Paolo
Vinci è
docente di Filosofia pratica presso la Facoltà di Filosofia
dell’Università “La Sapienza”
di Roma. - http://www.rivistapolemos.it
Indice:
Nota dell’editore
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Nota dell’editore
Stefano aveva voluto affidarmi questo testo, pur se, trattandosi di una prima stesura, ancora bisognosa di cure.
Ne parlammo più volte, ma volle ugualmente che io lo custodissi. Non so – e non ha senso parlarne – se in questa inusitata e ostinata decisione di affidarmi queste sue più recenti riflessioni ci fosse un qualche sentore o presagio del peggio. Sta di fatto che la sua scomparsa ha fatto di questo affidamento una sorta di legato testamentario al compagno ed amico editore per la pubblicazione.
Grazie all’impegno sollecito e discreto della sua compagna e moglie, Alessandra Ciattini, che ha curato il testo, oggi questo ultimo lavoro di Stefano va in stampa. Esso conclude un sodalizio e una collaborazione – non soltanto editoriali – di molti anni nel comune percorso.
Affidiamo questo libro agli estimatori di Stefano e a tutti i lettori ancora o nuovamente interessati agli arricchimenti del pensiero critico materialistico e dialettico, soprattutto ai più giovani alla cui formazione Stefano fu sempre attento.
Non soltanto, dunque, un affettuoso ricordo del compagno e amico, ma un “testimone” che induca altri a proseguire quello stesso percorso, con altrettanto coerente impegno scientifico e politico.
Ciao, Stefano.
Grazie
Sergio Manes
Ho
conosciuto Stefano Garroni in una domenica di novembre del 1969: ero
andato, quasi per caso, ad assistere a un seminario sul Capitale di
Marx, tenuto da un giovane assistente di filosofia teoretica a una
ristretta cerchia di “allievi”, nella sede della Lega per i
diritti dell’uomo. Si trattava di un’iniziativa extra-accademica,
carica di intenzioni non solo teoriche, ma anche e soprattutto
politiche, secondo un inconfondibile stile che Stefano perseguirà
per tutta la vita.
Riconosco che si trattò per me di un’esperienza
molto significativa, che mi segnò profondamente non solo dal punto
di vista culturale, ma anche umano. Quel che mi è rimasto è,
infatti, una indicazione metodologica di grande rilievo, basata
sull’idea che leggere Marx richieda innanzitutto una immersione
analitica nelle pieghe del testo, in una rigorosa aderenza alla
“pagina”. Una lezione che mi accompagna ancor oggi e che cerco di
mettere in pratica nel mio insegnamento.
È difficile ridurre a un
elemento fondante una ricerca come quella di Stefano Garroni, che si
è sviluppata per tanti anni, avendo una grande incidenza su un così
alto numero di menti, giovani e meno giovani. Quel che posso
testimoniare è il suo nascere da una vocazione alla trasmissione
diretta del sapere, da una volontà di comunicare e rendere partecipi
gli altri delle proprie letture, dei risultati più recenti del
proprio studio, in una forma di condivisione intellettuale ed
emotiva, per tanti versi irripetibile. Negli anni Settanta – quelli
per me di maggiore vicinanza con Stefano – la passione del pensiero
riusciva a tradursi in un vero e proprio “desiderio della ragione”
di stampo spinoziano, così da alimentare lo sforzo costante di
coniugare lo studio con l’impegno politico.
Stefano Garroni ha
proseguito con grande coerenza lungo tutto l’arco della sua
esistenza questa linea, non restando fermo agli “inizi gloriosi”
degli anni immediatamente successivi al Sessantotto, ma
confrontandosi con gli eventi spesso drammatici che lo sviluppo
storico ha riservato al movimento operaio e al campo comunista,
assumendosi fino agli anni più recenti il duplice compito di
riflettere sulle ragioni di una “sconfitta” e di tenere vivo il
discorso anticapitalistico.
