Mi
rendo conto che mi accingo a trattare una questione assai delicata,
che presenta molteplici sfaccettature e che può dar luogo a
incomprensioni, suscitando anche un immediato e irritato rigetto. Ma
credo che per il fatto che oggi esistono nel mondo – in questo
contesto dobbiamo ragionare – numerosi gruppuscoli che si
autodefiniscono comunisti, ma che non hanno pressoché nessuna
incidenza sulla realtà e per di più sono spesso in rapporti astiosi
tra loro, questa questione debba essere affrontata di petto (questo
vale per Europa, America e Oceania; in Africa e in Asia ci sono
partiti comunisti più consistenti sia pure di diverse tendenze). In
particolare, è indispensabile far riferimento all’innegabile
crisi, anche fomentata dall’esterno, dei governi progressisti
latinoamericani, perché potrebbe fornirci l’occasione – spero –
di ricucire le antiche lacerazioni ancora doloranti.
In
primo luogo, vorrei spiegare a chi non la conosce la differenza tra
“socialismo del XXI
secolo” e “socialismo nel XXI
secolo”. Nel primo caso, secondo lo stile postmoderno si
intende sottolineare una rottura tra il socialismo del passato,
drammaticamente naufragato, e quello contemporaneo; nel secondo,
invece, si indica la presenza di un filo rosso che lega i due diversi
fenomeni storici, che potrebbe esser rappresentato dalla volontà di
plasmare in entrambi i casi i rapporti sociali sulla base del
principio dell’uguaglianza.
Quanto
alla crisi umanitaria, ci chiediamo esplicitamente quanto abbiano
contribuito a generarla le
sanzioni prese da Stati Uniti ed Europa (si
veda anche Telesur),
per esempio la non restituzione di 18 miliardi di dollari, trattenuti
dai primi, il rifiuto di Londra di rimandare a Caracas un miliardo e
200 milioni di dollari in oro, depositati nella City, il mancato
invio nel 2018 di 2 miliardi e 500 milioni di dollari. E la lista
potrebbe continuare. Tutti questi dollari trattenuti in cambio di un
miserevole aiuto umanitario di 20 milioni di dollari inviato da
questi sedicenti benefattori, il cui scopo è solo quello di
destabilizzare ancora di più il governo di Nicolás Maduro. Non
dobbiamo neppure dimenticare l’accaparramento dei beni e farmaci
indispensabili nella vita quotidiana scoperti e denunciati dal
governo venezuelano.
A
ciò dobbiamo aggiungere alcune informazioni sulla figura “pulita”
del giovane Juan Guaidó [1], che ci schiariranno quali sono i metodi
che da secoli le potenze imperialistiche utilizzano per creare a loro
piacere le élite
politiche dei
paesi che intendono sottomettere. Secondo quanto si può ricavare dal
web e dal
video di Mario Albanesi,
Guaidó non è proprio così “pulito” nello stile dei nuovi
leader (Macron, Di Maio etc.), dato che è stato prodotto nei
laboratori di Washington, come “leader democratico” per far
collassare il Venezuela e trasformarlo in terra di saccheggio, come è
accaduto all’Afganistan, all’Iraq, alla Libia. Infatti, nel 2005
su invito del CANVAS (Center
for Applied Non-Violent Action and Strategies,
derivazione della NED e della CIA) il giovane studente Guaidó arrivò
a Belgrado per essere addestrato a sobillare le insurrezioni là dove
non ci si allineava con Washington.
Inoltre,
nel 2007, dopo essersi laureato presso l’università cattolica
Andrés Bello di Caracas, andò a studiare negli Stati Uniti alla
George Washington University sotto la guida di L. E. Berrizbeitia,
uno dei più importanti economisti neoliberali latino-americani,
funzionario del FMI e legato all’oligarchia venezuelana spodestata
da Chávez. È stato molto attivo nelle manifestazioni di protesta
contro la Repubblica Bolivariana, essendo un membro di spicco del
gruppo Generazione 2007, nota per aver organizzato la “manifestazione
dei sederi scoperti”, che richiama alla mente un atteggiamento di
sottomissione più che di rivolta [2].
