Premessa
In
un mondo, nel quale a detta di alcuni, stiamo assistendo al trionfo
della cosiddetta post-verità, in cui siamo intrisi sino alle midolla
di ideologie invisibili che si presentano come l’effettiva
rappresentazione dei fatti, in cui il paese più potente del mondo
legge la storia attuale e futura come il dispiegamento del “secolo
americano”, in cui trova spazio l’estremismo islamico, in cui
risorge il populismo neofascista e neonazista, non possiamo in nessun
modo accantonare la nozione di ideologia.
E
ciò soprattutto perché si tratta di un’idea pericolosa, come dice
il titolo italiano della traduzione del libro dello studioso
britannico Terry Eagleton Ideologia.
Storia e critica di un’idea pericolosa (2007)
(il titolo in inglese invece è Ideology.
An Introduction, 1991)[1].
Idea pericolosa perché stabilisce una correlazione, complessa e
articolata, tra certe idee e una certa struttura di potere. Oltre a
queste considerazioni teniamo in conto che, dopo la caduta del muro
di Berlino, alcuni non sprovveduti, cui i mass media hanno dato
notevole e continua risonanza, hanno anche osato parlare di fine
delle ideologie, evidentemente ignorando che la verità è solo un
processo interminabile di paziente studio e ricerca, sul cui sfondo
sta il nostro modo di concepire la vita sociale.
Un’altra
considerazione che ci consiglia di tornare a riflettere
sull’ideologia e le sue molteplici valenze è rappresentata dal
fatto che costituisce un nodo problematico del pensiero marxista, sul
quale molti si sono divisi, accusandosi di riproporre con
l’opposizione struttura / sovrastruttura l’antico dualismo
positivistico, di ricadere nel volgare economicismo per l’uso della
categoria del riflesso o di finire nell’idealismo per l’accento
posto con enfasi sulle idee rispetto alla dimensione materiale.
Ispirandosi
a Eagleton, anche due autori latinoamericani sottolineano la
necessità di tornare a riflettere sulla nozione di ideologia, la
quale a loro parere rappresenta <<un conjunto atraversado,
sobredeterminado, complejo de aceptaciones y de afirmaciones, de las
cuales conviene clarificar algunas posiciones para hacer de ello una
herramienta analítica y operativa de acuerdo a los problemas
planteados en la luchas políticas y sociales con la perspectiva de
la clase obrera y las llaves para la transformación social>>
(Ramírez e Cardoso 2013: 30).
Naturalmente
l’oggetto della mia analisi sarà ben circoscritto e delimitato,
giacché mi limiterò a indicare alcuni temi sviluppati da taluni
marxisti britannici, in Italia, non so in America Latina, non molto
conosciuti. Un taglio più ambizioso non avrebbe alcun senso e
sarebbe pretenzioso.
Cultura
o ideologia?
Come
scrive Eagleton, una ragione per la quale il concetto di ideologia è
diventato sospetto sta nel fatto che è stato sostituito da quello
di cultura,
ritenuto più flessibile, meno schematico e soprattutto alquanto
sganciato dalle condizioni materiali, da cui vuoi o non vuoi deve
esser pur sgorgato (p. XVI). Oggi tutto è ridotto a fatto meramente
culturale: la discriminazione nei confronti del genere femminile, gli
atti terroristici, che si cerca di ricondurre ad una particolare
relazione uomo/dio, il supersfruttamento della natura, probabilmente
apparso con il dualismo cartesiano. Ciò che non si vuol vedere e non
si deve assolutamente illuminare sono la brutale competizione per le
risorse e le reali relazioni di potere tra le diverse regioni del
mondo, ridotte a mere differenze culturali. In questo senso,
paradossalmente l’abbandono della nozione di ideologia è
un fatto squisitamente ideologico, nel senso che implicita la difesa
di certi interessi altrimenti facilmente individuabili, il cui
radicamento si vuole occultare. Ciò rende comprensibile l’ostilità
del marxismo stalinista per le scienze sociali, come per esempio
l’antropologia culturale di origine statunitense, anche se si
pensava di sostituire ad esse il semplicismo economicistico.
Se
nell’ambito del dibattito politico, qualcuno impiega la parola
“ideologia”
lo fa per denigrare il suo interlocutore, il quale non sarebbe in
grado di guardare meramente ai “fatti”, i quali sollecitano
sempre una soluzione che non sia né di “destra” né di
“sinistra”.
