martedì 9 aprile 2019

EPITAFFIO PER L’URSS: UN OROLOGIO SENZA MOLLA - Christopher J. Arthur✴

Da: http://web.tiscalinet.it/visavis/arretrati.htm - Traduzione di Fabio Ciabatti - Ringraziamenti dell’autore: Questo saggio è stato presentato al nono Simposio sulla Teoria Marxista, tenuto all’Università di Bergamo nel giugno 1998. Ringrazio, per i loro attenti commenti e per le loro critiche, tutti coloro che hanno partecipato alla discussione, e cioè Riccardo Bellofiore, Tony Smith, Geert Reuten, Patrick Murray, Fred Moseley, PaulMattick Jr. e Martha Campbell. Mi rincresce di non aver potuto rispondere adeguatamente alle loro domande. (C.J.A.) 

Probabilmente si tratta del punto centrale all'origine del crollo dell'URSS e dei paesi socialisti: non vi era un vero e proprio modo di produzione, perché il sistema fabbrica (base materiale) non armonizzava il sistema della gestione per la quale è stato creato (accumulazione).
Ma c'è da riflettere sul fatto che se, come è plausibile, il modo di produzione sovietico non era né capitalistico né socialista, ma è definito da Arthur "economia amministrata", una sorta di economia formata da capitali ma senza produzione di plusvalore e senza capitalisti, "un orologio senza molle", allora c'è da chiedersi con il 1989 che cosa sia veramente crollato. 
Altro punto importante è se sia possibile evitare,  e come,  il crearsi di una "burocrazia" privilegiata quale forma di nuova borghesia. Anche questo non potrà che riproporsi in futuro. 
L'ideologia dominante ripete che il socialismo è fallito perché non può funzionare, e purtroppo questa frase è fatta propria dal 99% delle persone, compresi i lavoratori. Ma in realtà che cosa è veramente fallito? 
Se non c'era il socialismo né il capitalismo, il primo non è crollato ma è ancora tutto da costruire. (il collettivo)

Lo scritto che qui si traduce nasce dall’interesse di lunga data che Arthur nutre per la valutazione teorica dell’esperienza del socialismo reale, in particolare per quel che riguarda l’Unione Sovietica. Agli occhi di Arthur, il cui punto di partenza su tali questioni è da ricondursi alla riflessione di Trotzky e del trotzkismo, è del tutto evidente la natura non socialista dell’URSS, come anche l’impossibilità di qualificare quell’esperienza come capitalistica tout court, a causa della inoperatività della legge del valore. E’ d’altra parte chiaro che pure l’opposizione, affermata da Trotzky, tra una base “materiale” relativamente avanzata e una struttura politica “degenerata” non sta in piedi. In dialogo critico con Krassò, Hillel Ticktin, e Mészáros, la tesi di Arthur è che il fallimento del socialismo reale è dovuto, in primo luogo, al fatto che è stata distrutta la forma del capitale, ma se ne è mantenuta la base materiale. La significatività del saggio di Arthur nasce dal fatto che il problema pratico della “transizione”, ma quindi anche delle categorie con cui interpretarla e portarla avanti, non potrà non riproporsi in futuro. [R. B.]


E' importante comprendere il “crollo” dell’Urss perché il dibattito sulla natura dell’Unione Sovietica riguarda ancora la teoria e la pratica socialiste. L’analisi del socialismo non-più-realizzato ha un significato generale dal momento che, chiaramente, la lezione che se ne può trarre non riguarda unicamente la situazione russa ma è rilevante per la teoria e la pratica della transizione in generale. Infatti, essa rende più pressante una domanda: cosa è richiesto per un reale e permanente superamento del capitalismo? Chiunque sia interessato a tale questione deve imparare dalla lezione di questo tentativo fallito, e chiunque si dica marxista deve dare conto di “cosa è andato storto”, in coerenza con la teoria marxista stessa1 . Nella seconda parte di questo scritto, abbozzo alcune considerazioni su questi problemi. Nella terza parte, prendo in considerazione le opinioni di Istvàn Mészàros, contenute nel suo più voluminoso lavoro, Beyond Capital (Oltre il capitale). Ma per prima cosa fissiamo la scena per la nostra analisi della transizione dal capitalismo all’Urss, affrontando la questione della dialettica tra forma e contenuto. 

1. E’ per prima cosa necessario distinguere tra materia e forma, da un parte, e contenuto e forma, dall’altra. Se ricavo dall’impasto del pane di zenzero un uomo, la pasta è la materia dalla quale la forma è tratta, ma non è un contenuto; la stessa forma potrebbe essere ricavata da un qualsiasi materiale manipolabile; la materia è indifferente alla forma che le viene esternamente imposta (un caso più interessante è costituito dalla forma logica di una proposizione indipendente dalle variabili contenute in essa). Stiamo dunque parlando qui di due parti indifferentemente unite2 . Abbiamo invece un caso di forma e contenuto, quando le due parti si compenetrano vicendevolmente, al punto che solo una determinata forma si adatta a un particolare contenuto. E’ il caso di un libro in cui i contenuti devono prendere la forma di una sistemazione ordinata, ma nel quale ciò che conta, come ordine, non è determinato da considerazioni puramente formali, essendo esso stesso funzione del contenuto; per esempio, certe frasi funzionano come inizio (c’era una volta) e altre come fine (e vissero tutti felici e contenti). Al contrario, un mucchio di ritagli di un libro rappresenta soltanto la sua materia e non funziona più come contenuto, con buona pace di William Burroughs. I ritagli devono essere di nuovo assemblati, se non da Burroughs, allora dal lettore.

Applichiamo queste categorie alla storia del capitalismo. Il capitale, dal lato della forma, è valore che si autovalorizza; ma ai fini di questa discussione il processo di valorizzazione può essere considerato come racchiuso nel processo materiale di produzione e, quest’ultimo, trattato come un contenuto che prende la forma dell’autoriproduzione del capitale, attraverso l’appropriazione di pluslavoro. Si dice spesso che il capitale precede il capitalismo, intendendo in tal modo che il capitale industriale è preceduto da altre forme di capitale. Sebbene sia lo stesso Marx a sostenerlo, almeno una volta (nei Manoscritti del 1861-63) egli ha riconosciuto che, strictu sensu, ciò è falso perché non si può parlare di capitale in base alla pura e semplice forma priva di un adeguato contenuto.

«Il denaro può essere prestato per scopi produttivi, quindi formalmente come capitale, sebbene il capitale non abbia ancora preso il controllo della produzione, non ci sia ancora alcuna produzione capitalistica, quindi nessun capitale esista nel senso proprio della parola […] Come ricchezza mercantile esso ha bisogno di essere solo formalmente capitale, capitale in una funzione in cui può esistere prima di aver preso il controllo della produzione; soltanto quest’ultimo capitale è la base di una sua specifica forma storica della produzione sociale»3 .

Solo e soltanto in quest’ultima forma il capitale ottiene un adeguato contenuto. Il capitale mercantile e quello da prestito hanno la forma del valore che si autovalorizza ma mancano di un adeguato contenuto. Il mercante trae certamente un profitto dalla circolazione delle merci, ma non producendo egli stesso queste merci, la “materia” di tale processo di valorizzazione gli è data esternamente4 . Con il capitale industriale, l’unità di forma e materia è, all’inizio, ancora alquanto estrinseca, nella misura in cui il processo materiale di produzione è quello ereditato dal passato e solo formalmente sussunto sotto le categorie del capitale. Comunque, come ha mostrato Marx, la sussunzione reale del processo di produzione inizia quando non è più possibile, per il capitale, utilizzare le sue forme precapitalistiche; quando l’artigiano indipendente è ridotto a mera funzione nell’ambito del “lavoratore collettivo” organizzato dal capitale, e quando la scala e l’intensità della produzione risultano determinate dalle necessità della grande industria. In sintesi, il capitale come forma (valore che si autovalorizza) produce da se stesso un contenuto adeguato: il sistema di fabbrica. La chiave è rappresentata dalla subordinazione dei lavoratori, attraverso la riorganizzazione della divisione del lavoro e la costruzione di un gerarchia di controllo. Solo quando la forma e il contenuto di un modo di produzione sono perfettamente complementari si può parlare di un “sistema organico”5 , di un “ricambio organico sociale” (cosa che sarà importante quando ci occuperemo del contributo di Mészàros ). Il conflitto tra forma e contenuto implica declino e necessità oggettiva di un superamento.

Vediamo cosa Marx ha da dire a proposito della nozione di “ricambio organico”, a partire dalla più semplice delle idee, da lui introdotta proprio all’inizio de Il capitale: «Il lavoro […] è una necessità eterna della natura che ha la funzione di mediare il ricambio organico [Stoffwechsel] fra l’uomo e la natura, cioè la vita degli uomini»6 . Non sorprende che lo stesso tema sia trattato più a lungo nel capitolo sul processo lavorativo7 . Il concetto qui si riferisce all’immediata vita materiale degli esseri umani che lavorano trasformando la natura; e, nel capitolo sul processo lavorativo, Marx considera ciò senza riferimento ad alcuna forma sociale, come per esempio lo scambio. Comunque lo scambio introduce lo Stoffwechsel in una dimensione sociale definita perché nella produzione di merci (società mercantile) nessun consumo materiale è possibile, se prima il prodotto non cambia di mano nella forma di merce. Marx sostiene: «Dunque dobbiamo considerare tutto il processo dal lato della forma, cioè soltanto il cambiamento di forma [Formwechsel], ossia la metamorfosi della merci, che funge da mediatrice nel ricambio organico sociale [Stoffwechsel]»8 . E poco oltre parla del Formwechsel, nel quale si compie il Stoffwechsel dei prodotti del lavoro9 . L’enfasi qui non è posta sulla relazione tra “uomo e natura” ma sullo scambio di prodotti tra “uomo e uomo”, mediato attraverso la forma sociale della circolazione.

