domenica 28 ottobre 2018

Questione nazionale e «fronte unico» Zetkin, Radek e la lotta d’egemonia contro il fascismo in Germania - Stefano G. Azzarà

Da: http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/index -stefano.azzara Università di Urbino 
Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2017,  licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0 
Leggi anche: Fascismo. Misurare la parola. - Palmiro Togliatti 



1. La questione tedesca nel movimento comunista

Nel movimento operaio internazionale, la questione tedesca e le sue possibili ricadute sulle prospettive generali della rivoluzione socialista in Europa hanno costituito un argomento tradizionalmente assai dibattuto. Come faceva notare Pierre Broué, riportando nelle pagine iniziali della sua celebre opera sulla – mancata – rivoluzione tedesca le ottimistiche previsioni letterarie di Preobrazhenskij e gli auspici politici di Zinovev1, è un dibattito che si è fatto però tanto più necessario e intenso con l’Ottobre e soprattutto negli anni successivi alla conclusione della Prima guerra mondiale, in ragione delle profonde trasformazioni politiche che si erano verificate in Germania dopo la sconfitta e la caduta del Kaiser e nel contesto di un conflitto civile dalle conseguenze imprevedibili. Un conflitto a intensità variabile ma pressoché ininterrotto, le cui incontrollabili esplosioni – ora a destra, ora a sinistra – sembravano certamente porre le basi per la rottura definitiva di quell’ordine borghese del quale la socialdemocrazia, nelle analisi dei bolscevichi, si era fatta garante a Weimar. Ma che rischiavano al tempo stesso di condurre ad un esito decisamente diverso da quello che ancora dopo il Terzo congresso il Comintern riteneva comunque prossimo, come sarebbe in effetti accaduto in Italia con la presa del potere da parte del fascismo nel 1922 2.
In realtà, sappiamo bene che lo sguardo sulla Germania coincide in un certo senso con l’atto di nascita stesso del partito comunista moderno. «I comunisti rivolgono la loro attenzione sopratutto alla Germania», avevano spiegato Marx e Engels sin dal 1848 e in un contesto assai diverso, «perché la Germania è alla vigilia d'una rivoluzione borghese e perché essa compie questo rivolgimento in condizioni di civiltà generale europea più progredite e con un proletariato molto più evoluto che non l'Inghilterra nel Diciassettesimo secolo e la Francia nel Diciottesimo»3. Ragion per cui, concludevano, «la rivoluzione borghese tedesca può essere soltanto l'immediato preludio d'una rivoluzione proletaria» destinata a propagarsi in tutta Europa. E questa impostazione assai ottimistica ritornava ancora nella prefazione alla seconda edizione russa del 1882, sfrondata del precedente meccanicismo ma con parole non dissimili: un’eventuale «rivoluzione russa» sarebbe stata ovviamente importante; ma poiché non era di certo possibile affidare l’affermazione del comunismo alla «comunità rurale», il suo valore sarebbe consistito in primo luogo nel funzionare come «segnale a una rivoluzione operaia in occidente, in modo che entrambe si completino»4. Ancora nel 1892, poi, come sempre Pierre Broué ricorda, il vecchio Engels si aspettava che la Germania fosse «al centro del campo di battaglia nel quale borghesia e proletariato si sarebbero fronteggiati nella lotta finale»5.
Adesso, dopo Versailles, la Germania era ancora il cuore della rivoluzione europea, come i padri fondatori avevano ritenuto? Costituiva cioè quel diaframma geopolitico strategico la cui rottura avrebbe consentito una risoluzione agevole dello scontro tra gli antagonisti di classe su scala continentale e l’insediamento del socialismo in uno dei centri nevralgici più progrediti del mondo capitalistico, spingendo «alla conquista immediata del potere»6 (la «lega Spartaco» occupava non casualmente il primo posto nell’elenco dei convocati presente nella Lettera d’invito per il I congresso dell’Internazionale7)? Oppure la borghesia tedesca, indebolita dai colpi ricevuti ma proprio per questo ancor più inferocita, sarebbe riuscita anche in quel paese a reprimere le forze comuniste e a elaborare, sulla scorta di una guerra totale che aveva cambiato per sempre la natura della sfera politica, un regime capitalistico autoritario di nuovo tipo; un nuovo modello politico che, muovendo dal laboratorio tedesco, si sarebbe diffuso in Europa con una virulenza ancora maggiore rispetto al fascismo italiano? E come assicurare la sopravvivenza della stessa rivoluzione in Russia, se il paese dei soviet fosse rimasto privo di ogni appoggio e dunque isolato e accerchiato nella sua arretratezza atavica e nella sua oggettiva debolezza produttiva e militare?
Quella tedesca era perciò certamente una questione dalle vaste implicazioni teoriche, perché toccava in tutta evidenza i limiti più estremi della teoria marxiana della rivoluzione: una rivoluzione il cui scoppio era atteso dal paradigma secondinternazionalista ancora dominante nei punti alti dello sviluppo capitalistico, ovvero nei paesi più avanzati nel dispiegamento dell’economia industriale, Germania in primis. Una questione però – bisogna aggiungere – che in tali termini non era stata del tutto cancellata nemmeno dalla radicale ridefinizione del processo rivoluzionario nel senso di una rottura degli anelli più deboli della catena imperialista. Anche per Lenin, infatti, il salto qualitativo rappresentato dalla Rivoluzione d’ottobre e dalla concomitante rivoluzione anticoloniale, pur con le profonde ripercussioni che questo duplice evento aveva avuto anche sul piano teorico, ai fini della vittoria finale non cancellava affatto la necessità che il processo rivoluzionario, che costituiva «un processo unico»8, si diffondesse presto anche ad Occidente. Proprio il mancato verificarsi di questa aspettativa, che orienterà comunque tutti i primi congressi del Comintern – un organismo immaginato non a caso come «avamposto di un processo rivoluzionario a catena, su scala mondiale»9 –, determinerà del resto un ulteriore e decisivo mutamento nel paradigma teorico dei comunisti. Bruscamente costretti da lì a qualche anno a ripensare nell’ambito di un unico paese, e non più in una prospettiva europea o addirittura mondiale, il percorso verso il socialismo10.
«Accerchiata dal capitalismo», nonostante il relativo equilibrio internazionale momentaneamente raggiunto, la Russia sovietica «può esistere» ma «certo non a lungo»11: era Lenin stesso, in questa prospettiva, a mettere il dito nella piaga al III congresso dell’Internazionale comunista. Anche ai suoi occhi, la rivoluzione in Russia non era perciò in quel momento che una tappa di un processo più vasto di rivoluzionamento internazionale: «quando abbiamo iniziato, a suo tempo, la rivoluzione internazionale», diceva, «lo abbiamo fatto non perché fossimo convinti di poterne anticipare lo sviluppo, ma perché tutta una serie di circostanze ci spingeva ad iniziarla»12. E proseguiva: «pensavamo: o la rivoluzione internazionale ci verrà in aiuto, e allora la nostra vittoria sarà pienamente garantita, o faremo il nostro modesto lavoro rivoluzionario, consapevoli che, in caso di sconfitta, avremo tuttavia giovato alla causa della rivoluzione e la nostra esperienza andrà a vantaggio di altre rivoluzioni».
Per quanto importante, l’esperienza vittoriosa appena compiuta era infatti assai fragile e non lasciava adito a illusioni: «era chiaro per noi che senza l'appoggio della rivoluzione mondiale la vittoria della rivoluzione proletaria era impossibile». Tant’è che «già prima della rivoluzione e anche dopo di essa, pensavamo: o la rivoluzione scoppierà subito, o almeno molto presto, negli altri paesi capitalisticamente più sviluppati, oppure, nel caso contrario, dovremo soccombere». Era il riconoscimento del fatto che la realtà si era presto dimostrata assai diversa dagli auspici: «il movimento non è stato così lineare come ci attendevamo», constatava con amarezza Lenin, perché «dopo la conclusione della pace, per cattiva che fosse, non si riuscì a far scoppiare la rivoluzione negli altri paesi capitalistici, benché i sintomi rivoluzionari fossero, come sappiamo, assi evidenti e numerosi, persino più evidenti e numerosi di quanto avessimo creduto».