Aggiungo
un ulteriore elemento per far luce sulle
cause della crisi: la
diminuzione dei prezzi delle materie prime,
tra le quali il petrolio, che hanno danneggiato i paesi produttori,
tra cui quelli latino-americani. Diminuzione, come ha sottolineato il
presidente Putin nel 2014, dovuta soprattutto a fattori politici,
quale per esempio la decisione statunitense di produrre gas e
petrolio con il metodo altamente inquinante del fracking (assai
più costoso dell’estrazione dai giacimenti tradizionali) al fine
di aumentare la disponibilità di queste merci e con ciò
l’abbassamento del loro prezzo nel mercato internazionale. Inoltre,
gli Stati Uniti di concerto con l’Arabia saudita, loro tradizionale
alleato, hanno operato congiuntamente in questa direzione per colpire
soprattutto la Russia, ormai potenza emergente dopo la fine del
regime di Yeltsin.
Non
bisogna poi dimenticare la risoluzione ONU R2P (Responsabilità
di proteggere),
che ha sostituito l’ormai tanto criticata “guerra umanitaria”,
approvata in un summit mondiale delle Nazioni Unite del 2005, secondo
la quale ogni
Stato ha il dovere di proteggere la sua popolazione dai crimini
contro l’umanità;
tuttavia, a ciò aggiunge che quando uno Stato è incapace ad
intervenire, la comunità internazionale può farsi carico di questo
problema. Osservava Noam Chomsky che l’unica organizzazione in
grado di far questo è la Nato, dai cui ambienti, d’altra parte, è
scaturita questa pericolosa direttiva (la Fondazione Rockefeller l’ha
fortemente sostenuta).
Mi
sembra che tutti questi elementi gettino una spessa ombra sulla
possibilità che nello scenario mondiale contemporaneo si possa
veramente parlare di “democrazia”, una delle parole più abusate,
che nella sua versione originaria costituisce un regime assembleare e
che nella definizione di Aristotele è il dominio dei poveri sui
ricchi. Possiamo dire che un governo è “democratico” a seconda
del parere degli Stati Uniti e dei suoi alleati, i quali – come si
è visto – dispongono di tutti i mezzi ideologici, politici e
militari per dichiarare un regime da loro non apprezzato (compreso
l’uso massiccio dei mass media, e del cosiddetto law-fare)
[3] non rispettoso della “democrazia” e dei “diritti umani”
chi vogliono abbattere.
Quindi,
l’attacco al Venezuela rientra in questa nota strategia delle
“rivoluzioni colorate” di varie tinte, attizzate dall’esterno
per mettere in crisi governi scomodi; metodo che può essere
assimilato alla cosiddetta “strategia della tensione” italiana,
la quale ci fece scoprire che il parere degli elettori – come in
Grecia, Egitto, Venezuela – non valeva nulla, dato che vi erano
organizzazioni pronte ad intervenire nel caso di una vittoria
elettorale del PCI.
Dopo
aver analizzato brevemente cosa fanno per mestiere gli
imperialisti, soffermiamoci rapidamente sui limiti dei governi
progressisti latino-americani, sulle quali alcuni analisti e politici
puntano il dito. E qui mettiamo il dito nella piaga, perché molti
ritengono che in questo drammatico momento, in cui può esplodere una
guerra civile in Venezuela, non se ne debba parlare pubblicamente.
Non sono di questa idea, perché non ci farebbe capire a fondo qual è
la situazione attuale dell’America Latina.
Come
mi diceva Isabel Monal,
rivoluzionaria cubana, i governi progressisti sono nati da coalizioni
spurie che comprendevano elementi moderati se non conservatori: vedi
l’espulsione della corrente marxista dal PT di Lula avvenuta nel
2003, ricorda la riapertura di buone relazioni con gli Stati Uniti da
parte di Lenin Moreno, che è stato a lungo al governo con Rafael
Correa in Ecuador, l’insufficiente utilizzo del denaro ricavato
dagli alti prezzi delle materie prime per lanciare
l’industrializzazione, per esempio del Venezuela, garantendogli
così una certa indipendenza economica, gli
accordi dei Kirchner con il FMI che hanno portato ad un aumento del
debito argentino e alla svalutazione nel 2014 del salario, la
concessione da parte di Evo Morales del
MUTUN, il più grande giacimento di ferro del mondo, alla
transnazionale Jindal Steel per 40 anni, considerato da alcuni
specialisti boliviani un gesto politico neoliberale [4]. A questi
aspetti dobbiamo aggiungere innegabili elementi di corruzione
registratisi nella gestione delle risorse amministrate dagli Stati,
come PDVSA e PETROBRAS, dovute in gran parte al fatto che le
strutture amministrative precedenti non sono state sufficientemente
cambiate e non si è proceduto ad una loro vera democratizzazione,
attivando forme di gestione da parte dei lavoratori.