Questi due aspetti del ricambio organico sociale sono dialetticamente integrati nel processo di produzione e circolazione capitalistica, una questione esplorata per la prima volta nei Grundrisse: «Nella circolazione del capitale abbiamo […] un sistema di scambi [che] costituisce un ricambio materiale [Stoffwechsel] se si guarda al valore d’uso, un ricambio formale [Formwechsel] se si guarda al valore in quanto tale»10. Nel secondo volume de Il capitale, nella prima parte dedicata alle «Metamorfosi del Capitale», Marx ritorna su questo tema, dimostrando che l’unità del cambiamento nella materia, effettuato nella produzione, con lo scambio di materia nella circolazione si realizza nel ciclo di forme del capitale, e cioè nel capitale monetario, nel capitale produttivo, nel capitale merce. «Entro il ciclo del capitale […] si compie il cambiamento di sostanza [Stoffwechsel] del lavoro sociale»11. Finalmente, nell’ultima parte del secondo volume, Marx mostra che il sistema di riproduzione, abbracciando la metamorfosi formale e materiale tra le «Sezioni», costituisce il ricambio organico sociale dell’intera economia capitalistica che contiene, come suoi “momenti” interni, la produzione, lo scambio e il consumo.

L’indagine su questi scambi simultanei è fondamentale per il segreto del valore e del valore d’uso, e per la loro interpretazione. In particolare si deve qui parlare di “determinazione formale”: il capitale va oltre la mera forma nel suo penetrare (piuttosto che contrapporsi astrattamente a) la materia, che viene ordinata al fine di darle forma nel suo stesso contenuto (nella sussunzione reale del lavoro per esempio). La valorizzazione è qualcosa che può essere scoperta in una fabbrica, non più di quanto il valore possa essere rintracciato in una merce, ma ciò rappresenta nondimeno la chiave per comprendere cosa stia accadendo.

Il problema teorico che si affronta nel chiarire correttamente l’effettualità della determinazione formale e materiale è quello di concettualizzare come quei processi che Marx chiama Formwechsel e Stoffwechsel lavorino insieme in un sistema unificato di ricambio organico sociale capitalistico. Questo punto non viene colto da quei “materialisti” come G. Stedman Jones, che scrivono sul “New Palgrawe” articoli sul «ragionamento dialettico».

«La relazione tra materia e forma in Hegel ha solo apparentemente un carattere di esteriorità. La materia si relaziona alla forma come altro da essa, soltanto perché non è ancora posta al suo interno. Una volta che i termini sono messi in relazione sono dichiarati identici. Marx, d’altra parte, insiste sull’irriducibile differenza tra materia e forma, tra materiale e sociale […] Non solo materia e forma sono differenti, ma l’una determina l’altra: il valore è determinato nella sua relazione con la produzione materiale del valore d’uso, mentre l’opposto non è vero»12.

Ci deve essere qualcosa di sbagliato nell’ultima frase di questo brano. Il valore non può saltare fuori da alcun ammontare di valori d’uso, né dal processo della loro produzione. Allora, come si può concepire il valore determinato dal valore d’uso? Il capitale crea valore in virtù di una forma sui generis. Naturalmente, per Marx, è il tempo di lavoro relativo che determina il valore relativo, ma il valore come forma è chiaramente costituito nello scambio; nella misura in cui la concezione marxiana a proposito delle grandezze relative è accettata, è la forma di valore del capitale stesso che determina il tempo di lavoro quale necessaria dimensione del suo contenuto. Ciò che manca a Stedman Jones è il concetto di mediazione, un’unità di opposti che tenga i due lati distinti, come egli sostiene, ma permetta che essi si diano forma l’un l’altro, e non già che uno sia riducibile all’altro o piuttosto a suo mero epifenomeno. La distinzione tra determinazione formale e materiale e la loro unità deve essere tenuta in considerazione13. La prima, “idealmente”, dà senso e finalità, mentre la seconda condiziona la prima attraverso le potenzialità e i limiti della materia implicata.

Senza l’esistenza storicamente reale della forza lavoro e della struttura delle relazioni sociali capitalistiche che assicura il suo sfruttamento, non ci sarebbe alcun autoaccrescimento del capitale. Ma Marx studia anche la logica delle forme sociali, come lo scambio, la moneta e il capitale. Queste forme reali hanno una loro specifica effettualità, mentre invece, nel resoconto di Stedman Jones, tutto il peso ricade sul contenuto materiale regolato e diretto da queste forme. Se è vero che le forme non possono realizzare il loro potenziale logico senza un supporto materiale (non c’è nessun plusvalore senza lo sfruttamento del lavoro), è altrettanto vero che la potenza materiale non si realizza senza la costrizione esercitata dalla forma sociale. E’ il capitale che domanda continuamente la riduzione al tempo di lavoro socialmente necessario. Concludendo, una piena considerazione della valorizzazione richiede sia la spiegazione formale sia quella materiale.

Il punto centrale è che la determinazione formale del capitale, quale valore che intrinsecamente si autoaccresce all’infinito, rende il capitalismo completamente differente da ogni altro modo di produzione. In tutti i modi di produzione è possibile migliorare la produttività del lavoro e qualsivoglia modalità di sfruttamento dipende da un qualche modo di “succhiare” lavoro eccedente. Soltanto il capitale, proprio dal punto di vista formale, è spinto ad accumulare “ricchezza”. Il capitale è un’originale unità di forma e contenuto, nel senso che la forma ha una sorta di unica effettualità che sorge dal suo carattere di pura automediazione, assegnatogli nell’astrazione dello scambio. La seguente citazione di Marx dà una qualche idea di ciò, enfatizzando la forma-valore, piuttosto che la cosiddetta “sostanza”.

«Per sviluppare il concetto di capitale, occorre prendere le mosse non dal lavoro ma dal valore, o meglio dal valore di scambio già sviluppato nel movimento della circolazione. E’ altrettanto impossibile passare direttamente dal lavoro al capitale, quanto lo è passare direttamente dalle diverse razze umane al banchiere»14.

Naturalmente, la sistematica valorizzazione del capitale dipende dalla sua immersione nella produzione e dall’appropriazione del lavoro; ma il lavoro non prende “naturalmente” la forma di valore (di qui l’impossibilità di partire dal lavoro). Valore che, in realtà, sorge altrove e viene imposto al lavoro stesso. In virtù della sua forma, il capitale è impegnato in una tensione senza fine verso l’accumulazione, ma la sua autodeterminazione all’accumulazione è limitata dal suo dipendere dal lavoro e dalla terra, quali input del processo di produzione. Ma, come sappiamo da Marx, il capitale per prima cosa sussume formalmente questi fattori e dopo subordina il lavoro e le macchine ai suoi fini, attraverso la loro trasformazione e riorganizzazione (sussunzione reale).

Che cos’è il capitale? E’ valore in processo. Esso prende, prima, la forma di denaro, poi, dei fattori della produzione, quindi di merce, infine di più denaro. Da dove viene questo “più”? Dal processo di produzione, in cui la valorizzazione del capitale ha luogo. A livello ideale, il capitale è valore che si autovalorizza. A livello materiale, è drenaggio di lavoro in eccesso nel sistema delle fabbriche. In senso proprio possiamo parlare di un’organizzazione costruita per compiere proprio questa operazione, intesa come la materializzazione del capitale (così come la fila incatenata di lavoratori rappresenta la materializzazione della schiavitù).

Marx chiarisce il punto nei suoi Grundrisse, utilizzando i termini già discussi di materia e forma:

«Nella macchina, e ancor più nel macchinario come sistema automatico, il mezzo di lavoro è trasformato, dal punto di vista del suo valore d’uso, cioè della sua esistenza materiale, in un’esistenza adeguata al capitale fisso e al capitale in generale, e la forma in cui esso è stato assunto come mezzo di lavoro immediato nel processo di produzione del capitale è superata in una forma posta dal capitale stesso e ad esso corrispondente […].
L’appropriazione del lavoro vivo ad opera del lavoro oggettivato - della forza o attività valorizzante ad opera del valore per se stante - che è nel concetto stesso del capitale, è posta, nella produzione basata sulle macchine, come carattere del processo di produzione stesso, anche dal punto di vista dei suoi elementi materiali e del suo movimento materiale […].
Lo sviluppo del mezzo di lavoro in macchine non è accidentale, per il capitale, ma è la trasformazione e conversione storica del mezzo di lavoro ereditato dalla tradizione, in forma adeguata al capitale»15.

2. Volgiamo ora la nostra attenzione al sistema postrivoluzionario che affermava di aver superato il capitalismo, in breve al “modello sovietico”. 
Per ciò che riguarda la forma sociale, il capitalismo nell’Urss fu distrutto. Non ha senso parlare di quel sistema come se in esso ci fosse stato il valore, il plusvalore, o l’accumulazione di capitale (dovrebbe essere evidente che lo sviluppo dell’industria pesante non è di per sé un segno di accumulazione di capitale). C’era la forma di prezzo, di salario, ma ciò non comportava in alcun modo l’apparizione della forma di valore; essendo prezzi e salari fissati nell’ambito di un sistema totalmente amministrato (sebbene, ovviamente, tali forme possano fornire un punto di passaggio al capitalismo, quando le condizioni politiche pongono ciò all’ordine del giorno, come accade attualmente)». 

Ciò che rimane, comunque, è la materializzazione del capitale, cioè il sistema di fabbrica. Per varie ragioni storiche, questo non è mai stato messo in dubbio: il socialismo è stato proclamato, senza un radicale superamento dell’incarnazione materiale del capitale. Quindi la fabbrica globale, nell’Urss, è partita da questo modello capitalistico. Il suo elemento chiave è la divisione gerarchica del lavoro, che va da coloro che in basso eseguono gli ordini degli altri, su su, fino a quelli che sono impegnati nella definizione dei piani quinquennali. L’intera configurazione umana e materiale della tecnica capitalistica è stata riprodotta. Ma senza l’oggettiva regolazione economica della misura del valore. Una fabbrica non è di per sé un modo di produzione. Essa deve essere ulteriormente determinata dalla forma sociale che la regola. Dal momento che il sistema di fabbrica è stato fissato nell’ambito dello sviluppo capitalistico, separare dal capitale, quale forma sociale, questo contenuto significa fargli perdere, per l’appunto, il carattere di contenuto e farlo diventare la fondazione materiale di un nuovo ordine. La grande differenza, rispetto al capitalismo, è la mancanza di una regolazione oggettiva da parte del valore, il che lascia il meccanismo senza uno stimolo motore; per esempio, non c’è nessuna spinta oggettiva all’accumulazione di capitale. Per di più, privi della continua regolazione capitalistica, questi presupposti materiali cessano di essere riprodotti dal capitale, quali suoi stessi presupposti, e quindi diventano soggetti ad una sorta di deriva – non a caso, sotto molti aspetti, le fabbriche sovietiche diventano diverse da quelle capitalistiche (vedi lo studio informativo di Ticktin, Filtzer, Arnot and Füredi)16. 