Tale
richiamo ai “fatti” è però spesso contraddetto dall’assunzione
di un atteggiamento relativistico, assai combattuto dalla Chiesa
cattolica, in base al quale ognuno di noi può esprimere l’opinione
che gli conviene, dal momento che ha una cultura differente. È
questo circolo vizioso che rimanda, da un lato ai “fatti” intesi
come entità indipendenti dalle nostre convinzioni, dall’altro, li
mette tra parentesi perché esistono solo rappresentazioni o meglio
costruzioni di essi, ognuna degna di essere rispettata; infatti,
spesso si giunge addirittura alla dissoluzione della stessa
rappresentazione, privata della sua capacità di rappresentare,
giacché è essa stessa che, con le sue specifiche domande,
“costruisce” il “fatto”, inesistente di per sé.
Un’altra
conseguenza dello slittamento verso la nozione di cultura sta
nel fatto che, una volta adottata, essa apre la strada solo
all’ipotetico e volontaristico cambiamento interiore, che ognuno di
noi dovrebbe fare, ma che di fatto nessuno fa; mutazione interiore
prospettata duemila anni fa dal cristianesimo, ma che mi pare non
abbia dato frutti, se non belle e vuote parole. E ciò perché noi
cambiamo se le strutture, nelle quali siamo incardinati, si modicano
e allo stesso tempo, divenuti coscienti della necessità del
cambiamento, lottiamo per trasformarle.
L’egemonia
della nozione di cultura si
consolida con lo sviluppo dell’antropologia culturale di origine
statunitense e introdotta in Italia sul finire degli anni ’50 da un
gruppo di studiosi, tra i quali mi limito a menzionare Tullio
Tentori. Tale disciplina, il cui primordio risale alla seconda metà
dell’Ottocento, è senza dubbio collegata al processo di
decolonizzazione, che rendeva impossibile continuare a sbandierare
l’indiscussa superiorità occidentale, e nello stesso tempo
permetteva di offuscare le forti asimmetrie socio-economiche,
riconducendole tout
court a
stili di vita differenti. In particolare, essa si ispira alla
definizione proposta da Edward Burnett Tylor nel suo importante
libro Primitive
Culture (1871),
nel quale afferma che la cultura comprende il complesso di credenze,
di conoscenze, di pratiche, abitudini che l’uomo acquisisce in
quanto membro di una società. Definizione che, del resto, è stata
rielaborata in forme assai differenti dai successivi antropologi.
Ma
qual è la differenza tra i percorsi interpretativi ed esplicativi
inerenti alle due diverse nozioni qui rapidamente analizzate? Direi
che la differenza essenziale sta nel fatto che con la nozione
di cultura,
utilizzabile con la coscienza piena del suo senso, si intende mettere
in opera una visione olistica della società, evitando non solo di
stabilire una certa specifica gerarchia tra le varie istanze sociali,
ma anche di individuare il loro specifico nucleo costitutivo. Tutto
(politica, economia, religione, ambiente umanizzato) è permeato da
un’unica dimensione, dai contorni non agilmente definibili, che,
nelle forme relativistiche più estreme, non costituisce più una
rappresentazione del mondo, ma essa stessa diventa il mezzo tramite
il quale quest’ultimo si costituisce e si consolida dinanzi ai
nostri occhi. Insomma, non rappresenta più, perché non c’è più
nulla da rappresentare o noi non siamo in grado di cogliere cosa c’è
al di là del nostro pensiero. Giunti a queste conclusioni, alcuni
antropologi (per es. Eduardo Viveiros de Castro, Philippe Descola)
hanno sostenuto che ogni cultura non è tanto una diversa concezione
del mondo, da cui scaturirebbe il relativismo. Al posto di
quest’ultimo, essi propongono il multinaturalismo, ossia l’idea
che gli esseri umani vivono in mondi diversi e quindi elaborano
diverse ontologie, tra le quali non ha un primato quella dualistica
occidentale[2] (v. Tierra
adentro,
2004).
Tale
atteggiamento, per il quale tutto è modificabile attraverso il
mutamento dei modi di pensare, non tiene conto che in essi si
esprimono certi interessi, a loro volta intrecciati a determinati
rapporti di potere, radicati in una realtà a noi esterna. Inoltre,
esso rifiuta l’impostazione dualistica implicita a questa
posizione. In questo senso, anche l’Europa è un’entità
culturale – più che una potenza consolidata -, portatrice di certi
valori (diritti umani, competizione volta alla valorizzazione del
migliore, enfasi sull’individuo), che con un salto acrobatico
diventano universali e per questo destinati ad essere imposti anche
ai paesi recalcitranti. Del resto, tali valori non sono recepiti
nemmeno dagli stessi cittadini europei, che nonostante i ripetuti
appelli alla coesione contro il nemico comune, mostrano in vari modi
segni profondi di disaffezione verso il progetto europeo, che avrebbe
salvato il continente da possibili scontri bellici (si dimenticano
dell’Jugoslavia).
