci sta di fronte.
Note
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