martedì 12 marzo 2019

Salario minimo - Gianfranco Pala

Da: L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole  la Contraddizione 

Leggi anche: LA FORMA DI MERCE DELLA FORZA-LAVORO*- Gianfranco Pala**

   "           "             Salario minimo garantito (reddito di cittadinanza)* - Gianfranco Pala 

     "           "                 Salario sociale reale - Gianfranco Pala 

       "           "                       Tutto è merce - Gianfranco Pala 

Salario minimo
(valore della forza-lavoro)

I costi di produzione del lavoro ammontano ai costi di esistenza e di riprodu­zione del lavoratore. Il prezzo di questi costi di esistenza e di riproduzione costituisce il salario. Il salario così determinato si chiama salario minimo. Questo salario minimo, come, in generale, la determinazione del prezzo delle merci secondo i costi di produzione, vale non per il singolo individuo, ma per la specie. Singoli lavoratori, milioni di lavoratori, non ricevono abbastanza per vivere e riprodursi; ma il salario dell’intera classe lavoratrice, entro i li­miti delle sue oscillazioni, è uguale a questo minimo. Gli economisti classici consideravano perciò questo “minimo” di salario come il “prezzo naturale” del lavoro: ovverosia, esattamente ciò che è necessario per far produrre gli oggetti indispensabili al sostentamento dei lavoratori, per metterli in condi­zioni di nutrirsi, bene o male, e di propagare alla meglio la propria classe.

Il salario, al suo livello minimo sociale, dunque, è storicamente determinato come prezzo dei mezzi di sussistenza necessari, per l’esistenza e la riprodu­zione dell’intera classe proletaria, ossia come salario sociale. Come Marx ebbe sempre modo di precisare, in quei costi necessari per l’esistenza e la riproduzione rientrano anche i prezzi (o le tariffe, le imposte, le tasse, ecc.) pagati per ottenere tutte le merci (oggetti e servizi) avute in cambio del sala­rio nominale. Non sono solo, quindi, i costi di quelle merci che servono al la­voratore singolo che percepisce il salario diretto nella busta-paga, ma i costi sostenuti per tutte le persone, vecchie e giovani, abili o inabili al lavoro, che dipendono per la loro esistenza da quella “minima” fonte di reddito. La definizione di salario come entità sociale, reale e relativa, “minima” (nel senso storico chiarito), è quella che si palesa in generale nel comando del capitale sul lavoro. Se non credia­mo per questo che i lavoratori avranno solo un tale minimo di salario, tanto meno crediamo che essi avranno sempre questo minimo. Durante un certo arco di tempo, che è sempre periodico, in cui l’economia attraversa il ciclo di prosperità, sovraproduzione, ristagno, crisi, se prendiamo la media di ciò che i lavoratori ricevono in più o in meno del minimo, troviamo che nell’insieme, giacché quel minimo vale per l’intera classe e non per il singolo, essi non hanno ricevuto né più né meno che il minimo; o, in altre parole, che il proletariato si è conservato come classe. 

Con lo sviluppo della crisi tale processo assume sempre più evidenza mondia­le, fino al punto che l’espulsione dal mercato del lavoro per molti diviene de­finitiva. E non si tratta certo di una novità odierna. Non solo, ma per i rima­nenti, più o meno occupati, regolarmente o irregolarmente, a fronte di più la­voro corrisponde sempre meno salario. Ogni lavoratore è spinto, osservò Marx, a fare “concorrenza a se stesso in quanto membro della classe ope­raia”. E una concorrenza tra lavoratori salariati entro la classe diventa letale se, soprattutto in fasi di crisi, un minimo di salario venga fissato (magari per legge) al di sotto del valore della forza-lavoro, la qual cosa accade assai spes­so negli interventi di tipo assistenzialistico. Per questi motivi la determinazione del minimo del salario (come “prezzo na­turale” del lavoro) fa sì, come asseriva Smith, che esso sia più basso per il sa­lariato libero che per lo schiavo; e accade che nella produzione capitalistica completamente sviluppata l’accumulazione possa operare rapidamente sulla domanda di lavoro solo se prima dell’accumulazione si è avuto un grande aumento del proletariato (soprattutto attraverso la riproduzione del­l’esercito industriale di riserva in tutte le sue forme), se quindi il salario è a un livello molto basso dimodoché anche un suo aumento lo lasci basso.

Insomma, per una corretta definizione del “salario minimo” occorre che anche tale concetto sia coerentemente basato sulla teoria del valore e del plusvalo­re: a ciò si riduce l’intera questione. Non serve che il proletariato si dia la pe­na di definire un livello minimo del salario, giacché esso è dato, sia nella pra­tica sia nella formulazione scientifica, dal rapporto di valore del capitale. Anzi, ogni volta che il proletariato si provi a dire la sua sul tema – posta la vi­genza e dominanza del modo di produzione capitalistico – ottiene l’effetto contrario, autolesionistico, di contribuire a deprimere ancor più il salario nor­male al di sotto di quel minimo, per effetto della concorrenza che il minimo legale ha sul livello salariale normale degli occupati (la storia ultrasecolare di codesto fenomeno, ossia delle diverse forme di salario minimo garantito dovrebbe insegnarlo con abbondanza di argomenti).