All’olismo
il marxismo oppone una concezione gerarchica dei vari fattori,
indissolubilmente legata alla nozione di “determinazione”, la
quale però è stata oggetto di varie revisioni, perché rappresenta
un nodo cruciale senza il quale – scrive Williams – il marxismo è
<<in effetti privo di valore>>; tali revisioni rispetto
al marxismo ortodosso – aggiunge lo studioso britannico – hanno
fatto sì che esso sia stato dotato di molteplici modi di intendere
la determinazione, fatto che gli impedisce <<qualunque
possibilità di operare>> (1979: 111).
Questi
aspetti fanno dell’approccio culturalistico una visione del tutto
irrealistica del mondo contemporaneo, nel cui contesto le diverse
“culture” confliggerebbero solo perché non hanno ancora imparato
a rispettarsi e a dialogare tra loro. Allora il problema dei suoi
fautori, reso più eclatante dalle migrazioni di massa, suscitate
dalla politica del “caos creativo” sull’altra sponda del
Mediterraneo, è rendere tutti capaci di accettare il “diverso”
sulla base di una tolleranza generalizzata; la quale però viene
abbandonata quando la diversità altrui mette a rischio la nostra
“identità”. Vedasi il caso dell’abbigliamento femminile
islamico o quello più drammatico dell’attacco violento al nostro
stesso stile di vita che gli attentati terroristici, terrorizzandoci
e uccidendo indiscriminatamente, mirano a farci cambiare (almeno
questa è l’interpretazione massmediatica).
Un
altro tentativo, alquanto riuscito, di accantonare la nozione di
“ideologia”
è costituito dall’introduzione nelle scienze sociali di quella
di discorso, proposta
dal noto studioso francese Michel Foucault e dai suoi numerosi
seguaci. Tale nozione, legata al modo di intendere il potere non più
sedimentato in specifiche istituzioni, ma caratterizzato dalla
pervasività che avvolge la nostra vita quotidiana nei suoi minimi
dettagli, rischia di mettere sullo stesso piano eventi di portata
assai diversa. Come scrive Eagleton, <<La forza del
termine ideologia risiede
nella sua capacità di determinare quali lotte di potere sono
centrali per la vita sociale e quali non lo sono>>, forza di
cui, invece, non è dotata l’espressione discorso.
Infatti, se tutto diventa discorso,
nel senso di costruzione di aspetti della realtà al fine di fondare
sul processo discorsivo il proprio potere, finiamo con l’assimilare
paradossalmente una lite tra bambini per un pallone e il conflitto
scaturito tra le forze governative del Salvador e il movimento di
liberazione di quel paese (Eagleton 2007: 21); e ciò avverrebbe
perché il discorso, in
quanto fondatore del potere, ci
consente di considerare ogni evento in egual misura politico e
portatore di una lotta per la supremazia. Come si ricorderà l’idea
che “Tutto è politico” era propria degli studenti contestatori
del 1968, assai influenzati dal pensiero anarchico e in particolare
dal pensiero di Étienne de la Boétie (1530-1563), intimo amico di
Michel de Montaigne.
Come
è noto, questi scrisse lo straordinario Discorso
sulla servitù volontaria, nel
quale ha sostenuto la tesi che in realtà il potere e la gerarchia
sono stati fondati dal basso, a partire dalla volontà dei molti di
sottomettersi ai pochi, che Perluigi Fagan definisce <<pulsione
all’auto-assoggettamento>>. E ciò allo scopo di ottenere in
cambio sicurezza e tranquillità
(https://pierluigifagan.wordpress.com/2017/07/24/leterno-ritorno-della-servitu-volontaria-riprendendo-in-mano-lintuizione-di-etienne-de-la-boetie/).
Ma se il potere nasce dal basso e non dall’alto diventa evidente
che è dal basso che può essere distrutto, come si può ricavare
dallo slogan sessantottino “Il padrone ha bisogno di te, ma tu non
hai bisogno di lui”.