Che cosa era questa nuova forma sociale? Non era certamente socialismo. Piuttosto, la necessità di una qualche direzione da parte della base materiale ereditata portò, con una rapidità straordinaria, a una dittatura burocratica. Come ha sottolineato Ticktin, parlare qui di un’economia pianificata è veramente troppo approssimativo, considerando che un elementare sistema informativo e di monitoraggio non esisteva, a causa dell’antagonismo tra pianificatori e pianificati; al più, si può parlare di un’economia amministrata, in cui ogni dirigente d’impresa e ogni lavoratore sopravviveva come meglio poteva. Se ci fosse stata una reale pianificazione, avremmo avuto una buona corrispondenza tra forma e contenuto e il sistema sarebbe sopravvissuto. Il disordine è nato proprio perché la materializzazione del capitale era libera dal controllo capitalistico, senza che nessun sistema di ricambio organico sociale potesse attecchire e trasformare, più o meno rapidamente, in modo radicale la base materiale dell’economia. Non essendoci né il capitalismo né il socialismo, in Urss è mancata dunque una coerenza organica. Secondo Ticktin 

«c’è soltanto il capitalismo e la sua essenza, la legge del valore, e il socialismo con la sua essenza, la legge della pianificazione: qualunque cosa stia nel mezzo […] è privo di qualsivoglia sostanza o norma, a parte quella della sua nascita e del suo declino»17. 

Questo carattere paradossale è espresso da Ticktin, quando dice che non c’era proprio nessun modo di produzione (a fortiori né “capitalismo di stato” né “collettivismo burocratico”). Le direttive fatte applicare attraverso meccanismi politici erano incapaci di controllare le fabbriche in modo tale da promuovere uno sviluppo stabile e permanente delle forze produttive. 

Lenin (sorprendentemente, per un pensatore politico di tale levatura) era entusiasta dello scientific management introdotto teoricamente da Taylor e praticamente da Ford. Ma la verità è che il taylorismo non è mai stato applicato in Urss! (Lo Stakhanovismo, oltre ad essere una pura trovata pubblicitaria, non era scientifico, nel senso che Taylor attribuiva a questa parola). I Soviet non hanno avuto alcuna obiezione teorica a tale proposito, volevano applicare lo scientific management, ma non sono stati in grado di farlo perché la produzione era governata da una forma sociale non capitalistica. Non è stato possibile applicarlo in Urss perché esso era fatto su misura per il capitalismo; non è riducibile, come Lenin sembra aver immaginato, ad un corpo di conoscenze neutrale. Per di più Taylor si rivolterebbe nella tomba se qualcuno osasse associare il suo nome ad un’industria come quella sovietica, caratterizzata da una grossolana sovrautilizzazione di uomini. La Fiat ha costruito una fabbrica per i Soviet, che ha impiegato il quadruplo dei lavoratori per produrre esattamente quanto la stessa fabbrica in Italia. Il sistema sovietico non era fatto per risparmiare lavoro, ma per ammassarlo. Ovviamente, essendo illegale licenziare i lavoratori, i manager non avevano molto interesse a risparmiare tempo di lavoro. Essi non potevano inoltre organizzare una produzione just in time, perché in Urss le forniture non arrivavano mai in tempo. Quindi, era importante ammassare riserve di magazzino per fronteggiare la scarsità di forniture per periodi più o meno lunghi. Così la produzione sovietica ha lavorato sulla base di un sistema “never in time”; la maggior parte del mese era occupata nel mettere in ordine il macchinario e nel ritirare gli input della produzione; poi, per raggiungere l’obbiettivo mensile, la fabbrica veniva impegnata in un processo chiamato “assalto”, durante il quale tutte le persone disponibili lavoravano fino allo stremo delle forze; in seguito arrivava un’altra pausa e così via. I manager, infatti, accumulavano forza-lavoro per far fronte, in eventuali periodi di “assalto”, alle scadenze richieste. Non penso proprio che Taylor avrebbe chiamato tutto questo scientific magement

Certamente i lavoratori non gradivano affatto né il ciondolare nel far niente, né l’“assalto”. E i consumatori scoprivano che i prodotti dell’“assalto” erano difettosi. In sintesi il taylorismo non ha alcun senso quando i posti di lavoro sono garantiti. L’inefficienza del sistema di pianificazione centrale, sommato all’assenza del mercato, ha prodotto una paradossale regressione nella divisione sociale del lavoro. Füredi spiega: 

«Per rispondere ai problemi causati dall’assenza di una regolazione economica, le singole unità produttive si sforzano di attuare misure di autosufficienza. Così, invece di una reciprocamente benefica divisione del lavoro tra imprese, industrie e regioni, si verifica una tendenziale riproduzione della divisione del lavoro all’interno di ogni singolo settore produttivo»18. 

Si è quindi determinata una produzione inefficiente e una frammentazione dell’economia. Dal momento che «l’obiettivo di ogni direttore di impresa è quello di limitare al minimo la dipendenza dalla divisione complessiva del lavoro, per avere la più alta probabilità di raggiungere i risultati imposti centralmente»19, le risorse venivano nascoste ai pianificatori, con il risultato che questi ultimi non potevano programmare alcunché efficacemente, non conoscendo l’allocazione dei fattori produttivi. 

Ho sostenuto, sulla scia di Hillel Ticktin, che non c’era nessun modo di produzione in Urss. Questa definizione puramente negativa descrive unicamente una cambiale che condurrà alla bancarotta. Vorrei ora provare a dare maggiore sostanza alla teoria. Che cos’è un modo di produzione? E’ una combinazione stabile e relativamente armoniosa di forma sociale e contenuto materiale. Nel brillante aforisma di Marx «il mulino a mano ci dà la società con il signore feudale, il mulino a vapore la società con il capitalista industriale». Si deve comprendere che, nella combinazione, gli elementi non sono indifferenti l’un l’altro, né essi esibiscono una surdeterminazione unilaterale (il passaggio di Marx è stato erroneamente letto come determinismo tecnologico), piuttosto sono dialetticamente interrelati. Solo questa determinata forma adegua e sviluppa questo particolare contenuto, solo questo contenuto contiene e riproduce materialmente questa forma. Così è la forma sociale del capitale che, tendendo alla competizione e alla riproduzione allargata, fa scaturire la macchina a vapore; e questa, con la sua enorme spinta alla produttività del lavoro, permette al capitalismo di soppiantare le forme produttive precedenti. Se la forma sociale e il contenuto materiale entrano in collisione ciò comporta la nascita di grossi problemi. Per esempio, siamo convinti che la crescente socializzazione delle forze produttive e il processo di associazione del lavoro si rivelerà incompatibile con il loro involucro capitalistico. 

Ciò che sostengo è che i rapporti di produzione in Urss hanno sempre sofferto per un’incoerenza tra forma e contenuto. L’Urss era un mostro destinato all’aborto spontaneo. Il problema non è slegato dai suoi infausti inizi. Senza considerare la pur molto discussa dimensione politica, l’isolamento non ha permesso all’Urss di acquisire quelle competenze umane e tecniche che avrebbero potuto evitare la semplice riproduzione della tecnologia capitalistica. Ma quando la fabbrica è trasportata in una forma sociale affatto differente, caratterizzata dall’assenza della logica capitalistica e dall’impiego garantito, la produttività si va a far benedire, lo sfruttamento diviene inefficiente e il controllo deve essere esercitato in un nuovo modo, per esempio attraverso un apparato burocratico sorretto da uno stato di polizia. Questo apparato fu dunque rinforzato e riprodotto, perché la burocrazia emergente optò per il mantenimento della propria posizione alla testa della struttura gerarchica di comando. 

La crescita della ricchezza sociale fa parte degli interessi del capitalista, ma non di quelli del burocrate. Adam Smith ha mostrato molto tempo fa che il capitalista reca benefici alla società, soltanto attraverso il perseguimento del proprio interesse particolare. L’interesse del lavoratore, comunque, non è connesso con altrettanta autoevidenza alla ricchezza sociale; raddoppiare la produttività è nell’immediato interesse del capitalista ma lascia disoccupata metà della forza lavoro. Ora l’apologeta borghese può sostenere che un incremento della ricchezza sociale causerà in qualche modo la nascita di nuove industrie che reimpiegheranno queste persone; ma questo legame causale è così indiretto che non si può esimersi dal “giustificare” i lavoratori che cercano di mantenere il loro vecchio posto di lavoro. I sostenitori del socialismo hanno sempre affermato che, lavorando per se stessi, i lavoratori avrebbero interesse ad incrementare la produzione e ciò renderebbe possibile una riorganizzazione tecnologica della fabbrica, capace di ottenere tutti i vantaggi da questo interesse. Ma nell’Urss le fabbriche non prevedevano nessuna remunerazione per l’iniziativa dei lavoratori. In ogni caso, l’esclusione di questi dal controllo del surplus non garantiva alcun vantaggio a favore di quelli fra essi che si assumevano tale impegno, o delle loro famiglie. Questa condizione non era poi così diversa da quella riscontrabile nel capitalismo. Ma di fatto peggiore, perché il singolo burocrate non aveva alcun interesse personale immediato nell’incremento della ricchezza sociale. Bisogna ricordare che non c’era alcun azionista delle industrie sotto il loro controllo. Le ricompense dei burocrati dipendevano dagli appoggio politici. Di qui la resistenza all’innovazione, la tendenza allo “scarica barile” e alla colpevolizzazione degli altri quando le cose andavano male, l’inaudita concentrazione di uomini e di cose, per premunirsi da futuri periodi di “assalto”. Un burocrate vuole per prima cosa una vita tranquilla. Tutto ciò che è accaduto non è stato causato dall’adozione del taylorismo, ma dalla necessità di mantenere le distinzioni sociali per giustificare i privilegi burocratici e per prevenire l’autorganizzazione dei lavoratori. 

