sabato 30 marzo 2019

L’evoluzione delle vie della seta: un mito passato indenne attraverso le globalizzazioni.- Andrea Dugo

Da: http://www.aldogiannuli.it - Andrea Dugo, classe 1997, è studente triennale di Politics and Economics all'Università degli Studi di Milano
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Le origini 
Qualcuno ha definito la globalizzazione come l’incontro tra l’Oriente e l’Occidente: in quest’ottica, le vie della seta hanno sicuramente rappresentato, per la storia umana, un primo, embrionale tentativo di integrazione economica, tecnologica e culturale tra civiltà radicalmente differenti.

Sviluppatesi a partire dal II secolo a.C. e per oltre quindici secoli, queste lunghissime tratte commerciali consolidarono precedenti itinerari regionali in un’unica, interminabile rotta eurasiatica, dando vita, per la prima volta nella storia, ad un collegamento permanente tra la Cina e l’Europa. Questi intensi traffici traevano la loro origine dal florido impero cinese che, sotto la dinastia Han, uscì finalmente dal suo secolare isolamento per rivolgere lo sguardo verso Ovest: l’intraprendenza della casata Han spinse i mercanti cinesi a valicare le imponenti montagne dell’Himalaya e del Karakorum, da sempre ostacolo geografico per la Cina, e a raggiungere percorsi preesistenti nella steppa centrasiatica. Le vie carovaniere, dall’Estremo Oriente, infatti, trovarono terreno fertile per gli scambi economici in Asia centrale, un’immensa area abitata da un variegato insieme di popoli, dalle tribù nomadi delle praterie eurasiatiche ai grandi imperi stanziali di Iran e Afghanistan, tutti accomunati da una grande vocazione al commercio. Di fondamentale importanza fu, indubbiamente, l’intermediazione di queste popolazioni per l’avvento delle merci cinesi in Europa: i mercanti romani poterono, proprio in virtù delle interazioni commerciali con le civiltà centrasiatiche, garantire l’arrivo, nella regione del Mediterraneo orientale, e da lì, nel resto del continente, di prodotti cinesi, primo su tutti la seta, di cui l’impero romano divenne uno dei principali mercati. Va ricordato che, parallelamente alle rotte terrestri, esistevano delle rotte marittime altrettanto essenziali che, partendo dai porti del mar Rosso, ai confini sudorientali dell’impero romano, giungevano in India: i traffici lungo queste tratte crebbero, nei secoli successivi, a tal punto da soppiantare gli itinerari terrestri, integrando, persino, rotte provenienti dalla Cina e dal Sud-Est asiatico. 

Il commercio della seta, da cui traggono il nome queste vie (1), «costituì» certamente «il principale motore dei rapporti fra Cina ed Europa» (2), ma fu, in realtà, la punta dell’iceberg di un ben più ampio processo di scambi economici e culturali. La realizzazione di questi importanti traffici intercontinentali, che non sarebbero mai stati possibili senza lo sviluppo dei trasporti e delle comunicazioni, ha dato luogo, da un lato, alla condivisione di prodotti sconosciuti e di tecnologie innovative e, dall’altro, alla compenetrazione culturale, tra società estremamente diverse, su una scala senza precedenti: nel corso di oltre quindici secoli, lungo queste tratte, i cavalli destinati alle élite cinesi furono barattati dalle tribù nomadi in cambio di seta e cereali; il cotone, coltivato in India, percorse le vie in direzione opposta alla seta e approdò in Cina come tessuto esotico; la carta, di origine cinese, ma la cui circolazione fu favorita dalla nascita e dall’espansione del potere musulmano, permise di tramandare saperi e comunicare informazioni; l’invenzione della bussola, sempre di paternità cinese, si diffuse uniformemente fino al Mediterraneo e rivoluzionò la navigazione; questi sono solo pochi esempi per comprendere l’enorme rilievo dei traffici di beni, tecniche e idee che caratterizzarono le vie della seta (3). Tuttavia, ancora più significativo storicamente, fu, forse, l’apporto di questi scambi allo sviluppo delle maggiori religioni mondiali: il cristianesimo nel Mediterraneo, l’islam in Medio Oriente e il buddismo in India e in Cina nacquero, entrarono in contatto e in conflitto, ma, soprattutto, si permearono vicendevolmente, proprio lungo queste rotte. L’estrema rilevanza che gli storici accordano alle vie della seta è dettata, appunto, dall’essenziale contributo che hanno fornito nel plasmare le nostre civiltà odierne. Hanno visto sorgere e tramontare imperi millenari, sono state testimoni di innovazioni senza precedenti, terreno di coltura delle principali religioni e precorritrici di scambi economici globali. In poche parole, hanno dato inizio alla modernità.