Come si può vedere, dunque, oltre che di una questione teorica enorme si trattava di una questione dal non minore rilievo pratico, dato che agli occhi di molti dirigenti e intellettuali comunisti dall’evoluzione della situazione europea, e di quella tedesca in particolare, dipendeva la sorte più immediata e concreta del paese dei soviet e addirittura – nel caso di un arresto del processo rivoluzionario e soprattutto di un’improvvisa fascistizzazione del continente – gli stessi destini personali di migliaia di quadri e militanti rivoluzionari. Si comprende perciò l’attenzione particolare e persino troppo scrupolosa con la quale, sin dai giorni immediatamente successivi alla fine della guerra, i dirigenti bolscevichi e poi dell’Internazionale comunista guardavano alle cose tedesche. Quasi ad auscultare in tempo reale i battiti di una rivoluzione che tardava a venire al mondo e sino ad intervenire nelle questioni organizzative più elementari – non limitandosi a dare indicazioni generali di linea o a sollecitare, ad esempio, la fusione tra KPD e l’ala sinistra dell’USPD ma occupandosi anche dei dettagli più minuti, come conferma l’impressionante mole di documenti recentemente raccolti dagli studiosi tedeschi13 – proprio al fine di accelerare l’avvento dello scontro finale. E si comprende anche l’ansia con la quale, soprattutto dopo il fallimento del Putsch di Kapp14, essi guardavano al confronto particolarmente aspro che avveniva in Germania tra i comunisti e le pericolosissime formazioni politiche e paramilitari della nuova destra nazionalista post-monarchica, a loro volta alla ricerca di nuovi paradigmi teorici e pratici.
È la spartachista Clara Zetkin, dirigente del Comitato internazionale per la lotta al fascismo oltre che membro della KPD e del gruppo dirigente più interno del Comintern, che più di ogni altro quadro comunista si era occupata in quegli anni di questa questione, con numerosi articoli pubblicati dalla “Rote Fahne” nei quali era esplicito sia il confronto tra le vicende tedesche e quelle italiane, sia lo sforzo di apprendere da queste ultime15. E – dopo un primo approccio alla questione al IV congresso16 – è sempre Zetkin la principale relatrice su queste tematiche alla conferenza del Comitato esecutivo allargato del Comintern tenutosi a Mosca nel giugno del 1923 17. In un momento, cioè, nel quale non erano ancora state elaborate quelle tesi di Zinoviev che da lì a non molti anni avrebbero condotto al ripiegamento delle ipotesi di fronte unico dei lavoratori – ovvero dell’unità delle masse subalterne già suggerita nell’Estremismo di Lenin18 (e proposta dal Terzo congresso dopo il fallimento dell’”offensiva” del marzo 1921 in Germania anche in funzione di autotutela nei confronti delle destre, ma respinta all’epoca dalle socialdemocrazie19) – e alla linea della lotta al “socialfascismo”.
2. Zetkin: complessità del fascismo
Il fascismo, spiegava Zetkin ai quadri dell’Internazionale, non va inteso come una «reazione» della borghesia «contro la violenza iniziata da parte del proletariato» (come ritenevano i socialdemocratici, in largo anticipo sulle tesi di Ernst Nolte) e del resto non è di per sé nemmeno comprensibile «solo come cruda violenza»20. In realtà, esso è in primo luogo il frutto più maligno della guerra, la quale ha aggravato fenomeni che in astratto sembrerebbero favorevoli ai comunisti, come la «disintegrazione» e il «decadimento dell’economia capitalistica», avvicinando la «dissoluzione dello Stato borghese». Le cose, tuttavia, sono avvenute in maniera assai diversa rispetto alle previsioni. Certamente la guerra «ha scosso l’economia capitalista nelle sue fondamenta», mostrando la debolezza strutturale del capitalismo. E però «questo ha implicato non solo l’impoverimento smisurato del proletariato, ma anche la proletarizzazione di massa della piccola borghesia, dei piccoli coltivatori e degli intellettuali».
Sappiamo che negli auspici delle classi dirigenti europee di tutti i paesi una «splendida piccola guerra»21 avrebbe dovuto sventare la questione sociale e prevenire la rivoluzione socialista, nazionalizzando le masse in posizione subalterna e rendendole compartecipi dei profitti della vittoria, sull’esempio dei processi di nazionalizzazione in chiave imperialistica condotti dall’Inghilterra di fine Ottocento e sull’onda della diffusione di massa degli atteggiamenti social-imperialisti agli esordi della guerra mondiale. Di fatto, però, essa aveva ottenuto l’effetto opposto, accelerando il processo di impauperimento e radicalizzazione di tutte le classi sociali e mettendo la parola fine sull’Ancien Régime. Ecco che «gran parte delle classi medie di prima sono diventate proletarie, avendo perso completamente la propria sicurezza economica» [ZF 208]. Concluso il conflitto con la sconfitta, a questi declassati «si sono uniti grandi masse di ex-ufficiali, che si sono ritrovate disoccupate», creando così il terreno di coltura del fascismo.
L’atteggiamento tenuto dalle forze socialdemocratiche, sempre disposte al compromesso con la grande borghesia – un atteggiamento particolarmente evidente nel loro comportamento di fronte all’avvento della guerra imperialista – ha però introdotto una decisiva variante rispetto alle attese di una radicalizzazione in chiave sociale di questi settori, screditando a monte la prospettiva rivoluzionaria di impostazione marxista e neutralizzando le potenzialità eversive dell’impauperimento, come già Lenin aveva notato richiamando «l’odio incredibilmente acuto» delle avanguardie operaie «contro l’opportunismo della vecchia socialdemocrazia», un odio che addirittura «impediva di ragionare freddamente… e di elaborare la giusta strategia»22. Sconcertate, le masse «hanno perso la loro fede non solo nei leader riformisti, ma anche nel socialismo nel suo complesso» [ZF 209-10], lamenta a sua volta Zetkin con lucido realismo. Al punto che ci sono adesso «anche larghi strati del proletariato, di lavoratori che hanno abbandonato la loro fede non solo nel socialismo, ma anche nella loro stessa classe».
Ecco che da questo momento in avanti «il fascismo è diventato una sorta di rifugio per coloro che sono politicamente sradicati»: un concetto, quest’ultimo, che torna ripetutamente in Zetkin ma che sarà ampiamente utilizzato da Hannah Arendt nelle Origini del totalitarismo proprio per descrivere l’ascesa dei movimenti fascisti23.
Nelle parole di Zetkin il fascismo è perciò sin dall’inizio inquadrato come un fenomeno assai complesso. Di per sé questo movimento «è composto anche da diverse forze sociali che possono diventare molto pericolose per l’ordine borghese» [ZF 210-11] e dunque esiste effettivamente un elemento di contiguità rispetto all’impostazione comunista. E però fino a questo momento tutti i soggetti potenzialmente antagonisti, tutti i possibili compagni di strada della rivoluzione, «sono stati sempre sconfitti dagli elementi reazionari». I quali sono riusciti a neutralizzare «il contrasto di classe tra le fila dei loro aderenti» attraverso il progetto di uno «Stato autoritario» e cioè di un apparato che si ergerà un giorno al di sopra delle classi e delle divisioni sociali, sedando i conflitti e imponendo l’armonia nazionale. Ecco allora che dopo l’Ottobre, quando la borghesia europea impaurita «ha bisogno di una nuova organizzazione della violenza», il fascismo – che si presenta come un movimento capace di neutralizzare le forze rivoluzionarie potenziali attirandole e mescolandole in una «accozzaglia di squadracce [durch den bunt zusammengewürfelten Gewalthaufen]» – può agevolmente offrire i propri servigi al mantenimento dell’ordine proprietario.