Se torniamo al problema fondamentale, non dobbiamo iniziare l’analisi dalla forma dello stato, ma dalla forma della produzione. Non avevamo a che fare né con la produzione per il profitto, né con quella per il bisogno; si trattava di una produzione per obiettivi fissati esternamente alla logica del processo produttivo stesso. Nessuno dei piani quinquennali ha mai avuto successo e ogni anno si è dovuto procedere ad una drastica riformulazione di essi. I cosiddetti piani non avevano alcun senso, dal momento che le informazioni disponibili erano fortemente falsificate dalle distorsioni del sistema politico. E quando il piano era eseguito, ciò avveniva solo formalmente e non nella sostanza. Lo stato interferiva nell’economia, ma il sistema non regolava se stesso secondo una qualche logica interna alla sua capacità produttiva. Così, il ben noto fenomeno della rapida espansione dei fattori base della produzione, seguita dalla cronica paralisi, in corrispondenza della richiesta di diversi prodotti sofisticati, non dovrebbe essere interpretato come effetto di qualche legge economica, ma come segno di mancanza di una qualsiasi legge. Una combinazione di fattori precipuamente politici (coercizione e entusiasmo volontaristico) ha risollevato la situazione, ma la mancata affermazione di un nuovo modo di produzione non ha permesso il funzionamento del sistema dopo il graduale affievolirsi di queste pressioni politiche20. 

Sebbene la gestione generale dei beni fosse difettosa, il sistema era capace di dare priorità all’allocazione di materiali, macchine e uomini per certi usi - per questo il sistema funzionava in periodo di guerra e la concentrazione di risorse scarse e dei migliori talenti nel settore degli armamenti è stato capace, ad esempio, di produrre lo Sputnik (naturalmente la pressione esterna dell’imperialismo ha determinato questa priorità, in un sistema che altrimenti avrebbe potuto preoccuparsi maggiormente per alcuni strati della popolazione). Mentre la crescita estensiva procedeva in modo considerevole, produceva al contempo enormi sprechi; il problema cruciale rimaneva, dunque, la crescita intensiva. Qui menzioniamo un solo problema: come poteva la forza produttiva intellettuale essere sviluppata su ampia scala, se le masse non erano fornite degli ausili più elementari come fotocopiatrici od altro? 

Per rendere più plausibile l’affermazione che in Urss non esisteva alcun modo di produzione, seguiamo Ernest Mandel nella sua distinzione tra specifici rapporti di produzione, propri di ogni forma sociale, e modo di produzione. Si tratta di un punto essenziale per comprendere la distinzione tra le fasi di transizione e i grandi «stadi progressivi» della storia delineati da Marx21. Un modo di produzione è un tutto organico che riproduce se stesso quasi automaticamente. Esso può essere sostituito solo con una violenta rivoluzione sociale. 


«Al contrario, proprio a causa del loro carattere complessivamente ibrido, i rapporti di produzione di una società in transizione da un modo di produzione ad un altro possono decomporsi motu propriu ed evolvere in varie direzioni, senza esperire necessariamente sconvolgimenti rivoluzionari simili alle rivoluzioni sociali, necessarie per il passaggio da un modo di produzione ad un altro»22.



C’erano dunque rapporti di produzione di un qualche tipo, ma non un ricambio organico sociale tipico di un sistema organico. 

L’intera vicenda mostra la saggezza della prospettiva marxiana, a proposito del predominio dell’economico sul politico. L’élite voleva essere una vera e propria classe dirigente e sembrava possedere tutto il potere che si possa desiderare, con il Kgb, i Gulag e gli uomini del partito addomesticati a milioni, ma non poteva fare affidamento sulla produzione; poteva sfornare i suoi “piani”, “decreti”, “ordini”, “riforme”, ma non era in grado di distribuire i beni - la verità è tutta qui. 

Per sintetizzare questo abbozzo storiografico: la forma capitalistica è emersa nel periodo precapitalistico; nel periodo capitalistico si è impadronita della produzione e ha plasmato questa materia, trasformandola in un contenuto a lei adeguato; nel periodo postcapitalistico si è estinta senza la trasformazione radicale dei suoi presupposti materiali; questi sono stati, invece, semplicemente amministrati nell’ambito di nuovi rapporti sociali, determinando un processo di deformazione delle stesse basi materiali, nel contesto di un continuo conflitto tra la forma e la materia, incapace di raggiungere una nuova organicità23. 

3. Nella parte finale di questo scritto analizzo da vicino un nuovo libro, poderosamente argomentato, di Istvàn Mészàros, che contiene una teoria della transizione meritevole di essere discussa per se stessa e anche per illustrare ulteriormente la mia posizione sull’Unione Sovietica che si sovrappone a quella di tale autore24. 

Pur riaffermando la necessità di un’alternativa socialista, Mészàros indaga le ragioni del collasso dell’Urss. Egli dice che 

«la tragedia delle società postcapitalistiche di tipo sovietico consiste nell’aver perseguito la linea di minor resistenza, attraverso l’instaurazione del socialismo, senza un radicale superamento dei presupposti materiali del sistema capitalistico. [… Al contrario] l’abbattimento dello stato capitalistico, così come l’“espropriazione degli espropriatori”, è stato sempre considerato da Marx soltanto come la condizione negativa e dunque il primo passo necessario nella direzione della trasformazione socialista perseguita». 

Marx ha insistito sul carattere intrinsecamente positivo dell’alternativa egemonica all’ordine sociale del capitale. Per questo la rivoluzione socialista non può essere concepita come un singolo atto, per quanto radicale nelle intenzioni, ma soltanto come un processo di trasformazione sociale costantemente autocritico, e cioè come la marxiana «rivoluzione permanente», conclude Mészàros25. L’obiettivo è costruire un’economia controllata dai “produttori associati” (autogestita), che ponga considerazioni di ordine qualitativo al di sopra delle misure quantitative. 

Come indica lo stesso titolo, la tesi centrale del libro afferma la necessità di andare non soltanto oltre il capitalismo, ma oltre il capitale stesso26. Molto dipende dalla coerenza di questa distinzione, quindi. In particolare essa è utilizzata per definire il sistema produttivo di tipo sovietico come «postcapitalista» sebbene ancora sotto l’influenza del «capitale». Ciò è sottolineato in un affascinate capitolo sulle «mutevoli forme del dominio capitalistico». La sua esposizione riconosce che 

«a Marx non interessava mostrare le deficienze della “produzione capitalistica”, ma realizzare il grandioso compito storico della liberazione del genere umano dalle condizioni che “la produzione di capitale” impone alla soddisfazione dei bisogni dell’uomo»27. 

Il ricambio organico del capitale, basato sul dominio del lavoro alienato, sulla prevalenza del valore di scambio sul valore d’uso e sulla divisione gerarchica del lavoro, è guidato dall’imperativo dell’espansione. Trattandosi di un sistema con una sua logica e coerenza interne, non può essere cambiato senza affrontare questo ricambio organico di base e trasformarlo; affaccendandosi con fenomeni di superficie (come l’ordine giuridico) non si cambieranno mai tali fondamenti. Così Mészàros sostiene che, senza una trascendenza positiva del ricambio organico capitalistico, 
«il lavoro stesso si condanna da solo alla sconfitta continuando a riprodurre contro se stesso il potere del capitale»28. 
Mészàros conclude che 

«l’obiettivo reale della trasformazione emancipatrice è il completo sradicamento del capitale, quale modalità totalizzante di controllo, dal ricambio organico stesso della riproduzione sociale e non la semplice rimozione dei capitalisti nella loro specifica funzione storica di “personificazione del capitale”»29. 
«Puoi rovesciare il capitalista, ma il sistema di fabbrica rimane, la divisione del lavoro rimane, niente è cambiato nel funzionamento metabolico della società. Infatti si riafferma la necessità di stabilire forme di controllo sulle persone, ed ecco nascere la burocrazia. La burocrazia è una funzione di questa struttura di comando sotto mutate circostanze: in assenza del capitalista privato occorre trovare un equivalente a quel controllo. Molto spesso la burocrazia è tirata fuori come un deus ex machina che tutto spiega. [… Ma] la burocrazia stessa va spiegata. E’ stato detto che sbarazzarsi della burocrazia significherebbe mettere tutte le cose a posto. Ma non ci si può sbarazzare della burocrazia finché non si attacca la sua fondazione economica»30. 

In una sua versione, la distinzione tra capitale e capitalismo ci è già familiare; in base ad essa è un luogo comune affermare che i mercanti e gli usurai hanno impiegato il denaro come capitale prima di impadronirsi della produzione e di instaurare il moderno sistema del capitalismo industriale. Ma è nuova l’argomentazione per cui il capitale può sopravvivere al capitalismo. Così, per prima cosa, prendiamo in considerazione la definizione di capitalismo: Mészàros sostiene che la formazione capitalista copre soltanto quelle particolari fasi della produzione capitalistica nelle quali: 

1. la produzione per lo scambio è assolutamente dominante; 
2. la forza-lavoro stessa è una merce; 
3. la ricerca del profitto è il regolatore fondamentale; 
4. il meccanismo vitale per l’estrazione di plusvalore, la radicale separazione dei mezzi di produzione dai produttori, assume una forma intrinsecamente economica; 
5. il plusvalore è appropriato privatamente dai membri della classe capitalistica; 
6. la produzione capitalistica tende verso un’integrazione globale, seguendo il suo imperativo economico della crescita e dell’espansione31. 

