Da: Stefano
Garroni, Dialettica
riproposta, a cura
di Alessandra Ciattini, (Dialettica
riproposta - Stefano Garroni - lacittadelsole).- Stefano
Garroni è
stato un filosofo italiano.
Indice:
Nota dell’editore
Novità e storia
Solitamente si pensa che la grandezza di uno scienziato o di un filosofo stia in ciò che ha detto, nella parola nuova che ha introdotto, nell’“inedito” che da lui ha inizio.
Si tratta, naturalmente, di un concezione romantica, in un certo senso, oziosa, da “anima bella” e, quello che più conta, di una concezione, che non riconosce il ruolo della storia, dei lunghi, complessi e contraddittori processi, senza cui in realtà non vi sarebbe “nuovo”.
Perché, non inganniamoci, ciò che veramente è serio nella scienza e nella filosofia non ha origine diversa, se non nei problemi, difficoltà e contraddizioni, che gli uomini realmente esistenti incontrano nella loro “fatica di vivere”.
Ed infatti è certo che lo scienziato e il filosofo sono in un certo senso uomini comuni, che conoscono le comuni gioie e sofferenze, aspirazioni, sconfitte, insomma, che vivono nella stessa drammaticità ed incertezza, opacità, in cui vivono gli uomini normalmente.
Tuttavia, come Kant, Hegel e Marx ci hanno appreso, questo ha di caratteristico, di proprio, il filosofo moderno: di essere appunto un uomo, che vive insieme agli altri, che non si considera diverso dagli altri, ma che cerca di capire, le contraddizioni, le difficoltà in cui è immerso, le quali sono poi le contraddizioni, le dissonanze, le disarmonie, di cui vive la società di cui egli è parte.
E questo tentativo di capire non è o almeno non è solo, fine a se stesso; ma sì volto a superare gli scarti, le opposizioni, a rintracciare quelle “vie indirette”, che, spesso, son l’unico modo per uscire dall’impasse, per reintrodurre una rima, laddove domina, invece, una dissonanza, una disarmonia.
Ma se così stanno le cose, ed in particolare se così stanno le cose a pensarle dialetticamente, allora è chiaro che quello che veramente conta di uno scienziato o di un filosofo non è solo – o tanto – la “verità”, cui è pervenuto, quanto piuttosto il modo in cui si è posto di fronte alla realtà o, se si vuole l’atteggiamento, l’attitudine, che assume di fronte al mondo (sociale e naturale) e che gli consente di percorrere un certo camino, di estendere il dominio della ricerca ad ambiti fino ad allora protetti dalla solidità del dogma o dell’evidenza. Ed è, appunto, così che opera Marx (e Hegel prima di lui, come Lenin dopo di lui).
Marx e la filosofia.
Partiamo da una domanda: «Marx è un filosofo?» A me sembra che non si possa non riconoscere il carattere ambiguo della domanda e, dunque, la necessità di una risposta non univoca, ma sì duplice.
Infatti, a patto che si voglia sapere se l’indagine propriamente marxiana sia tale, da potersi classificare in ciò che una lunga tradizione e lo stesso ambiente culturale del secolo di Marx consideravano filosofia, allora la risposta – mi pare – non può che essere negativa. In questo senso va piuttosto sottolineata la costante polemica marxiana contro il “metodo speculativo” e contro l’“hegelismo” (si ricordi che, però, assai minori son le occasioni, in cui Marx polemizza contro luoghi precisi dell’opera di Hegel)1.
Ma se quella domanda punta a determinare se l’indagine propriamente marxiana possa essere considerata unilateralmente economica o storica, allora la risposta – mi pare – deve essere positiva, ovvero, va riconosciuto che Marx non è strettamente un economista o uno storico, proprio perché è tutto plongé in una prospettiva filosofica.
La Richtung o Gesinnung filosofiche, che fanno da sfondo e, quindi, anche da costante punto di riferimento o orientamento teorici (spesso impliciti) della ricerca marxiana son quelle stesse di Hegel – ciò è particolarmente vero se volgiamo la nostra attenzione alla Fenomenologia e alle moltissime pagine hegeliane dedicate alla ricostruzione di processi storici definiti, in cui le categorie dialettiche trovano il modo di determinarsi e adeguarsi alla diversità degli “oggetti”.