Per essere efficace a tal fine e avere presa sulle masse in una situazione virtualmente rivoluzionaria, il fascismo deve però prodursi in un sottile esercizio di mimetismo: deve cioè avanzare «la pretesa di un programma in apparenza rivoluzionario, che viene sapientemente adattato agli interessi e alle esigenze delle grandi masse» [ZF 212-13]. Lo dimostra l’esempio del fascismo italiano, il quale dopo la sconfitta del Biennio rosso – ovvero l’ondata di sollevazioni culminata nell’occupazione delle fabbriche nel Nord del paese – era riuscito a catalizzare anche una parte del malcontento che proveniva dal basso. «La ragione del primo successo dei fascisti», spiega Zetkin, è perciò legata proprio al «gesto rivoluzionario» con il quale questo movimento ha preso avvio. È dipesa cioè in primo luogo dal fatto che il fascismo dichiarava di «lottare per mantenere le conquiste rivoluzionarie della guerra rivoluzionaria, e per questo motivo chiedeva uno Stato forte che fosse in grado di proteggere “i frutti della vittoria rivoluzionaria” contro gli interessi ostili delle varie classi della società, rappresentata dal “vecchio Stato”». Da qui il suo iniziale programma radicaleggiante, diretto «contro tutti gli sfruttatori, e quindi anche contro la borghesia».
La reazione avanza sul terreno della rivoluzione, dunque, portando per la prima volta allo scoperto un intreccio che avrebbe poi caratterizzato, in forme diverse, tutto il XX secolo. Era possibile qualcosa di diverso, del resto, in quel contesto di esasperazione e radicalizzazione sociale nel quale erano evidenti le responsabilità dello Stato liberale come delle monarchie e, più in generale, in una fase nella quale l’avvento della società di massa si era già consumato? Èuna consapevolezza che nella destra europea è presente sin dalle riflessioni dell’ultimo Nietzsche, il quale aveva compreso con lungimiranza come, nella crisi della società tradizionale, la rivoluzione andasse sfidata sul suo stesso terreno e non certo attraverso la nostalgia del bel mondo antico e dell’Ancien Régime. E come, dunque – anche a fronte della pavidità dei liberali e dei conservatori europei di fronte all’imminente vendetta degli schiavi –, pur in una prospettiva profondamente antimoderna e antidemocratica, «non possiamo essere altro che rivoluzionari»24.
Ma il fascismo si preoccupa ben presto e in maniera efficace di neutralizzare e rendere innocue quelle sgradite spinte radicali alle quali, pure, aveva dovuto il proprio iniziale successo: in Italia, ad esempio, continua Zetkin, «furono creati i sindacati fascisti, le cosiddette corporazioni» [ZF 216], nelle quali «furono uniti sia i lavoratori che i datori di lavoro» proprio al fine di disinnescare a monte il conflitto di classe. Ma se il procacciamento del consenso non bastava più – soprattutto dopo che nuove e più intransigenti organizzazioni di classe come il PCdI avevano «rotto con i menscevichi e con i riformisti»25 e avevano messo in discussione con la loro coerenza rivoluzionaria il primato dei vecchi partiti socialisti –, ecco subito manifestarsi l’altro volto del fenomeno fascista e cioè «l’esercizio del terrore più brutale e violento» [ZF 212]; una violenza che se di per sé non era sufficiente, alla lunga rimaneva tuttavia necessaria. Le masse proletarie che in Italia erano rimaste refrattarie al mito della “vittoria mutilata” o ad altre formule ideologiche consimili adoperate dal nazionalismo aggressivo post-bellico andavano infatti piegate con la coercizione: ecco che «per la repressione terroristica della classe operaia» [ZF 217] il partito fascista ha creato «le cosiddette “squadracce” [Geschwader]» e cioè «organizzazioni militari che si sono sviluppate a partire dalle squadre di spedizioni punitive agrarie» e sono state infine «legalizzate» come «organi dello Stato borghese».
In tal modo, le tendenze rivoluzionarie interne al movimento fascista stesso sono state presto stroncate e quando il fascismo è giunto al potere il carattere di classe della sua politica economica si è messo in mostra in maniera del tutto evidente, a partire dalle «riduzioni salariali» che nelle fabbriche italiane dal «20–30%» di media sono arrivate in alcuni settori industriali «anche al 50–60%» [ZF 220]. Da qui il «completo fallimento ideologico del Fascismo» [ZF 223], il quale è stato immediatamente costretto a contraddire il proprio stesso programma. Un sacrificio che è stato anche una precisa confessione politica, perché ha mostrato la natura meramente retorica e strumentale dell’anticapitalismo fascista; ma che si è imposto come necessario proprio al fine di «tenere insieme le diverse forze borghesi che hanno contribuito a farlo arrivare al potere».
3. Zetkin: fascismo come movimento di massa e necessità di un’offensiva egemonica
Cosa dedurre da questa analisi ai fini della prassi politica, in Italia come in Germania, e qual era l’intento di Zetkin? Non siamo troppo distanti qui dalle analisi di Togliatti, il quale, nelle celebri lezioni degli anni Trenta, pur muovendo dalla definizione ufficiale data dal Comintern e affermandone il carattere di dittatura della borghesia reazionaria che si rivolta contro la stessa democrazia, avrebbe sottolineato ossessivamente la «base di massa» del fascismo, ovvero il suo significato di «lotta contro la classe operaia… su una nuova base di massa con carattere piccolo-borghese». Il suo essere cioè una organizzazione che lega «la borghesia e la piccola borghesia», compresi i «contadini poveri in via di arricchimento» e «tutta una massa di spostati creati dalla guerra», tramite una ««ideologia eclettica» che «serve a saldare assieme varie correnti» e suscitare «un vasto movimento di massa»26.
Già nel 1922, del resto, Togliatti aveva preparato un rapporto per il IV Congresso dell’Internazionale nel quale le basi del fascismo venivano individuate esattamente nell’«approfondirsi della crisi della piccola borghesia italiana», la quale – delusa dall’opportunismo dei socialisti riformisti – si era raccolta attorno agli ex interventisti e aveva dato vita ad una «grande massa socialmente non bene definibile», un’«ibrida costituzione sociale» capace di reclutare i propri aderenti anche tra «elementi semiproletari usciti dalle file del movimento operaio»27. Si trattava, per lui come per Zetkin, di comprendere questa complessità del fenomeno fascista e di far leva su di essa e sulle contraddizioni interne che ne derivavano, al fine di trarne un vantaggio politico. Proprio per la natura composita di questo movimento, che dalla grande borghesia attraversava i ceti medi e si rivolgeva persino agli strati proletari per reclutare infine le proprie truppe anche nel sottoproletariato, «i fascisti non sono in grado di mantenere le promesse che hanno fatto ai lavoratori e ai sindacati» [ZF 225-26] e devono dunque entrare in contraddizione con i propri stessi slogan. Tant’è che, poiché in Italia «chiusure delle fabbriche» e «licenziamenti» erano all’ordine del giorno, constatava Zetkin, «accade che la prima protesta contro il movimento sindacale fascista è nata dalle fila dei fascisti stessi», ovvero dalle sue frange più popolari e sindacalizzate, le quali ne avevano ingenuamente preso sul serio il sansepolcrismo iniziale.
