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Le
origini
Qualcuno
ha definito la globalizzazione come l’incontro tra l’Oriente e
l’Occidente: in quest’ottica, le vie della seta hanno sicuramente
rappresentato, per la storia umana, un primo, embrionale tentativo di
integrazione economica, tecnologica e culturale tra civiltà
radicalmente differenti.
Sviluppatesi
a partire dal II secolo a.C. e per oltre quindici secoli, queste
lunghissime tratte commerciali consolidarono precedenti itinerari
regionali in un’unica, interminabile rotta eurasiatica, dando vita,
per la prima volta nella storia, ad un collegamento permanente tra la
Cina e l’Europa. Questi intensi traffici traevano la loro origine
dal florido impero cinese che, sotto la dinastia Han, uscì
finalmente dal suo secolare isolamento per rivolgere lo sguardo verso
Ovest: l’intraprendenza della casata Han spinse i mercanti cinesi a
valicare le imponenti montagne dell’Himalaya e del Karakorum, da
sempre ostacolo geografico per la Cina, e a raggiungere percorsi
preesistenti nella steppa centrasiatica. Le vie carovaniere,
dall’Estremo Oriente, infatti, trovarono terreno fertile per gli
scambi economici in Asia centrale, un’immensa area abitata da un
variegato insieme di popoli, dalle tribù nomadi delle praterie
eurasiatiche ai grandi imperi stanziali di Iran e Afghanistan, tutti
accomunati da una grande vocazione al commercio. Di fondamentale
importanza fu, indubbiamente, l’intermediazione di queste
popolazioni per l’avvento delle merci cinesi in Europa: i mercanti
romani poterono, proprio in virtù delle interazioni commerciali con
le civiltà centrasiatiche, garantire l’arrivo, nella regione del
Mediterraneo orientale, e da lì, nel resto del continente, di
prodotti cinesi, primo su tutti la seta, di cui l’impero romano
divenne uno dei principali mercati. Va ricordato che, parallelamente
alle rotte terrestri, esistevano delle rotte marittime altrettanto
essenziali che, partendo dai porti del mar Rosso, ai confini
sudorientali dell’impero romano, giungevano in India: i traffici
lungo queste tratte crebbero, nei secoli successivi, a tal punto da
soppiantare gli itinerari terrestri, integrando, persino, rotte
provenienti dalla Cina e dal Sud-Est asiatico.
Il
declino
A
sancire la fine delle millenarie vie della seta fu l’ascesa di un
ennesimo impero lungo le sue rotte: l’impero mongolo. In una prima
fase, paradossalmente, fu proprio sotto l’impero fondato da Gengis
Khan che questi itinerari conobbero il loro periodo di maggiore
splendore. La creazione di un’unica confederazione che si estendeva
lungo tutta l’Eurasia, dalla Corea fino alle odierne Polonia e
Romania, non poté che favorire gli scambi commerciali e culturali
tra Oriente e Occidente. Quest’epoca di relativa stabilità
politica ed economica, durante la quale le tratte eurasiatiche
poterono prosperare, è conosciuta come Pax Mongolica ed è
testimoniata dai celebri racconti di Marco Polo. Tuttavia, nonostante
l’impero continuò ad espandersi anche dopo la morte di Gengis
Khan, la mancanza di una solida leadership e di un’adeguata
struttura centralizzata di controllo dei territori portò alla
progressiva frammentazione dell’impero tra i belligeranti eredi e,
di conseguenza, all’inevitabile dissoluzione delle vie della seta.
L’Europa, che stava lentamente uscendo dal Medioevo, si avviò ad
abbracciare l’Età dell’Umanesimo, mentre la Cina, stremata da
secoli di angherie mongoliche, intraprese, nuovamente, una graduale e
arrogante chiusura su se stessa. Entrambe decisero di rivolgere lo
sguardo altrove, determinando la fine del primato globale
dell’Eurasia.
Gli
europei del Rinascimento, animati da una ritrovata fiducia in se
stessi e nelle loro capacità, cominciarono ad ampliare i loro
orizzonti oltre le temute Colonne d’Ercole, spingendosi verso
l’ignoto. Speranzosi di trovare una via più veloce per raggiungere
il vecchio Oriente, gli europei ne scoprirono uno nuovo. Con la
scoperta delle nuove “Indie”, Colombo diede inconsapevolmente il
via ad un’inaspettata fase della storia umana. Fu l’avvio di una
nuova globalizzazione (4).