La presenza, in Marx, della filosofia2 – sia pure in forma implicita e sempre accompagnata dall’“orrore” (si potrebbe dire) di cadere nel trabocchetto speculativo – fa sì, che la sua riflessione, per quanto certamente orientata allo studio di un dominio ben precisato (che potremmo chiamare, con termine post-marxiano, il dominio della formazione storico-sociale)3, presenti, tuttavia, aperture e – si potrebbe dire – rapide irruzioni in ambiti di esperienza solo mediatamente in relazione con la formazione storico-sociale e che, comunque, son caratterizzati da una dinamica complessa, nel senso di non facilmente riducibile (ammesso che in qualche modo riducibili siano) ai tempi, modi e ritmi della cosiddetta ökonomische Basis.
Sto pensando, ad esempio, a quella pagina dei Pariser Manuskripte, in cui, di fatto, Marx esprime ciò che per lui vale come Principio Morale di Base (PMB), ovvero un Leben erzeugendes Leben (una vita, che produca vita).
È chiaro che in questo modo Marx si pone in relazione non solo con l’ambiente ottocentesco a lui contemporaneo (il quale, tuttavia, dà spesso a Leben ed a lebendige un significato romantico e irrazionalistico, affatto lontano dalla “filosofia” di Marx, come anche da quella di Hegel), ma pure si ricollega, ad una lunga tradizione morale, le cui radici affondano nella Grecia classica.
Altrettanto è chiaro che PMB definisce una prospettiva, entro la quale Marx esamina il modo di produzione capitalistico (cosa che sarebbe vietatissima per un puro economista), ma anche delinea (nella piccola misura in cui lo fa) il quadro della futura epoca comunista o, come pure Marx dice, del regno della libertà, che succede alla lunga storia della necessità, la quale con il capitalismo è giunta al suo acme e, dunque, si prepara ad esser rovesciata.4
Un altro esempio che possiamo citare è quello della verständige Abstraktion (l’astrazione intellettuale o astrazione sensata), di cui Marx riconosce la legittimità in almeno due occasioni: ovvero, nelle Thesen über Feuerbach, quando rifiuta la concezione dell’essenza umana come un che di astratto, che coabita – nell’uomo – con le sue qualità o predicati differenzianti, specificanti; e quando, nel 1857, pur avendone chiaro il carattere schiettamente formale e l’origine empiristica, Marx legittima l’uso scientifico di tale astrazione.
È interessante notare che, nel primo caso, Marx esclude l’uso della verständige Abstraktion, quando l’analisi voglia svolgersi sul piano della Wirklichkeit, ovvero, della realtà effettuale (il che sembra circoscrivere l’ambito di legittimità dell’esclusione)5; nel secondo caso, d’altronde, è proprio questa circoscritta esclusione che sembra ritornare, quando Marx precisa che la verständige Abstraktion non
ha cittadinanza, se l’oggetto d’analisi non è la produzione in generale, ma sì un modo storicamente determinato di relazione socio-produttiva6. Bisogna concludere che, per Marx, non solo è legittima, a certe condizioni, la verständige Abstraktion, ma anche che queste condizioni significano la legittimità scientifica di riflessioni, che si svolgano ad un livello puramente formale, in cui la chiarificazione logico-linguistica (si badi: non storico-genetica) dei concetti gioca un ruolo rilevante.
