sabato 15 dicembre 2018

Stefano Garroni: Dialettica riproposta - Presentazione di Paolo Vinci

Da: Stefano Garroni, Dialettica riproposta, a cura di Alessandra Ciattini, la città del sole. Stefano_Garroni è stato un filosofo italiano.
Paolo Vinci è docente di Filosofia pratica presso la Facoltà di Filosofia dell’Università “La Sapienza” di Roma. http://www.rivistapolemos.it 




    Indice:


Nota dell’editore 












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Nota dell’editore


Stefano aveva voluto affidarmi questo testo, pur se, trattandosi di una prima stesura, ancora bisognosa di cure. 

Ne parlammo più volte, ma volle ugualmente che io lo custodissi. Non so – e non ha senso parlarne – se in questa inusitata e ostinata decisione di affidarmi queste sue più recenti riflessioni ci fosse un qualche sentore o presagio del peggio. Sta di fatto che la sua scomparsa ha fatto di questo affidamento una sorta di legato testamentario al compagno ed amico editore per la pubblicazione.

Grazie all’impegno sollecito e discreto della sua compagna e moglie, Alessandra Ciattini, che ha curato il testo, oggi questo ultimo lavoro di Stefano va in stampa. Esso conclude un sodalizio e una collaborazione – non soltanto editoriali – di molti anni nel comune percorso.

Affidiamo questo libro agli estimatori di Stefano e a tutti i lettori ancora o nuovamente interessati agli arricchimenti del pensiero critico materialistico e dialettico, soprattutto ai più giovani alla cui formazione Stefano fu sempre attento.

Non soltanto, dunque, un affettuoso ricordo del compagno e amico, ma un “testimone” che induca altri a proseguire quello stesso percorso, con altrettanto coerente impegno scientifico e politico.

Ciao, Stefano.
Grazie

Sergio Manes

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 Ho conosciuto Stefano Garroni in una domenica di novembre del 1969: ero andato, quasi per caso, ad assistere a un seminario sul Capitale di Marx, tenuto da un giovane assistente di filosofia teoretica a una ristretta cerchia di “allievi”, nella sede della Lega per i diritti dell’uomo. Si trattava di un’iniziativa extra-accademica, carica di intenzioni non solo teoriche, ma anche e soprattutto politiche, secondo un inconfondibile stile che Stefano perseguirà per tutta la vita. 

 Riconosco che si trattò per me di un’esperienza molto significativa, che mi segnò profondamente non solo dal punto di vista culturale, ma anche umano. Quel che mi è rimasto è, infatti, una indicazione metodologica di grande rilievo, basata sull’idea che leggere Marx richieda innanzitutto una immersione analitica nelle pieghe del testo, in una rigorosa aderenza alla “pagina”. Una lezione che mi accompagna ancor oggi e che cerco di mettere in pratica nel mio insegnamento. 

 È difficile ridurre a un elemento fondante una ricerca come quella di Stefano Garroni, che si è sviluppata per tanti anni, avendo una grande incidenza su un così alto numero di menti, giovani e meno giovani. Quel che posso testimoniare è il suo nascere da una vocazione alla trasmissione diretta del sapere, da una volontà di comunicare e rendere partecipi gli altri delle proprie letture, dei risultati più recenti del proprio studio, in una forma di condivisione intellettuale ed emotiva, per tanti versi irripetibile. Negli anni Settanta – quelli per me di maggiore vicinanza con Stefano – la passione del pensiero riusciva a tradursi in un vero e proprio “desiderio della ragione” di stampo spinoziano, così da alimentare lo sforzo costante di coniugare lo studio con l’impegno politico. 

 Stefano Garroni ha proseguito con grande coerenza lungo tutto l’arco della sua esistenza questa linea, non restando fermo agli “inizi gloriosi” degli anni immediatamente successivi al Sessantotto, ma confrontandosi con gli eventi spesso drammatici che lo sviluppo storico ha riservato al movimento operaio e al campo comunista, assumendosi fino agli anni più recenti il duplice compito di riflettere sulle ragioni di una “sconfitta” e di tenere vivo il discorso anticapitalistico. 