Al di là del malriposto ottimismo rivoluzionario del momento, legato alla più generale filosofia della storia condivisa in quel periodo dai comunisti, afferrare la natura complessa di questo movimento ed evitare le consuete semplificazioni e rozzezze nell’analisi – evitare ad esempio di vedere nel fascismo il semplice braccio armato della borghesia capitalistica industriale, oppure, nel caso della Germania, un semplice maquillage del militarismo prussiano – costituiva dunque un passo indispensabile, per Zetkin come più avanti per Togliatti, per contrastarlo in maniera efficace. Indispensabile, in parole più pratiche, al fine di inserire potenti cunei dialettici e pratici nelle contraddizioni interne di quel movimento, composito sul piano sociale come su quello ideologico, e farle alla lunga saltare. «Non dobbiamo considerare il fascismo come un fenomeno unitario, come un “blocco di granito” sul quale tutti i nostri sforzi non avranno effetto» [ZF 226], spiega perciò Zetkin. «Si tratta piuttosto di una formazione mista che comprende vari elementi antagonisti» ed è perciò possibile che essa, se contrastata adeguatamente, «si disintegrerà dall’interno».
Bisognava perciò in primo luogo di superare «le carenze del partito comunista [italiano]» degli esordi, carenze «tattiche» che «consistevano nell’aver purtroppo considerato il fascismo semplicemente come un fenomeno militare, trascurando i suoi aspetti politici ed ideologici» [ZF 218] e dunque il suo radicamento sociale. Era necessario, tutto al contrario, puntare in via preliminare proprio al «superamento politico e ideologico del fascismo», passaggio che è il presupposto della sua stessa sconfitta militare. E lo si doveva fare tenendo conto che certamente «il fascismo è l’espressione più forte e concentrata, l’espressione classica dell’offensiva generale della borghesia internazionale» [CZ 204-05], ma anche del fatto che «propugnatore del fascismo non è una piccola casta ma vasti strati sociali, larghe masse che precipitano esse stesse nel proletariato»: il fascismo come movimento reazionario di massa, appunto. Sarebbe stato inutile e persino controproducente, perciò, limitarsi ad una pur inevitabile reazione immediata difensiva sul piano militare. Era in primo luogo urgente, invece, una vasta offensiva egemonica in grande stile, un assalto ideologico da riversare presso tutti quei ceti che dal fascismo erano stati avvicinati: «lo sconfiggeremo non semplicemente con mezzi militari – per usare quest’espressione – ma dobbiamo abbatterlo anche sul piano politico e ideologico».
Zetkin era certamente ancora condizionata dall’idea di una corrispondenza immediata e un po’ meccanica tra posizione, interessi e consapevolezza di classe quando sosteneva che «il fascismo è un movimento di affamati, di bisognosi, di persone prive di sostentamento e di disillusi» [ZF 228-30], perché dava mostra di considerare l’adesione a quel movimento come uno scarto e una deviazione rispetto ad una meccanica “pura” della coscienza proletaria. Coglieva però perfettamente nel segno quando affermava che «è di enorme importanza» fare ogni sforzo per «conquistare alla nostra lotta o quantomeno neutralizzare quegli strati sociali che sono precipitati nel fascismo». Quando cioè non si stancava di ripetere che bisognava anzitutto «lottare ideologicamente per conquistare queste masse» e che i comunisti dovevano perciò in primo luogo lanciare un’offensiva ideologica generale. Un’offensiva egemonica, in altre parole, che rispondesse ai bisogni pratici delle masse sradicate a partire da un solido quadro teorico: le classi impoverite e i ceti medi non stanno infatti soltanto «cercando di fuggire dalle loro sofferenze presenti» ma con ancor maggiore urgenza «desiderano una nuova concezione del mondo» e cioè un’ideologia potente, qualcosa in cui credere e con il cui ausilio comprendere le proprie stesse miserie. Era l’egemonia, dunque, il primo terreno di lotta per i comunisti, i quali erano anzitutto obbligati a far conoscere alle masse «l’intimo contenuto del comunismo come visione del mondo».
Naturalmente il proletariato doveva dotarsi di «un apparato di autodifesa organizzato» [ZF 229-31], è chiaro. Assai più importante era però che a partire dai suoi quadri dirigenti esso si dimostrasse capace di un’offensiva egemonica generale: alle masse, in primo luogo, mostreremo «una nuova, salda visione del mondo» che è al tempo stesso «la fiamma della nuova vita storica, che risplende e riscalda, fa speranza e forza nella lotta». Si capisce perciò – e troviamo qui un secondo elemento assai rilevante e innovativo rispetto al paradigma tradizionale del conflitto politico-sociale – che se il terreno di lotta principale era quello delle visioni del mondo, «i partiti comunisti di ogni paese non devono essere solo l’avanguardia dei soli lavoratori salariati», come era ovvio che fosse, ma anche «l’avanguardia dei lavoratori intellettuali» e cioè di quegli strati più o meno istruiti e colti, in prevalenza piccolo borghesi, che dell’ideologia intesa anche in senso lato, ovvero in senso gramsciano, fanno la propria professione. Anche questo non era però ancora sufficiente: per Zetkin, i comunisti dovevano in realtà porsi alla testa di tutti i ceti produttivi della nazione. Essi «devono essere le guide di tutti gli strati sociali che, per i loro interessi e per il loro desiderio di ascendere a una civiltà superiore si pongono in crescente contrasto con l’ordine capitalistico».
Tutto positivo doveva pertanto essere l’atteggiamento del movimento comunista, il quale avrebbe dovuto proporsi non come una semplice parte politica tra altre parti politiche, come l’organizzazione egoistica di una classe separata, ma come un polo egemonico e cioè come l’avanguardia di un mondo nuovo. Come il paladino dell’interesse generale che sa parlare a tutto il paese e a tutte le sue componenti e, comprendendone la sofferenza, sa indicare loro la strada verso un futuro condiviso, facendosi in tal modo classe dirigente nazionale: «il suo appello al mondo borghese sarà: Io sono la forza! Io sono la lotta! Il futuro appartiene a me!».
Era una situazione che riguardava in quel momento soprattutto la Germania, dove da tempo avevano fatto la loro comparsa gli eredi di coloro che ancora le Tesi sulla situazione internazionale e sulla politica dell’Intesa del Comintern, o il Manifesto sugli avvenimenti tedeschi dopo il putsch di Kapp, definivano – in analogia con la scena russa – come «le bande delle guardie bianche» o i «generali bianchi», oppure come i «servi» della borghesia28. «Dopo l’Italia», infatti, a causa dell’esito della guerra e delle sue conseguenze, «è in Germania che il Fascismo ha raggiunto la sua posizione più forte e salda» [ZF 227]. Al tempo stesso, oltretutto, in nessun altro paese il movimento socialista sembrava ormai più debole e compromesso e dunque «in nessun altro paese il contrasto tra l’oggettiva maturità per la rivoluzione e l’immaturità soggettiva della classe operaia [era] così grande come in Germania».
4.Radek: Schlageter e il confronto con il movimento neonazionalista
Non c’è dubbio: nonostante la persistenza di quel riflesso condizionato di natura sociologica che abbiamo notato prima, e che la portava a postulare un rapporto diretto tra l’appartenenza a una classe sociale e il posizionamento politico – e a stupirsi quando tale rapporto non si presentava in maniera pressoché spontanea –, Zetkin urtava qui con i limiti del marxismo secondinternazionalista. E, per usare il linguaggio oggi in voga, si lasciava alle spalle quella filosofia della storia che parlava di necessità meccanica per avvicinarsi alla scoperta del campo sociale inteso come campo della contingenza e cioè della possibilità e della prassi. Confrontandosi esattamente con lo stesso problema, ma ancor prima di Gramsci e di Togliatti – e certamente molto prima di Ernesto Laclau e della sua rinuncia postmoderna alla dimensione dell’oggettività –, comprendeva perciò la questione dell’egemonia nel suo nesso con la questione non meno rilevante della coercizione29. E comprendeva cosa tale questione volesse dire per il movimento operaio, il quale già in quegli anni sapeva perciò di dover inevitabilmente fare un notevole lavoro su se stesso se avesse voluto oltrepassare i propri limiti corporativi, ovvero la propria parzialità, e proporsi come avanguardia generale nell’ambito di un’alleanza popolare.