Il “paradoso” di Marx
“Nella nostra meditazione sta il divenir coscienti della presenza del contenuto particolare nell’universale in sé e per sé, vedere come questa stessa verità assoluta, in tanto che risultato, è la verità ultima di tutti i contenuti particolari. Questo nesso interno di cui noi prendiamo coscienza non deve essere una effusione del pensiero fuori della cosa, bensì deve svolgersi proprio in essa e solo esporre la sua stessa necessità. Tale esposizione del movimento oggettivo dell’intima e propria necessità del contenuto è il conoscere stesso, ed è veridico in quanto è unità con l’oggetto.” (Hegel, Lezioni sulla prova dell’esistenza di dio, Bari 1970: 59s). Ed ancora: “Tutto ciò che ci circonda – si legge in Hegel, Enciclopedia, §.174 – può essere esaminato come esempio del dialettico. Sappiamo che tutto ciò, che è finito, invece che essere qualcosa di fisso e di ultimo, è piuttosto qualcosa di mutevole e transeunte: e proprio in ciò consiste la dialettica del finito, secondo cui la stessa cosa, in quanto è in sé l’altro di sé e va oltre ciò che immediatamente è, si spinge al di là di se stessa e si capovolge nel proprio contrario”.
Qui, mi pare, Hegel esprime con chiarezza l’impossibilità di una scienza particolare, di un” Einzelwissenschaft, che sia dialettica; è importante notare che Marx, da parte sua, sembra dunque proporsi un paradosso, ovvero proprio l’analisi dialettica di un “oggetto” determinato (il modo capitalistico di produzione), opponendosi così a quell’hegelismo, che argomenta, al contrario, l’inseparabilità di dialettica e totalità7.
L’ipotesi, che avanzo, è che Marx conserva e regionalizza la «totalità» dialettica, ma – e lo abbiamo già visto – la mantiene implicita anche come sfondo generale, come Richtung o Gesinnung filosofiche8.
Se studiare scientificamente un oggetto significa produrne una teoria di forma scientifica; e se forma scientifica significa forma razionale, id est sistematica ed autonoma, allora possiamo dire che proprio Hegel offre a Marx gli strumenti logico-linguistici per costruire il dominio della sua ricerca come un campo sistematico ed autonomo.
In particolare questo è vero, perché Hegel si rende conto che la sistematicità ed autonomia (dunque, la forma razionale o scientifica) possono esser tali, se – e solo se – riescono a stabilire con le contraddizioni, le opposizioni, gli scarti, le dissonanze, la relazione detta übergreifen9. Questa precisazione è importante, in quanto sembra limitare l’«autonomia» della forma scientifica (a questo punto va, però, considerata anche la tesi di chi sostiene che Marx accoglie, in funzione anti speculativa, ciò che, nella linea Kant-Feuerbach, significa Sinnlichkeit. È convincente tale tesi? Per relazionare forma scientifica e sensibilità è proprio necessario riandare a Kant e Feuerbach, riproponendo così la difficoltà della «scissione» tra ciò che appartiene al pensiero e ciò che appartiene, invece, al dominio dei sense data?10.
Sembra a me che l’operazione marxiana potrebbe esser descritta in questo modo: Marx supera il piano delle catagorie economiche (che egli interpreta come oggetti naturali, secondo un filtro di lettura che fu, anche, di Hegel), perché perviene ad un altro piano o livello: quello delle loro condizioni di possibilità, nel senso dell’intreccio di relazioni storico-sociali, che ne consentono l’esistenza – anche in quanto reificazione di rapporti umani.
Le condizioni di possibilità, dunque, – e questo va ben notato, perché profondissimamente dialettico – hanno il compito, certo, di mostrare la “razionalità” dell’economico (la sua coerenza, cioè, rispetto a quelle condizioni, che lo originano), ma anche – quando è il caso, ad es. entro il modo capitalistico di produzione – di evidenziare la sua “irrazionalità”, dunque, il suo occultare le proprie origini, dandosi la figura del naturale (secondo il senso hegeliano del termine), invece che dello storico.
Postosi sul terreno delle condizioni di possibilità, Marx può indicare la regola compositiva e dinamica, che non solo spiega l’esistenza di un certo quadro economico, ma anche ne indica le possibilità di superamento. Marx si differenzia dalla tradizione economica, in quanto se, da un lato, anch’egli riconosce che l’economico in quanto tale raggiunge nella kapitalistische Produktionsweise (d’ora in avanti KPW) il suo compimento; dall’altro, però, avendo ricondotto l’economico a certe condizioni storiche di possibilità, ne tematizza la storicità, nel senso della sua superabilità.