L’analisi
del sorgere della gerarchia e delle strutture di potere ad essa
connaturate ha alimentato la messa in discussione generalizzata di
ogni forma di strutturazione gerarchica, considerata anche come uno
strumento idoneo alla riduzione della complessità sociale
(https://pierluigifagan.wordpress.com/2017/07/03/seimila-anni-di-societa-complesse/);
nello stesso tempo, ha fomentato la messa in discussione
generalizzata di ogni forma di strutturazione gerarchica. Tale
rifiuto anarcoide di fondare il proprio comportamento e la propria
riflessione sull’individuazione delle priorità proprie di un certo
contesto ci conduce in un vicolo cieco. Infatti, come si è visto, ci
impedisce di scegliere quali sono gli effettivi bersagli principali
cui mirare, se si ha come obiettivo l’abbattimento di un sistema di
potere ingiusto e brutale.
Mi
viene in mente un esempio, che forse potrebbe scandalizzare qualcuno,
pensando all’uso diffuso di non usare più esclusivamente il
maschile per riferirsi a un gruppo di uomini e donne, dando un forte
significato simbolico a tale comportamento. Ma dobbiamo chiederci se
esso cambia veramente qualcosa nelle relazioni tra uomini e donne, e
se non sarebbe forse più appropriato alzare il tiro e mirare alla
diffusione e al potenziamento degli asili nido, che consentirebbero
alla donna di vivere con maggiore serenità la propria maternità?
Spero
di essere riuscita a mostrare come la nozione di cultura e
quella di discorso,
rifiutando il riduzionismo economicistico con cui sostanzialmente il
marxismo viene identificato, paradossalmente ripropongono un'altra
forma di riduzionismo nel primo caso culturale, nel secondo politico
(tutto è cultura, tutto è politica). Inoltre, comportando lo
svantaggio derivato dalla rinuncia a un qualche criterio di priorità,
fanno della società un amalgama indifferenziato in cui è
impossibile discernere cosa è più importante rispetto al resto, il
che non vuol dire debba essere messo tra parentesi, perché
insignificante e superfluo. Infine, se tutto è cultura o tutto è
politica, tali parole perdono un significato preciso, essendo
impossibile individuare il loro contrario e il contesto appropriato
della loro utilizzazione (v. Eagleton 2007: 20).
A
mio parere, tali considerazioni rendono la ricerca più appassionante
perché si deve in
primis individuare
un criterio di priorità e nello stesso tempo ricostruire le diverse
articolazioni tra le priorità focalizzate e i livelli per così dire
secondari. Se non si procedesse in questo modo – come scrive Engels
-, <<l’applicazione della teoria [marxismo] a un qualsiasi
periodo storico che uno sceglie sarebbe più facile che la soluzione
di un’equazione semplice di primo grado>> (cit. in Williams
1968: 317).
Illusione
e/o strumento della lotta di classe
Secondo
Raymond Williams, altro marxista britannico, nella letteratura
marxista il termine ideologia assume
tre significati diversi: 1. Sistema di idee e di opinioni proprie di
una classe o di un gruppo particolare, come per esempio il folclore
per Gramsci o l’”ideologia socialista” per Lenin, che
paradossalmente però viene creata da intellettuali borghesi[3];
a suo parere, infatti, da soli i proletari sarebbero giunti al
tradunionismo (334-335)[4];
2. Un insieme di idee illusorie e quindi false identificate con
l’espressione “falsa coscienza”. 3. <<Il processo
generale della produzione dei significati e delle idee>> (in
questo caso assomiglia alla cultura).
Osserva Williams spesso le due prime definizioni vengono combinate. A
suo parere, la terza definizione è autonoma dalle due precedenti e,
in qualche modo, le supera, anche se secondo lo studioso britannico
in generale i marxisti hanno preferito le prime due versioni (almeno
fino all’anno della pubblicazione del suo libro Marxismo
e letteratura,
1979, 74-75).
Williams
scrive che non vuole suscitare polemiche, ma vuole riportare la
nozione di ideologia e
le sue varianti al contesto storico in cui si sono formate.
Ricordando l’elaborazione illuministica del termine ideologia e
della teoria ad essa relativa, egli sottolinea che essa viene
considerata un insieme di idee, che di fatto sono solo <<sensazioni
trasformate>>, mettendo così l’accento sull’origine
esclusivamente umana delle prime. Nello stesso tempo egli si richiama
alla concezione di ideologia propria
di Napoleone, il quale la considerava una <<teoria non
pratica>> o un’<<illusione astratta>>; concezione
ripresa da Marx ed Engels, anche se da un’angolatura differente
(1979: 75-77).
Nell’Ideologia
tedesca i
due inseparabili autori scrivono: <<Non si parte da ciò che
gli uomini dicono, si immaginano, si rappresentano, né da ciò che
si dice, si pensa, si immagina, si rappresenta che siano, per
arrivare da qui agli uomini vivi; ma si parte dagli uomini realmente
operanti e sulla base del processo reale della loro vita si spiega
anche lo sviluppo dei riflessi e degli echi ideologici di questo
processo di vita. Anche le immagini nebulose che si formano nel
cervello dell’uomo sono necessarie sublimazioni del processo
materiale della loro vita, empiricamente constatabile e legato a
presupposti materiali>>.
