Vedi anche: "L'ordine
del tempo" - Carlo Rovelli
Ci sono capolavori assoluti che ci emozionano intensamente, il Requiem di Mozart, l’Odissea, la Cappella Sistina, Re Lear… Coglierne lo splendore può richiedere un percorso di apprendistato. Ma il premio è la pura bellezza. E non solo: anche l’aprirsi ai nostri occhi di uno sguardo nuovo sul mondo. La Relatività Generale, il gioiello di Albert Einstein, è uno di questi. Ricordo l’emozione quando cominciai a capirne qualcosa. Era estate. Ero su una spiaggia della Calabria, a Condofuri, immerso nel sole della grecità mediterranea, al tempo dell’ultimo anno di università. Studiavo su un libro un po’ rosicchiato dai topi, perché l’avevo usato per chiudere le tane di queste bestiole, di notte, nella casa un po’ malandata sulla collina umbra, dove andavo a rifugiarmi dalla noia delle lezioni universitarie di Bologna. Ogni tanto alzavo gli occhi dal libro per guardare lo scintillio del mare: mi sembrava di vedere l’incurvarsi dello spazio e del tempo immaginati da Einstein. Era come una magia: come se un amico mi sussurrasse all’orecchio una straordinaria verità nascosta, e d’un tratto scostasse un velo dalla realtà, per svelarne un ordine più semplice e profondo. Da quando abbiamo imparato che la Terra è rotonda e gira come una trottola pazza, abbiamo capito che la realtà non è come ci appare: ogni volta che ne intravediamo un pezzo nuovo è un’emozione. Un altro velo che cade. Ma il salto compiuto da Einstein è un salto forse senza eguale.
Perché? Per prima cosa, perché una volta capito come funziona, la teoria è di una semplicità mozzafiato. Provo a riassumerne l’idea. Newton aveva cercato di spiegare perché le cose cadono e i pianeti girano. Aveva immaginato una «forza» che tira tutti i corpi l’uno verso l’altro: l’aveva chiamata «forza di gravità». Come facesse questa forza a tirare le cose da lontano, senza che ci fosse niente in mezzo, non era dato sapere. Newton aveva anche immaginato che i corpi si muovessero nello spazio, e lo spazio fosse un grande contenitore vuoto, uno scatolone rigido per l’Universo. Un’immensa scaffalatura nella quale corrono diritti gli oggetti, fino a che una forza non li faccia curvare. Di cosa fosse fatto questo «spazio» contenitore del mondo, neppure era dato sapere. Ma pochi anni prima della nascita di Albert, due grandi fisici britannici, Faraday e Maxwell, avevano aggiunto un ingrediente nuovo al freddo mondo di Newton: il campo elettromagnetico. Il campo è un’entità reale diffusa, che porta le onde radio, riempie lo spazio, può vibrare e ondulare come la superficie di un lago, e “porta in giro” la forza elettrica. Einstein, affascinato fin da ragazzo dal campo elettromagnetico, che faceva girare i rotori delle centrali elettriche che costruiva papà, capisce che anche la gravità, come l’elettricità, deve essere portata da un campo: ci deve essere un «campo gravitazionale»; e cerca di capire come possa essere fatto e quali equazioni lo possano descrivere.
E qui arriva l’idea straordinaria, il puro genio: il campo gravitazionale non è diffuso nello spazio, il campo gravitazionale è lo spazio. Lo «spazio» di Newton, nel quale si muovono le cose, e il «campo gravitazionale», che porta la forza di gravità, sono la stessa cosa. È una folgorazione. Una semplificazione impressionante del mondo: lo spazio non è più qualcosa di diverso dalla materia; è una delle componenti «materiali» del mondo. Un’entità che ondula, si flette, si incurva, si storce. Non siamo contenuti in una invisibile scaffalatura rigida: siamo immersi in un gigantesco mollusco flessibile. Il Sole piega lo spazio intorno a sé e la Terra non gli gira intorno perché è tirata da una misteriosa forza, ma perché sta correndo diritta in uno spazio che si inclina. Come una pallina che rotoli in un imbuto: non ci sono forze misteriose generate dal centro dell’imbuto, è la natura curva delle pareti a fare ruotare la pallina. I pianeti girano intorno al Sole e le cose cadono perché lo spazio si incurva.