Insomma, Marx è d’accordo con l’economista nel ritenere che l’economia propriamente è l’economia capitalistica (così come lo Stato politico è lo Stato nella sua compiutezza); avendo, però, tematizzato le condizioni di possibilità della KPW come condizioni storiche, può ricavarne la tesi della superabilità di quest’ultima.
Data questa duplicità, possiamo dire che lo stesso Marx (il suo sapere) è economista – nella misura in cui analizza il piano del reificato movimento economico in quanto esistenza reale, nel quadro della KPW; ma anche che non è economista – dacché tematizzando le condizioni di possibilità, può sciogliere la “cosa” economica nelle relazioni storico-sociali, che la originano.
Le condizioni di possibilità, in quanto condizioni storico-sociali, definiscono uno spazio “totale”, cioè un intreccio di differenti relazioni interconnesse e sorrette, in forme che variano storicamente, da una «ragione compositiva e propulsiva» (riappare la nozione aristotelico-hegeliana di entelechia/Trieb); si costituisce in questo modo una dimensione, che ha forma dialettica e che, dunque, va trattata dialetticamente.
Il fatto che la totalità, di cui si occupa la riflessione dialettica di Marx, sia «regionale» porta con sé la conseguenza di rendere impossibile una compiuta definizione dell’«oggetto», il quale – al contrario – per via della sua stessa dinamica, potrà richiedere determinazioni diverse, in tempi e prospettive diverse, in questo modo dimostrandosi esso stesso un che di storico, di mutevole, in un certo senso e misura, di fluido. Insomma, la “totalità” di cui Marx parla, necessariamente, è un oggetto sfrangiato (ausgefranst): se la sua dialetticità consente di tematizzarlo come un nodo dinamico e non casuale di relazioni; la sua “fluidità” rende impossibile il fissarlo, cristallizzarlo in una definizione, che si pretenda ultimativa11.
Note
1
Qui va ripresa l’interpretazione che ho proposto in altra sede
della Deutsche
Ideologie,
secondo cui il testo non venne terminato, perché Marx (ed Engels)
si resero conto che la loro critica, inizialmente rivolta contro l’hegelismo in
si resero conto che la loro critica, inizialmente rivolta contro l’hegelismo in
generale,
in realtà finiva col servirsi proprio di Hegel contro il metodo
speculativo,
operando
così una distinzione abbastanza netta fra i neo-hegeliani e lo Hegel
stesso.
Si ricordi, inoltre, che accanto ad una destra e ad una sinistra,
esistette
anche
un centro hegeliano, le cui posizioni sono spesso prossime a quelle
di
Marx
e, nello stesso tempo, più rigorosamente hegeliane.
2
Così si legge in J. Schleifstein, Einführung
in das Studium von Marx, Engels
und
Lenin, Essen
1995: 43 – “Eine in sich geschlossene Philosophie, die jede
Form
des Glaubens verbannen und auch den Dualismus von Geist und Natur
überwinden,
die alle Untersuchung der Natur, der Gesellschaft und des Denkens
auf
streng wissenschaftliche Prinzipien und Methoden gründen wollte, war
daher
nach
der Überzeugung von Marx und Engels nur auf materialistischer
Grundlage
möglich.“
Da questo brano risulta evidente la continuazione (tutt’altro che
opportuna)
di
una certa tradizione marxista, fortemente legata al positivismo e –
più che
a
Marx – ad Engels, Kautsky e Plechanov, la quale, da un lato,
riprende il motivo
engelsiano
del problema fondamentale della filosofia (materialismo o idealismo)
ma,
dall’altro, riduce la filosofia a generalizzazione dei risultati
delle scienze, perdendone
in
questo modo – a non dir altro – dimensioni fondamentali come
quella
morale
ed estetica (nella misura in cui è lecito parlare di una riflessione
estetica).
3
Naturalmente, ciò comporta una ritematizzazione, da parte di Marx,
del
dominio
“economia” che, in parte, è quasi un ritorno al modo, in cui
questo
era
inteso da uomini come Sismondi ed, almeno in parte, dallo stesso A.