Tutto il lavoro scientifico di Stefano
Garroni mi sembra, allora, ruotare intorno a un nucleo costituito da
un intreccio fecondo fra il pensiero di Marx e ciò che si può
chiamare l’esperienza teorica e pratica del “bolscevismo
leninista”. Questo strato profondo del suo pensiero ha esercitato
una funzione di lievito verso interessi culturali ampi e variegati,
dall’empirismo inglese di David Hume alla psicoanalisi di Sigmund
Freud. Tuttavia – come documentano i testi qui presentati – le
problematiche che con assoluta continuità sono state affrontate
riguardano, da un lato, il dibattito epistemologico scaturito dal
Circolo di Vienna e poi proseguito per tutto il Novecento e,
dall’altro, il “campo di battaglia” costituito dalla questione
della dialettica, così come risulta dagli scritti di Hegel e di
Marx. Si tratta di in una impostazione che sembra rivelare come
proprio ispiratore di fondo il Lenin tanto di Materialismo ed
empiriocriticismo, quanto dei Quaderni filosofici. Si può però con
sicurezza affermare che è stato proprio l’intreccio fra due
poli di interesse apparentemente così lontani e disparati a condurre
Stefano Garroni fuori da ogni dogmatismo e da qualsivoglia ossequio a
una rigida e consolidata tradizione, facendone una originale figura
di “battitore libero” sia nel campo della filosofia, che in
quello della politica. Credo quindi che gli si possa attagliare
perfettamente quanto Walter Benjamin diceva di se stesso: di essere
«non un rappresentante del materialismo dialettico come dogma, bensì
un ricercatore al quale l’atteggiamento materialista appare
scientificamente e umanamente più fruttuoso di quello idealistico,
in tutte le cose che ci muovono».
Stefano Garroni non si è mostrato
interessato a una disputa astratta e metafisica fra idealismo e
materialismo, ma a quello che potremmo chiamare un “atteggiamento
critico” verso le questioni entrambe decisive del pensiero
scientifico e del pensiero dialettico, che costituiscono – vorrei
metterlo in particolare evidenza – il filo rosso dei saggi qui
proposti. L’approccio che si mette in campo permette, dunque, di
prendere le distanze dal riduzionismo in cui troppo spesso si è
chiuso un certo dibattito epistemologico di stampo neopositivista e,
sul versante opposto, rispetto al marxismo, nell’evitare tanto gli
atteggiamenti liquidatori, quanto quelli pedissequamente scolastici.
Se questa è la prospettiva di fondo occorre allora, a giudizio di
Stefano Garroni, ripartire da alcune domande di base che riguardano
il significato stesso di una teoria e del suo campo di applicazione.
La direzione deve essere quella di coniugare qualcosa di invariante
con circostanze storiche sempre diverse, vale a dire occorre aver
chiaro che l’efficacia di una teoria si lega alla sua capacità di
riformularsi, di tener conto di contesti storici radicalmente mutati
e inediti. Questa attenzione alla determinatezza storica libera una
valutazione non aprioristica delle più disparate impostazioni di
pensiero, così da poter arrivare ad ammettere che anche motivi
mistico-religiosi abbiano potuto funzionare come forze sollecitanti
verso il superamento di orizzonti dati, contribuendo al loro
trascendimento. Più in generale si può dire che la filosofia può
costituire, in circostanze date, piuttosto che un ostacolo
epistemologico, una premessa efficace per un pensiero scientifico, al
quale è comunque concesso, dal suo punto di vista, di prenderne le
distanze. L’importante sta nel non affrontare la questione del
rapporto tra la dimensione filosofica e quella scientifica secondo un
paradigma valido una volta per tutte, così da conseguire la capacità
di cogliere la specificità storica in cui, di volta in volta, quel
rapporto viene ad istituirsi.
Questa linea argomentativa permette di
sviluppare una efficace polemica contro lo scientismo,
stigmatizzandolo come la propensione ad elevare a modello una
particolare pratica scientifica. Il punto di fondo consiste nel
denunciare l’oscillazione fra astratto formalismo e sentimentalismo
irrazionale in cui rischiano ogni volta di cadere quelle posizioni
teoriche incapaci di cogliere il nesso fra scienza e vita e quindi
costrette a restare dualisticamente irretite di fronte alla scissioni
prodotte dalla società. Emerge così come questione centrale
l’interpretazione della dialettica, sulla base della convinzione
che è ancora dai testi di Marx e di Hegel che essa ci parla ad alta
voce.
Stefano Garroni ci offre in proposito considerazioni tanto
penetranti, quanto anche dal mio punto di vista condivisibili. Il
punto di partenza non può che essere l’affermazione che: «la
partita della dialettica si gioca tutta nella capacità di
riconoscere come reale la contraddizione» (infra), cioè la
consapevolezza di assumere gli opposti come momenti entrambi
essenziali all’interno di una stessa dinamica di produzione
storico-reale, di cui occorre cogliere il ritmo, la legge di
movimento. Si tratta, allora, tenendo conto in particolare del
contributo fondamentale di György Lukàcs, di considerare la
dialettica come il nomos immanente di un processo logico basato sul
primato del tutto sulle parti e sulla possibilità di un rinvio dal
teoretico al pratico, intendendo per quest’ultimo sia l’ambito
della morale, che quello della politica.
Questa visione critica della
dialettica la apre, per così dire, “verso il basso”, nel momento
in cui la fa coincidere con un ordine logico, una regola in grado di
misurarsi con l’eccezione, con la diversità del molteplice.