Da
ciò ricavano che tutte le forme di coscienza non hanno autonomia, ma
hanno le loro radici nelle condizioni materiali di esistenza.
Nell’opinione di Williams è del tutto corretto sostenere che
l’ideologia non costituisce un’entità autonoma, ma non condivide
l’impiego delle espressioni quali riflessi, echi, immagini nebulose
da parte di Marx ed Engels, dato che a suo parere tali termini ci
riconducono all’ingenuo dualismo proprio del <<materialismo
meccanicistico>>.
Assai
più apprezzabile gli sembra la posizione che Marx assume, invece,
nel Capitale (vol.
I), dove sviluppa il celebre accostamento tra l’ape e l’architetto,
nel quale considera la coscienza <<come parte del processo
materiale umano>>. <<Ciò che distingue il peggior
architetto dalla migliore ape è il fatto di aver costruito la
propria cella nella propria testa prima di costruirla in cera. Al
termine del processo lavorativo, si ha un risultato che era già
presente all’inizio nella mente del lavoratore>>.
Secondo
lo studioso britannico, questo costituiva il vero passo avanti fatto
da Marx, con il quale veniva introdotta come <<correttivo
dell’astratto empirismo>> <<la storia materiale e
sociale come rapporto reale tra uomo e natura>>, ma purtroppo
questa prospettiva non fu seguita, e si dimenticò che gli uomini
vivi da cui bisogna partire erano anche coscienti. Egli pensa anche
che potrebbe trattarsi di una fantasia oggettivistica, fondata
sull’idea che si possa cogliere l’intero processo reale della
vita degli uomini al di fuori del linguaggio e delle concezioni da
esso espresse. L’aspetto centrale della scoperta di Marx ed Engels
era che avevano individuato una nuova relazione tra la coscienza e il
processo materiale umano, ma questa nuova visione non fu chiara e ciò
costituì la fonte della <<ingenua riduzione, in gran parte del
pensiero marxista successivo, di coscienza, immaginazione, arte e
idee a “riflessi”, “echi”, “immagini nebulose” e
“sublimazioni” (1979: 80-82).
Seguiamo
passo passo la riflessione di Williams: egli cita un altro brano
dell’Ideologia
tedesca,
in cui si sottolinea che è la separazione tra
coscienza e pensiero dal processo sociale, operata inconsapevolmente,
che trasforma questi ultimi in ideologia;
Marx ed Engels introducono, pertanto, una scissione tra
la coscienza ideologica, da un lato, e il <<sapere reale>>
e il <<processo pratico>>, in contraddizione con la tesi
precedente secondo cui essere e coscienza sono inseparabili. Ma
tale separazione permette
loro di distinguere tra scienza e ideologia, essendo la prima <<il
sapere reale>> del <<processo pratico>> e la
seconda la <<falsa coscienza>>[5].
Commenta lo studioso britannico: <<Il risultato di tale
separazione (contrapposta alla concezione originaria d’un
processo indissolubile)
è la farsesca esclusione della coscienza dallo <<sviluppo
degli uomini>> e dal <<sapere reale>> di questo
sviluppo>>; a suo parere, per venire fuori dalla contraddizione
tra indissolubilità e contrapposizione della
relazione tra vita sociale materiale e coscienza, viene elaborato il
modello dei due stadi (versione materialistica del dualismo
idealista), <<secondo il quale vi è prima la
vita sociale materiale, e poi,
a una certa distanza temporale o spaziale, la coscienza e i “suoi”
prodotti>> (primum
vivere deinde philosophari).
In base a tale schema coscienza e idee sono ridotti a
meri riflessi di
quanto si è già realizzato nel processo sociale materiale (1979:
82-83).
Contro
questa impostazione, che considera riduttiva, Williams sostiene che
la coscienza e i suoi prodotti sono sempre parte del processo
materiale variabile, in quanto sono presenti sin dall’inizio nella
mente del lavoratore (l’architetto), sia nelle condizioni
necessarie del lavoro associato, nel linguaggio e nelle idee pratiche
di rapporto, sia nei processi reali, che sono attività materiali
sociali. Se non si tiene conto di ciò, non si prende coscienza che
pensare e immaginare sono processi sociali, interiorizzati dagli
individui e sono accessibili agli altri solo attraverso le loro
espressioni materiali: voci, suoni, scrittura, materiali forgiati in
vario modo (1979: 83-84).