Al tempo stesso – e cosa non meno rilevante – Zetkin allargava lo sguardo talmente al di là del proprio fronte politico da cogliere almeno in parte anche lo sforzo di rinnovamento e complessificazione della destra europea dopo la Prima guerra mondiale. Il medesimo evento che aveva messo alla prova l’impianto teorico secondinternazionalista, infatti, aveva messo non meno in crisi il patrimonio di idee e valori del conservatorismo tradizionale, obbligando le nuove generazioni di destra alla ricerca di una via essa stessa nuova. Se in quegli anni anche la destra era costretta a tagliare i ponti con il proprio passato per affrontare la questione del consenso e dell’egemonia su strati sociali sempre più vasti e a cercare un «nuovo carattere popolare, plebeo»30, tuttavia, il rinnovamento al quale questa parte politica doveva disporsi – e che prende il nome di Rivoluzione conservatrice31 – appariva decisamente più semplice rispetto al compito della sinistra. È vero che la destra doveva a quel punto imparare a praticare il linguaggio per lei inusitato della rivoluzione. Al di là di quel vantaggio politico generale dovuto alla sua spontanea propensione all’immediatezza, e dunque della sua capacità di entrare più facilmente in sintonia con gli umori spontanei più reattivi delle masse, essa aveva però dalla propria parte un vantaggio essenziale e cioè una notevole dimestichezza con la questione nazionale, un tema che era eredità di tutto il proprio passato. E questo, nella Germania dei primi anni Venti e in particolare dopo l’occupazione franco-belga del territorio minerario della Ruhr, non poteva che fornirle strumenti egemonici assai potenti.
Non solo già all’epoca era nota la prassi della politica egemonica, dunque: era noto anche – e forse assai più di quanto non lo sia oggi – come questa politica non fosse affatto un monopolio ideologico “naturale” della sinistra. Sulla medesima falsariga dell’intervento di Zetkin va perciò letto l’approccio al problema del fascismo fornito nello stesso contesto da Karl Radek, il quale – già allora vicino a Trotzki – era in quel momento responsabile del Comintern per la Germania. Rispetto alla percezione del fascismo prevalente anche nel movimento comunista e rispetto anche alle parole di Zetkin, tuttavia, l’intervento di Radek alla conferenza del Comitato esecutivo allargato andava ancora oltre e si proponeva come una vera e propria provocazione32. Perché a partire dalla vicenda di Albert Leo Schlageter – l’ufficiale dei Freikorps giustiziato dall’esercito francese dopo la cattura in seguito a numerose azioni di boicottaggio e sabotaggio, oggetto di un vero e proprio culto politico a destra negli anni di Weimar, eletto a martire nazionale dopo l’avvento del nazismo e omaggiato persino da Martin Heidegger in un celebre discorso come Rettore di Freiburg33 – si proponeva in maniera ancora più esplicita di comprendere l’elemento di verità presente nello stesso movimento neonazionalista tedesco. E lo faceva nello stesso momento in cui coglieva l’essenza agonistica dell’egemonia, ovvero il suo essere nulla di più e nulla di meno che un ulteriore campo di battaglia relazionale.
«Durante l’intero discorso della compagna Zetkin a proposito delle contraddizioni del fascismo, nella mia testa si agitavano il nome di Schlageter e il suo destino tragico»34, commentava Radek. Le parole di Zetkin a proposito delle conseguenze della guerra evocavano infatti «il cadavere di quel fascista tedesco, di quel nostro avversario di classe, che è stato condannato a morte e passato per le armi dagli sgherri dell’imperialismo francese» e cioè «dalla potente organizzazione di un’altra fazione dei nostri nemici di classe». Ecco allora che «nel momento in cui prendiamo una posizione politica di fronte al fascismo», cercando di comprenderne le radici e le contraddizioni per meglio combatterlo, «noi dobbiamo ricordarci di lui». Infatti, «le sorti di questo martire del nazionalismo tedesco non vanno liquidate in silenzio, né con una frase di circostanza», ma al contrario devono essere oggetto di seria riflessione per i comunisti.
Nessuna Schadenfreude, nessuna facile soddisfazione per un nemico in più che è morto, dunque. In realtà, «Schlageter, il coraggioso soldato della controrivoluzione, merita di essere apprezzato da noi, soldati della rivoluzione, in maniera virile e leale». Ma questo rispetto deve andare ben oltre il rituale riconoscimento encomiastico del suo valore militare o del suo coraggio. Le sue sorti, infatti, «molto hanno da dire al popolo tedesco» perché parlano delle sorti della Germania intera, ripropongono cioè la questione tedesca. Ecco allora che se i tedeschi, a partire dai nazionalisti ma senza escludere affatto i comunisti, non comprenderanno «il significato della storia di Schlageter» – ovvero il significato di un sacrificio che va al di là delle convinzioni personali del singolo soldato ma chiamano in causa lo stato di sottomissione della patria, mettendo di conseguenza in luce i rapporti di subordinazione e dominio imposti dall’imperialismo delle grandi potenze capitalistiche –, «questi sarà caduto invano».
Non c’è nessun dubbio sul fatto che Schlageter, figlio della piccola borghesia tedesca che come tanti altri suoi coetanei si era fatto valere durante il conflitto mondiale, abbia completamente sbagliato fronte. Appena finita la guerra, Schlageter militava già nei Freikorps che combattevano contro la Russia al servizio delle potenze controrivoluzionarie e a sostegno dei Bianchi. La Russia rivoluzionaria era accerchiata e la borghesia tedesca sconfitta cercava adesso di comprarsi la pietà dell’Intesa fornendole mercenari in funzione antisovietica, con la tacita complicità dei socialdemocratici (i quali anche a tal fine tolleravano la presenza di corpi paramilitari fuori controllo nel paese35). Era «un servizio da sgherri contro il popolo russo», tramite il quale i capitalisti e gli Junkers pagavano «i propri tributi di guerra ai vincitori, dando in affitto il giovane sangue tedesco risparmiato dalle pallottole della guerra mondiale e impiegandolo contro il popolo russo come milizie mercenarie dell’Intesa» (RS 6).
Subito dopo, e a dimostrazione che non si era trattato di un caso o di un equivoco, Schlageter era andato con i suoi camerati nella Ruhr, per combattere l’occupazione ma non di meno per reprimere i comunisti e le loro iniziative di sciopero e boicottaggio delle aziende minerarie, e lì si era battuto in combutta con il capitale francese e inglese, riconsegnando il controllo del territorio ai capitalisti dell’acciaio e del carbone. Era veramente fuori da ogni logica, perciò, che a piangerlo sui giornali della destra fossero in primo luogo i responsabili diretti della disfatta e dell’umiliazione tedesca come Ludendorff o i grandi industriali come Stinnes, il quale era tra l’altro socio d’affari nella fabbrica in cui erano stato prodotte le armi che avevano ucciso questo protomartire nazionalista. Ma per quanto riguardava le truppe di manovra, questi figli del popolo tedesco? Almeno questi soldati avevano realmente «compreso il significato della propria azione» (RS 5)?
Perché Schlageter aveva fatto fa tutto questo? Perché aveva combattuto contro la rivoluzione e l’auto-organizzazione popolare? Lo aveva fatto perché era un feroce nemico del popolo? Non è affatto così. Al contrario, Schlageter – che rappresentava qui la piccola borghesia nazionalista esacerbata dalla propaganda imperialistica dello Stato maggiore tedesco e che seguiva il destino sconvolgente di un’intera generazione – «era convinto di servire il popolo tedesco» (RS 6) ed era dunque un sincero patriota. E però, nella sua incapacità di comprensione delle cause reali della guerra, «era convinto che avrebbe servito al meglio il popolo aiutando a ripristinare il dominio delle classi che lo hanno guidato sino a questo momento portandolo in questa indicibile sventura». Fedele sino in fondo alla propria parte, per lui «ogni lotta contro l’Intesa sarà impossibile finché non verrà abbattuto il nemico interno». Dove stava però questo nemico? Esso «era per Schlageter la classe operaia rivoluzionaria».
