mercoledì 20 marzo 2019

Critica alla religione e realizzazione della filosofia, nella tradizione dialettica. Stefano Garroni

Da: Stefano Garroni, Dialettica riproposta, a cura di Alessandra Ciattini, (Dialettica riproposta - Stefano Garroni - lacittadelsole).
Stefano_Garroni è stato un filosofo italiano. 



    Indice:


Nota dell’editore 












                                                              ---------------------------------------------------


Lo scopo di questo mio intervento è mostrare, sia pure rapidamente, come la critica, che il Marx giovane muove alla religione, faccia intimamente corpo con un altro motivo – quello della realizzazione della filosofia-, anch’esso espresso in epoca giovanile, ma che ha costituito un orientamento costante per l’intera vita di Marx. Mi interessa, inoltre, suggerire le radici certamente hegeliane di entrambi i temi, i quali contemporaneamente (e nonostante una consolidata tradizione di lettura) allontanano Marx dalla prospettiva feuerbachiana1.

1)
Come sappiamo, la concezione sistematica, che Hegel ha della storia, è, per così dire, legata al rispetto di due condizioni:
(a) mostrare la necessità logico-storica del passaggio da un momento all’altro dell’«insieme»;
(b) mostrare l’intima relazione tra essenza/Wesen ed apparenza/Erscheinung.

Ciò naturalmente significa che l’«insieme» hegeliano (dialettico) è una totalità, che non si contrappone alle parti, sì piuttosto che in tanto esiste, in quanto si articola in parti. Da ciò deriva, anche, il significato specifico che, nel linguaggio hegeliano o dialettico, acquistano un termine come «esteriore» ed il suo correlato «apparente».

Esteriore, ad es., è il rapporto fra A e B, quando questi due semplicemente stanno l’uno accanto all’altro, senza che risulti evidente la necessità (logico-storica) e, dunque, l’intimità della loro relazione.

Si badi, tuttavia: – che A e B stiano l’uno con l’altro in una relazione di esteriorità implica una difficoltà non solo logica, ma anche reale, la cui soluzione sollecita, almeno, ad uno sviluppo ulteriore, che conduca a rapporti non più esteriori tra A e B. Non è pre-determinato che ciò di fatto avvenga, ma post festum (dunque, una volta che sia avvenuto) sarà possibile mostrare la necessità del passaggio dall’esteriorità all’interiorità nella relazione tra A e B.

Una breve pagina hegeliana, citata quasi letteralmente, ci aiuterà a capire. 

Ribadito, nelle sue Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, che il senso stesso della storia è lo svolgersi dei tentativi umani verso una crescente libertà (detto in linguaggio speculativo, essendo la libertà in quanto tale il concetto interno della storia), Hegel sottolinea come, tuttavia, i mezzi di cui la libertà si serve per prodursi nel mondo sono qualcosa di esteriore, di apparente, che nella storia si presenta e si mostra immediatamente. 

(Come si intende facilmente, nel senso di Hegel, il semplicemente«apparente» è ciò che si mostra, senza che appaiano con chiarezza i modi, per cui l’«esteriore» si media con l’«interiore» e, dunque, si riveli essere l’esteriore proprio di quell’interiore).

“La più attenta considerazione della storia – prosegue Hegel – ci convince che i comportamenti degli uomini derivano dai loro bisogni, dalle loro necessità, interessi, caratteri e talenti; e che, dunque, sulla scena dell’attività son presenti solo bisogni, passioni, interessi, i quali si presentano come le forze trainanti dotate della massima efficacia. Tra queste forze vanno compresi anche scopi generali, aspirazioni al bene, amor di patria: ma queste virtù e questa apertura all’universale stanno in rapporti non chiariti con il mondo e con ciò che esso produce ...”