 Tutto il lavoro scientifico di Stefano Garroni mi sembra, allora, ruotare intorno a un nucleo costituito da un intreccio fecondo fra il pensiero di Marx e ciò che si può chiamare l’esperienza teorica e pratica del “bolscevismo leninista”. Questo strato profondo del suo pensiero ha esercitato una funzione di lievito verso interessi culturali ampi e variegati, dall’empirismo inglese di David Hume alla psicoanalisi di Sigmund Freud. Tuttavia – come documentano i testi qui presentati – le problematiche che con assoluta continuità sono state affrontate riguardano, da un lato, il dibattito epistemologico scaturito dal Circolo di Vienna e poi proseguito per tutto il Novecento e, dall’altro, il “campo di battaglia” costituito dalla questione della dialettica, così come risulta dagli scritti di Hegel e di Marx. Si tratta di in una impostazione che sembra rivelare come proprio ispiratore di fondo il Lenin tanto di Materialismo ed empiriocriticismo, quanto dei Quaderni filosofici. Si può però con sicurezza affermare che è stato proprio l’intreccio fra due poli di interesse apparentemente così lontani e disparati a condurre Stefano Garroni fuori da ogni dogmatismo e da qualsivoglia ossequio a una rigida e consolidata tradizione, facendone una originale figura di “battitore libero” sia nel campo della filosofia, che in quello della politica. Credo quindi che gli si possa attagliare perfettamente quanto Walter Benjamin diceva di se stesso: di essere «non un rappresentante del materialismo dialettico come dogma, bensì un ricercatore al quale l’atteggiamento materialista appare scientificamente e umanamente più fruttuoso di quello idealistico, in tutte le cose che ci muovono». 

 Stefano Garroni non si è mostrato interessato a una disputa astratta e metafisica fra idealismo e materialismo, ma a quello che potremmo chiamare un “atteggiamento critico” verso le questioni entrambe decisive del pensiero scientifico e del pensiero dialettico, che costituiscono – vorrei metterlo in particolare evidenza – il filo rosso dei saggi qui proposti. L’approccio che si mette in campo permette, dunque, di prendere le distanze dal riduzionismo in cui troppo spesso si è chiuso un certo dibattito epistemologico di stampo neopositivista e, sul versante opposto, rispetto al marxismo, nell’evitare tanto gli atteggiamenti liquidatori, quanto quelli pedissequamente scolastici. 

 Se questa è la prospettiva di fondo occorre allora, a giudizio di Stefano Garroni, ripartire da alcune domande di base che riguardano il significato stesso di una teoria e del suo campo di applicazione. La direzione deve essere quella di coniugare qualcosa di invariante con circostanze storiche sempre diverse, vale a dire occorre aver chiaro che l’efficacia di una teoria si lega alla sua capacità di riformularsi, di tener conto di contesti storici radicalmente mutati e inediti. Questa attenzione alla determinatezza storica libera una valutazione non aprioristica delle più disparate impostazioni di pensiero, così da poter arrivare ad ammettere che anche motivi mistico-religiosi abbiano potuto funzionare come forze sollecitanti verso il superamento di orizzonti dati, contribuendo al loro trascendimento. Più in generale si può dire che la filosofia può costituire, in circostanze date, piuttosto che un ostacolo epistemologico, una premessa efficace per un pensiero scientifico, al quale è comunque concesso, dal suo punto di vista, di prenderne le distanze. L’importante sta nel non affrontare la questione del rapporto tra la dimensione filosofica e quella scientifica secondo un paradigma valido una volta per tutte, così da conseguire la capacità di cogliere la specificità storica in cui, di volta in volta, quel rapporto viene ad istituirsi. 

 Questa linea argomentativa permette di sviluppare una efficace polemica contro lo scientismo, stigmatizzandolo come la propensione ad elevare a modello una particolare pratica scientifica. Il punto di fondo consiste nel denunciare l’oscillazione fra astratto formalismo e sentimentalismo irrazionale in cui rischiano ogni volta di cadere quelle posizioni teoriche incapaci di cogliere il nesso fra scienza e vita e quindi costrette a restare dualisticamente irretite di fronte alla scissioni prodotte dalla società. Emerge così come questione centrale l’interpretazione della dialettica, sulla base della convinzione che è ancora dai testi di Marx e di Hegel che essa ci parla ad alta voce. 

 Stefano Garroni ci offre in proposito considerazioni tanto penetranti, quanto anche dal mio punto di vista condivisibili. Il punto di partenza non può che essere l’affermazione che: «la partita della dialettica si gioca tutta nella capacità di riconoscere come reale la contraddizione» (infra), cioè la consapevolezza di assumere gli opposti come momenti entrambi essenziali all’interno di una stessa dinamica di produzione storico-reale, di cui occorre cogliere il ritmo, la legge di movimento. Si tratta, allora, tenendo conto in particolare del contributo fondamentale di György Lukàcs, di considerare la dialettica come il nomos immanente di un processo logico basato sul primato del tutto sulle parti e sulla possibilità di un rinvio dal teoretico al pratico, intendendo per quest’ultimo sia l’ambito della morale, che quello della politica. 