Come descrivere questo incurvarsi dello spazio? Il più grande matematico dell’Ottocento, Carl Friedrich Gauss, «principe dei matematici», aveva scritto la matematica per descrivere le superfici curve bidimensionali, come la superficie delle colline. Poi aveva chiesto a un suo bravo studente di generalizzare il tutto a spazi curvi di dimensione tre o più. Lo studente, Bernhard Riemann, aveva prodotto una ponderosa tesi di dottorato, di quelle che sembrano completamente inutili. Il risultato era che le proprietà di uno spazio curvo sono catturate da un certo oggetto matematico, che oggi chiamiamo la curvatura di Riemann e indichiamo con R. Einstein scrive un’equazione che dice che R è proporzionale all’energia della materia. Cioè: lo spazio si incurva là dove ci sia materia. È tutto. L’equazione sta in una mezza riga, non c’è altro. Una visione e un’equazione.
Ma dentro quest’equazione, c’è un universo rutilante. E qui si apre la ricchezza magica di questa teoria. Una successione fantasmagorica di predizioni che sembrano i deliri di un pazzo, e invece sono state tutte verificate dall’esperienza. L’equazione descrive come si curva lo spazio intorno a una stella. A causa di questa curvatura, la luce devia. Einstein predice che il Sole devii la luce. Nel 1919 viene compiuta la misura, e risulta essere vero. Non è solo lo spazio a incurvarsi, ma anche il tempo; ed Einstein predice che il tempo passi più veloce in alto e più lento in basso, vicino alla Terra. Si misura, e risulta essere vero. Di poco, ma il gemello che ha vissuto al mare ritrova il gemello che ha vissuto in montagna un poco più vecchio di lui. È solo l’inizio. Quando una grande stella ha bruciato tutto l’idrogeno, si spegne e quanto resta viene schiacciato sotto il proprio stesso peso, fino a curvare lo spazio così fortemente da sprofondare dentro un vero e proprio buco. Sono i famosi buchi neri. Quando studiavo all’università, erano poco credibili predizioni di una teoria esoterica. Oggi sono osservati nel cielo a centinaia. Ma non basta. Lo spazio intero può distendersi e dilatarsi; anzi, l’equazione indica che non può stare fermo, deve essere in espansione. Nel 1930, l’espansione dell’Universo viene effettivamente osservata. E la stessa equazione predice che l’espansione debba essere nata dall’esplosione di un giovane universo piccolissimo e caldissimo: è il Big Bang. Ancora una volta, nessuno ci crede, ma le prove si accumulano, fino a che nel cielo viene osservata la radiazione cosmica di fondo: il bagliore diffuso che rimane dal calore dell’esplosione iniziale. E ancora, la teoria predice che lo spazio si increspi come la superficie del mare, e gli effetti di queste «onde gravitazionali» sono osservati nel cielo sulle stelle binarie, e combaciano con le previsioni della teoria con la sbalorditiva precisione di una parte su cento miliardi. E così via.
Insomma, la teoria descrive un mondo colorato e stupefacente, dove esplodono universi, lo spazio sprofonda in buchi senza uscita, il tempo rallenta abbassandosi su un pianeta, e le sconfinate distese di spazio interstellare si increspano come la superficie del mare… e tutto questo, che emergeva pian piano dal mio libro rosicchiato dai topi, non era una favola raccontata da un idiota in un accesso di furore, o l’effetto del sole della Calabria, un’allucinazione sul baluginare del mare. Era realtà. O meglio, uno sguardo verso la realtà, un po’ meno velato di quello della nostra offuscata banalità quotidiana. Una realtà che sembra anch’essa fatta della materia di cui son fatti i sogni, ma pur tuttavia più reale del nostro annebbiato sogno quotidiano. E tutto questo, il risultato di un’intuizione elementare: lo spazio e il campo sono la stessa cosa. E di un’equazione semplice, che non resisto a ricopiare qui, anche se il lettore non potrà certo decifrarla, ma vorrei che almeno ne vedesse la semplicità:
Tutto qui. Certo, ci vuole un percorso di apprendistato per digerire la matematica di Riemann e impadronirsi della tecnica per leggere quest’equazione. Ci vuole un po’ d’impegno e fatica. Ma meno di quelli necessari per arrivare a sentire la rarefatta bellezza di uno degli ultimi quartetti di Beethoven.
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