In base a questa definizione, secondo Mészàros, non si può 

«parlare di capitalismo nelle società postrivoluzionarie, dal momento che permane soltanto una di queste essenziali caratteristiche definitorie - la quarta - in una forma, per di più, radicalmente alterata, essendo l’estrazione del plusvalore regolata politicamente e non economicamente»32. 

Ma allo stesso tempo Mészàros sostiene che il capitale, in queste società postrivoluzionarie, mantiene il suo ruolo. Quale può dunque essere una definizione di “capitale” coerente con tale sopravvivenza? Egli afferma che le condizioni necessarie per parlare di tutte le forme possibili del rapporto di capitale - comprese quelle postcapitalistiche- sono: 

1. la separazione e l’alienazione delle condizioni materiali del processo lavorativo, dal lavoro stesso; 2. l’imposizione di tali condizioni alienate, ai lavoratori, nella forma di un potere separato che esercita il comando sul lavoro; 
3. la personificazione del capitale quale «valore egoistico»33 che persegue la sua propria autoespansione - il burocrate è l’equivalente postcapitalistico del capitalista privato; 
4. l’equivalente personificazione del lavoro, o come lavoratore salariato sotto il capitalismo, o come «lavoratore socialista» che realizza gli obiettivi impostigli sotto il sistema postcapitalistico. 

«Il capitale può cambiare la forma del suo dominio finché queste quattro condizioni basilari - costitutive del suo “sistema organico” - non sono radicalmente superate», conclude Mészàros34. Ma aggiunge che, poiché, nelle società postcapitalistiche che abbiamo conosciuto, la divisione del lavoro e la struttura oggettiva della produzione precedenti erano state mantenute, il capitale in questo senso, in esse, permaneva ancora35. 

Il nuovo concetto-chiave introdotto da Mészàros, dunque, è la distinzione tra capitale e capitalismo. Come ho già detto, in qualche modo questa idea non è del tutto nuova per chi ha familiarità con quanto dice Marx, a proposito del capitale che precede il capitalismo. Mészàros la sfrutta per mostrare, in via preliminare, la plausibilità della sua tesi, che sostiene la possibilità della sopravvivenza del capitale oltre il capitalismo. 

Vale la pena di sottolineare che la presenza di tali formazioni precapitalistiche, in realtà, rappresenta un’obiezione alla sua tesi. E ciò per due motivi. In primo luogo il capitale che precede il capitalismo non è egemonico. Il ricambio organico sociale era regolato in gran parte da categorie non-capitalistiche; allo stesso modo, il capitale che si suppone sopravvissuto al capitalismo dovrebbe essere non egemonico - ma per Mészàros è abbastanza egemonico per la sua priorità organica, tanto da essere capace di trovare un equivalente funzionale di tutte le sue vecchie personificazioni, compreso lo stato. In secondo luogo, come abbiamo già visto, il capitale precapitalistico era caratterizzato dalla sua distanza dagli interscambi materiali del modo di produzione e dal suo ruolo puramente formale nella circolazione36. Tuttavia Mészàros vede che la distruzione del capitalismo implica precisamente l’abolizione del mercato. Ciò che sopravvive non è dunque in alcun modo simile a ciò che lo precede. Così, ogni analogia è destituita di ogni fondamento. Ciò che abbiamo visto è la progressione: forma - forma+materia - forma+contenuto - materia. Si tratta di un’espansione dello schema tripartito, che ho prima tratteggiato, nel quale ho adesso introdotto due stadi, prima di giungere alla fase capitalistica. Soltanto in questa fase di mezzo c’è un necessario e immanente dinamismo. Nel primo, il capitale precapitalistico è un parassita del settore non capitalistico. L’ultimo è impigliato nella contraddizione di forma e materia perché questa materia, essendo materializzazione del capitale, non è adeguata al contenuto della forma socialista, o, dal punto di vista opposto, la nuova forma non può trasformare la materia in un contenuto adeguato. 

Esaminiamo ora più da vicino le definizioni di Mészàros, per valutare la loro plausibilità. La definizione del capitalismo che il nostro dà nel quinto punto è in linea di principio plausibile, ma vorrei mettere in dubbio proprio quello che sembra essere il suo punto più forte, vale a dire il criterio per cui il plusvalore è appropriato privatamente dai membri della classe capitalistica. L’appropriazione privata non è in alcun modo essenziale per il capitalismo. E’ ben noto che per Marx il nemico è il capitale stesso, mentre il capitalista figura soltanto come «personificazione del capitale». Anche se il «capitalista» è stato la forma in cui è originariamente venuto alla luce il capitale, ciò non definisce comunque il rapporto di capitale. Quest’ultimo è solo una questione di capitali che si distinguono l’uno dall’altro come cristallizzazioni di valore e di subordinazione del lavoro vivo da parte di quello morto. 

Marx ha sbagliato nel Terzo Libro de Il capitale, quando ha parlato della società per azioni (resa necessaria dalla crescente scala delle forze produttive sociali) come della negazione del capitalismo all’interno del capitalismo37. Al contrario, l’eliminazione di ogni tipo di idiosincrasia che la persona del capitalista individuale può introdurre, grazie alla sua sostituzione con la persona giuridica (che in base alla legge si occupa soltanto di proteggere gli investimenti degli azionisti), si risolve nella forma di capitale più pura. E’ anche possibile formulare un esperimento mentale per vedere come il capitale può sopravvivere all’eliminazione della classe capitalistica. Già istituzioni come i fondi pensioni e le compagnie di assicurazione hanno un ruolo preponderante nelle compagini azionarie; è soltanto necessario immaginare che, a seguito di una forma punitiva di tasse di successione, i capitalisti siano scalzati e che le istituzioni menzionate acquisiscano il controllo. Ma se tutte le società fossero proprietà dei fondi pensione non cambierebbe niente nel ricambio organico fondamentale (proprio come nel feudalesimo i beneficiari dei beni della chiesa, pur non essendone proprietari, li gestivano come quelli dei Signori temporali). Allo stesso modo, la mancanza di appropriazione privata nell’Unione Sovietica non significa molto se si considera che la burocrazia estorceva il pluslavoro ai produttori diretti: ciò che importa è la forma con cui questo pluslavoro viene succhiato; nel capitalismo ciò avviene nella forma del plusvalore, nell’Urss no. 

La lezione è che la forma sociale della produzione non è definita da chi “possiede” le attività produttive. Ciò è importante perché il criterio che Mészàros usa più spesso per negare la natura capitalistica dell’Urss è quello dell’assenza dell’appropriazione privata. L’argomentazione è impropria perché questo fatto è ben noto ai teorici del “capitalismo di stato”; ma non impedisce loro di sostenere che esiste ancora una forma di capitalismo, facendo affidamento su un altro criterio non dissimile da quello utilizzato da Mészàros per affermare la persistente presenza del capitale. E’ un peccato che Mészàros non faccia riferimento e non discuta alcun contributo della letteratura sul “capitalismo di stato”, considerato quanto queste posizioni siano vicine alle sue (per esempio, Tony Cliff). 

Torniamo ora alla definizione che Mészàros dà del capitale. La sua argomentazione implica, strutturalmente, un criterio definitorio maggiormente astratto rispetto a quello usato per il capitalismo, perché il capitalismo deve poter essere relegato ad una forma del sistema di capitale; ma allo stesso tempo tale criterio non deve essere così astratto da comprendere sistemi privi di qualunque plausibile rapporto di capitale. Penso che sia impossibile soddisfare queste condizioni e che Mészàros non sia riuscito nel suo intento. I suoi quattro punti che definiscono il capitale possono essere ridotti a due, perché i punti 1, 2 e 4 riguardano tutti quanti l’alienazione del lavoratore, mentre soltanto il terzo si riferisce alla presenza del capitale, definito qui come «valore egoistico che persegue la sua propria autoespansione». 

La seconda parte della sua definizione può essere trattata con maggiore facilità perché abbiamo già detto che in Urss non c’è stato valore, né accumulazione di valore. Comunque non è chiaro quanto seriamente dobbiamo qui prendere il termine “valore”, dal momento che Mészàros parla generalmente di pluslavoro e non di plusvalore (ad esempio, egli dice che «l’accumulazione di capitale» era «assicurata dal controllo politico dell’estrazione di pluslavoro»)38. Ma non è assolutamente possibile procedere in modo così sbrigativo da confondere il “plusvalore” e il “pluslavoro” - l’esistenza del secondo non prova minimamente l’esistenza del capitale che è sicuramente valore accumulato tramite profitto sulla base di una qualsiasi ragionevole lettura di Marx. 

Cosa può mai significare per lui il concetto di capitale, se questo non ha alcun rapporto con il valore, il plusvalore e il profitto? Può essere soltanto messo in relazione con il cosiddetto sistema di controllo del ricambio organico, concepito nei termini di valore d’uso, che proprio l’organizzazione della produzione materiale qualificherebbe qui come capitale e che, in virtù di quell’organizzazione materiale, subordinerebbe il lavoro per il suo fine di incontrollata autoespansione, concepita non come valorizzazione ma come espansione dei mezzi di produzione. Qui ci sono due errori. In primo luogo, un sistema di questo tipo non è rappresentabile come accumulazione capitalistica, che assume necessariamente la forma di valore. In secondo luogo, non c’era in Urss nessuna tendenza immanente all’autoespansione. Ma tutti quanti dovrebbero concordare sul fatto che il capitale è intrinsecamente votato all’accumulazione. Ed infatti Mészàros va fuori strada quando sostiene che questo era ancora vero per l’Urss. 

«L’imperativo dell’accumulazione spinto dall’espansione può essere soddisfatto sotto mutate circostanze economiche; non soltanto senza il soggettivo “movente del profitto”, ma anche senza l’oggettivo bisogno di profitto, che è un’assoluta necessità soltanto nella variante capitalistica del sistema di capitale […]. Nel corso dei molti decenni di sviluppo economico sovietico, alti livelli di accumulazione sono stati assicurati dall’estrazione di pluslavoro controllata politicamente, senza alcuna lontana somiglianza con il sistema capitalistico nel suo necessario orientamento verso il profitto»39. 