Il declino 

A sancire la fine delle millenarie vie della seta fu l’ascesa di un ennesimo impero lungo le sue rotte: l’impero mongolo. In una prima fase, paradossalmente, fu proprio sotto l’impero fondato da Gengis Khan che questi itinerari conobbero il loro periodo di maggiore splendore. La creazione di un’unica confederazione che si estendeva lungo tutta l’Eurasia, dalla Corea fino alle odierne Polonia e Romania, non poté che favorire gli scambi commerciali e culturali tra Oriente e Occidente. Quest’epoca di relativa stabilità politica ed economica, durante la quale le tratte eurasiatiche poterono prosperare, è conosciuta come Pax Mongolica ed è testimoniata dai celebri racconti di Marco Polo. Tuttavia, nonostante l’impero continuò ad espandersi anche dopo la morte di Gengis Khan, la mancanza di una solida leadership e di un’adeguata struttura centralizzata di controllo dei territori portò alla progressiva frammentazione dell’impero tra i belligeranti eredi e, di conseguenza, all’inevitabile dissoluzione delle vie della seta. L’Europa, che stava lentamente uscendo dal Medioevo, si avviò ad abbracciare l’Età dell’Umanesimo, mentre la Cina, stremata da secoli di angherie mongoliche, intraprese, nuovamente, una graduale e arrogante chiusura su se stessa. Entrambe decisero di rivolgere lo sguardo altrove, determinando la fine del primato globale dell’Eurasia.
Gli europei del Rinascimento, animati da una ritrovata fiducia in se stessi e nelle loro capacità, cominciarono ad ampliare i loro orizzonti oltre le temute Colonne d’Ercole, spingendosi verso l’ignoto. Speranzosi di trovare una via più veloce per raggiungere il vecchio Oriente, gli europei ne scoprirono uno nuovo. Con la scoperta delle nuove “Indie”, Colombo diede inconsapevolmente il via ad un’inaspettata fase della storia umana. Fu l’avvio di una nuova globalizzazione (4).
Gli europei, in tutte le loro declinazioni, dagli spagnoli agli inglesi, dai portoghesi ai francesi, imposero violentemente il loro dominio sul nuovo continente: nonostante il mercato delle Indie orientali e della Cina rimase prospero, l’intensificarsi degli scambi con le colonie americane diede all’Atlantico un’inedita centralità, strappando ai rapporti eurasiatici la supremazia geopolitica. Questo fenomeno, che si protrasse per oltre tre secoli, raggiunse il suo apice verso fine Ottocento. Sotto la cosiddetta Età dell’imperialismo, le potenze europee, prima su tutte l’Impero britannico, estesero il proprio dominio a quei pochi territori rimasti fino ad allora estranei all’esperienza coloniale e coinvolsero l’intero pianeta negli stravolgimenti tecnologici portati dalla Seconda Rivoluzione industriale. Durante questa fase storica, quel fenomeno che aveva preso il via nel Cinquecento assunse una connotazione sempre più aderente alla globalizzazione odierna. Come già avvenuto in passato, si osservò un crescente flusso di merci, capitali e persone spinto dallo sviluppo dei mezzi di trasporto (la ferrovia e la navigazione a vapore) e di comunicazione (il telegrafo elettrico). Tuttavia, ciò che davvero caratterizzò quest’integrazione commerciale senza precedenti furono alcune innovazioni economiche che avrebbero contraddistinto anche la successiva globalizzazione: l’abbattimento delle barriere doganali e l’adesione a un sistema monetario comune (allora il gold standard) furono due dei principali fattori che spinsero le esportazioni dei paesi industrializzati al 17% del PIL, soglia poi infranta solo negli anni Novanta del secolo scorso (6).