Gli
europei, in tutte le loro declinazioni, dagli spagnoli agli inglesi,
dai portoghesi ai francesi, imposero violentemente il loro dominio
sul nuovo continente: nonostante il mercato delle Indie orientali e
della Cina rimase prospero, l’intensificarsi degli scambi con le
colonie americane diede all’Atlantico un’inedita centralità,
strappando ai rapporti eurasiatici la supremazia geopolitica. Questo
fenomeno, che si protrasse per oltre tre secoli, raggiunse il suo
apice verso fine Ottocento. Sotto la cosiddetta Età
dell’imperialismo, le potenze europee, prima su tutte l’Impero
britannico, estesero il proprio dominio a quei pochi territori
rimasti fino ad allora estranei all’esperienza coloniale e
coinvolsero l’intero pianeta negli stravolgimenti tecnologici
portati dalla Seconda Rivoluzione industriale. Durante questa fase
storica, quel fenomeno che aveva preso il via nel Cinquecento assunse
una connotazione sempre più aderente alla globalizzazione odierna.
Come già avvenuto in passato, si osservò un crescente flusso di
merci, capitali e persone spinto dallo sviluppo dei mezzi di
trasporto (la ferrovia e la navigazione a vapore) e di comunicazione
(il telegrafo elettrico). Tuttavia, ciò che davvero caratterizzò
quest’integrazione commerciale senza precedenti furono alcune
innovazioni economiche che avrebbero contraddistinto anche la
successiva globalizzazione: l’abbattimento delle barriere doganali
e l’adesione a un sistema monetario comune (allora il gold
standard) furono due dei principali fattori che spinsero le
esportazioni dei paesi industrializzati al 17% del PIL, soglia poi
infranta solo negli anni Novanta del secolo scorso (6).
L’Europa,
che di lì a pochi decenni avrebbe lasciato lo scettro agli Stati
Uniti, aveva plasmato un modello di globalizzazione destinato a
durare. Fu, infatti, la potenza americana, significativamente meno
interessata dalla devastazione delle due guerre mondiali, a ereditare
la leadership dell’Occidente. Gli Stati Uniti, un prodotto della
globalizzazione europea, ne avviarono un’altra, la prima ad essere
definita tale. Già in gestazione a partire dal 1945, la
globalizzazione di matrice statunitense poté compiersi, nelle sue
fattezze attuali, solo con il collasso dell’Unione Sovietica e la
conseguente nascita di un sistema unipolare a guida americana.
Fondato sul modello economico del Washington Consensus (6) e quello
politico della liberaldemocrazia, retto dalla supremazia del dollaro,
dalla creazione di vaste aree di libero scambio (7) e da una
crescente finanziarizzazione dell’economia e promosso dai mirabili
frutti della Rivoluzione digitale (PC, cellulare e internet), quel
sogno americano, egemonico e di benessere insieme, vive oggi la sua
fase di crisi più profonda.
La
rinascita
Il
progetto delle nuove vie della seta non poteva che essere messo in
cantiere, se non ai primi, evidenti segni di cedimento
dell’architettura del sistema a trazione americana. L’immagine
della globalizzazione di stampo statunitense, presentata fino ad
allora come indispensabile e salvifica panacea dei mali del mondo, ha
cominciato ad incrinarsi e a manifestare, soprattutto in Occidente,
le sue intrinseche criticità a partire dal biennio 2008-2009, vero e
proprio tornante della storia recente. Se lo scoppio della crisi
finanziaria ha portato a galla, negli Stati Uniti e in Europa, tutte
le contraddizioni di un sistema economico fragile e irresponsabile,
la Cina ne è uscita sostanzialmente indenne. Mentre le economie
avanzate vivevano il loro periodo più buio, Pechino, sotto i
riflettori per le prime Olimpiadi ospitate sul proprio territorio,
dimostrava di prosperare nella globalizzazione. Smentendo tutte le
previsioni più accreditate (8), la Cina, nel solo 2009, crebbe quasi
del 10% (contro il -2,9% degli Stati Uniti e il -4,3% dell’Unione
Europea), raggiungendo il livello del PIL atteso per il 2016, ben 7
anni in anticipo. Di fronte al crescente spazio che gli eventi del
2008 gli riservarono sulla scena internazionale, il gigante giallo fu
costretto a prendere coscienza del suo ritrovato peso geopolitico e
si preparò a modellare la globalizzazione, che tanto l’aveva
favorita, secondo le sue logiche.