Smith.
Ma
su ciò dovremo tornare.
4
Va sottolineato come il tedesco R. Schleifstein, nell’opera che
abbiamo
già
citato, si mostri interessato, piuttosto, a “liberare” la
riflessione e l’analisi
marxiste
dall’“accusa” di esser mosse anche da finalità morali.
5
È interessante ricordare che la critica all’astrazione empiristica
ed
“oggettivante”
è una tendenza, che ha forti e lontane radici nella cultura
moderna,
come dimostra ampiamente E. Cassirer, in particolare nel suo
Filosofia
delle forme simboliche,
III . 1, Firenze 1966; per fare un solo esempio,
si
ricordi come Cassirer, nell’op. cit., descrive il pensiero di
Herder, il
quale
enfatizza il primato del tutto sulle parti e, quindi, polemizza
contro
quel
tipo di astrazione che implica, come reale e oggettiva, una
concezione
atomistica
della vita psichica.
6
Un uso legittimo della verständige
Abstraktion lo si
trova nella Einleitung
[zur
Kririk der Politischen Okonomie],
quando Marx insiste nel sottolineare
che
l’attività produttiva umana implica l’esistenza di una “spinta”
(Trieb),
finalizzata
in senso determinato (zweckbestimmend).
Con tutta evidenza, Marx
non
sta parlando di un modo storico di produzione, ma sì genericamente
del
fare,
del produrre tout
court (K. Marx,
Zur Kritik der
Politischen Okonomie,
Berlin
1971: 237).
7
A supporto della tesi che afferma l’esistenza di un «paradosso»
di Marx,
si
può citare M. Cingoli, La
qualità nella «Scienza della logica» di
Hegel, Guerini
1997:
146, dove leggiamo: “bisogna … sapersi sollevare al di sopra
della visione
dell’intelletto
(e, dunque, anche delle Einzelwissenschaften.
Nota mia, S.G.) per
afferrare
speculativamente l’identità dinamica di essere e nulla, e più in
generale
la
reale dialettica delle determinazioni opposte”.
8
D’altra parte, la prospettiva della “regionalizzazione” della
totalità non
sembra
estranea all’impostazione hegeliana, come mostrerebbe questo testo
già
citato
in precedenza (v. pagina precedente). Va fatta, però, anche un’altra
considerazione:
se
pure è compatibile con la prospettiva dialettica quell’operazione,
che
ho indicato col termine regionalizzazione, resta tuttavia vero che
essa comporta
una
non compiuta “dialettizzazione” del reale, proprio perché
circoscrive
la
totalità, entro cui quello è inserito. Di qui, l’ineliminabilità
di un momento
empiristico
nell’indagine economica marxiana, per quanto essa possa
differenziarsi
da
un unilaterale “economicismo”.
9
Per questa nozione, rimando in generale all’opera di H.H. Holz, che
ne
tratta ampiamente; teniamo presente che la relazione indicata dal
termine
tedesco
è analoga al rapporto che esiste fra insieme e sotto-insieme –
ovvero, il
primo
comprende in sé ma anche supera il sotto-insieme.
10
Tra l’altro, conviene qui ricordare il Cassirer della Filosofia
delle forme
simboliche,
il quale ripetutamente sottolinea l’illusione che il sense
datum sia,
appunto,
qualcosa di puramente dato e non già, invece, qualcosa di plasmato
in
un certo modo dall’atto stesso della percezione.
11
È per questo, d’altronde, che la verständige
Abstraktion ha un
suo spazio:
quando
si ragiona sulla produzione in generale, ad es., non si stanno
precisando,
determinando,
qualità universali dell’oggetto (che, in questo modo, perderebbe
la
sua storicità ed il suo margine ineliminabile di indeterminatezza).
Piuttosto, si
sta
utilizzando uno schema “riassuntivo”, che evita ripetizioni e che
in generale
si
rivela uno strumento ausiliario rispetto all’analisi di un modo
storicamente
circoscritto
di produzione.
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