Questo mi sembra veramente bizzarro; nel capitalismo noi vediamo l’egemonia sulla produzione della forma di valore, in particolare nella sua qualità di capitale - non la produzione per l’amore della produzione, ma per amore del valore accumulato. Il capitale come soggetto è essenzialmente una forma-valore e non può sopravvivere all’abolizione del profitto (bisogna notare che il capitale precapitalistico ha questo telos, ma non ha i mezzi per perseguirlo attraverso la produzione diretta). Ciò che veniva accumulato nell’Urss non era, comunque, capitale, ma mezzi di produzione privi della forma di capitale. Per di più l’accumulazione-feticcio non era radicata nell’“ordine metabolico”, ma nei desideri dei controllori che imponevano esternamente degli “obiettivi”, terroristicamente perseguiti. Se l’Urss come sistema di “capitale” era realmente orientata all’espansione, com’è possibile che abbia fallito nel processo di innovazione, al punto di giungere ad una stagnazione permanente? Non importa come l’autorità politica, per estrinseche ragioni di stato, ha cercato di costringere o di stimolare i produttori: l’economia ha risposto solo pigramente in termini quantitativi e l’innovazione si è completamente impantanata40. Questo è stato un punto politicamente cruciale, per il fallito “raggiungimento” dell’Ovest e per la mancata crescita negli anni di Brezhnev, circostanze che hanno privato il sistema della sua legittimità anche agli occhi di coloro che ne ricevevano i maggiori benefici, e l’hanno portato all’implosione. 

Mészàros sostiene, nel terzo punto, che il burocrate è l’equivalente postcapitalistico del capitalista privato, nella sua qualità di rappresentante del capitale. Ma il burocrate non può certo essere la personificazione della valorizzazione, non essendoci la valorizzazione stessa. Né può essere la personificazione di un più generico impulso all’espansione, non essendoci neanche questo. Di fatto, esso è’ soltanto il rappresentante di un ricambio organico materiale, strutturato in modo tale da espropriare la soggettività dei lavoratori; perciò il suo interesse per il controllo di questi non coincide con l’interesse per l’espansione, ma semplicemente con quello per il raggiungimento di obiettivi imposti esternamente; dunque, né il capitale né una qualsivoglia nuova personificazione del medesimo (la burocrazia) possono essere presenti. La verità è un’altra: avendo ereditato la materializzazione del capitale, la fabbrica sovietica era caratterizzata da una divisione gerarchica del lavoro e dalla subordinazione dei produttori, diretti verso obiettivi a loro estranei. Con ciò abbiamo di fatto ricondotto la definizione di Mészàros agli altri tre punti, e cioè all’affermazione che l’Urss, come il capitalismo, si basa sullo sfruttamento del lavoro alienato. Il problema è che non è possibile interpretare questa pur vera affermazione, in modo sufficientemente ampio da comprendere l’Urss e, allo stesso tempo, sufficientemente ristretto da escludere il feudalesimo. Esaminiamo ora la seconda parte della definizione fondamentale che Mészàros dà del capitale e cioè: «la separazione e l’alienazione delle condizioni oggettive del processo lavorativo stesso» e «l’imposizione ai lavoratori di queste condizioni oggettivate e alienate, come potere separato che esercita un comando sul lavoro»; e tutto ciò per la volontà di perseguire l’«autoespansione». Di certo una simile definizione del capitale può dare adito ad un’ampia discussione. Come ho già sostenuto, senza la tendenza all’autovalorizzazione che permea le condizioni della produzione, non c’è nessuna intrinseca tendenza all’espansione. D’altra parte, è vero che l’organizzazione del lavoro, sia da un punto di vista materiale che sociale, appare immediatamente orientata ad esercitare il «comando sul lavoro»; in ogni caso gli studi empirici (vedi i libri citati in precedenza) mostrano che il tentativo di raggiungere tutto ciò è fallito miseramente, proprio a causa del radicale cambiamento del “modo di produzione” in cui le fabbriche sono state inserite. Insomma, il fatto più significativo da sottolineare è che il lavoro alienato non è un qualcosa che riguarda specificamente il capitalismo. Nel 1844, Marx ha sostenuto che esso era presente anche sotto il feudalesimo e dunque la sua esistenza nel periodo postrivoluzionario non può essere in alcun modo considerata una condizione sufficiente per la presenza del capitale. 

C’è un’interessante contrasto tra il Marx del 1844 e quello del 1857. Il primo assimilava il feudalesimo e il capitalismo sotto la categoria generale dell’alienazione delle condizioni della produzione dai lavoratori, il secondo è impegnato a demarcare nettamente le forme precapitalistiche dal capitalismo. Nell’ambito di quest’ultimo, il lavoratore è alla mercé delle decisioni del proprietario privato per trovare un’occupazione, mentre nel feudalesimo il sistema di produzione nel suo complesso aveva la priorità e includeva il produttore immediato. Se pensiamo alla distinzione del 1857 possiamo vedere che anche in Urss la “comunità” veniva prima del lavoro, nel senso che, proprio come nel feudalesimo, lo stesso lavoratore era costretto a prestare la sua opera, ma non poteva essere licenziato. Quindi Mészàros sbaglia quando include il termine «separazione» nella definizione prima citata. Strictu sensu, non c’era nessuna separazione dei lavoratori dalle condizioni della produzione - il manager sovietico era legato ai lavoratori, allo stesso modo in cui il patrimonio feudale era comprensivo dei servi. Il Marx del 1844 interpreta il feudalesimo come un altro sistema in cui le condizioni della produzione dominano il lavoro, il Marx del 1857 insiste invece sulla differenza tra capitalismo e feudalesimo, perché nel secondo il lavoratore viene considerato unito alle condizioni della produzione, mentre nel primo ne è separato ponendosi dunque “alla ricerca di un lavoro”. Ora è ovvio che l’Urss è simile al modello feudale. Anche se le condizioni della produzione dominano sui lavoratori, è ancora vero che esiste una comunità presupposta in grado sia di forzare le persone al lavoro, sia di garantire loro un’occupazione. Per questo, il sistema di fabbrica devia dalla sua originale funzione, in mancanza degli adeguati rapporti di produzioni che consentano ai manager di risparmiare lavoro ecc. 

L’argomento più forte di Mészàros è che la sussunzione reale del lavoro, tipica del capitale, era stata conservata in Urss. Ma, originariamente questa è stata realizzata nell’interesse del capitale per produrre valore: di qui, infatti, l’ossessione capitalistica per il risparmio di lavoro e l’espropriazione del controllo da parte dei lavoratori sulla produzione. Quando la fabbrica viene separata dalla regolazione del valore ed entra in nuovi rapporti di produzione, si verifica una significativa perdita di tale “comando” [N.d.t.: squisitamente di ordine “economico”], come mostrano gli studi empirici; ed è lo stesso Mészàros a considerare giustamente proprio questo “comando” come conditio sine qua non dei rapporti di capitale. 

Mészàros arricchisce poi l’identificazione tra l’«accumulazione socialista» e quella capitalistica (cosa che abbiamo già contestato), attraverso una lista di altri mezzi attraverso cui il «capitale» continuerebbe ad imporsi: 

1. gli imperativi materiali che circoscrivono la sviluppo della totalità dei processi vitali; 
2. la divisione sociale del lavoro ereditata, che contraddice il dispiegarsi delle «libere individualità»; 
3. la struttura oggettiva dell’apparato produttivo (fabbrica e macchinario inclusi) e della forma ristretta della conoscenza scientifica; 
4. i legami tra la società postrivoluzionaria e il sistema capitalistico globale, non importa se conflittuali, al punto da essere potenzialmente mortali, o commerciali41. 

Il quarto punto è interessante perché utilizza lo stesso argomento che Tony Cliff adopera per supportare la sua tesi del “capitalismo di stato”; ed è completamente fuori luogo, perché anche il più sano tra gli stati dei lavoratori avrebbe tutte le buone ragioni per imbarcarsi nel commercio o per difendersi. 

I punti 1-3 sono importanti ma, come già detto, non dimostrano l’esistenza del capitale, essendo comprensibili come la forma fossilizzata della materializzazione del capitale stesso. Mészàros parla del «grande compito storico» e cioè della liberazione dalla «produzione del capitale» che egli identifica qui con «le condizioni disumane nelle quali gli unici valori d’uso legittimi sono quelli che possono essere infilati nella camicia di forza del valore di scambio prodotto con profitto dal sistema»42. Ma ben presto si allontana da questa corretta identificazione del capitale come forma dello scambio e parla di «completo sradicamento dal ricambio organico sociale del capitale, inteso come comando sul lavoro»43. Egli rafforza la sua argomentazione con un paio di citazioni che le danno un certo colore, in particolare un passaggio dai Grundrisse, in cui Marx parla dell’«enorme potere oggettivo» che appartiene «alle condizioni di produzione personificate, ossia al capitale»44. Questa è la chiave dell’intera posizione di Mészàros. Se così fosse, si potrebbe pensare che la sopravvivenza del potere materiale del capitale comporti ipso facto quella del ricambio organico sociale del capitale. La mia posizione è l’esatto opposto: l’enorme potere delle condizioni produttive sul lavoro nasce dal suo essere la materializzazione della forma di capitale, dove la personificazione del capitale sorge dall’acquisita indipendenza del valore e, più specificamente, dalla dominazione della forma del valore che si autovalorizza, con le condizioni oggettive che si trasformano nel suo contenuto. L’«enorme potere» dell’organizzazione di fabbrica è modellato dall’imperativo della valorizzazione ed è quindi la materializzazione del capitale. Sebbene il sistema di fabbrica sia concepito appositamente per espropriare la soggettività dei lavoratori, il soggetto che esercita il potere è il valore che si autovalorizza e non il suo involucro materiale. Identificare nella fabbrica, invece che nella sua forma sociale, l’origine del problema è un errore comprensibile quando le condizioni del lavoro sono formalmente determinate dal capitale. 