(Dunque, è chiarissimo che l’«esteriore» si mostra sì immediatamente, restando però, nello stesso tempo, qualcosa di semplicemente presente e non spiegato, non compreso; insomma, come qualcosa che semplicemente c’è, è dato insieme ad altro, senza tuttavia che entri in un’autentica “socialità” con l’altro. La conseguenza è che il rapporto tra l’uno e l’altro s’impone perché c’è; ma c’è gratuitamente: dunque, quel rapporto, per un verso, è ancora semplicemente dato, per l’altro, è non chiarito, non compreso, non ancora svolto fino al suo concetto o Begriff. Come dicevamo, ciò che è, solo apparente è, anche, in relazioni di esteriorità con ciò, insieme a cui è dato).

Ora è fondamentale ricordare che, nella prospettiva dialettica, la presenza dell’apparente/esteriore indica una difficoltà, perché segnala una scissione all’interno della totalità, ovvero, testimonia che l’insieme non si è svolto ancora fino alla coscienza di sé, fino al proprio concetto.

La forma di coscienza, che è adeguata a questa centralità dell’apparente/esteriore è, per Hegel, la religione.

A noi è utile ricordare che nella riflessione di Hegel opera la contrapposizione dinamica tra religione – in quanto rapporto con l’Assoluto, ma nella forma del sentimento, della rappresentazione e della credenza-; e Stato (in generale, coscienza e istituto politici), in quanto “spirito che sta nel mondo”.

Qual è, dunque, la contraddizione, che caratterizza ogni fondazione religiosa dello Stato?

Risponde il § 270 dei Grundlinien der Philosophie des Rechts, dal quale ricaviamo che fondare lo Stato sulla religione implica (a) che le istituzioni politiche non trovino in se stesse (al livello, che è loro proprio, cioè, a quello storico, mondano) il proprio valore; (b) ma che lo ricevano piuttosto da qualcosa, che è loro esteriore, esterno, insomma, dal celeste; (c) la conseguenza di questa sanzione esteriore è che l’istituzione politica vien certamente giustificata, restando però priva di un proprio, interno valore.

La fondazione religiosa dello Stato presuppone, dunque, la svalutazione del mondano ma, anche, la sua santificazione, esattamente in quanto svalutato. Tale fondazione nasce da una scissione – tra istituto e senso; tra empirico e concetto; tra anima e corpo –, che però finisce col cristallizzare, esattamente in quanto valorizza solo dall’esterno ciò che, precedentemente, ha privato di senso e di concetto.

La fondazione religiosa dello Stato è prova di una scissione nella “totalità”, in quanto presuppone lo sdoppiamento del reale in dimensione mondana (storica, empirica) e/o dimensione spirituale (celeste, extra-mondana, ideale, religiosa, appunto); scissione, che non viene tolta, ma sì ribadita, quando il politico (lo Stato) vien giustificato, sancito (rechtfertigen) dalla religione, dunque, a partire da un livello, che non gli è proprio.

D’altronde, posta la prospettiva dialettica o hegeliana, è facile comprendere come sia inevitabile la critica alla fondazione religiosa dello Stato, esattamente perché l’orientamento fondamentale dell’elaborazione dialettica è il superamento della scissione, ovvero, la piena realizzazione dell’intimità del rapporto fra evento e legge, tra fenomeno e regola sua.

Richiamati sommariamente questi punti della concezione hegeliana o dialettica, vediamo – altrettanto rapidamente – come riappaiono in Marx.

2)
Für Deutschland ist die Kritik der Religion im wesentlichen beendigt, und die Kritik der Religion ist die Vorausetzung aller Kritik2. 

Quanto abbiamo già accennato, a proposito di Hegel e la religione, ci consente di comprendere bene il senso dell’affermazione marxiana.

La critica alla religione è il presupposto di ogni critica perché esprime, in modo chiarissimo, la vocazione fondamentale della dialettica: vale a dire l’affermazione di un radicale immanentismo (Diesseitigkeit) di contro a qualunque concezione del mondano che – da un lato – lo svuota di valore e – dall’altro – lo santifica, invece, ma secondo il procedimento vizioso, che abbiamo ricordato.

Se così va interpretato il giudizio di Marx, ne deriva che nella giovanile Zur Kritik, – quale che fosse la coscienza di Marx; si possa o no parlare, in quest’epoca, di una significativa influenza feuerbachiana su di lui –, è comunque vero che la posizione filosofico-politica del giovane studioso non si collocava fuori dal confine dialettico (hegeliano), ma piuttosto si muoveva rigorosamente entro di esso.