Tenendo
conto dunque della riflessione di Marx ed Engels,
l’ideologia costituisce
un sistema di opinioni, legato ad un certo gruppo sociale, e nello
stesso tempo un sistema di opinioni illusorie (falsa coscienza)
opponibile alla conoscenza vera e scientifica.
Nel
caso in cui, tuttavia, tali idee vengono ridotte a echi e riflessi,
la coscienza viene considerata un’emanazione delle condizioni
sociali di vita e Marx ed Engels finirebbero con lo sprofondare nel
materialismo meccanicistico, contro cui polemizzano (e questa sarebbe
secondo Eagleton, allievo di Williams, una definizione di carattere
epistemologico di ideologia, 2007: 105); nell’ipotesi in cui
l’ideologia diventi,
invece, un’<<attrezzatura intellettuale>> di una classe
sociale, che potrebbe contenere elementi di verità, pur essendo
impiegata da un potere ingiusto e dominante, siamo di fronte ad una
definizione di matrice politica (Eagleton 2007: 115). Per esempio, si
potrebbe prendere in considerazione la riflessione di Gramsci sul
folclore progressivo, vincolato alle classi subalterne, nel quale a
suo parere sarebbe presente l’embrione della coscienza di classe
(Ciattini 2013: 93-108).
Secondo
lo studioso britannico il superamento di queste ambiguità può
avvenire sostanzialmente con l’abbandono dell’opposizione
coscienza <<vera>> coscienza <<falsa>>, e
riformulando l’ideologia come
<<il complesso processo all’interno del quale gli uomini
“divengono” (sono) consci dei loro interessi e dei loro
conflitti>> (Williams 1979: 91). D’altra parte, se
l’ideologia è falsa nella misura in cui è plasmata dalle sue
determinazioni sociali – alle quali dobbiamo ricondurla per
comprendere i suoi contenuti – ogni sistema di pensiero è falso in
quanto socialmente condizionato. Allora il problema si sposta e
diventa quello di esaminare le sue specifiche determinanti.
Interessante mi sembra la soluzione che Eagleton dà a questo
problema e che possiamo far nostra: <<Non c’è motivo di
ritenere che l’unica alternativa all’ideologia (falsa coscienza)
sia una conoscenza “non prospettica” e socialmente disimpegnata;
possiamo semplicemente affermare che, in certi momenti storici, certi
punti di vista socialmente determinati siano più veri di altri.
Qualcuno può essere in “condizione di sapere” e altri no. Il
fatto che tutti i punti di vista siano socialmente determinati non
implica che tutti i punti di vista abbiano lo stesso valore>>
(2007: 69-70)[6].
Queste
affermazioni ci portano a ribadire che la coscienza è <<essere
sociale, è il possesso – tramite lo sviluppo di rapporti sociali
attivi e specifici – di una precisa capacità sociale che si
concreta in un sistema dei segni>>. Quest’ultimo,
assimilabile ad ogni forma di linguaggio e di espressione simbolica,
è al contempo interiorizzabile e materiale, in quanto deve
estrinsecarsi in supporti visibili e percepibili (Williams 1979: 55).
Tale concezione del linguaggio, sviluppata da Valentin N. Volosinov
in un libro in cui sarebbero state recepite le idee di M. Bachtin
(Marxismo
e filosofia del linguaggio,
Bari 1976, ed. or 1929)[7],
ci consente di non separare il linguaggio, inteso come “coscienza
pratica” (espressione di Marx ed Engels) dal processo della vita
reale, da momento che il segno o l’elemento significante di un
linguaggio, radicati in un supporto materiale, sono il risultato
dell’interazione sociale e sono dotati di un ventaglio variabile di
significati in relazione alle diverse situazioni in cui vengono
impiegati (1979: 53). Evitando di scindere materiale e
rappresentativo, Volosinov scrive che: <<…qualsiasi oggetto
materiale, tecnologico e di consumo, può diventare un segno,
acquistando in tale processo un significato che va oltre la sua data
particolarità>>. E aggiunge: <<Un segno non esiste
semplicemente come parte della realtà – esso riflette e
rifrange[8] un’altra
realtà. Perciò, esso può distorcere questa realtà, o essere
fedele ad essa, o vederla da un particolare punto di vista, e così
via>> (1976: 59). Esso sorge <<nelle condizioni e nelle
forme della comunicazione sociale>>, anzi <<l’esistenza
del segno non è altro che la materializzazione di questa
comunicazione>>. Tali aspetti appaiono in maniera chiara nella
<<parola
che è il fenomeno ideologico per eccellenza>>
(corsivo nel testo), e al contempo <<il segno più puro e più
sensibile del rapporto sociale>> (1976: 64). In questo senso,
per lo studioso sovietico <<Il segno è un atto creativo
interindividuale, un atto creativo all’interno di un ambiente
sociale…solo
ciò che ha acquistato un valore sociale può penetrare nel mondo
dell’ideologia, prendere forma e stabilirvisi>>
(1976: 76, corsivo nel testo).
