Da: L’OMBRA
DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro
l’uso ideologico delle parole la
Contraddizione
Leggi anche: LA FORMA DI MERCE DELLA FORZA-LAVORO*- Gianfranco Pala**
" " Salario minimo garantito (reddito di cittadinanza)* - Gianfranco Pala
" " Salario sociale reale - Gianfranco Pala
" " Tutto è merce - Gianfranco Pala
Salario
minimo
(valore
della forza-lavoro)
I
costi di produzione del lavoro ammontano ai costi
di esistenza e di riproduzione del lavoratore.
Il prezzo di questi costi di esistenza e di riproduzione costituisce
il salario. Il salario così determinato si chiama salario
minimo. Questo salario
minimo, come, in generale, la determinazione del prezzo delle merci
secondo i costi di produzione, vale non per il singolo
individuo, ma per la
specie.
Singoli lavoratori, milioni di lavoratori, non ricevono abbastanza
per vivere e riprodursi; ma il
salario dell’intera classe lavoratrice,
entro i limiti delle sue oscillazioni, è uguale a questo
minimo. Gli economisti classici consideravano perciò questo “minimo”
di salario come il “prezzo naturale” del lavoro: ovverosia,
esattamente ciò che è necessario per far produrre gli oggetti
indispensabili al sostentamento dei lavoratori, per metterli in
condizioni di nutrirsi, bene o male, e di propagare alla meglio
la propria classe.
Il
salario, al suo livello minimo
sociale, dunque, è
storicamente determinato come prezzo dei mezzi di sussistenza
necessari, per l’esistenza e la riproduzione dell’intera
classe proletaria,
ossia come salario
sociale. Come Marx
ebbe sempre modo di precisare, in quei costi necessari per
l’esistenza e la riproduzione rientrano anche i prezzi (o le
tariffe, le imposte, le tasse, ecc.) pagati per ottenere tutte le
merci (oggetti e servizi) avute in cambio del salario nominale.
Non sono solo, quindi, i costi di quelle merci che servono al
lavoratore singolo che percepisce il salario
diretto nella
busta-paga, ma i costi sostenuti per tutte le persone, vecchie e
giovani, abili o inabili al lavoro, che dipendono per la loro
esistenza da quella “minima” fonte di reddito. La definizione di
salario come entità sociale, reale e relativa, “minima” (nel
senso storico chiarito), è quella che si palesa in generale nel
comando del capitale
sul lavoro. Se non
crediamo per questo che i lavoratori avranno solo
un tale minimo di salario, tanto meno crediamo che essi avranno
sempre
questo minimo. Durante un certo arco di tempo, che è sempre
periodico, in cui l’economia attraversa il ciclo di prosperità,
sovraproduzione, ristagno, crisi, se prendiamo la media di ciò che i
lavoratori ricevono in più o in meno del minimo, troviamo che
nell’insieme,
giacché quel minimo vale per l’intera classe e non per il singolo,
essi non hanno ricevuto né più né meno che il minimo; o, in altre
parole, che il proletariato si è conservato come classe.
Con
lo sviluppo della crisi
tale processo assume sempre più evidenza mondiale, fino al
punto che l’espulsione dal mercato del lavoro per molti diviene
definitiva. E non si tratta certo di una novità odierna. Non
solo, ma per i rimanenti, più o meno occupati, regolarmente o
irregolarmente, a fronte di più lavoro corrisponde sempre meno
salario. Ogni lavoratore è spinto, osservò Marx, a fare
“concorrenza a se stesso in quanto membro della classe operaia”.
E una concorrenza tra lavoratori salariati entro la classe
diventa letale se, soprattutto in fasi di crisi, un minimo di salario
venga fissato (magari per legge) al di sotto del valore della
forza-lavoro, la qual cosa accade assai spesso negli interventi
di tipo assistenzialistico. Per questi motivi la determinazione del
minimo del salario (come “prezzo naturale” del lavoro) fa
sì, come asseriva Smith, che esso sia più basso per il salariato
libero che per lo schiavo; e accade che nella produzione
capitalistica completamente sviluppata l’accumulazione possa
operare rapidamente sulla domanda di lavoro solo se prima
dell’accumulazione
si è avuto un grande aumento del proletariato (soprattutto
attraverso la riproduzione dell’esercito
industriale di riserva
in tutte le sue forme), se quindi il salario
è a un livello molto basso
dimodoché anche un suo aumento lo lasci basso.
Insomma,
per una corretta definizione del “salario minimo” occorre che
anche tale concetto sia coerentemente basato sulla teoria
del valore e del plusvalore:
a ciò si riduce l’intera questione. Non serve che il proletariato
si dia la pena di definire un livello minimo del salario,
giacché esso è dato, sia nella pratica sia nella formulazione
scientifica, dal rapporto
di valore del capitale.
Anzi, ogni volta che il proletariato si provi a dire la sua sul tema
– posta la vigenza e dominanza del modo di produzione
capitalistico – ottiene l’effetto contrario, autolesionistico, di
contribuire a deprimere ancor più il salario normale al di
sotto di quel minimo, per effetto della concorrenza che il minimo
legale ha sul livello salariale normale degli occupati (la storia
ultrasecolare di codesto fenomeno, ossia delle diverse forme di
salario minimo
garantito dovrebbe
insegnarlo con abbondanza di argomenti).
Infatti,
se in base alla generale teoria marxiana del valore e del plusvalore
si intende, come ha da essere, il salario (sociale) in quanto valore
globale della forza-lavoro, esso appare anzitutto come capitale
variabile per il
complessivo processo di autovalorizzazione del capitale anticipato: è
il pluslavoro che produce (o riproduce conservandolo nella
circolazione) il plusvalore.
