Leggi anche: Sul compromesso storico - Aldo Natoli
Solo l’analisi approfondita può farci comprendere a cosa veramente tende un’organizzazione politica, anche senza saperlo.
Fare
i conti con la
sinistra latinoamericana del XXI secolo e
con il suo addentellato, il socialismo del
o nello stesso, non è un vano esercizio, ma una riflessione utile
anche a focalizzare meglio l’attuale congiuntura italiana, sempre
che si voglia ragionare, dando pane al pane, e non schematizzare in
grossolane opposizioni dicotomiche, del tipo chi
critica Lula da Silva è
uno scherano dello spietato imperialismo statunitense.
Riflessione
anche opportuna per cercare di fare un po’ di luce nell’attuale
confusione che domina i vari gruppuscoli comunisti italiani, che
non riescono a trovare un denominatore comune per costituire un
fronte aggregante in vista delle prossime elezioni europee,
e per rilanciare l’arduo processo di ricostruzione della coscienza
di classe dissolta da decenni di politiche liberiste sedicenti di
sinistra e di ipocrita buonismo verso i cosiddetti ultimi. Del resto,
la coscienza tende a rattrappirsi quando l’individuo si trova di
fronte al costante ricatto di chi ti intima: se vuoi campare queste
sono il salario (irrisorio) e le condizioni di lavoro (pessime),
facendoci comprendere che il problema non è mai esclusivamente
ideologico.
Aggiungo
che con il fare i conti con la sinistra latinoamericana non intendo
scaricare su di essa la causa del peggioramento della situazione
politica di questa regione del mondo (sarebbe sciocco e
semplicistico), ma individuare il suo contributo a tale processo che
è ovviamente dovuto ad una molteplicità di fattori. Tuttavia, credo
che la demoralizzazione delle masse provocata da promesse non
mantenute, sia pure continuamente agitate, non sia un elemento da
sottovalutare.
Fatta
questa breve premessa, cominciamo con riflettere su chi era e che ha
fatto veramente nella sua vita politica Inácio
Lula da Silva,
operaio metallurgico, il quale, quando apparve sulla scena politica
brasiliana, sembrò portare con sé l’inizio
di una nuova era [1],
in particolare per l’avviamento del Programma Fame zero, che ha
sollevato dal livello di povertà milioni di brasiliani. Tuttavia,
benché fosse temuto dai latifondisti e dalle multinazionali, i
capitali non furono trasferiti all’estero, né
avanzò la tanto pubblicizzata Riforma agraria, che avrebbe dovuto
beneficiare 4 milioni e 500.000 contadini rappresentati dal Movimento
dei lavoratori senza terra [2].
Queste
politiche furono portate avanti in una fase di aumento dei prezzi
delle materie prime, i quali (soprattutto quello del petrolio) sono
stati ridimensionati nel 2014 a causa di scelte predisposte a mettere
in crisi il progressismo latino-americano e anche a causa
all’insignificante crescita delle economie capitalistiche
principali. Di fronte a tale scenario l’Occidente ricorre al suo
apparato militare, integrato da militari professionisti e mercenari,
dagli strumenti mediatici e mafiosi per trasformare le società
periferiche in zone di spietato saccheggio (v. Afghanistan, Iraq,
Libia). Nello stesso tempo, gli Stati Uniti in declino si interessano
di nuovo dell’America Latina e stanno riportandola sotto la loro
invadente tutela.
Secondo
James Petras, che ha pubblicato con Henry Veltmeyer un libro ¿A
dónde va Brasil? y otros ensayos (2003),
se Lula ha rappresentato di fatto un ritorno alla destra, dato che fu
apprezzato come politico pragmatico dal FMI, BM, Tony Blair e George
Bush, il MST potrebbe costituire, invece, una forza rivitalizzante
della sinistra. Non dobbiamo stupirci di tale camaleontica
trasformazione del PT che, partito dalla lotta contro la
globalizzazione e il neoliberismo, sia approdato all’abbandono dei
suoi stessi principi in un processo di cambiamento storico, che
caratterizza tutti i movimenti politici, sia pure non sempre nella
stessa direzione, e che cercherò di documentare a grandi linee.
Come
scrivono Petras e Veltmeyer negli
anni ’80 il PT aspirava ad una società socialista fondata su una
democrazia partecipativa strettamente connessa ai movimenti sociali,
sosteneva il non pagamento del debito estero, un’ampia
redistribuzione della terra sostenuta dallo Stato, la socializzazione
delle banche, del commercio estero e dell’industria nazionale.
Alcuni dei suoi membri richiedevano persino l’espropriazione delle
grandi industrie e la loro gestione da parte dei lavoratori. In
esso erano confluiti i
nuovi sindacati del settore metallurgico, gli attivisti religiosi
progressisti, gli ecologisti, gli abitanti delle favelas,
gli insegnanti etc.; purtroppo questo stretto legame con la base si
spezzò nel momento in cui il partito, grazie alle vittorie
elettorali, si trasformò in una macchina elettorale, persistendo
nella sua retorica sociale, ma allo stesso tempo stabilizzandosi
nell’apparato statale e istituzionale e approssimandosi ai partiti
borghesi.
La
predominanza della macchina elettorale costituisce una questione di
grande rilevanza, perché – come è stato detto più volte –
determina in primo luogo la fine della politica vera e propria,
sostituita dalla menzognera lusinga dell’elettorato, la formazione
di caste o di aristocrazie che vogliono rimanere al loro posto, costi
quel che costi, e che alla fine se ne infischiano dei reali e
stringenti problemi degli strati bassi della popolazione. È proprio
quello che è avvenuto col PD, che si interroga seriamente soltanto
sul come riconquistare i voti perduti e con essi i tanto ambiti
privilegi ormai dissolti.
