Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2017, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0
Leggi anche: Fascismo. Misurare la parola. - Palmiro Togliatti
1. La questione tedesca nel movimento comunista
Nel
movimento operaio internazionale, la questione tedesca e le sue
possibili ricadute sulle prospettive generali della rivoluzione
socialista in Europa hanno costituito un argomento tradizionalmente
assai dibattuto. Come faceva notare Pierre Broué, riportando nelle
pagine iniziali della sua celebre opera sulla – mancata –
rivoluzione tedesca le ottimistiche previsioni letterarie di
Preobrazhenskij e gli auspici politici di Zinovev1,
è un dibattito che si è fatto però tanto più necessario e intenso
con l’Ottobre e soprattutto negli anni successivi alla conclusione
della Prima guerra mondiale, in ragione delle profonde trasformazioni
politiche che si erano verificate in Germania dopo la sconfitta e la
caduta del Kaiser e nel contesto di un conflitto civile dalle
conseguenze imprevedibili. Un conflitto a intensità variabile ma
pressoché ininterrotto, le cui incontrollabili esplosioni – ora a
destra, ora a sinistra – sembravano certamente porre le basi per la
rottura definitiva di quell’ordine borghese del quale la
socialdemocrazia, nelle analisi dei bolscevichi, si era fatta garante
a Weimar. Ma che rischiavano al tempo stesso di condurre ad un esito
decisamente diverso da quello che ancora dopo il Terzo congresso il
Comintern riteneva comunque prossimo, come sarebbe in effetti
accaduto in Italia con la presa del potere da parte del fascismo nel
1922 2.
In
realtà, sappiamo bene che lo sguardo sulla Germania coincide in un
certo senso con l’atto di nascita stesso del partito comunista
moderno. «I comunisti rivolgono la loro attenzione sopratutto alla
Germania», avevano spiegato Marx e Engels sin dal 1848 e in un
contesto assai diverso, «perché la Germania è alla vigilia d'una
rivoluzione borghese e perché essa compie questo rivolgimento in
condizioni di civiltà generale europea più progredite e con un
proletariato molto più evoluto che non l'Inghilterra nel
Diciassettesimo secolo e la Francia nel Diciottesimo»3.
Ragion per cui, concludevano, «la rivoluzione borghese tedesca può
essere soltanto l'immediato preludio d'una rivoluzione proletaria»
destinata a propagarsi in tutta Europa. E questa impostazione assai
ottimistica ritornava ancora nella prefazione alla seconda edizione
russa del 1882, sfrondata del precedente meccanicismo ma con parole
non dissimili: un’eventuale «rivoluzione russa» sarebbe stata
ovviamente importante; ma poiché non era di certo possibile affidare
l’affermazione del comunismo alla «comunità rurale», il suo
valore sarebbe consistito in primo luogo nel funzionare come «segnale
a una rivoluzione operaia in occidente, in modo che entrambe si
completino»4. Ancora
nel 1892, poi, come sempre Pierre Broué ricorda, il vecchio Engels
si aspettava che la Germania fosse «al centro del campo di battaglia
nel quale borghesia e proletariato si sarebbero fronteggiati nella
lotta finale»5.
Adesso,
dopo Versailles, la Germania era ancora il cuore della rivoluzione
europea, come i padri fondatori avevano ritenuto? Costituiva cioè
quel diaframma geopolitico strategico la cui rottura avrebbe
consentito una risoluzione agevole dello scontro tra gli antagonisti
di classe su scala continentale e l’insediamento del socialismo in
uno dei centri nevralgici più progrediti del mondo capitalistico,
spingendo «alla conquista immediata del potere»6 (la
«lega Spartaco» occupava non casualmente il primo posto nell’elenco
dei convocati presente nella Lettera d’invito per il I congresso
dell’Internazionale7)?