Come si vede, è ormai scontata e implicita qui per Radek la non corrispondenza diretta tra posizione di classe e coscienza di classe. Il piccolo borghese Schlageter non era certamente organico alla grande borghesia e i suoi interessi sarebbero spontaneamente andati in tutt’altra direzione; ma in quanto ne era succube sul piano ideologico – come era normale che accadesse, visto che le idee della classe dominante sono per lo più le idee dominanti – ne è finito al servizio. Da qui, però, anche la possibilità di cambiare le cose e di staccare questi strati sociali dall’influenza borghese, a condizione che il movimento operaio fosse capace di sfuggire alla trappola del muro contro muro e avvertisse l’importanza e l’urgenza di un intervento ideologico di natura egemonica che si rivolgesse a tutti gli Schlageter di Germania e d’Europa. E cioè a tutte le classi sociali strette tra i grandi proprietari e il proletariato e adesso contese nelle loro forme di coscienza tra comunismo e fascismo.
Qual era però la chiave di questa iniziativa egemonica? Quale il suo principale «significante vuoto»36, per usare ancora una volta le parole di Laclau? Nella situazione concreta della Germania di Weimar, sconfitta senza aver subito nessuna disfatta militare e caricata poi della colpa morale della guerra, oltre che del peso delle riparazioni, si trattava – e non poteva essere diversamente – della questione nazionale.
Era inevitabile che i ceti medi, per i quali l’identificazione con la patria era fonte primaria di identità, affidassero le proprie sorti al fascismo, oppure sarebbe stato ancora possibile per i comunisti e per la classe operaia di fabbrica una politica di alleanze sociali che strappasse questi strati alle forze della reazione? La domanda rivolta ai camerati di Schlageter era perciò in realtà rivolta all’intero blocco sociale nel quale i neonazionalisti reclutavano le proprie truppe: nel rivendicare il loro genuino patriottismo, «contro chi intendono combattere allora i völkisch tedeschi, contro il capitale dell’Intesa o contro il popolo russo?» (RS 6). Se anche per loro la contraddizione principale era costituita dalla sottomissione della Germania, infatti, quali erano le vere ragioni della sconfitta e delle sofferenze del popolo tedesco e, ancor prima, per quale motivo la Germania si era impegnata in una guerra che mai avrebbe potuto vincere, con l’obiettivo di sottomettere a propria volta altri popoli? Di conseguenza, «con chi vogliono unirsi» tutti coloro che intendono combattere per la difesa della patria? Stanno «Con gli operai e i contadini russi per scuotere via insieme il giogo del capitale dell’Intesa» e cioè affrontando le ripercussioni drammatiche della guerra a partire dalle loro radici, a partire dalla gerarchia imperialistica internazionale e dalle sue propaggini nelle classi dirigenti di ciascun paese? Oppure, paradossalmente, per l’incapacità di leggere le contraddizioni reali, si sarebbero schierati proprio con i responsabili della guerra e delle conseguenti sofferenze del proprio popolo, «con il capitale dell’Intesa», il quale li conquistava e poi li mobilitava «per ridurre in schiavitù il popolo tedesco e quello russo»?
5. Radek: teoria dell’egemonia e questione nazionale
È chiaro qui il passaggio di Radek a una teoria dell’“egemonia oggettiva” pressoché integrale, una teoria che riconosceva nella questione nazionale il terreno principale per una possibile offensiva ideologica. Ma ancor prima, è chiara nelle sue parole la consapevolezza per cui nella situazione concreta tale questione era diventata un momento inscindibile della questione sociale e il primo inevitabile momento di ogni prospettiva rivoluzionaria.
Sappiamo che per Lenin dopo il 1917 «la lotta di classe ha cambiato le sue forme»37. Se questo era avvenuto in un paese nel quale la classe operaia era andata al potere e doveva da quel momento difendere con ogni mezzo la sopravvivenza del nuovo ordine sovietico e dunque l’acquisito primato dei lavoratori, lo stesso però avveniva, con modalità e per ragioni diverse, in un paese che per colpa del fallimento dei propri leader politici ed economici era stato sconfitto e poi sottomesso. Nessuna rivoluzione proletaria avrebbe mai potuto esserci in Germania senza passare prima per una liberazione della Germania stessa. La Germania, infatti, aveva assunto adesso la posizione di una semicolonia collocata nel cuore stesso dell’Europa. I suoi abitanti erano diventati di fatto schiavi coloniali ed erano a quel punto assimilabili ai neri. L’emancipazione della classe operaia tedesca dal capitale entrato nella fase dell’imperialismo non era perciò nemmeno immaginabile se non nel contesto dell’emancipazione della Germania dalle potenze imperialistiche che ne soffocavano la vita e, per essere conseguenti, dalle proprie stesse pulsioni egemoniche.
Il paese era stato colonizzato dagli stranieri vittoriosi in accordo con i grandi capitalisti tedeschi, i quali tradivano la propria stessa patria a spese della classe operaia ma più in generale di tutte le classi lavoratrici. Chi voleva conquistare il potere doveva anzitutto sapersi porre alla testa di queste classi, doveva presentarsi come un Lord Protettore della nazione. Era necessario, allora, che la classe operaia tedesca assumesse una consapevolezza nazionale e uscisse fuori di sé per conquistare «la maggioranza di tutti gli sfruttati» ovvero «la simpatia delle masse»38 e svolgere una funzione dirigente, individuando se possibile nella propria stessa storia le premesse di questa possibile crescita intellettuale e politica e i propri titoli di legittimità. E in questo compito la classe operaia tedesca non si trovava affatto sprovvista di mezzi: nella partecipazione popolare alla resistenza della Ruhr, infatti, essa non faceva per Radek che rinnovare l’eredità dei Befreiungskriege antinapoleonici. E proprio rivendicando questa continuità i comunisti potevano con pieno diritto proporsi come avanguardia della liberazione nazionale, inserendo la Germania in quel processo di decolonizzazione delineato da Lenin nel momento in cui non solo aveva invitato a trasformare la guerra imperialista in guerra rivoluzionaria ma aveva anche fatto appello ai popoli delle colonie affinché spezzassero le loro catene.
Come Engels aveva a suo tempo delineato una «tradizione rivoluzionaria» della Germania che risaliva quantomeno alla Guerra dei contadini dell’epoca della Riforma protestante39, dunque, Radek forniva nel suo discorso un abbozzo di genealogia del nazionalismo progressivo proletario. Guardiamo alla storia tedesca: Gneisenau e Scharnhorst, spiegava Radek, riuscirono ad avere la meglio su un esercito tanto più potente solo facendo appello al popolo e mobilitando le masse: «solo emancipando i contadini dall’assoggettamento e dalla schiavitù degli Junker» (RS 7). Essi compresero che «solo scuotendo via il gioco dalla schiena dei contadini si sarebbero potute porre le basi per la liberazione della Germania». In questa maniera, però, nasceva la tradizione del patriottismo democratico tedesco, ragion per cui sarebbe stata possibile dopo Versailles un’alternativa popolare sensata al nazionalismo aggressivo fomentato dal capitale: «ciò che i contadini tedeschi rappresentavano all’inizio del XIX secolo», infatti, «per la storia della nazione tedesca all’inizio del XX secolo lo è la classe operaia tedesca». La classe operaia raccoglieva l’eredità di un movimento democratico popolare che, facendo leva sulle masse contadine, aveva saputo difendere la libertà della patria vincendo anche la capillare penetrazione dell’egemonia ideologica francese presso i ceti intellettuali: allo stesso modo, oggi «solo assieme ad essa la Germania potrà essere liberata dalle catene della schiavitù, mentre non potrà esserlo senza di essa».
