domenica 24 febbraio 2019

VIANDANTI ​NEL NULLA - Marco Paciotti





Da: http://www.palermo-grad.com - marcopaciotti è redattore di lacittafutura.it


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Questione nazionale e «fronte unico» Zetkin, Radek e la lotta d’egemonia contro il fascismo in Germania - Stefano G. Azzarà 


Sul libro di Stefano G. Azzarà: Comunisti, fascisti e questione nazionale. Germania 1923: fronte rossobruno o guerra d’egemonia? [Mimesis, Milano-Udine, 2018]

Nell’attuale dibattito politico capita sovente di imbattersi nell’etichetta di “rossobrunismo”, per la quale si intende, tra chi vi aderisce entusiasticamente e chi invece vi si richiama con intenti più polemici (talvolta con toni crassamente scandalistici), un’alleanza transpolitica – oltre destra e sinistra – tra marxisti e nazionalisti contro il nemico comune costituito dal capitalismo globale transnazionale, stigmatizzato variamente quale “apolide”, “turbomondialista”, “sradicante”, “cosmopolita” etc., nel nome della difesa della “sovranità” e delle piccole patrie. 

In un testo pubblicato lo scorso autunno presso Mimesis Stefano Azzarà, con scrupolo critico, polemizza con tale posizione, mostrandone l’inconsistenza sul piano storico-filosofico a partire dall’analisi del dibattito avvenuto nell’estate del 1923 tra alcuni esponenti della Kommunistische Partei Deutschland (tra cui spiccano le figure di Karl Radek e Paul Fröhlich) e i teorici del movimento völkisch Arthur Moeller van der Bruck[1] e Ernst Reventlow. Lo scambio, descritto dall’autore come un “dialogo tra sordi”, viene presentato in una nuova traduzione di Azzarà nella seconda parte del libro. 


Esso ha origine in un intervento tenuto da Karl Radek alla seduta dell’Esecutivo allargato dell’Internazionale comunista a Mosca il 20 giugno del 1923, durante il quale il dirigente comunista evocava la figura di Leo Schlageter, “coraggioso soldato della controrivoluzione” e “martire del nazionalismo tedesco”, processato e assassinato per aver compiuto azioni di sabotaggio nella Ruhr occupata dalle truppe francesi in virtù del trattato di Versailles. Schlageter era descritto come un sincero patriota che aveva pagato con la vita per le sue idee: ma egli era un “viandante nel nulla”[2], dal momento in cui aveva aderito a un movimento egemonizzato dal capitale tedesco, il quale da un lato soffiava sulle aspirazioni indipendentiste di vasti strati delle classi popolari tedesche mentre, al contempo, non disdegnava di stringere accordi affaristici con i potentati economici francesi interessati alle materie prime dei territori occupati. L’intento dichiarato da Radek, ben lungi dal costituire un ammiccamento verso i movimenti revanscisti, era quello di contrastarne l’ascesa egemonica presso le classi intellettuali e piccolo-borghesi in via di proletarizzazione, mostrando esse come il riscatto della nazione sconfitta e umiliata a Versailles non potesse prescindere dal riscatto sociale delle classi popolari, ovvero della maggioranza del popolo tedesco. Tale tentativo strategico costituiva la conseguenza logica della “analisi concreta della situazione concreta” relativamente al fascismo, portata avanti – in particolare all’interno del partito comunista tedesco – da Clara Zetkin[3], volta a rinnovare le precedenti interpretazioni meccanicistiche ed economiciste del fenomeno prevalenti tra i marxisti, focalizzandosi su un’interpretazione del fascismo come movimento di massa volto alla conquista degli strati medi-inferiori della società e non più inteso come mero strumento di battaglia passivamente nelle mani delle classi possidenti per contrastare con il ricorso alla violenza il movimento operaio in ascesa. Era giunto il momento della “scoperta dell’egemonia”, categoria che doveva comportare un notevole arricchimento del paradigma marxista e la sua superiore maturazione epistemologica. Corollario di tale scoperta era l’estensione della nozione di classe operaia anche ai lavoratori intellettuali, superando le ristrettezze economicistiche di quanti tendevano a identificare l’Arbeiteresclusivamente con l’operaio di fabbrica. In sintesi, distinguendo tra la base sociale di massa, le cui istanze i comunisti si proponevano di comprendere e di difendere, e la dirigenza del movimento nazionalista, si gettavano le basi per una guerra d’egemonia contro quest’ultimo volta a minarne il consenso popolare. 