L’Europa, che di lì a pochi decenni avrebbe lasciato lo scettro agli Stati Uniti, aveva plasmato un modello di globalizzazione destinato a durare. Fu, infatti, la potenza americana, significativamente meno interessata dalla devastazione delle due guerre mondiali, a ereditare la leadership dell’Occidente. Gli Stati Uniti, un prodotto della globalizzazione europea, ne avviarono un’altra, la prima ad essere definita tale. Già in gestazione a partire dal 1945, la globalizzazione di matrice statunitense poté compiersi, nelle sue fattezze attuali, solo con il collasso dell’Unione Sovietica e la conseguente nascita di un sistema unipolare a guida americana. Fondato sul modello economico del Washington Consensus (6) e quello politico della liberaldemocrazia, retto dalla supremazia del dollaro, dalla creazione di vaste aree di libero scambio (7) e da una crescente finanziarizzazione dell’economia e promosso dai mirabili frutti della Rivoluzione digitale (PC, cellulare e internet), quel sogno americano, egemonico e di benessere insieme, vive oggi la sua fase di crisi più profonda.
La rinascita 

Il progetto delle nuove vie della seta non poteva che essere messo in cantiere, se non ai primi, evidenti segni di cedimento dell’architettura del sistema a trazione americana. L’immagine della globalizzazione di stampo statunitense, presentata fino ad allora come indispensabile e salvifica panacea dei mali del mondo, ha cominciato ad incrinarsi e a manifestare, soprattutto in Occidente, le sue intrinseche criticità a partire dal biennio 2008-2009, vero e proprio tornante della storia recente. Se lo scoppio della crisi finanziaria ha portato a galla, negli Stati Uniti e in Europa, tutte le contraddizioni di un sistema economico fragile e irresponsabile, la Cina ne è uscita sostanzialmente indenne. Mentre le economie avanzate vivevano il loro periodo più buio, Pechino, sotto i riflettori per le prime Olimpiadi ospitate sul proprio territorio, dimostrava di prosperare nella globalizzazione. Smentendo tutte le previsioni più accreditate (8), la Cina, nel solo 2009, crebbe quasi del 10% (contro il -2,9% degli Stati Uniti e il -4,3% dell’Unione Europea), raggiungendo il livello del PIL atteso per il 2016, ben 7 anni in anticipo. Di fronte al crescente spazio che gli eventi del 2008 gli riservarono sulla scena internazionale, il gigante giallo fu costretto a prendere coscienza del suo ritrovato peso geopolitico e si preparò a modellare la globalizzazione, che tanto l’aveva favorita, secondo le sue logiche.
In realtà, progetti di integrazione su scala intercontinentale circolavano negli ambienti del Partito Comunista Cinese già dai primi anni 2000 (9), ma la loro fattibilità poté accrescersi solo con la contrazione, più o meno apparente, dello strapotere americano. È, infatti, solo sotto la leadership dell’attuale segretario generale Xi Jinping, nominato durante il 18esimo Congresso nazionale del PCC nel 2012, che le nuove vie della seta vengono presentate al mondo. Proposta nel settembre 2013 in Kazakistan nella sua versione terrestre (“Cintura economica della via della seta”) e il mese successivo in Indonesia nella sua versione marittima (“Via della seta marittima del 21esimo secolo”), l’iniziativa delle nuove vie della seta (definita ufficialmente “Belt and Road initiative” (10)) è un ambizioso progetto che mira ad una crescente interconnessione infrastrutturale, commerciale e, di conseguenza, geopolitica tra Asia, Europa, Africa ed Oceania, con la Cina come perno di questi collegamenti. Verranno coinvolti, direttamente o indirettamente, 105 paesi da tutti i continenti e, come sostegno alla realizzazione dell’iniziativa, sono sorte due istituzioni complementari: il Silk Road Fund, fondo creato per promuovere investimenti lungo le rotte, e l’Asian Investment Infrastructure Bank (AIIB), vero e proprio pilastro finanziario della Bri, che si propone come alternativa alla Banca Mondiale, di marca americana, e all’Asian Development Bank, di marca giapponese. Non va, inoltre, ignorato il consistente sostegno finanziario da parte dei principali istituti bancari della Repubblica Popolare, che da tempo raccolgono miliardi per accordi legati alle nuove vie della seta (11).