Siamo di fronte a una grande e spesso malintesa operazione di politica culturale. Se l’egemonia operaia sui ceti intermedi era indispensabile nella lotta per disarticolare il fascismo nelle sue componenti di classe già sul piano ideologico, la questione nazionale era a sua volta centrale per il conseguimento di questa egemonia e per la conquista di un ruolo di avanguardia per la classe operaia, la quale per Radek possedeva comunque già tutti i titoli etici necessari per dirigere la liberazione tedesca.
In questa lotta, «la causa tedesca» coincideva con la causa «del popolo tedesco» ovvero con la «battaglia per i diritti del popolo tedesco» (RS 7-8). Il proletariato doveva perciò convincere questo popolo a rompere «con coloro che non solo lo hanno condotto alla sconfitta ma che perpetuano questa sconfitta e la sua inermità, perché ne trattano la maggioranza come se fosse il nemico». Proprio i ceti medi erano i principali interpellati: non credano costoro di riuscire a trarsi in salvo dalla tempesta della crisi postbellica abbracciando il neonazionalismo e il fascismo, perché la sconfitta della classe operaia porterà inevitabilmente con sé l’oppressione di tutte le classi e lo sfruttamento intensivo dello stesso ceto medio. Il fascismo era infatti un«martello che, intenzionato a cadere sulla testa del proletariato per sfracellarla, finirà per colpire in primo luogo proprio gli strati piccolo- borghesi che lo brandiscono nell’interesse del grande capitale» [RS 5].
Ecco allora il cuore della proposta di Radek. Una proposta che, nel tradurre astutamente in termini nazionali le direttive del Comintern, intendeva fare esplodere le molteplici contraddizioni interne al campo delle destre: «se la Germania vuole essere in grado di combattere, deve formare un fronte comune dei lavoratori [eine Einheitsfront der Arbeitenden]» [RS 8]. Un fronte nel quale «i lavoratori intellettuali [Kopfarbeiter]», i quali rappresentano una categoria di per sé strategica ma che valgono anche da metafora per i ceti medi nel loro complesso,«devono… unirsi ai lavoratori manuali [Handarbeiter] in una falange d’acciaio». È un intento che veniva ribadito pochi giorni dopo di fronte all’Esecutivo allargato dell’Internazionale giovanile, assieme ad un contesto retorico-tattico complessivo che puntava a mettere in contraddizione il fascismo di fronte alle masse piccolo-borghesi: dal momento che sulla testa di queste masse è in corso un’offensiva egemonica, i comunisti devono sforzarsi di «trovare accesso» ai loro bisogni ideologici e a tal fine devono essere in grado di capire le«differenze» presenti nel vasto alveo della «controrivoluzione»40.
Se dopo Versailles e ancor più dopo l’occupazione della Ruhr la rivoluzione tedesca passava per la liberazione della Germania dal gioco coloniale, era chiaro infatti che la classe operaia tedesca dovesse saper andare al di là dei propri limiti e dialogare con altri strati sociali per costruire assieme ad essi un’alleanza nazionale e un fronte ampio, pur tenendone la testa. Da un lato, «la condizione dei lavoratori intellettuali esige questa unità» [RS 8], viste le sofferenze dei ceti medi e al contempo la loro incapacità di direzione strategica. Dall’altro, «solo pregiudizi obsoleti la impediscono»: pregiudizi nei confronti dei comunisti, certamente; ma anche i pregiudizi e i limiti di quei socialisti che, identificando senz’altro gli Arbeiter con gli operai di fabbrica, finivano per dimidiare in senso economicistico e puramente operaistico la stessa teoria marxiana.
.A questo punto, in piena consonanza con lo spirito del leninismo, «la causa del popolo» diventa per Radek la «causa della nazione» e questo passo, reciprocamente, «fa della causa della nazione la causa del popolo». Nella guerra di liberazione che si confondeva con la guerra rivoluzionaria, la Germania sarebbe stata perciò finalmente «unita». Ma lo sarebbe stata non a partire dallo spirito di vendetta o dal radicamento comunitario o addirittura per appartenenza razziale, come avrebbero voluto i neonazionalisti, bensì solo sul terreno proletario, ovvero «come un popolo di lavoratori che combatte», unico modo per evitare «gesti di disperazione» e «lottare in maniera efficace».
Le conseguenze pratiche erano a quel punto chiare, per quelle forze alle quali Radek si rivolgeva e delle quali puntava a mettere in evidenza le contraddizioni: «se i circoli patriottici della Germania», e cioè i völkisch, «non decideranno di far propria la causa di questa maggioranza della nazione», e dunque «di stabilire così un fronte contro il capitale dell’Intesa» ma anche «contro quello tedesco», rompendo la loro subordinazione di classe alla grande proprietà ma al tempo stesso rinnegando la propria ideologia organicistica per abbracciare una visione del mondo fondata sul primato del lavoro e sulla fratellanza dei popoli sottomessi, ecco che «quello di Schlageter sarà stato un cammino nel nulla» [RS 7]. Sarebbe stato però, questo, il supremo tradimento nazionale da parte dei fascisti, perché rinunciare all’alleanza con le forze popolari o addirittura combatterle avrebbe significato dividere il paese e spalancare le porte della patria alla strapotenza del nemico: «allora, di fronte all’invasione straniera, di fronte alla minaccia ininterrotta da parte dei vincitori, la Germania diverrebbe il campo di una sanguinosa lotta intestina e sarebbe facile per il nemico annientarla e farla a pezzi».
Più nazionali dei neonazionalisti avrebbero dovuto perciò dimostrarsi i comunisti: «il partito comunista di Germania deve dire apertamente alle masse nazionaliste piccolo-borghesi: chi, al servizio degli affaristi, degli speculatori, dei signori dell’acciaio e del carbone, vorrà provare a rendere schiavo il popolo tedesco o a gettarlo in qualche avventura, andrà a sbattere nella resistenza degli operai tedeschi comunisti» e a quel punto «essi risponderanno alla violenza con la violenza», perché «chi per incomprensione si unirà ai mercenari del capitale, verrà combattuto con ogni mezzo» [RS 8]. Non solo però il destino non era scritto, ma la stessa questione nazionale era un campo di forze nel quale ciò che contava era anzitutto la capacità egemonica dei soggetti in contesa tra loro: «noi crediamo però che la grande maggioranza delle masse dai sentimenti nazionali non faccia parte del campo del capitale ma di quello del lavoro» e su queste basi «vogliamo cercare la via che conduce a queste masse e la cercheremo, la vogliamo trovare e la troveremo». Ecco che i comunisti avrebbero fatto di tutto «affinché uomini come Schlageter, che erano pronti ad andare verso la morte per una causa comune, non siano viandanti nel nulla ma diventino viandanti verso un futuro migliore dell’umanità intera».
È un passaggio importante, quest’ultimo, che conferma ancora una volta l’ambizione dell’offensiva egemonica di Radek e sventa a monte qualunque possibile accusa di collusione con il protofascismo: come abbiamo visto, bisognava fare in modo che i tedeschi «non versino più il loro sangue caldo e disinteressato per il profitto dei baroni del carbone e dell’acciaio ma per la causa del grande popolo tedesco che lavora», sottraendosi all’egemonia grande-borghese. Al tempo stesso, però, e cosa non secondaria, questa guerra di liberazione rendeva i tedeschi «un popolo che fa parte della famiglia dei popoli che lottano per la propria liberazione». E cioè li inseriva in un processo di emancipazione generale dall’imperialismo nel quale essi erano associati, in seguito alla guerra, a tutti i popoli coloniali e diventavano dunque parte integrante di un grande movimento internazionale e internazionalista dei popoli oppressi, a partire dai popoli di colore sottomessi a suo tempo dalla Germania stessa.