Il significato battagliero dell’iniziativa di Radek era prontamente colto da Moeller van den Bruck. L’intellettuale di punta del giornale Gewissen aveva sin da subito compreso che la posta in gioco non era l’alleanza degli estremi contro le forze politiche espressione delle classi dominanti. Egli ricordava, non a caso, l’implacabile lotta interna condotta da Radek contro la tendenza nazional-bolscevica di Laufenberg, prontamente estirpata dalla dirigenza comunista. Van den Bruck passava così al contrattacco ravvisando nell’intervento di Radek l’esigenza di una svolta tattica che era conseguenza della situazione particolarmente sfavorevole per il movimento operaio europeo nei rapporti di forza interni ed internazionali, dovuta alle sconfitte della rivoluzione in occidente, sul cui esito positivo invece l’Internazionale aveva contato come requisito fondamentale per il rafforzamento stesso del nuovo assetto politico stabilito nella Russia sovietica. Inoltre, la critica principale che i völkisch muovevano ai comunisti tedeschi era l’eterodirezione del movimento operaio che aveva il suo centro nevralgico a Mosca e non a Berlino, fatto da cui derivava – secondo Moeller van den Bruck – l’appiattimento dei vari particolarismi nazionali in un’unica grande strategia di carattere internazionale, fondata sull’analisi delle condizioni socio-economiche della Russia e non della Germania. L’internazionalismo marxista era accusato, dunque, di una sostanziale affinità con l’universalismo astratto del capitalismo finanziario. Il principio dell’uguaglianza dei popoli incontrava così il netto rifiuto dei nazionalisti. Ma anche sul piano economico Moeller van den Bruck esplicitava la distanza abissale tra il suo movimento e la KPD. L’intellettuale di Gewissen additava per la Germania una forma di sviluppo alternativa, una sorta di “terza via” tra capitalismo liberista e collettivismo socialista, che doveva poggiarsi sul legame organico tra le varie componenti, proprietarie e non, della nazione tedesca. Tale modello interclassista si poneva in palese contrasto con la teoria della lotta di classe, punto nodale della concezione materialistica della storia, cui i nazionalisti contrapponevano il principio della comune appartenenza alla Volksgemeinschaft[4]

A chiarire ulteriormente i termini non proprio idilliaci del dibattito interveniva il conte Ernst Reventlow. Egli ribadiva l’equazione tra il globalismo capitalista e l’internazionalismo comunista e l’ostilità dei völkisch a tutte le concezioni politiche universalistiche. L’ideale organicista e naturalista della comunità nazionale era e doveva continuare a essere la pietra angolare della teoria politica nazionalista, che non poteva concedere spazio alle contraddizioni di classe. A ben vedere, e solo in apparenza paradossalmente, la concezione monolitica della nazione poteva aprire uno spiraglio a un’alleanza, sia pure solo su un piano tattico e non strategico, con i comunisti, se solo essi avessero rinunciato alle “etichette di partito”[5] riconoscendo il proprio legame naturale e comunitario con tutti i connazionali, ivi comprese le classi imprenditoriali. In qualche modo, l’astrattezza rintracciata dai nazionalisti nei principi universali tacciati di schiacciare sotto il loro peso le differenze nazionali, una volta cacciata dalla porta veniva fatta rientrare dalla finestra sia pur in una diversa veste particolarista e identitaria, dal momento in cui all’interno dei confini nazionali si predicava la cessazione degli antagonismi di classe. Tale incoerenza risultava amplificata dal fatto che, come notavano Radek e Fröhlich, i nazionalisti da un lato strizzavano l’occhio alle classi possidenti, talvolta incassando il sostegno diretto di imprenditori cointeressati con le stesse aziende francesi dei territori occupati, mentre dall’altro lato indirizzavano la violenza delle proprie organizzazioni squadriste esclusivamente verso le organizzazioni di classe della classe lavoratrice. Del resto, Reventlow – contro il materialismo storico ma anche contro l’utilitarismo liberale, intesi come le diverse facce di un’unica medaglia costituita da interessi banausici e grettamente economici – proponeva una lettura “spiritualista” del capitalismo, che andava combattuto non con la lotta di classe bensì con un’energica azione dello stato, concepito neutralmente al di sopra di tutti i ceti, al fine di “domare” l’economia[6]. A Karl Radek non rimaneva che tirare le somme di tale disputa e, inasprendo ulteriormente i toni, denunciava il “tradimento nazionale del movimento völkisch, il quale era oggettivamente “al servizio di persone che con la crisi della Ruhr guadagnano miliardi”[7]