Assistiamo così a una riformulazione del nesso fra il razionale e il
reale, al quale non è chiesto di accordarsi con una concezione
presupposta della razionalità, così da produrre un imperativo tale
da imporre in partenza un sacrificio della contingenza a favore della
necessità, della molteplicità a favore di una rigida unità.
Alla
dialettica viene proposto di strutturarsi come quel pensiero capace
di coniugare universale e particolare, all’interno di un unitario
ritmo di sviluppo o regola di movimento, così da poter dar conto del
processo storico salvaguardandone le contraddizioni e la complessità.
In questa prospettiva la ragione verrebbe a perdere il carattere di
astratto modello razionale, dualisticamente contrapposto
all’irrazionale, a favore di una dinamica di necessaria compresenza
fra la forma logica e i contenuti sempre mutevoli.
Questa,
nell’ottica di Stefano Garroni, sarebbe la posizione di Marx, il
quale non potrebbe pensare in questi termini, senza un intenso
rapporto, durato tutta la vita, con la filosofia di Hegel. L’autore
della Fenomenologia dello spirito emerge così come egli stesso
portatore di un’impostazione immanentistica e di una visione della
ragione la quale, pur volta al superamento delle differenze,
manterrebbe nei loro confronti uno specifico legame, assumendole come
il terreno del proprio stesso prodursi.
In Hegel troviamo inoltre un
aspetto che apre un orizzonte problematico ancor oggi di grande
interesse: si tratta della messa in luce dell’inesorabile
antinomia che vive ogni religione positiva fra, da un lato,
l’indicare all’uomo la sua autentica realtà e la sua via di
salvezza e, dall’altro, il chiedergli la sottomissione a un potere
estraneo che lo domina dall’alto.
Stefano Garroni si misura
inoltre, secondo una modalità inedita, con il grande tema hegeliano
della incarnazione del divino, interpretandolo come strettamente
legato a una più generale visione della storia, per la quale i fatti
non sono mere datità, ma espressioni di un senso complessivo che
coincide con il percorso di costruzione dell’autocomprensione
umana. Una concezione radicalmente immanentistica che ha il merito di
non perdere mai di vista il nesso fra socialità e razionalità e di
muovere dall’agire degli individui, dall’istanza universalistica
di cui può essere portatore anche il comportamento dei singoli una
volta inserito nel contesto di appartenenza con cui è sempre in
relazione. Quel che Hegel chiama il farsi mondo dello spirito non è
altro che questo processo, attraverso il quale si costituisce un
orizzonte che vede un «Io che è Noi e Noi che è Io».
A questo
punto me la sentirei di affermare che il frutto più maturo del
cammino di pensiero di Stefano Garroni consiste nella sicura
articolazione fra due grandi momenti del razionalismo moderno,
l’ambito hegelo-marxiano e quello che in senso lato si produce a
partire dal Wiener Kreis. Il punto archidemico che permette di
correlare due linee di pensiero, a prima vista totalmente eterogenee,
viene individuato in una concezione del conoscere (erkennen) come
riconoscere (wiedererkennen), analizzata in particolare in Moritz
Sclichk, per il quale il ricondurre un fenomeno a una forma o a una
regola significa legittimarlo, accettarlo nel dominio del razionale.
Stefano Garroni argomenta, allora, che questo atteggiamento risulta
omogeneo all’istanza dialettica nel suo sforzo di definire
l’inarrestabile dinamica dell’esperienza, di coglierne le forme
generali e le modalità del loro trapassare da una all’altra.
Questo inusitato accostamento permette di illuminare due punti chiave
della filosofia di Hegel, i quali, proprio in questi ultimi anni, si
sono trovati al centro del dibattito interpretativo: il tema
dell’esperienza (Erfahrung) e quello del riconoscimento
(Anerkennung). L’approfondimento di questi nodi decisivi del
pensiero hegeliano – ricchi di ripercussioni sull’impianto
teorico dello stesso pensiero di Marx – offre una prospettiva di
lettura che permette di sottrarre Hegel ai luoghi comuni e al suo
scontato inserimento nella tradizione.
Per comprendere tanto
l’esperienza, quanto il riconoscimento, occorre calarsi nel
capolavoro hegeliano, la Fenomenologia dello spirito, per porre in
rilievo quanto Hegel sia al di là di ogni metafisica
sostanzialistica e intenda lo spirito non come qualcosa, ma come una
modalità di relazione. Si può cogliere così come l’esperienza
costituisca il piano imprescindibile dei comportamenti individuali e
sviluppi una molteplicità di relazioni che trovano nella reciprocità
del riconoscimento la loro forma più compiuta, in grado di mostrare
a ritroso tutte le forme inadeguate di incontro del soggetto con
l’oggetto e dei soggetti fra loro.
Roma 18 aprile 2015
Paolo Vinci
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