Lo sforzo congiunto dell’establishment cinese nella realizzazione della Bri, che domina ormai la politica estera cinese da quasi un lustro, dà un’idea dell’importanza del progetto agli occhi del suo più appassionato promotore, il presidente Xi Jinping. Reduce dal trionfo al 19esimo Congresso nazionale del PCC, tenutosi l’ottobre scorso, Xi ne è uscito ulteriormente rafforzato e, dopo soli 5 anni di mandato, ha visto elevare a rango costituzionale sia il suo “socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era”, sotto forma di “pensiero” e non di semplice “teoria”, onore riservato solo a Mao fino ad ora, che la sua preziosa creazione geopolitica, le nuove vie della seta. Il presidente della Repubblica Popolare, attraverso il suo progetto, intende imprimere una svolta a quella stessa globalizzazione che tanto strenuamente ha difeso al Forum economico mondiale di Davos, nel gennaio 2017 (12).
Convinto che la globalizzazione a guida americana abbia contribuito a condurre 800 milioni di cinesi fuori dalla povertà negli ultimi 40 anni (dati Banca Mondiale) e che alcuni suoi tratti distintivi vadano salvati (l’immenso sviluppo informatico e la crescita degli scambi commerciali globali su tutti), Xi Jinping pensa, tuttavia, di trasformarla secondo “le caratteristiche cinesi”. Sotto il profilo economico, in Cina, è infatti emerso un modello di crescita contrapposto a quello raccomandato dalle grandi istituzioni internazionali e conosciuto come “Beijing Consensus”, espressione coniata nel 2004 dall’esperto di affari internazionali americano Joshua Cooper Ramo. L’approccio cinese, parziale retaggio dell’esperienza comunista (formalmente ancora in essere), consiste in una limitata apertura al mercato e in un forte intervento pubblico nell’economia e si configura come l’esempio meglio riuscito di capitalismo di Stato. Questo modello, abbinato all’autoritarismo di un sistema fortemente centralizzato e poco plurale, in diretto contrasto con quello delle “democrazie di mercato” occidentali, rappresenta una peculiarità cinese, ma potrebbe risultare allettante per numerosi paesi in via di sviluppo, dall’Africa al Sud-Est asiatico, in cui le ricette del Washington Consensus hanno fallito e i cui governi desiderano mantenere sotto stretto controllo la società. La vera sfida della “via cinese alla globalizzazione” è, però, eminentemente geopolitica.
Se il sorpasso economico e cibernetico (13) sulla potenza americana, entro il 2030, appare ormai plausibile, è su un altro traguardo che si fonda la pedagogia, un po’ propagandistica, delle nuove vie della seta: il grandioso progetto rivela, infatti, l’ambizione cinese del “risorgimento della nazione”, ovverosia l’orizzonte del 2049, data altamente simbolica in quanto centenario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese, per ripristinare il primato geopolitico di Pechino. La realizzazione di questo “sogno cinese” passa, inevitabilmente, attraverso la rivitalizzazione di una categoria geografica che, negli ultimi secoli, ha progressivamente perso centralità: l’Eurasia. Come la dinastia Han ha consolidato la sua supremazia globale rendendosi promotrice di scambi tra Oriente e Occidente, così la Cina odierna aspira a rinsaldare i legami eurasiatici per tornare ad essere il “Numero Uno”. Essenziale per la riuscita di questo progetto sarà il ruolo dell’Asia Centrale: costantemente tesa tra Est e Ovest, questa regione, la cui intermediazione fu indispensabile già per le antiche vie della seta, ritorna ad essere di sconcertante rilevanza e rappresenterà uno dei principali focolai di tensione con Washington. In quest’ottica, si inquadra un concetto connaturato alla nascita stessa della geopolitica, quello di Heartland, termine usato dal geografo inglese Sir Halford Mackinder nel 1904 per descrivere il centro dell’enorme massa eurasiatica, il cui controllo avrebbe garantito l’egemonia globale. La politica estera statunitense è, infatti, sempre stata attenta ad evitare che quest’intera area cadesse nelle mani di un’unica potenza, capace, in tal caso, di mettere a repentaglio la leadership americana, fondata sul dominio dei mari.