Oppure la borghesia tedesca, indebolita dai colpi ricevuti ma proprio
per questo ancor più inferocita, sarebbe riuscita anche in quel
paese a reprimere le forze comuniste e a elaborare, sulla scorta di
una guerra totale che aveva cambiato per sempre la natura della sfera
politica, un regime capitalistico autoritario di nuovo tipo; un nuovo
modello politico che, muovendo dal laboratorio tedesco, si sarebbe
diffuso in Europa con una virulenza ancora maggiore rispetto al
fascismo italiano? E come assicurare la sopravvivenza della stessa
rivoluzione in Russia, se il paese dei soviet fosse rimasto privo di
ogni appoggio e dunque isolato e accerchiato nella sua arretratezza
atavica e nella sua oggettiva debolezza produttiva e militare?
Quella
tedesca era perciò certamente una questione dalle vaste implicazioni
teoriche, perché toccava in tutta evidenza i limiti più estremi
della teoria marxiana della rivoluzione: una rivoluzione il cui
scoppio era atteso dal paradigma secondinternazionalista ancora
dominante nei punti alti dello sviluppo capitalistico, ovvero nei
paesi più avanzati nel dispiegamento dell’economia industriale,
Germania in
primis.
Una questione però – bisogna aggiungere – che in tali termini
non era stata del tutto cancellata nemmeno dalla radicale
ridefinizione del processo rivoluzionario nel senso di una rottura
degli anelli più deboli della catena imperialista. Anche per Lenin,
infatti, il salto qualitativo rappresentato dalla Rivoluzione
d’ottobre e dalla concomitante rivoluzione anticoloniale, pur con
le profonde ripercussioni che questo duplice evento aveva avuto anche
sul piano teorico, ai fini della vittoria finale non cancellava
affatto la necessità che il processo rivoluzionario, che costituiva
«un processo unico»8,
si diffondesse presto anche ad Occidente. Proprio il mancato
verificarsi di questa aspettativa, che orienterà comunque tutti i
primi congressi del Comintern – un organismo immaginato non a caso
come «avamposto di un processo rivoluzionario a catena, su scala
mondiale»9 –,
determinerà del resto un ulteriore e decisivo mutamento nel
paradigma teorico dei comunisti. Bruscamente costretti da lì a
qualche anno a ripensare nell’ambito di un unico paese, e non più
in una prospettiva europea o addirittura mondiale, il percorso verso
il socialismo10.
«Accerchiata
dal capitalismo», nonostante il relativo equilibrio internazionale
momentaneamente raggiunto, la Russia sovietica «può esistere» ma
«certo non a lungo»11:
era Lenin stesso, in questa prospettiva, a mettere il dito nella
piaga al III congresso dell’Internazionale comunista. Anche ai suoi
occhi, la rivoluzione in Russia non era perciò in quel momento che
una tappa di un processo più vasto di rivoluzionamento
internazionale: «quando abbiamo iniziato, a suo tempo, la
rivoluzione internazionale», diceva, «lo abbiamo fatto non perché
fossimo convinti di poterne anticipare lo sviluppo, ma perché tutta
una serie di circostanze ci spingeva ad iniziarla»12.
E proseguiva: «pensavamo: o la rivoluzione internazionale ci verrà
in aiuto, e allora la nostra vittoria sarà pienamente garantita, o
faremo il nostro modesto lavoro rivoluzionario, consapevoli che, in
caso di sconfitta, avremo tuttavia giovato alla causa della
rivoluzione e la nostra esperienza andrà a vantaggio di altre
rivoluzioni».
Per
quanto importante, l’esperienza vittoriosa appena compiuta era
infatti assai fragile e non lasciava adito a illusioni: «era chiaro
per noi che senza l'appoggio della rivoluzione mondiale la vittoria
della rivoluzione proletaria era impossibile». Tant’è che «già
prima della rivoluzione e anche dopo di essa, pensavamo: o la
rivoluzione scoppierà subito, o almeno molto presto, negli altri
paesi capitalisticamente più sviluppati, oppure, nel caso contrario,
dovremo soccombere». Era il riconoscimento del fatto che la realtà
si era presto dimostrata assai diversa dagli auspici: «il movimento
non è stato così lineare come ci attendevamo», constatava con
amarezza Lenin, perché «dopo la conclusione della pace, per cattiva
che fosse, non si riuscì a far scoppiare la rivoluzione negli altri
paesi capitalistici, benché i sintomi rivoluzionari fossero, come
sappiamo, assi evidenti e numerosi, persino più evidenti e numerosi
di quanto avessimo creduto».