 Questa visione critica della dialettica la apre, per così dire, “verso il basso”, nel momento in cui la fa coincidere con un ordine logico, una regola in grado di misurarsi con l’eccezione, con la diversità del molteplice. Assistiamo così a una riformulazione del nesso fra il razionale e il reale, al quale non è chiesto di accordarsi con una concezione presupposta della razionalità, così da produrre un imperativo tale da imporre in partenza un sacrificio della contingenza a favore della necessità, della molteplicità a favore di una rigida unità. 

 Alla dialettica viene proposto di strutturarsi come quel pensiero capace di coniugare universale e particolare, all’interno di un unitario ritmo di sviluppo o regola di movimento, così da poter dar conto del processo storico salvaguardandone le contraddizioni e la complessità. In questa prospettiva la ragione verrebbe a perdere il carattere di astratto modello razionale, dualisticamente contrapposto all’irrazionale, a favore di una dinamica di necessaria compresenza fra la forma logica e i contenuti sempre mutevoli. 

 Questa, nell’ottica di Stefano Garroni, sarebbe la posizione di Marx, il quale non potrebbe pensare in questi termini, senza un intenso rapporto, durato tutta la vita, con la filosofia di Hegel. L’autore della Fenomenologia dello spirito emerge così come egli stesso portatore di un’impostazione immanentistica e di una visione della ragione la quale, pur volta al superamento delle differenze, manterrebbe nei loro confronti uno specifico legame, assumendole come il terreno del proprio stesso prodursi. 

 In Hegel troviamo inoltre un aspetto che apre un orizzonte problematico ancor oggi di grande interesse: si tratta della messa in luce dell’inesorabile antinomia che vive ogni religione positiva fra, da un lato, l’indicare all’uomo la sua autentica realtà e la sua via di salvezza e, dall’altro, il chiedergli la sottomissione a un potere estraneo che lo domina dall’alto. 

 Stefano Garroni si misura inoltre, secondo una modalità inedita, con il grande tema hegeliano della incarnazione del divino, interpretandolo come strettamente legato a una più generale visione della storia, per la quale i fatti non sono mere datità, ma espressioni di un senso complessivo che coincide con il percorso di costruzione dell’autocomprensione umana. Una concezione radicalmente immanentistica che ha il merito di non perdere mai di vista il nesso fra socialità e razionalità e di muovere dall’agire degli individui, dall’istanza universalistica di cui può essere portatore anche il comportamento dei singoli una volta inserito nel contesto di appartenenza con cui è sempre in relazione. Quel che Hegel chiama il farsi mondo dello spirito non è altro che questo processo, attraverso il quale si costituisce un orizzonte che vede un «Io che è Noi e Noi che è Io». 

 A questo punto me la sentirei di affermare che il frutto più maturo del cammino di pensiero di Stefano Garroni consiste nella sicura articolazione fra due grandi momenti del razionalismo moderno, l’ambito hegelo-marxiano e quello che in senso lato si produce a partire dal Wiener Kreis. Il punto archidemico che permette di correlare due linee di pensiero, a prima vista totalmente eterogenee, viene individuato in una concezione del conoscere (erkennen) come riconoscere (wiedererkennen), analizzata in particolare in Moritz Sclichk, per il quale il ricondurre un fenomeno a una forma o a una regola significa legittimarlo, accettarlo nel dominio del razionale. 
Stefano Garroni argomenta, allora, che questo atteggiamento risulta omogeneo all’istanza dialettica nel suo sforzo di definire l’inarrestabile dinamica dell’esperienza, di coglierne le forme generali e le modalità del loro trapassare da una all’altra. Questo inusitato accostamento permette di illuminare due punti chiave della filosofia di Hegel, i quali, proprio in questi ultimi anni, si sono trovati al centro del dibattito interpretativo: il tema dell’esperienza (Erfahrung) e quello del riconoscimento (Anerkennung). L’approfondimento di questi nodi decisivi del pensiero hegeliano – ricchi di ripercussioni sull’impianto teorico dello stesso pensiero di Marx – offre una prospettiva di lettura che permette di sottrarre Hegel ai luoghi comuni e al suo scontato inserimento nella tradizione. 

 Per comprendere tanto l’esperienza, quanto il riconoscimento, occorre calarsi nel capolavoro hegeliano, la Fenomenologia dello spirito, per porre in rilievo quanto Hegel sia al di là di ogni metafisica sostanzialistica e intenda lo spirito non come qualcosa, ma come una modalità di relazione. Si può cogliere così come l’esperienza costituisca il piano imprescindibile dei comportamenti individuali e sviluppi una molteplicità di relazioni che trovano nella reciprocità del riconoscimento la loro forma più compiuta, in grado di mostrare a ritroso tutte le forme inadeguate di incontro del soggetto con l’oggetto e dei soggetti fra loro. 

 Roma 18 aprile 2015 

 Paolo Vinci 


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