Stando così le cose, e la loro rappresentazione scientificamente
esatta, qualsiasi “reddito” dei lavoratori non può che provenire
dalla capacità di incidere sul plusvalore, positivamente (lavoro
produttivo) o negativamente (lavoro improduttivo). Ossia la fonte di
quel reddito salariale è rintracciabile solo o nell’ammontare del
valore globale prodotto (uso
della forza-lavoro) o nell’adeguamento del valore
di scambio della forza-lavoro, e in nient’altro: il capitale non
regala niente. Se i mezzi di sussistenza (sotto qualunque forma e a
qualsiasi titolo ottenuti: per contratto, per legge o per assistenza)
non fossero “capitale” non manterrebbero la forza-lavoro dei
lavoratori salariati; mentre è proprio il loro carattere di
capitale – e non di reddito – che dà a essi precisamente la
proprietà di mantenere il capitale
stesso per mezzo di lavoro altrui. La massa dei mezzi di sussistenza
che i lavoratori riescono a sottrarre al mercato
dipende perciò dal rapporto tra il plusvalore e il “prezzo del
lavoro” (ovverosia, il valore
della forza-lavoro), e
tra questo capitale variabile e quello costante: non si tratta cioè,
originariamente, di reddito. Il salario è prima
capitale, che solo dopo
lo scambio si trasforma in reddito per i lavoratori, così come la
loro forza-lavoro è prima
merce di loro proprietà che solo dopo
lo scambio, con il suo uso, si trasforma in capitale
autovalorizzantesi.
Dalla
corretta definizione data di “salario minimo”, dunque, si possono
capire meglio alcune cose.
i.
Ogni conquista in termini di elevamento del livello salariale
dipende dalla capacità storica, o anche contingente e perciò assai
provvisoria, del proletariato di imporre con la forza della lotta un
aumento di valore della propria complessiva forza-lavoro.
ii.
Se si ha una tale forza non si vede per quale ragione essa non debba
essere esercitata per ottenere, globalmente per la classe, la
corresponsione piena del salario normale degli occupati e
l’allargamento della stessa occupazione, anziché disperdere quella
(poca) forza per elemosinare un’assistenza minimale,
controproducente perché necessariamente inferiore al valore
normale della forza-lavoro.
iii.
L’idea che il salario sia un reddito tout
court, senza che se ne
sia prima compresa la sua essenza di capitale metamorfosato, ne
fa presumere una sua variabilità arbitraria, giacché così
facendo lo si considera smithianamente quale addendo indipendente
per il computo del prodotto netto complessivo; ossia, lo si stima
come grandezza monetaria assolutamente svincolata dalla produzione di
valore, la quale dipende invece dalle sue parti costitutive di
capitale variabile (appunto, e non immediatamente salario),
pluslavoro altrui non pagato e capitale costante.
iv.
Una siffatta teoria del salario come reddito può albergare solo nel
campo delle analisi economiche borghesi, marginalistiche vecchie e
nuove, pure e spurie (keynesismo e sraffismo inclusi, perciò), quali
ultime estensioni esoteriche di una concezione del reddito
senza valore,
volgarizzata a partire dall’erronea sommatoria smithiana;
e si tratta pertanto di una teoria che svincola il “reddito”
salariale dalla forza-lavoro come merce (dal suo valore) e perfino
dal lavoro medesimo, pretendendo così di esautorare dalla scena
tutta l’analisi di classe
e di lotta di classe,
che viceversa la teoria del salario richiede, sostituendola
facilmente con l’indifferenza comune della “cittadinanza”.
v.
Risulta ora chiaro dai punti che precedono le ragioni per le quali
Marx – tenendo fermo alla teoria di valore, plusvalore e
capitale e alla teoria delle classi – non abbia mai trattato della
questione del “salario minimo”; se non, da un lato, come corretta
definizione di valore storico normale della forza-lavoro, data
direttamente dalle leggi
del capitale, senza
bisogno di aggiungere altro; e, dall’altro, solo per rispondere di
sfuggita alla vasta e dispersiva mole di interventi sul tema,
tutti non per caso provenienti dai circoli utopistici e
filantropici, cristiani e caritatevoli, del socialismo e della
borghesia, piccola e media, illuminata, tutti sentimentalisticamente
protesi a un salario
minimo garantito.
Dunque,
conclude Marx stesso, questa legge della forza-lavoro come merce,
cioè la legge del “minimo del salario”, si verifica sempre più
a misura che il presupposto degli economisti, il libero scambio, sia
divenuto una realtà, un’attualità. Così, delle due
possibilità l’una: o è necessario rinnegare tutta l’economia
politica basata sul presupposto del libero scambio, il mitico
“mercato” oggi invocato anche per la piena flessibilità
di lavoro e salario, ovvero bisogna convenire che in regime di
libero scambio sul mercato capitalistico i lavoratori saranno
colpiti da tutto il rigore delle leggi economiche. “E se i signori
borghesi e i loro economisti, nei loro momenti di filantropia, sono
così delicati da calcolare nel minimo salariale, cioè
dell’esistenza, un po’ di the o di rhum o di zucchero e un po’
di carne, è evidente che deve sembrar loro al contrario
scandaloso e incomprensibile che i lavoratori prelevino da questo
minimo una parte delle spese per la loro guerra contro la borghesia e
che essi si aspettino dalla loro attività rivoluzionaria la più
grande soddisfazione della loro vita”.
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