E’ necessario distinguere tra l’organizzazione di fabbrica, concepita per espropriare la soggettività dei lavoratori e di conseguenza per massimizzare l’estrazione di plusvalore, perché è al servizio della forma sociale capitalistica, e quella stessa organizzazione che ha un intrinseco impulso a fare ciò, a causa di un “ordine nel ricambio organico” materiale. La prima è plausibile, ma questa stessa organizzazione estratta dalla sua forma sociale non ha alcun impulso intrinseco all’espansione. Il secondo punto di vista assume falsamente che l’unico modo in cui questa organizzazione può funzionare è quello per cui è stata concepita e quindi richiede per la sua appropriata personificazione un sostituto per il capitalista privato. Così, se nel capitalismo funzionava allo stesso modo, possiamo dire che si tratta di capitale. Questo è quanto Mészàros sembra immaginare. Credo che ciò sia vero con riferimento all’espropriazione della soggettività del lavoratore, ma che sia falso per ciò che riguarda l’intrinseca tendenza all’espansione. 

Si ha forse a che fare con una mera differenza terminologica, quando si distingue tra la sopravvivenza della materializzazione del capitale e quella del capitale in quanto tale? No, perché il mio punto di vista dà una migliore spiegazione del collasso dell’Urss. Sebbene Mészàros abbia sempre mostrato disprezzo per le performance economiche dell’Est, la teoria di Ticktin - l’assenza di un modo di produzione vero e proprio - ha avuto una migliore capacità predittiva, a proposito del collasso che si è ora verificato. E’ curioso che lo stesso Mészàros dia un ottimo esempio dell’irrazionalità della produzione sovietica che io avrei annoverato fra quelli che mostrano l’assenza di una congenita tendenza in vigore ad espandere il plusvalore: 

«Due lavoratori addetti a scaricare velocemente mattoni da un camion lo facevano gettandoli per terra, rompendone circa il 30%. Sapevano che le loro azioni erano contrarie tanto all’interesse del paese, quanto al comune buon senso, ma il loro lavoro era giudicato e pagato sulla base del tempo impiegato. Sarebbero quindi stati penalizzati - e non avrebbero così potuto guadagnarsi da vivere - se avessero sistemato i mattoni a terra con attenzione. Il loro modo di lavorare era negativo per il paese, ma, a giudicare dalle apparenze, positivo per il piano! Così questi lavoratori agivano contro la loro coscienza e intelligenza, ma con un profondo senso di amarezza nei confronti dei pianificatori»45. 

Molte volte Mészàros sostiene che il capitale continua a sussistere, finché non è sostituito da un altro sistema organico e cioè il socialismo46. Ciò che qui manca è la possibilità che qualcosa si blocchi, la possibilità di una negazione del capitale che non sia ancora il suo superamento: una contraddizione vivente e, precisamente, un sistema non organicamente coerente e perciò privo di un motore immanente che lo riproduca. Ma una negazione del capitale che fallisce nell’andare oltre il capitale, necessariamente gli rimane dietro (di qui la percezione dei lavoratori sovietici di essere servi e il loro iniziale entusiasmo per il mercato, vissuto come liberazione). 

Ad un più profondo livello filosofico, Mészàros generalizza indebitamente la nozione di inversione soggetto-oggetto. «Originariamente» il produttore è il soggetto e le condizioni di produzione, inclusi gli utensili adoperati dal lavoratore, sono l’oggetto. Se si inverte semplicemente questo rapporto, allora il lavoratore si trasforma nell’«oggetto» che deve essere «comandato» e le «condizioni personificate della produzione» divengono il soggetto – il che costituisce chiaramente la chiave di lettura che Mészàros propone del capitale. Ma, malgrado alcune osservazioni di Marx possano rendere plausibile una simile lettura, questa è una descrizione errata di quanto accade realmente nel capitalismo. Per ciò che qui ci interessa, Marx nel 1867 definisce il capitale come «soggetto»47 molto prima di analizzare la produzione; chiaramente lo fa sulla base del «movimento sviluppato della circolazione» e cioè del movimento D-M-D. Nei Grundrisse Marx dice: 

«Nella circolazione il valore di scambio si presenta in una duplice maniera: una volta come merce, un’altra come denaro. Quando è in una delle determinazioni, non è nell’altra […] Ma la totalità della circolazione, considerata in sé, consiste in questo: che il medesimo valore di scambio, il valore di scambio in quanto soggetto, si pone una volta come merce, un’altra come denaro, ed è appunto il movimento di porsi in questa duplice determinazione e nel mantenersi in ciascuna di esse come contrario dell’altra, cioè nella merce, come denaro e nel denaro, come merce … Il valore di scambio posto come unità di merce e di denaro è il capitale, e questo stesso porre si presenta come circolazione del capitale»48. 

In pratica, quando Mészàros discute in dettaglio di come esattamente il capitale si è costituito, non si concentra sulla forma della circolazione, ma sul livello della produzione. Sebbene sia vero che il lavoratore esperisce le condizioni della produzione come un potere estraneo - e infatti percepisce addirittura il suo lavoro come estraneo -, questo è ingannevole perché il vero soggetto, il capitale, non è la personificazione delle condizioni della produzione, ma valore che si autovalorizza, definito dalla formula D-M-D; quando questo circuito sprofonda nella produzione e diviene D-M…P…M-D, si costituiscono le condizioni produttive come potere estraneo ai lavoratori. 

Mészàros cerca di passare dal lavoro (che è lavoro alienato) al capitale, senza considerare seriamente “la circolazione sviluppata”; diviene così per lui possibile identificare il lavoro alienato nell’Unione Sovietica, con il dominio del capitale, perché considera il capitale come identico alla separazione delle condizioni materiali della produzione dal lavoratore. E poiché tale alienazione continua nell’Urss, egli la considera erroneamente fondata sul capitale. Egli identifica il capitale con l’autonomia delle condizioni materiali della produzione, mentre, in realtà, sono l’autonomia del valore e l’imposizione sulla produzione da parte del valore che si autovalorizza, a costituire la radice del problema, facendo sì che l’organizzazione della fabbrica sia null’altro che la materializzazione del capitale. 

Mészàros ha certamente ragione, quando sostiene che la rivoluzione socialista è una questione non di mero potere politico, o di redistribuzione, ma di cambiamento del fondamentale ricambio organico sociale stabilito dal capitale; ciò significa trasformazione della reale struttura della produzione materiale e l’abolizione della divisione gerarchica del lavoro. Ha certamente ragione, quando sostiene che le formazioni sociali postcapitalistiche non hanno realizzato questa trascendenza positiva; e l’emergere della «burocrazia» si può spiegare soprattutto su queste basi. La sua concettualizzazione in termini di sopravvivenza del «capitale» oltre il «capitalismo» è molto interessante: ma Mészàros non pone sufficiente attenzione alla forma-valore del capitale e alla tendenza all’espansione, intrinseca alla sua ricerca del profitto. 

Ho sostenuto che nell’Unione Sovietica il ricambio organico del capitale è stato sradicato senza che fosse stabilito un sistema alternativo; mancando una coerenza organica, il sistema non poteva sopravvivere, una volta venute meno le eccezionali condizioni poste dalla mobilitazione rivoluzionaria e dalla guerra. L’Urss deve essere considerata come la negazione del socialismo nell’ambito del socialismo, che tende a restaurare il capitalismo, come infatti è accaduto. Questo perché i benefici della proprietà collettiva sono possibili soltanto con l’autogestione; ma dove era rimasto il capitale materializzato, senza la forma economica capitalistica a dirigerlo, non c’era nulla che motivasse all’efficienza; volontarismo, coercizione, incentivi, tutto non poteva che fallire. Di qui la crisi cronica e la sottoutilizzazione delle risorse, l’enorme spreco, i prodotti difettosi e il collasso finale. 

Sebbene entrambi vediamo «il momento del capitale» in Urss, ciò che io chiamo la materializzazione del capitale, Mészàros lo identifica con il capitale stesso. Le nostre posizioni combaciano nel dire che qualcosa dal periodo precedente è sopravvissuto; ciò che mi differenzia dalla sua descrizione è relativo a ciò che è sopravvissuto. Il che solleva interessanti questioni a proposito del concetto implicato. Mészàros identifica il ricambio organico sociale del capitale con il sistema degli interscambi materiali; si focalizza sul sistema di fabbrica. Tutto ciò suona profondamente materialista, ma dal mio punto di vista questo livello del ricambio organico sociale non può essere compreso, come se avesse una sua propria coerenza organica e una sua dinamica. Può essere solo compreso come portatore di e subordinato a un ricambio organico ideale: l’interscambio di valore costitutivo della vita del capitale. Così la linea generale della mia critica a Mészàros è che egli dimentica l’importanza della forma di valore del capitale. 

Certamente, se permane il sistema di fabbrica nel quale il capitalismo si è materializzato, allora non si può parlare di socialismo; di contro, se la legge del valore attuata attraverso la competizione capitalistica non è più in vigore, noi abbiamo una sorta di “orologio senza molla”. 

Note 

✴Chris Arthur è un esponente tra i più interessanti della teoria marxiana contemporanea. Ha insegnato filosofia all’Università del Sussex, ed è oggi un ricercatore indipendente. Tra i suoi lavori più interessanti, il volume Dialectics of Labour: Marx and his Relation to Hegel (Blackwell 1986), dove si studiano i Manoscritti economico-filosofici del 1844 di Marx in relazione alla Fenomenologia dello Spirito di Hegel. Più recentemente, vanno segnalate la sua critica della lettura engelsiana di Marx e il suo progetto di ricostruire la teoria della forma-valore all’interno di una originale rilettura della dialettica sistematica. In italiano, sono stati pubblicati due suoi lavori: Sulla negazione della negazione, intervento al convegno organizzato da Democrazia Proletaria in occasione del centenario della morte di Marx, e poi comparso su Marx 101” n. 1-2, 1984, e Napoleoni su lavoro e sfruttamento, contenuto in L’economia politica classica e marxiana: un dibattito sull’interpretazione di Claudio Napoleoni, a cura di Mario Baldassarri e Riccardo Bellofiore, fascicolo monografico della “Rivista di politica economica, aprile-maggio, 1999.