E così faceva anche perché non confinava il proprio impegno filosofico ad un livello puramente speculativo, osservativo; sì piuttosto concepiva l’orientamento verso l’immanentismo come un processo reale, come un effettivo mutamento dell’esperienza e della condizione storiche.

Orientamento immanentistico e consapevolezza della natura anche storica del movimento logico, spiegano (senza alcun bisogno di Feuerbach) sia la critica antispeculativa svolta dal giovane Marx (che in questo si ricollega, in realtà, a Kant ed a Hegel); sia la distinzione, che egli implicitamente opera, fra Religion e Religiosität.

A ben osservare in Marx non troviamo, neppure per accenni, lo studio organico di una religione specifica o di un punto particolare della vita religiosa. E ciò non avviene a caso, ma sì perché a Marx – sulla base di una lunga tradizione, già ampiamente elaborata nella Grecia classica – interessa porre in luce il nesso fra religiosità in generale e quella condizione di scissione obiettiva (storico-sociale), che ha bisogno per garantirsi di una sanzione esteriore.

A questo punto, appare con tutta chiarezza la relazione profonda, la coerenza essenziale, che legano, in Marx (ma, abbiamo visto, nella tradizione dialettica in generale), critica alla religione, alla pretesa di farne la fonte di valorizzazione del mondano, ed impegno politico (rivoluzionario, nel caso di Marx).

Il filo rosso, che funge da legame, è proprio la concezione dialettica, che punta a togliere la separazione fra piano logico e piano storico, giungendo così a maturare la convinzione che la contraddizione logica (svalutazione del mondano in quanto tale e sua rivalutazione, ma dall’esteriore) non può esser tolta, se non mediante un processo, che modifica obiettivamente la condizione storica stessa.

È questa convinzione, d’altronde, che motiva profondamente la critica a Feuerbach, contenuta nelle giovanili Thesen (testo che, se riletto con attenzione, mostra profondi legami con la lezione di Hegel), e che rende in tutta la sua importanza il motivo della realizzazione della filosofia, che Marx svolge, ancora una volta, nella giovanile Zur Kritik.

Naturalmente, l’interpretazione secondo-internazionalista della Realisierung der Philosophie è inaccettabile, in quanto ne riduce il significato – in questo senso è gran male che quella interpretazione abbia superato i confini storici della Seconda Internazionale, imponendosi largamente anche nel marxismo successivo.

La realizzazione della filosofia – nel senso di Marx, che poi – come già sapiamo – è uno sviluppo di motivi già presenti in Kant e in Hegel – in nessun modo significa dissoluzione della filosofia nella politica (così come in Marx non c’è nessuna dissoluzione della filosofia nella scienza), sì piuttosto è l’affermazione di una duplice necessità: (i) che la filosofia acquisti consapevolezza delle proprie radici politiche e sociali, dunque, di avere nell’al di qua la propria origine; (ii) ed anche che, da parte sua, il movimento politico e sociale si elevi fino “ai bisogni della filosofia”, ovvero si riconosca non esaurito nell’immediata dimensione politico-sociale ed, invece, approfondito, arricchito, sviluppato ed ampliato nel mondo del pensiero, ritrovando in esso l’immagine del suo proprio mondo e nelle esigenze del pensiero le sue stesse esigenze.

Come si vede, quello della realizzazione della filosofia è un tema, che si lega strettamente alla concezione logico-storica del movimento ed alla consapevolezza che gli effetti di un mondo scisso non possono esser tolti (aufheben), se non superando la scissione del mondo.

Note

1 Più precisamente, è vero che, in Marx, «realizzazione della filosofia» e «critica alla religione» son temi, che rimandano l’uno all’altro; dacché nascono l’uno dall’altro. Voglio dire che (a) la critica alla religione è una parte della realizzazione della filosofia ma, anche, (b) la realizzazione della filosofia nasce come conseguenza della critica alla religione.

2 K. Marx, Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie, in MEW, Band 1: 378.

Nessun commento:

Posta un commento