Come
si può vedere, dunque, oltre che di una questione teorica enorme si
trattava di una questione dal non minore rilievo pratico, dato che
agli occhi di molti dirigenti e intellettuali comunisti
dall’evoluzione della situazione europea, e di quella tedesca in
particolare, dipendeva la sorte più immediata e concreta del paese
dei soviet e addirittura – nel caso di un arresto del processo
rivoluzionario e soprattutto di un’improvvisa fascistizzazione del
continente – gli stessi destini personali di migliaia di quadri e
militanti rivoluzionari. Si comprende perciò l’attenzione
particolare e persino troppo scrupolosa con la quale, sin dai giorni
immediatamente successivi alla fine della guerra, i dirigenti
bolscevichi e poi dell’Internazionale comunista guardavano alle
cose tedesche. Quasi ad auscultare in tempo reale i battiti di una
rivoluzione che tardava a venire al mondo e sino ad intervenire nelle
questioni organizzative più elementari – non limitandosi a dare
indicazioni generali di linea o a sollecitare, ad esempio, la fusione
tra KPD e l’ala sinistra dell’USPD ma occupandosi anche dei
dettagli più minuti, come conferma l’impressionante mole di
documenti recentemente raccolti dagli studiosi tedeschi13 –
proprio al fine di accelerare l’avvento dello scontro finale. E si
comprende anche l’ansia con la quale, soprattutto dopo il
fallimento del Putsch di Kapp14,
essi guardavano al confronto particolarmente aspro che avveniva in
Germania tra i comunisti e le pericolosissime formazioni politiche e
paramilitari della nuova destra nazionalista post-monarchica, a loro
volta alla ricerca di nuovi paradigmi teorici e pratici.
È
la spartachista Clara Zetkin, dirigente del Comitato internazionale
per la lotta al fascismo oltre che membro della KPD e del gruppo
dirigente più interno del Comintern, che più di ogni altro quadro
comunista si era occupata in quegli anni di questa questione, con
numerosi articoli pubblicati dalla “Rote Fahne” nei quali era
esplicito sia il confronto tra le vicende tedesche e quelle italiane,
sia lo sforzo di apprendere da queste ultime15.
E – dopo un primo approccio alla questione al IV congresso16 –
è sempre Zetkin la principale relatrice su queste tematiche alla
conferenza del Comitato esecutivo allargato del Comintern tenutosi a
Mosca nel giugno del 1923 17.
In un momento, cioè, nel quale non erano ancora state elaborate
quelle tesi di Zinoviev che da lì a non molti anni avrebbero
condotto al ripiegamento delle ipotesi di fronte unico dei lavoratori
– ovvero dell’unità delle masse subalterne già suggerita
nell’Estremismo di
Lenin18 (e
proposta dal Terzo congresso dopo il fallimento dell’”offensiva”
del marzo 1921 in Germania anche in funzione di autotutela nei
confronti delle destre, ma respinta all’epoca dalle
socialdemocrazie19)
– e alla linea della lotta al “socialfascismo”.
2.