Questo scenario da solo basta ad evidenziare quanto la strategia cinese dell’ “ascesa pacifica” sia impraticabile. Nonostante il governo cinese continui a ribadire che la crescente affermazione di Pechino sullo scacchiere internazionale non rappresenterà una minaccia alla pace e alla stabilità mondiali e che le nuove vie della seta potranno essere una soluzione win-win di cooperazione tra tutti gli attori globali, è inevitabile che l’espansione cinese generi delle frizioni. Ed è proprio su questa certezza che gli Stati Uniti, segnatamente sotto l’amministrazione Obama, hanno imperniato il loro “Pivot to Asia”, ossia un riorientamento della politica estera americana volto al contenimento dell’ “ascesa Pacifica” della Cina, intesa qui nella sua seconda accezione di accrescimento dell’influenza di Pechino nel Mar Cinese Meridionale e, più in generale, nella macroregione dell’Asia-Pacifico. In quest’area si giocherà il destino delle vicende globali e, con esse, la leadership del pianeta. La Cina desidera tornare ad essere promotrice della globalizzazione, sogno che per prima ha realizzato, oltre duemila anni fa, e che, ai suoi occhi, le è stato strappato per ben due volte dall’America, prima facendosi scoprire e poi avviando la propria. Nell’ottica di Pechino, questo desiderio può avverarsi solo se si attinge a piene mani da quel glorioso passato che, eccezion fatta, grosso modo, per gli ultimi tre secoli, ha sempre visto l’Impero Celeste protagonista della sua storia millenaria. Ed è così, che viene alla mente, quasi visibile, l’immagine di Xi Jinping che pronuncia un trumpiano “Make China great again”.

Note
1 Fu il geografo tedesco Ferdinand Von Richthofen (1833-1905) a coniare, nel 1877, l’espressione «Via della Seta», in tedesco «Seidenstraβe».
2 Xinru Liu e Lynda Norene Shaffer, Le vie della seta, il Mulino, 2009
3 Alcune altre merci di scambio inclusero: resine aromatiche dalla penisola arabica; bestiame, pellicce, avorio e giada dall’Asia centrale; porcellane, tè, polvere da sparo e la tecnica della stampa dalla Cina; spezie e fragranze dall’India; l’uva e la produzione del vino, oro, argento e vetro dal Mediterraneo.
4 Il primo a riconoscere il carattere globalizzante della colonizzazione delle Americhe fu certamente Karl Marx nel suo Manifesto del 1848, scritto congiuntamente a Friedrich Engels.
5 “Perché la prima globalizzazione è finita nel sangue di due guerre mondiali”, Il Sole 24 Ore, 6/11/2015
6 Pensato inizialmente come un pacchetto di misure economiche, promosso da istituzioni con sede a Washington (FMI, Banca Mondiale e Dipartimento del Tesoro americano) e destinato ai paesi in crisi, il Washington Consensus è assurto a manifesto neoliberale: privatizzazioni, deregulation e, più in generale, riduzione del perimetro dello Stato.
7 Le “Free Trade Areas” oggi sono almeno 19, di cui 10 create nei soli anni Novanta (tra queste Mercosur, NAFTA e UE)
8  
http://www.goldmansachs.com/our-thinking/archive/archive-pdfs/brics-dream.pdf
9 Intervento di Toshiya Tsugami, consulente d’affari giapponese ed esperto di Cina, “Envisaging China’s future, in Asia and beyond: a neighbour’s perspective”, ISPI, 23/11/2017
10 Il primo nome ufficiale attribuitole era “One Belt One Road”, una cintura una strada (traduzione letterale dal cinese di “
一带一路, yidaiyilu”), definizione che ha finito per appiattire un’iniziativa intrinsecamente plurale sull’articolo “una”. Il governo cinese, nell’autunno del 2015, ha così deciso di rinominarla “Belt and Road Initiative”, acronimo Bri (vedi “Beijing To The World: Don’t Call The Belt And Road Initiative OBOR”, Forbes, 01/08/2017)
11 “Exclusive: China’s ‘big four’ banks raise billions for Belt and Road deals – sources”, Reuters, 22/08/2017
12 “Xi Jinping delivers robust defence of globalisation at Davos”, Financial Times, 17/01/2017
13 “La Cina può superare gli Usa nell’intelligenza artificiale”, Limes, 2/01/2018

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