Connesso
al segno è il tema, ossia il contenuto del segno, il quale è sempre
dotato di un’accentuazione sociale, ossia di una sfumatura
significativa che acquisisce nell’uso che ne viene fatto
nell’interazione sociale. Il tema di un segno ideologico e la sua
forma sono inestricabilmente connessi. Dal momento che la classe non
costituisce una comunità segnica e che classi differenti usano nelle
comunicazioni la stessa lingua, <<accenti differentemente
orientati si intersecano in ogni segno ideologico>> In tale
intersecazione si esprimono interessi diversi collegati alle
differenti classi, ed è per questo che nella comunicazione sociale
si palesa la lotta di classe (1976: 78).
Tale
osservazione riprende le celebri parole di Marx ed Engels che qui
riporto: <<Fin dall’inizio lo “spirito” porta con sé la
maledizione di essere “infetto” dalla materia, che si presenta
qui sotto forma di strati di aria agitati, di suoni, e insomma di
linguaggio. Il linguaggio è antico quanto la coscienza, il
linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per gli
altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e
il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla
necessità di rapporti con altri uomini>> (cit. in Williams
1979: 38). Bisogna aggiungere che in quanto sistema ha una sua forma
cristallizzata, ma non pietrificata, che non esclude il mutamento in
linea con il processo sociale (cit. in Williams 1979: 56).
Inoltre,
altri elementi problematici vengono messi in luce dal passo di Lenin,
citato in precedenza, in cui si parla di <<coscienza
socialista>>, che mette in rilievo due aspetti importanti: 1)
essa non può essere illusoria ed è identificabile con la
<<coscienza di classe>>; 2) se i lavoratori possono
giungere a tale livello coscienziale solo con l’apporto degli
intellettuali borghesi, essa non può scaturire direttamente dal
<<processo reale della loro vita>>.
Non
credo sia possibile parlare di questa specifica riflessione
britannica sulla nozione di ideologia,
senza dedicare un po’ di spazio al concetto marxiano di feticismo e
al processo dal quale scaturirebbe.
Feticismo
e ideologia
Anche
in questo caso farò ricorso alle osservazioni di Eagleton, il quale
mette in evidenza che il feticismo
della merce rappresenta
una versione assai diversa di ideologia (2007:
108). In primo luogo, in virtù di questo meccanismo, <<i
rapporti umani appaiono in modo mistificato come rapporti tra cose>>.
Da ciò consegue che il reale funzionamento della vita sociale viene
occultato, dal momento che la dimensione sociale dell’attività
lavorativa, che si fonda sulla relazione tra persone, viene resa
invisibile e nascosta dalla circolazione delle merci.
A
parere di Eagleton vi è una trasformazione tra la concezione
dell’ideologia presente nell’Ideologia
tedesca e
quella elaborata invece nelle pagine del Capitale dedicate
al feticismo della merce. Tale differenza sta nel fatto che nella
prima opera essa poteva venir ridotta a <<falsa coscienza>>,
perché in certe condizioni gli uomini non coglievano l’intima
relazione tra l’ideologia e il processo della vita reale, invece,
nell’opera matura la costruzione dell’ideologia segue un altro
percorso. Infatti <<Il problema non è solo la percezione
distorta da parte degli esseri umani, la cui coscienza rovescia il
mondo reale e immagina un controllo delle loro vite da parte delle
merci. Marx non afferma che in un regime capitalistico le
merci sembrano esercitare
un’influenza tirannica sulle relazioni sociali; afferma che esse le
influenzano davvero>>. Quindi, siamo qui di fronte a un reale
rovesciamento della realtà e non al processo in base al quale la
realtà si presenta invertita nella mente e l’immagine così
prodotta deve essere ricollegata alla fonte da cui si è sprigionata
per esser decifrata. La stessa economia capitalistica <<produce
la sua stessa percezione erronea>> (Eagleton 2007: 109-110). In
questo caso, mi pare, che noi possiamo comprendere la falsità della
nostra percezione solo con un’implicita opera di comparazione con
una ipotetica società in cui le relazioni tra gli uomini non si
presentano e non funzionino come relazioni tra oggetti, oppure
adottando un punto di vista estraneo al sistema ma incarnato in certi
settori sociali, in esso presenti.