In
realtà, progetti di integrazione su scala intercontinentale
circolavano negli ambienti del Partito Comunista Cinese già dai
primi anni 2000 (9), ma la loro fattibilità poté accrescersi solo
con la contrazione, più o meno apparente, dello strapotere
americano. È, infatti, solo sotto la leadership dell’attuale
segretario generale Xi Jinping, nominato durante il 18esimo Congresso
nazionale del PCC nel 2012, che le nuove vie della seta vengono
presentate al mondo. Proposta nel settembre 2013 in Kazakistan nella
sua versione terrestre (“Cintura economica della via della seta”)
e il mese successivo in Indonesia nella sua versione marittima (“Via
della seta marittima del 21esimo secolo”), l’iniziativa delle
nuove vie della seta (definita ufficialmente “Belt and Road
initiative” (10)) è un ambizioso progetto che mira ad una
crescente interconnessione infrastrutturale, commerciale e, di
conseguenza, geopolitica tra Asia, Europa, Africa ed Oceania, con la
Cina come perno di questi collegamenti. Verranno coinvolti,
direttamente o indirettamente, 105 paesi da tutti i continenti e,
come sostegno alla realizzazione dell’iniziativa, sono sorte due
istituzioni complementari: il Silk Road Fund, fondo creato per
promuovere investimenti lungo le rotte, e l’Asian Investment
Infrastructure Bank (AIIB), vero e proprio pilastro finanziario della
Bri, che si propone come alternativa alla Banca Mondiale, di marca
americana, e all’Asian Development Bank, di marca giapponese. Non
va, inoltre, ignorato il consistente sostegno finanziario da parte
dei principali istituti bancari della Repubblica Popolare, che da
tempo raccolgono miliardi per accordi legati alle nuove vie della
seta (11).
Lo
sforzo congiunto dell’establishment cinese nella realizzazione
della Bri, che domina ormai la politica estera cinese da quasi un
lustro, dà un’idea dell’importanza del progetto agli occhi del
suo più appassionato promotore, il presidente Xi Jinping. Reduce dal
trionfo al 19esimo Congresso nazionale del PCC, tenutosi l’ottobre
scorso, Xi ne è uscito ulteriormente rafforzato e, dopo soli 5 anni
di mandato, ha visto elevare a rango costituzionale sia il suo
“socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era”, sotto
forma di “pensiero” e non di semplice “teoria”, onore
riservato solo a Mao fino ad ora, che la sua preziosa creazione
geopolitica, le nuove vie della seta. Il presidente della
Repubblica Popolare, attraverso il suo progetto, intende imprimere
una svolta a quella stessa globalizzazione che tanto strenuamente ha
difeso al Forum economico mondiale di Davos, nel gennaio 2017 (12).
Convinto
che la globalizzazione a guida americana abbia contribuito a condurre
800 milioni di cinesi fuori dalla povertà negli ultimi 40 anni (dati
Banca Mondiale) e che alcuni suoi tratti distintivi vadano salvati
(l’immenso sviluppo informatico e la crescita degli scambi
commerciali globali su tutti), Xi Jinping pensa, tuttavia, di
trasformarla secondo “le caratteristiche cinesi”. Sotto il
profilo economico, in Cina, è infatti emerso un modello di crescita
contrapposto a quello raccomandato dalle grandi istituzioni
internazionali e conosciuto come “Beijing Consensus”, espressione
coniata nel 2004 dall’esperto di affari internazionali americano
Joshua Cooper Ramo. L’approccio cinese, parziale retaggio
dell’esperienza comunista (formalmente ancora in essere), consiste
in una limitata apertura al mercato e in un forte intervento pubblico
nell’economia e si configura come l’esempio meglio riuscito di
capitalismo di Stato. Questo modello, abbinato all’autoritarismo di
un sistema fortemente centralizzato e poco plurale, in diretto
contrasto con quello delle “democrazie di mercato” occidentali,
rappresenta una peculiarità cinese, ma potrebbe risultare allettante
per numerosi paesi in via di sviluppo, dall’Africa al Sud-Est
asiatico, in cui le ricette del Washington Consensus hanno fallito e
i cui governi desiderano mantenere sotto stretto controllo la
società. La vera sfida della “via cinese alla globalizzazione”
è, però, eminentemente geopolitica.