Lungi dall’essere espressione di vendetta o di spirito social- sciovinista di rivincita, dunque, lungi dal rappresentare il particolarismo sempiterno di una Germania che non accettava la sconfitta e che si camuffava con la maschera del sincretismo ideologico dando vita a un abominevole campo “rossobruno” protototalitario, il fronte unitario dei lavoratori proposto dai comunisti anche ai neonazionalisti si sarebbe battuto «per una liberazione che è identica alla libertà di tutto il popolo» ma anche per la «libertà di tutti coloro che lavorano e soffrono in Germania» [RS 8], indipendentemente dalla classe ma anche dall’appartenenza in senso etnico alla Volksgemeinschaft. Esso si proponeva dunque di strappare ai neonazionalisti l’egemonia sulla questione nazionale e di «convincere gli elementi piccolo-borghesi che sono presenti nel fascismo e che lottano contro la riduzione in schiavitù della Germania che il comunismo non è loro nemico ma è la stella che indica loro il cammino della vittoria».
Se questa operazione egemonica fosse fallita, invece, se i comunisti non fossero riusciti a «destare la fiducia delle masse popolari piccolo-borghesi nella capacità della classe operaia di scuotere il giogo nazionale», avvertiva in tempo reale Radek, sarebbe stato assai probabile che queste masse divenissero «strumenti in mano alle iene della guerra», le quali «sfrutteranno i loro legittimi sentimenti nazionali per ripristinare il dominio della reazione in Germania». Si sarebbe profilata una catastrofe che avrebbe spinto «ancora più a fondo la Germania», dunque. Ma sarebbe stata una catastrofe non minore per la classe operaia tedesca e per l’intero movimento comunista internazionale ovvero per la rivoluzione in Europa, perché «la sua vittoria» avrebbe dovuto essere «rinviata per lungo tempo» [RS2 15].
È superfluo ricordare quanto questa diagnosi si sia dimostrata esatta e quanto a questo proposito – e per ragioni che meritano un ragionamento a parte – Radek sia stato profetico.
Note
1 BROUÉ 1977, pp. 3-4. Su questo periodo e su queste vicende, più esplicito il punto di vista trotzkista in BASILE 2016.
2 Nota Aldo Agosti che «fu soprattutto la nascita del Partito comunista tedesco (KPD)» e cioè di un partito comunista collocato nell’«epicentro della rivoluzione proletaria mondiale» a «convincere i bolscevichi che la situazione era ormai matura per la creazione della nuova Internazionale» (AGOSTI 1974 sgg., p. 9). Sulla lettura del fascismo nella Terza internazionale rimangono ancora testi di riferimento POULANTZAS 1975 e NATOLI 1982.
3 MEW 4, p. 492.
4 MEW 19, p. 295. Sul tema della obscina russa, da sempre assai controverso nella tradizione marxista e spesso utilizzato come attestazione della possibilità di un marxismo non deterministico e non eurocentrico (ma altrettanto spesso praticato come apertura a una versione postmoderna del marxismo stesso), cfr. AZZARÀ 2003.
5 BROUÉ 1977, p. 7 sgg.
6 LENIN 1967f, p. 485.
7 Cfr. AGOSTI 1974 sgg, p. 20.
8 LENIN 1967e, p. 460.
9 AGOSTI 1974 sgg., p. 7. Sulle ragioni anche teoriche di questo ostinato e inopportuno «ottimismo» rivoluzionario v. ancora ivi, pp. 73-86.
10 Cfr. Agosti 1974 sgg., p. 83.
11 LENIN 1967b, p. 429.
12 LENIN 1967e, pp. 455-56.
13 BAYERLEIN-WEBER-ALBERT 2014; cfr. AGOSTI 1974 sgg., p. 77.
14 V. FRÖLICH–LINDAU–SCHREINER–WALCHER 2001, p. 313 sgg. Cfr. AGOSTI 1974 sgg., p. 101 sgg.
15 LÖNNE 1985, p. 121 sgg, nel quale è esposto anche il complicato rapporto dialettico tra il Komintern e il giornale dei comunisti tedeschi.
16 Il dibattito al IV congresso è riportato in KOMINTERN 1923a. Cfr. AGOSTI 1972 e soprattutto NATOLI 1982, p. 286 sgg.; POULANTZAS 1975, p. 112 sgg.
17 Il dibattito sul fascismo all’Esecutivo è riportato in KOMINTERN 1923b, pp. 204-46 e sintetizzato in BROUÉ 1977, p. 672 sgg.
18 Cfr. LENIN 1967a, pp. 33 sgg., 80 sgg.
19 Cfr. AGOSTI 1974, p. 345 sgg. e i documenti allegati.
20 ZETKIN 1923 = ZF, pp. 205-07.
21 LOSURDO 1996, cap. III.3, p. 101 sgg.: «Splendida piccola guerra», guerra totale e guerra civile.
22 LENIN 1967f, p. 486.
23 ARENDT 1989, p. 324: «Il nazionalismo tribale nacque in questa atmosfera di sradicamento», un processo che va riferito alle classi, allo stesso interesse nazionale e addirittura «al mondo» (p. 651).
24 LOSURDO 2002, p. 353 sgg.
25 LENIN 1967c, p. 439.
26 TOGLIATTI 2010, pp. 8-13.
27 TOGLIATTI 2014, pp. 221-23 ed. digitale. Il curatore della sezione dedicata al fascismo presente in questa antologia informa che questo testo fu «concepito contestualmente alla presa del potere di Mussolini» e «avrebbe dovuto costituire la base per la discussione sul fascismo italiano in seno al IV congresso dell’IC». E però «Togliatti non partecipò al congresso e probabilmente il documento non giunse in tempo per la discussione» (p. 173 ed. digitale).
28 AGOSTI 1974 sgg., pp. 55 e 101-02.
29 Cfr. LACLAU-MOUFFE 2011, il cap. I, nel quale si delinea la genealogia della questione dell’egemonia dalla Seconda internazionale al leninismo passando per Luxemburg e Gramsci.
30 BROUÉ 1977, p. 670.
31 Sulla Rivoluzione conservatrice e la sua complicata dialettica interna, nonché sui rapporti con il flusso della destra tedesca, rinvio ai miei lavori AZZARÀ 1999, 2004, 2012, 2014, 2017 e alle relative bibliografie.
32 RADEK 1923a = RS: discorso del 20 giugno 1923 a commento dell’intervento di Zetkin e pubblicato pochi giorni dopo sulla “Rote Fahne”. Lönne 1985 ricorda comunque che «Radek aveva elaborato la sua posizione già al Quarto Congresso mondiale del Komintern in una relazione dal titolo “L’offensiva del capitale”», fornendo degli «impulsi importanti anche per la Zetkin» (p. 123; la relazione è in KOMINTERN 1923a, pp. 45-63). Su questo intervento di Radek, il suo reale significato e le sue ripercussioni la bibliografia è ormai assai cospicua. Mi limito a indicare due classici sul “nazionalboscevismo”: SCHÜDDEKOPF 1960, p. 139 sgg. e DUPEUX 1979, cap. IX, p. 208 sgg. Cfr. BASILE 2016, p. 43 sgg.
33 HEIDEGGER 2000.
34 RADEK 1923a = RS, p. 5. D’ora in avanti i riferimenti delle citazioni tratte da questo intervento saranno indicati tra parentesi direttamente nel testo con la sigla RS seguita dal numero di pagina.
35 Cfr. FRÖLICH–LINDAU–SCHREINER–WALCHER, p. 36 sgg.
36 LACLAU 2008, p. 91.
37 LOSURDO 2013, cap, VII, p. 184 sgg.
38 LENIN 1967d, pp. 451-52.
39 ENGELS 1960, p. 329.
40 RADEK 1923b.

Riferimenti Bibliografici
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L'imperialismo dei diritti universali. Arthur Moeller van den Bruck, la Rivoluzione conservatrice e il destino dell’Europa, La Città del Sole, Napoli.
ID., 2014
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