Dopo
aver osservato questa differenza tra le diverse concezioni
dell’ideologia nella riflessione di Marx ed Engels, Eagleton
giudica negativamente la svolta operata nel Capitale. Egli ritiene,
infatti, che nelle considerazioni sul feticismo della merce gli
uomini finiscono col diventare i <<ricettori passivi di certi
effetti oggettivi, le vittime di una struttura sociale data
spontaneamente alla loro coscienza>>. Ciò che a suo parere non
viene preso in considerazione sono le varie modalità interpretative
che gli uomini possono elaborare dei meccanismi di funzionamento
della realtà sociale in cui si trovano a vivere. Comunque, anche in
questo caso, questa impossibilità di vedere di primo acchito come
stanno effettivamente stanno le cose, rafforza il potere dominante e
la struttura classista della società (2007: 113).
Concludendo,
nonostante le complessità e le ambiguità di cui sembra essere
intriso il concetto di ideologia, mi sembra che soprattutto rispetto
alla nozione di cultura e a quella di discorso conservi tutto il suo
carattere rivoluzionario ed emancipatorio, se si mette l’accento su
una serie di elementi che abbiamo ricavato dalla nostra lettura
analitica: essa è coscienza sociale e non precede l’essere ma è
ad esso simultanea, è legata ad una data esperienza, che può
sprigionarsi anche dal modo in cui la stessa realtà si configura
effettivamente, è connessa a un gruppo sociale, ai suoi interessi e
alla sue aspirazioni, esprime il modo in cui questi ultimi sono
percepiti e valutati nell’ambito della lotta di classe che il
gruppo in questione vuole portare avanti. In questo senso, le sue
elaborazioni non sono mai totalmente false, in quanto contengono una
visione angolata che dal punto di vista di chi l’adotta ha
un’innegabile validità e sono radicate nel modo in cui la realtà
si dispiega. Inoltre, e non di meno, come ci dice Gramsci (1975, vol.
III, Q. 27: 2311, 2313), l’ideologia, in particolare la cultura
popolare, contiene residui importanti di concezioni culturali e
filosofiche del passato, oltre a rispondere a quesiti di carattere
esistenziale, come la sofferenza e la morte.
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Note
[1] Eagleton
è accusato da un suo competente critico, David Brooks (1995), di
fornire molteplici definizioni di ideologia, rendendo il suo
ragionamento difficile da seguire e confuso.
[2] Naturalmente
l’idea che la cultura e la filosofia occidentale si basino solo su
un’ontologia dualistica è ampiamente criticabile.
[3] Invece,
per il marxismo storicista (Gramsci) vi è una relazione di
continuità tra materialismo storico e coscienza proletaria (Eagleton
2007: 116).
[4] Scrive
Lenin nel Che
fare?:
<<Socialismo e lotta di classe nascono l’uno accanto
all’altra, ma non uno dall’altra; La coscienza socialista
contemporanea non può sorgere che sulla base di profonde cognizioni
scientifiche…Il detentore della scienza non è il proletariato, ma
sono gli intellettuali
borghesi…anche
il socialismo contemporaneo è nato dal cervello di alcuni membri di
questa ceto, ed è stato da essi comunicato ai proletari più elevati
per il loro sviluppo intellettuale, i quali in seguito lo introducono
nella lotta di classe del proletariato, dove le condizioni lo
permettono>> (1972: 72 da Che
fare?). Queste
parole riprendono un’affermazione di Marx ed Engels
nel Manifesto: <<…
ora una parte della borghesia si unisce al proletariato, e
segnatamente una parte degli ideologi borghesi, che sono giunti ad
intendere teoreticamente tutto il movimento storico>> (1994:
27).
[6] Se
non si accetta questa prospettiva abbiamo due possibilità: lo
scetticismo legato all’impossibilità di scegliere tra due punti di
vista, o l’idea via sia una monade superiore, in grado di unificare
tutti i punti di vista possibili (G. W. Leibniz). Quest’ultima
visione implica il ritorno alla nozione di “verità assoluta”.
[8] Si
noti che dal punto di vista fisico riflessione e rifrazione non sono
identiche; nel primo caso, attraversando un mezzo trasparente la luce
si divide in due raggi, nel secondo, il raggio subisce una deviazione
quando si sposta da un mezzo trasparente a uno meno trasparente. Tale
metafora rende più complessa la relazione tra struttura e
sovrastruttura.
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