Dalle questioni sollevate dal dibattito qui sintetizzato, emerge quindi in primis, sul piano storico, l’inesistenza di fatto di un’alleanza tra nazionalisti e bolscevichi. È, semmai, nei referenti politici degli analisti da cui ha origine la denuncia della presunta convergenza tra opposti estremismi, ovvero nella destra liberale e nella socialdemocrazia, che va rintracciata una certa accondiscendenza – quantomeno in una fase iniziale – verso i movimenti fascisti. Dunque, sentiamo di poter affermare che qualunque richiamo ad un fantomatico fronte fascio-comunista nasca dalla confusione dei reali termini dello scontro egemonico in atto nella Germania dei primi anni ’20, e finisca per ricadere – sia pure a partire da opposte intenzioni – nello schematismo “moderato” della coincidentia oppositorum di cui si è fatto pocanzi menzione. 

In secondo luogo, come sottolinea correttamente Azzarà, a una seria analisi risulta patente l’incompatibilità sul piano filosofico tra il rifiuto tout court dell’universalismo e il conseguente rifugio nel particolarismo tipico delle destre nazionaliste e, all’opposto, la critica dialettica dell’universalismo immediato e astratto – ovvero volto a schiacciare sotto di sé le peculiarità nazionali – nel nome del perseguimento di un universalismo concreto che, al contrario, abbraccia le istanze particolari rapportandovisi con sforzo di mediazione. Sforzo che, sebbene fosse senz’altro immane e problematico, i comunisti tedeschi non si sono illusi di poter aggirare, innestandosi così nella migliore eredità teorica hegelo-marxiana. Lo stesso non può dirsi, purtroppo, di tanti gruppi e gruppuscoli che un tempo si collocavano nel campo della sinistra ma che oggi, in nome della critica delle tecnocrazie dell’Unione Europea, individuata come il nemico principale[8], dalla sinistra sono fuoriusciti per avvicinarsi alle forze di governo, finendo per condividerne la retorica patriottarda, xenofoba e reazionaria. Gruppi che, a differenza di Radek, vorrebbero unire tutte le forze antisistema – compresi i fascisti – in un fantomatico fronte del popolo, e che, dunque, non solo tradiscono la vera questione nazionale italiana, ma non hanno più nulla di “rosso” e andrebbero definiti semplicemente socialsciovinisti.


[1] Per un approfondimento sulla figura di van den Bruck e sul movimento della Rivoluzione conservatrice si vedano: S.G.Azzarà: Pensare la rivoluzione conservatrice. Critica della democrazia e «Grande politica» nella Repubblica di Weimar, La città del sole, Napoli, 2006; Id.:L'imperialismo dei diritti universali. Arthur Moeller van den Bruck, la rivoluzione conservatrice e il destino dell'Europa, La città del sole, Napoli, 2011; Id.: Friedrich Nietzsche. Dal radicalismo aristocratico alla rivoluzione conservatrice. Quattro saggi di Arthur Moeller van den Bruck, Castelvecchi, Roma, 2014; A. Moeller van den Bruck: Tramonto dell'Occidente? Spengler contro Spengler, a cura di S.G.Azzarà, Oaks, Sesto san Giovanni (MI), 2017.

[2] K. Radek: Leo Schlageter, il viandante nel nulla, in S.G. Azzarà: Comunisti, fascisti e questione nazionale, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp.149-153.

[3] Azzarà [2018], pp. 19-28.

[4] Ivi, pp. 61-76.

[5] Ivi, p.94.

[6] Ivi, pp. 98-99.

[7] Ivi, p.110.

[8] Per una critica più approfondita di tali posizioni, senza scadere in un’acritica esaltazione eurofila, si veda: E. Alessandroni, [2018],Economicismo o dialettica? Un approccio marxista alla questione europea, in “Marxismo Oggi”, http://www.marxismo-oggi.it/saggi-e-contributi/saggi/275-economicismo-o-dialettica-un-approccio-marxista-alla-questione-europea

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