Infatti, se in base alla generale teoria marxiana del valore e del plusvalore si intende, come ha da essere, il salario (sociale) in quanto valore globale della forza-lavoro, esso appare anzitutto come capitale variabile per il complessivo processo di autovalorizzazione del capitale anticipato: è il pluslavoro che pro­duce (o riproduce conservandolo nella circolazione) il plusvalore. Stando così le cose, e la loro rappresentazione scientificamente esatta, qualsiasi “reddito” dei lavoratori non può che provenire dalla capacità di incidere sul plusvalore, positivamente (lavoro produttivo) o negativamente (lavoro improduttivo). Ossia la fonte di quel reddito salariale è rintracciabile solo o nell’ammontare del valore globale prodotto (uso della forza-lavoro) o nell’adeguamento del valore di scambio della forza-lavoro, e in nient’altro: il capitale non regala niente. Se i mezzi di sussistenza (sotto qualunque forma e a qualsiasi titolo ottenuti: per contratto, per legge o per assistenza) non fossero “capitale” non manter­rebbero la forza-lavoro dei lavoratori salariati; mentre è proprio il loro carat­tere di capitale – e non di reddito – che dà a essi precisamente la proprietà di mantenere il capitale stesso per mezzo di lavoro altrui. La massa dei mezzi di sussistenza che i lavoratori riescono a sottrarre al mercato dipende perciò dal rapporto tra il plusvalore e il “prezzo del lavoro” (ovverosia, il valore della forza-lavoro), e tra questo capitale variabile e quello costante: non si tratta cioè, originariamente, di reddito. Il salario è prima capitale, che solo dopo lo scambio si trasforma in reddito per i lavoratori, così come la loro forza-lavoro è prima merce di loro proprietà che solo dopo lo scambio, con il suo uso, si trasforma in capitale autovalorizzantesi.

Dalla corretta definizione data di “salario minimo”, dunque, si possono capire meglio alcune cose.

i. Ogni conquista in termini di elevamento del livello sa­lariale dipende dalla capacità storica, o anche contingente e perciò assai provvisoria, del proletariato di imporre con la forza della lotta un aumento di valore della propria complessiva forza-lavoro.

 ii. Se si ha una tale forza non si vede per quale ragione essa non debba essere esercitata per ottenere, global­mente per la classe, la corresponsione piena del salario normale degli occupa­ti e l’allargamento della stessa occupazione, anziché disperdere quella (poca) forza per elemosinare un’assistenza minimale, controproducente perché ne­cessariamente inferiore al valore normale della forza-lavoro.

  iii. L’idea che il salario sia un reddito tout court, senza che se ne sia prima compresa la sua es­senza di capitale metamorfosato, ne fa presumere una sua variabilità arbitra­ria, giacché così facendo lo si considera smithianamente quale addendo indi­pendente per il computo del prodotto netto complessivo; ossia, lo si stima come grandezza monetaria assolutamente svincolata dalla produzione di valo­re, la quale dipende invece dalle sue parti costitutive di capitale variabile (ap­punto, e non immediatamente salario), pluslavoro altrui non pagato e capitale costante.

    iv. Una siffatta teoria del salario come reddito può albergare solo nel campo delle analisi economiche borghesi, marginalistiche vecchie e nuove, pure e spurie (keynesismo e sraffismo inclusi, perciò), quali ultime estensioni esoteriche di una concezione del reddito senza valore, volgarizzata a partire dall’erro­nea som­matoria smithiana; e si tratta pertanto di una teoria che svincola il “reddito” salariale dalla forza-lavoro come merce (dal suo valore) e perfino dal lavoro medesimo, pretendendo così di esautorare dalla scena tutta l’analisi di classe e di lotta di classe, che viceversa la teoria del salario richiede, sosti­tuendola facilmente con l’indifferenza comune della “cittadinanza”.

      v. Risulta ora chiaro dai punti che precedono le ragioni per le quali Marx – tenendo fer­mo alla teoria di valore, plusvalore e capitale e alla teoria delle classi – non abbia mai trattato della questione del “salario minimo”; se non, da un lato, come corretta definizione di valore storico normale della forza-lavoro, data direttamente dalle leggi del capitale, senza bisogno di aggiungere altro; e, dall’altro, solo per rispondere di sfuggita alla vasta e dispersiva mole di inter­venti sul tema, tutti non per caso provenienti dai circoli utopistici e filantropi­ci, cristiani e caritatevoli, del socialismo e della borghesia, piccola e media, illuminata, tutti sentimentalisticamente protesi a un salario minimo ga­rantito.

Dunque, conclude Marx stesso, questa legge della forza-lavoro come merce, cioè la legge del “minimo del salario”, si verifica sempre più a misura che il presupposto degli economisti, il libero scambio, sia divenuto una realtà, un’at­tualità. Così, delle due possibilità l’una: o è necessario rinnegare tutta l’eco­nomia politica basata sul presupposto del libero scambio, il mitico “mercato” oggi invocato anche per la piena flessibilità di lavoro e salario, ovvero biso­gna convenire che in regime di libero scambio sul mercato capitalistico i la­voratori saranno colpiti da tutto il rigore delle leggi economiche. “E se i signori borghesi e i loro economisti, nei loro momenti di filantropia, sono così delicati da calcolare nel minimo salariale, cioè dell’esistenza, un po’ di the o di rhum o di zucchero e un po’ di carne, è evidente che deve sem­brar loro al contrario scandaloso e incomprensibile che i lavoratori prelevino da questo minimo una parte delle spese per la loro guerra contro la borghesia e che essi si aspettino dalla loro attività rivoluzionaria la più grande soddisfa­zione della loro vita”. 


Nessun commento:

Posta un commento