1 Il primo di questi tentativi è stata La rivoluzione tradita di Leon Trotsky (1936). Ma tra i suoi seguaci, riuniti nella nascente “Quarta Internazionale”, c’era una minoranza che vedeva ambiguità e contraddizioni nella definizione trotzkysta dell’Unione Sovietica - «stato operaio degenerato» (che poteva facilmente tornare al capitalismo) - e la sua indicazione pratica - una rivoluzione puramente «politica» contro il sistema stalinista. Tutti quelli che parteciparono al dibattito convennero sul fatto che l’Unione Sovietica non era una forma né di capitalismo, né di socialismo: ma, allora, che cos’era? Una specie di via di mezzo, come per Trotsky? O qualcosa di completamente nuovo? Una posizione, quest’ultima, che conduce alla formulazione del concetto di “collettivismo burocratico”, un nuovo modo di produzione finalizzato allo sfruttamento. Più tardi si è parlato semplicemente di una nuova forma di capitalismo, e cioè del “capitalismo di stato”. Per una critica di Trotsky che non va oltre questo punto, vedi il mio saggio (originariamente pubblicato in forma di Samizdat sotto lo pseudonimo di B. Biro) in Trotsky: The great Debate Renewed, ed. N. Krasso, New Critics Press, St. Louiss, Mo., 1972. Per un approfondito esame della storia del dibattito vedi Paul Bellis, Marxism and the Urss, Macmillan Press, London 1979. 
2 La distinzione forma-materia non è assoluta; non esiste alcuna cosa paragonabile ad una materia completamente priva di forma. Il vero problema qui in discussione è quello della materia che prende nuova forma. 
3 Marx and Engels Collected Works, Vol. 30, p. 32. Questi brani, sono tratti da una sezione dei Manoscritti del 1861-63 (di cui fanno parte le Teorie sul plusvalore) che non è pubblicata in italiano. La presente traduzione si basa sulla versione inglese delle Opere Complete. 
4 Su questo tema vedi il mio saggio From the Critique of Hegel to the Critique of Capital in corso di pubblicazione in The Hegel-Marx Connexion, eds T. Burns and I. Fraser, Macmillan Press. 
5 Sulla natura di un “sistema organico”, cfr. K. Marx, Lineamenti Fondamentali della critica dell’economia politica, Vol. I, La Nuova Italia, Firenze, 1968, pp. 25-6 e pp. 259-60. 
6 K. Marx, Il capitale, Libro I, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 75. 
7 Ibidem, p. 211. 
8 Ib., p. 137. 
9 Ib., p. 145. 
10 K Marx, Op.Cit., Vol. II, p. 315. In tedesco: «Ein System von Austauschen, Stoffwechsel, so weitder Gebrauchswerth betrachtet, Formwechsel, so weit der Werth als solcherbetrachtet wird». Marx and Engels Gesamtausgabe (MEGA) Abt. II Band 1.2 p. 522. [N.d.t.: come riporta il curatore italiano, nel manoscritto c’è un evidente lapsus in cui Marx scambia valore e valore d’uso; per rendere comprensibile il senso della citazione abbiamo riportato la frase corretta, così come viene anche tradotta nell’edizione inglese citata da Arthur.] 
11 K. Marx, Op.Cit., Libro II, p. 153. La nota del traduttore inglese D. Fernbach, (Penguin 1978), rimandandoci indietro, al capitolo sul processo lavorativo, è leggermente poco accurata; il contesto sembra indicare che Marx stava pensando più che altro allo scambio tra prodotti, discusso ne Il capitale, Libro I, p. 137. 
12 Marxian Economics ,ed J. Eatwell et al (Macmillan 1990), p. 127. 
13 Una buona analogia viene dal mondo del computer. Laddove la logica del software rappresenta la domanda di valorizzazione che scaturisce dalla forma, e la sequenza d’accensione dell’hardware incarna il processo produttivo. Il problema è qui quanto il software dipenda dall’hardware. Si potrebbe argomentare che ci dovrebbe essere almeno il microchip rappresentato dalla forza-lavoro. 
14 K. Marx, Op.Cit., Vol. I, p. 234. 
15 K. Marx, Op.Cit., Vol. II, pp. 390-2. 
16 Don Filtzer, Soviet Workers and Stalinist Industrialisation, Pluto Press, London, 1986; Frank Füredi, The Soviet Union demystified: a materialist analysis, Junius Publications, London, 1986; Hillel Ticktin, Origins of the Crisis in the USSR: essays on the political economy of a disintegrating system, M. E. Sharpe, New York, 1992; Bob Arnot, Controlling Soviet Labour, Macmillan, Basingstoke, 1988. 
17 Hillel Ticktin, Origins of the Crisis in the USSR: essays on the political economy of a disintegrating system, p. 14. La “legge della pianificazione” non significa necessariamente pianificazione centrale di ogni dettaglio. L’autogestione locale è necessaria per integrare ciò che Hilary Wainwright ha chiamato «conoscenza tacita» posseduta dai lavoratori di una data impresa, fondata su esperienza e trasmissione del know how. 
18 Frank Füredi, Op.Cit., p. 103. 
19 Ibidem, p. 124. 
20 Riccardo Bellofiore mi ha posto una domanda affascinante, ma imponderabile: se non ci fosse stato all’esterno un mondo più avanzato in competizione con essa, l’Urss avrebbe potuto continuare indefinitamente a compensare le sue stesse inefficienze? Bisogna ricordare che c’è voluta una guerra contro paesi economicamente più sviluppati per abbattere lo zarismo. 
21 E. Mandel “New Left Review”, n. 108, 1978, p. 28. 
22 Ibidem, p. 29. 
23 Naturalmente un periodo più o meno lungo di transizione al socialismo è inevitabile, ma le cose potrebbero andare in modo diverso con una forza-lavoro istruita e una tradizione democratica; allora l’autogestione e il progresso politico potrebbero realizzarsi effettivamente. 
24 I. Mészàros, Beyond Capital, The Merlin Press, London (Monthly Review Press, NewYork), 1995. 
25 Ibidem, p. 792. 
26 Tesi sostenuta per la prima volta in un articolo su “New Left Review”, 1978. 
27 I. Mészàros, Op.Cit., p. 618. 
28 Ibidem, p. 494. 
29 Ib., p. 369. 
30 Ib., p. 981. 
31 Ib., p. 630. 
32 Ib., p. 631. 
33 K. Marx, Op.Cit., Vol.I, p. 289. 
34 I. Mészàros, Op.Cit., p. 617. 
35 Ibidem, p. 631. 
36 In un punto Mészàros (p. 607) sostiene che ci sono forme precapitalistiche di «sussunzione formale del lavoro sotto il capitale», là dove sono in funzione il «capitale usuraio» e il «capitale mercantile». Sfortunatamente egli ha letto il testo troppo frettolosamente, perché Marx dice qualcosa di differente. Marx sta discutendo due differenti stadi dello sviluppo del rapporto di capitale, la sussunzione formale del processo lavorativo capitalistico, che rimane materialmente lo stesso, e la sussunzione reale con cui il capitale trasforma il processo lavorativo in un contenuto a lui adeguato. Ciò è segnalato dalla parola «due» nella frase: «Le due forme hanno in comune il rapporto capitalistico come rapporto di coercizione [… ma] il modo di produzione specificamente capitalistico conosce anche altri modi di estorsione di pluslavoro e plusvalore» (K. Marx, Il Capitale: Libro I, capitolo VI inedito, La Nuova Italia, Firenze, 1969, p. 54). Mészàros sostituisce a «due» la parola «diversi», il che non ha senso nel contesto della discussione di Marx, ma lo acquisisce se si crede erroneamente che lo stesso Marx stia parlando di modi di produzione precapitalistici. E infatti due pagine più avanti Marx, parlando di forme precapitalistiche, relativamente al capitale usuraio, dice: «non vi è ancora, qui, sottomissione formale del lavoro al capitale» (p. 56); e allo stesso modo, per ciò che riguarda il capitale mercantile, «anche in questo caso non si ha sottomissione formale del lavoro al capitale» (p. 56). Marx va avanti precisando: «La sottomissione reale del lavoro al capitale ovvero il modo di produzione specificamente capitalistico». Mészàros pensa che il termine «specificamente» si riferisca all’intera epoca in cui il rapporto di capitale regola la produzione. Così il contrasto può consistere solo nel fatto che la sussunzione formale si dispiega nel contesto delle forme precapitalistiche, forme sociali di cui farebbero già parte il capitale usuraio e il capitale mercantile. Comunque Marx, come abbiamo già mostrato, negò questa correlazione. Da questa discussione emergono effettivamente due distinzioni, la prima tra precapitalismo e capitalismo, e, nell’ambito del secondo, due differenti stadi: il più antico, è chiamato sussunzione formale del lavoro sotto il capitale, perché il sostrato materiale non cambia rispetto alla forma originaria del processo lavorativo precapitalistico, e il più recente, nel quale questa materia è stata trasformata, attraverso la sussunzione reale, in un contenuto adeguato al modo di produzione specificamente capitalistico. 
37 K. Marx, Op.Cit., Libro III, pp. 518-21. 
38 I. Mészàros , Op.Cit., p. 780. 
39 Ibidem, p. 780. 40 Un importante osservazione tecnica: quando abbiamo a che fare con il plusvlore relativo, è sempre presupposta la competizione tra capitali. In sua mancanza i rapporti di dominio possono certamente promuovere la produzione di plusvalore assoluto e una crescita estensiva, ma non sono sufficienti per dare forza ad una crescita dinamica dal punto di vista intensivo. 
41 I. Mészàros, Op.Cit., p. 631. 
42 Ibidem, p. 618. 
43 Ib., p. 619. 
44 K. Marx, Op.Cit., Vol. II, p. 575, citato da I. Mészàros, Op.Cit., p. 620. 
45 O. I. Antonov, citato in I. Mészàros, Op.Cit., p. 647. 
46 I. Mészàros , Op.Cit., p. 617 e p. 622. 
47 K. Marx, Op.Cit., Libro I, p. 187. 
48 K. Marx, Op.Cit., Vol. I, pp. 243-4. 

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