Se
il sorpasso economico e cibernetico (13) sulla potenza americana,
entro il 2030, appare ormai plausibile, è su un altro traguardo che
si fonda la pedagogia, un po’ propagandistica, delle nuove vie
della seta: il grandioso progetto rivela, infatti, l’ambizione
cinese del “risorgimento della nazione”, ovverosia l’orizzonte
del 2049, data altamente simbolica in quanto centenario della
fondazione della Repubblica Popolare Cinese, per ripristinare il
primato geopolitico di Pechino. La realizzazione di questo “sogno
cinese” passa, inevitabilmente, attraverso la rivitalizzazione di
una categoria geografica che, negli ultimi secoli, ha
progressivamente perso centralità: l’Eurasia. Come la dinastia Han
ha consolidato la sua supremazia globale rendendosi promotrice di
scambi tra Oriente e Occidente, così la Cina odierna aspira a
rinsaldare i legami eurasiatici per tornare ad essere il “Numero
Uno”. Essenziale per la riuscita di questo progetto sarà il ruolo
dell’Asia Centrale: costantemente tesa tra Est e Ovest, questa
regione, la cui intermediazione fu indispensabile già per le antiche
vie della seta, ritorna ad essere di sconcertante rilevanza e
rappresenterà uno dei principali focolai di tensione con Washington.
In quest’ottica, si inquadra un concetto connaturato alla nascita
stessa della geopolitica, quello di Heartland, termine usato dal
geografo inglese Sir Halford Mackinder nel 1904 per descrivere il
centro dell’enorme massa eurasiatica, il cui controllo avrebbe
garantito l’egemonia globale. La politica estera statunitense è,
infatti, sempre stata attenta ad evitare che quest’intera area
cadesse nelle mani di un’unica potenza, capace, in tal caso, di
mettere a repentaglio la leadership americana, fondata sul dominio
dei mari.
Questo
scenario da solo basta ad evidenziare quanto la strategia cinese
dell’ “ascesa pacifica” sia impraticabile. Nonostante il
governo cinese continui a ribadire che la crescente affermazione di
Pechino sullo scacchiere internazionale non rappresenterà una
minaccia alla pace e alla stabilità mondiali e che le nuove vie
della seta potranno essere una soluzione win-win di cooperazione tra
tutti gli attori globali, è inevitabile che l’espansione cinese
generi delle frizioni. Ed è proprio su questa certezza che gli Stati
Uniti, segnatamente sotto l’amministrazione Obama, hanno imperniato
il loro “Pivot to Asia”, ossia un riorientamento della politica
estera americana volto al contenimento dell’ “ascesa Pacifica”
della Cina, intesa qui nella sua seconda accezione di accrescimento
dell’influenza di Pechino nel Mar Cinese Meridionale e, più in
generale, nella macroregione dell’Asia-Pacifico. In quest’area si
giocherà il destino delle vicende globali e, con esse, la leadership
del pianeta. La Cina desidera tornare ad essere promotrice della
globalizzazione, sogno che per prima ha realizzato, oltre duemila
anni fa, e che, ai suoi occhi, le è stato strappato per ben due
volte dall’America, prima facendosi scoprire e poi avviando la
propria. Nell’ottica di Pechino, questo desiderio può avverarsi
solo se si attinge a piene mani da quel glorioso passato che,
eccezion fatta, grosso modo, per gli ultimi tre secoli, ha sempre
visto l’Impero Celeste protagonista della sua storia millenaria. Ed
è così, che viene alla mente, quasi visibile, l’immagine di Xi
Jinping che pronuncia un trumpiano “Make China great again”.
Note
1
Fu il geografo tedesco Ferdinand Von Richthofen (1833-1905) a
coniare, nel 1877, l’espressione «Via della Seta», in tedesco
«Seidenstraβe».
2 Xinru Liu e Lynda Norene Shaffer, Le vie della seta, il Mulino, 2009
3 Alcune altre merci di scambio inclusero: resine aromatiche dalla penisola arabica; bestiame, pellicce, avorio e giada dall’Asia centrale; porcellane, tè, polvere da sparo e la tecnica della stampa dalla Cina; spezie e fragranze dall’India; l’uva e la produzione del vino, oro, argento e vetro dal Mediterraneo.
4 Il primo a riconoscere il carattere globalizzante della colonizzazione delle Americhe fu certamente Karl Marx nel suo Manifesto del 1848, scritto congiuntamente a Friedrich Engels.