La
politica di Evo Morales, che ha anche introdotto lo studio delle
lingue indigene nelle scuole andine, è stata considerata
negativamente da James
Petras (professore
emerito di Sociologia alla Binghamton University di New York), il
quale lo definisce addirittura un presidente neoliberale, populista
che utilizza una retorica anti-neoliberale.
Critiche analoghe a quelle qui riportate, che tuttavia si basano su
fatti, sono state fatte dalle varie formazioni trotzkiste
latino-americane e dal Partito
comunista del Venezuela, che
nel 2007 si è rifiutato di confluire nel PSUV di Chávez, pur
sostenendo Maduro alle passate elezioni presidenziali, invitandolo a
nazionalizzare il settore bancario e finanziario. Cosa ancora non
portata avanti.
A
quali conclusioni politiche ci portano questi ragionamenti? A
mio parere non all’assunzione di una posizione di non
appoggio ai
governi progressisti dell’America Latina, perché con tutti i loro
difetti rappresentano in questo drammatico momento la sintesi
politica più avanzata dinanzi a un golpe
di carattere internazionale,
predisposto da Stati Uniti e UE, che se riuscisse farebbe
ulteriormente peggiorare le condizioni di vita e di lavoro dei
lavoratori a livello mondiale. Inoltre, sempre dal mio punto di
vista, è del tutto irrealistico dichiarare di fare appello
esclusivamente a questi ultimi, lacerati, divisi, privi di
organizzazioni politiche significative, contro questo terribile colpo
inferto al Venezuela, che – come è avvenuto in Siria – può
essere bloccato solo
da una chiara presa di posizione della Russia e della Cina,
che non sono ormai Stati a carattere socialista. Ci troveremo,
dunque, insieme ai governi progressisti e con Cina e Russia, ma
solo per una decisione tattica,
e non strategica, la quale ha per obiettivo la riorganizzazione delle
masse popolari a livello mondiale e la creazione di forme di governo
anticapitalistiche, necessariamente antimperialiste, le quali creino
le condizioni per l’affermazione di un’effettiva società
democratica, da non confondere con quella in vigore in Occidente.
Infatti, come scrive Luciano Canfora, da noi imperano regimi
rappresentativi e
non democratici, anzi con l’adozione del maggioritario apertamente
antidemocratici.
D’altra
parte, sarebbe opportuno riprendere l’appello
del Partito comunista del Venezuela,
che per la difesa del proprio paese auspica, tra l’altro, la
formazione di “un’ampia alleanza patriottica e democratica
popolare-rivoluzionaria, che colpisca i settori (venezuelani)
principalmente i monopoli, in particolare il settore finanziario e
speculativo, che quotidianamente saccheggia il nostro popolo”.
Indicazione che chiaramente va nella direzione di una
radicalizzazione della Rivoluzione Bolivariana, sinora mancata, senza
la quale probabilmente essa non potrebbe resistere.
Concludendo,
ovviamente sarà opportuno non confondere mai tattica con strategia,
come secondo
Aldo Natoli fece
ad un certo punto il PCI, pensando che si sarebbe arrivati al
socialismo ampliando i diritti politici dei lavoratori (la democrazia
progressiva), ma accantonando la lotta di classe.
Note
[1]
Debbo questa preziosa informazione a Orazio Di Mauro che ringrazio
vivamente, informazione ormai reperibile anche nei siti internet
italiani.
[2]
Questa forma di protesta fu anche accompagnata dal lancio di
escrementi confezionati in barattoli definiti “bomba puputovov”
durante la marcha
de la mierda.
[3]
Mi riferisco alla guerra giudiziaria scatenata contro Lula da Silva,
Correa e Cristina Fernández.
[4]
Da questa operazione lo Stato boliviano avrebbe dovuto ottenere circa
50 milioni di dollari l’anno ed altri vantaggi, considerati pochi
da chi ha sostenuto la necessità di un diretto intervento dello
Stato.
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