Successivamente
il PT assunse una posizione socialdemocratica fautrice dello Stato
del benessere, nello stesso tempo la sinistra marxista continuò a
rivestire un ruolo importante nell’organizzazione. Tuttavia, i suoi
funzionari ormai appartenevano nella maggioranza alla classe media, i
marxisti erano diventati l’opposizione interna e, nonostante i
contenuti del programma radicale non fossero mutati, i governatori e
i sindaci eletti non intaccarono le relazioni di proprietà. Dalla
fine degli anni ’90 si sviluppa un ribaltamento politico
significativo: i richiami retorici al marxismo, il diniego di pagare
i debitori stranieri sparirono dal programma; i capi stavano
transitando verso il neoliberismo e stabilivano relazioni con il
mondo finanziario, con gli affaristi e con coloro che controllavano
l’agroesportazione.
Dopo
un anno di governo cominciarono a farsi sentire le critiche verso la
politica di Lula; in particolare, un suo convinto sostenitore, Emir
Sader, docente dell’Università di Rio de Janeiro, affermò che il
presidente aveva adottato politiche conservatrici nella politica
sociale, nella riforma tributaria e del sistema previdenziale, oltre
a pronunciare discorsi che avevano innescato la smobilitazione
sociale delle masse. Arrivò al punto di cacciare dal partito i
congressisti che lo criticavano, suscitando la reazione di numerosi
intellettuali capeggiati da Noam
Chomsky.
Naturalmente
nessuno si stupisca che un partito subisca cambiamenti nelle sue
parole d’ordine, nella sua politica effettiva, nel suo rapporto con
le masse; potrei citare come esempio illuminante un articolo di Aldo
Natoli del 1977 che ricostruisce il percorso fatto dal PCI per
avviarsi verso il famoso compromesso
storico.
Tuttavia, prima di inoltrarmi in questa complessa disamina, vorrei
sottolineare che non sono alla caccia di errori
o di tradimenti,
perché sarebbe troppo semplicistico; piuttosto penso che, per
comprendere le scelte politiche, bisogna prendere le mosse
dall’analisi della situazione complessiva dei rapporti di forza ed
individuare con chiarezza quali fossero gli obiettivi effettivamente
perseguibili in un certo momento storico.
Riassumendo
qui brevemente l’articolo
di Natoli e
inevitabilmente schematizzandolo, senza avere la pretesa di accostare
rozzamente il PT e il PCI, nati in due contesti storici così
diversi, credo che tuttavia sia possibile mettere in evidenza un
simile processo di scollamento tra la lotta sociale e la lotta
politica, che nell’organizzazione di Lula finisce col trasformarsi
in mera strategia elettoralistica (come del resto nel PD). Nel caso
del PCI, Invece, a partire dall’VIII congresso (1956), la
via italiana al socialismo abbandona
definitivamente la teoria del crollo del capitalismo, sostenuta in
passato, e “prospetta la permanenza dello sviluppo della democrazia
come campo generatore del socialismo, nell’ambito degli equilibri
della coesistenza pacifica”, proclamata da Krusciov (Natoli 1977:
276). Per sciogliere questo concetto possiamo dire che, riportando
sempre le parole di Natoli, “Non ci sarebbero più stati ‘crolli’,
la via democratica, anzi adesso la
via parlamentare,
cessava di essere una scelta tattica sia pure di lungo periodo per
acquistare pienamente la dimensione e l’autonomia di una strategia,
di una via nazionale, cui era venuto meno il collegamento
internazionale e la
prospettiva della rivoluzione”
(p. 276). In quest’ottica, l’ampliamento della democrazia, non
perseguibile nel quadro capitalistico, diventa la direttiva
principale che in virtù dell’egemonia operaia tenderebbe verso il
socialismo. “Ma – si chiede giustamente Natoli – è possibile
un’egemonia operaia senza la liberazione della classe da rapporti
sociali e di produzione oppressivi e di sfruttamento?”
Evidentemente no e a un grave costo che pesa ancora su noi e che ha
dato vita a “Una
transizione tutta politica, svuotata dei suoi contenuti sociali”
(ibidem), tipica di chi si limita a difendere la nostra pur
venerabile Costituzione, convinto che questo sia sufficiente a
ribaltare i rapporti di forza esistenti.
Come
era avvenuta questa svolta? Nel contesto del mondo diviso in blocchi
e convintisi che per un certo periodo non era possibile spezzare quel
precario equilibrio, drammaticamente messo a repentaglio dalla crisi
dei missili del 1962, sembrava naturale che si potesse procedere in
questa direzione, forse ignorando o facendo finta di ignorare gli
apparati repressivi che sarebbero intervenuti nel caso di una
vittoria elettorale del PCI. Infine, il colpo di Stato contro Allende
fu inteso come prova di questa interpretazione che ci condusse
al compromesso
storico e
che fece del PCI una “forza stabilizzatrice” delle istituzioni
democratiche e al contempo un apparato di controllo del malessere,
della protesta che si manifestava in varie forme dinanzi a questa
deriva politicistica.
Tutto
questo ci insegna quanto sia difficile valutare l’autentica
politica di un partito e i suoi risvolti, anche non voluti, e come in
questo ambito i facili entusiasmi, la retorica enfatica non
dovrebbero avere spazio, se vogliamo veramente capire qualcosa.
Note
[1]
Per approfondimenti si veda:
http://www.rebelion.org/noticia.php?id=594
[2]
Il titolo dell’articolo che qui menziono è Lula,
la gran estafa (Lula,
il grande imbroglio) di Pascual Serrano.
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