5 “Perché la prima globalizzazione è finita nel sangue di due guerre mondiali”, Il Sole 24 Ore, 6/11/2015
6 Pensato inizialmente come un pacchetto di misure economiche, promosso da istituzioni con sede a Washington (FMI, Banca Mondiale e Dipartimento del Tesoro americano) e destinato ai paesi in crisi, il Washington Consensus è assurto a manifesto neoliberale: privatizzazioni, deregulation e, più in generale, riduzione del perimetro dello Stato.
7 Le “Free Trade Areas” oggi sono almeno 19, di cui 10 create nei soli anni Novanta (tra queste Mercosur, NAFTA e UE)
8 http://www.goldmansachs.com/our-thinking/archive/archive-pdfs/brics-dream.pdf
9 Intervento di Toshiya Tsugami, consulente d’affari giapponese ed esperto di Cina, “Envisaging China’s future, in Asia and beyond: a neighbour’s perspective”, ISPI, 23/11/2017
10 Il primo nome ufficiale attribuitole era “One Belt One Road”, una cintura una strada (traduzione letterale dal cinese di “一带一路, yidaiyilu”), definizione che ha finito per appiattire un’iniziativa intrinsecamente plurale sull’articolo “una”. Il governo cinese, nell’autunno del 2015, ha così deciso di rinominarla “Belt and Road Initiative”, acronimo Bri (vedi “Beijing To The World: Don’t Call The Belt And Road Initiative OBOR”, Forbes, 01/08/2017)
11 “Exclusive: China’s ‘big four’ banks raise billions for Belt and Road deals – sources”, Reuters, 22/08/2017
12 “Xi Jinping delivers robust defence of globalisation at Davos”, Financial Times, 17/01/2017
13 “La Cina può superare gli Usa nell’intelligenza artificiale”, Limes, 2/01/2018
2 Xinru Liu e Lynda Norene Shaffer, Le vie della seta, il Mulino, 2009
3 Alcune altre merci di scambio inclusero: resine aromatiche dalla penisola arabica; bestiame, pellicce, avorio e giada dall’Asia centrale; porcellane, tè, polvere da sparo e la tecnica della stampa dalla Cina; spezie e fragranze dall’India; l’uva e la produzione del vino, oro, argento e vetro dal Mediterraneo.
4 Il primo a riconoscere il carattere globalizzante della colonizzazione delle Americhe fu certamente Karl Marx nel suo Manifesto del 1848, scritto congiuntamente a Friedrich Engels.
5 “Perché la prima globalizzazione è finita nel sangue di due guerre mondiali”, Il Sole 24 Ore, 6/11/2015
6 Pensato inizialmente come un pacchetto di misure economiche, promosso da istituzioni con sede a Washington (FMI, Banca Mondiale e Dipartimento del Tesoro americano) e destinato ai paesi in crisi, il Washington Consensus è assurto a manifesto neoliberale: privatizzazioni, deregulation e, più in generale, riduzione del perimetro dello Stato.
7 Le “Free Trade Areas” oggi sono almeno 19, di cui 10 create nei soli anni Novanta (tra queste Mercosur, NAFTA e UE)
8 http://www.goldmansachs.com/our-thinking/archive/archive-pdfs/brics-dream.pdf
9 Intervento di Toshiya Tsugami, consulente d’affari giapponese ed esperto di Cina, “Envisaging China’s future, in Asia and beyond: a neighbour’s perspective”, ISPI, 23/11/2017
10 Il primo nome ufficiale attribuitole era “One Belt One Road”, una cintura una strada (traduzione letterale dal cinese di “一带一路, yidaiyilu”), definizione che ha finito per appiattire un’iniziativa intrinsecamente plurale sull’articolo “una”. Il governo cinese, nell’autunno del 2015, ha così deciso di rinominarla “Belt and Road Initiative”, acronimo Bri (vedi “Beijing To The World: Don’t Call The Belt And Road Initiative OBOR”, Forbes, 01/08/2017)
11 “Exclusive: China’s ‘big four’ banks raise billions for Belt and Road deals – sources”, Reuters, 22/08/2017
12 “Xi Jinping delivers robust defence of globalisation at Davos”, Financial Times, 17/01/2017
13 “La Cina può superare gli Usa nell’intelligenza artificiale”, Limes, 2/01/2018
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