Zetkin: complessità del fascismo
Il
fascismo, spiegava Zetkin ai quadri dell’Internazionale, non va
inteso come una «reazione» della borghesia «contro la violenza
iniziata da parte del proletariato» (come ritenevano i
socialdemocratici, in largo anticipo sulle tesi di Ernst Nolte) e del
resto non è di per sé nemmeno comprensibile «solo come cruda
violenza»20. In realtà,
esso è in primo luogo il frutto più maligno della guerra, la quale
ha aggravato fenomeni che in astratto sembrerebbero favorevoli ai
comunisti, come la «disintegrazione» e il «decadimento
dell’economia capitalistica», avvicinando la «dissoluzione dello
Stato borghese». Le cose, tuttavia, sono avvenute in maniera assai
diversa rispetto alle previsioni. Certamente la guerra «ha scosso
l’economia capitalista nelle sue fondamenta», mostrando la
debolezza strutturale del capitalismo. E però «questo ha implicato
non solo l’impoverimento smisurato del proletariato, ma anche la
proletarizzazione di massa della piccola borghesia, dei piccoli
coltivatori e degli intellettuali».
Sappiamo
che negli auspici delle classi dirigenti europee di tutti i paesi una
«splendida piccola guerra»21 avrebbe
dovuto sventare la questione sociale e prevenire la rivoluzione
socialista, nazionalizzando le masse in posizione subalterna e
rendendole compartecipi dei profitti della vittoria, sull’esempio
dei processi di nazionalizzazione in chiave imperialistica condotti
dall’Inghilterra di fine Ottocento e sull’onda della diffusione
di massa degli atteggiamenti social-imperialisti agli esordi della
guerra mondiale. Di fatto, però, essa aveva ottenuto l’effetto
opposto, accelerando il processo di impauperimento e radicalizzazione
di tutte le classi sociali e mettendo la parola fine sull’Ancien
Régime. Ecco che «gran parte delle classi medie di prima sono
diventate proletarie, avendo perso completamente la propria sicurezza
economica» [ZF 208]. Concluso il conflitto con la sconfitta, a
questi declassati «si sono uniti grandi masse di ex-ufficiali, che
si sono ritrovate disoccupate», creando così il terreno di coltura
del fascismo.
L’atteggiamento
tenuto dalle forze socialdemocratiche, sempre disposte al compromesso
con la grande borghesia – un atteggiamento particolarmente evidente
nel loro comportamento di fronte all’avvento della guerra
imperialista – ha però introdotto una decisiva variante rispetto
alle attese di una radicalizzazione in chiave sociale di questi
settori, screditando a monte la prospettiva rivoluzionaria di
impostazione marxista e neutralizzando le potenzialità eversive
dell’impauperimento, come già Lenin aveva notato richiamando
«l’odio incredibilmente acuto» delle avanguardie operaie «contro
l’opportunismo della vecchia socialdemocrazia», un odio che
addirittura «impediva di ragionare freddamente… e di elaborare la
giusta strategia»22.
Sconcertate, le masse «hanno perso la loro fede non solo nei leader
riformisti, ma anche nel socialismo nel suo complesso» [ZF 209-10],
lamenta a sua volta Zetkin con lucido realismo. Al punto che ci sono
adesso «anche larghi strati del proletariato, di lavoratori che
hanno abbandonato la loro fede non solo nel socialismo, ma anche
nella loro stessa classe».
Ecco
che da questo momento in avanti «il fascismo è diventato una sorta
di rifugio per coloro che sono politicamente sradicati»: un
concetto, quest’ultimo, che torna ripetutamente in Zetkin ma che
sarà ampiamente utilizzato da Hannah Arendt nelle Origini
del totalitarismo proprio
per descrivere l’ascesa dei movimenti fascisti23.
Nelle
parole di Zetkin il fascismo è perciò sin dall’inizio inquadrato
come un fenomeno assai complesso. Di per sé questo movimento «è
composto anche da diverse forze sociali che possono diventare molto
pericolose per l’ordine borghese» [ZF 210-11] e dunque esiste
effettivamente un elemento di contiguità rispetto all’impostazione
comunista. E però fino a questo momento tutti i soggetti
potenzialmente antagonisti, tutti i possibili compagni di strada
della rivoluzione, «sono stati sempre sconfitti dagli elementi
reazionari». I quali sono riusciti a neutralizzare «il contrasto di
classe tra le fila dei loro aderenti» attraverso il progetto di uno
«Stato autoritario» e cioè di un apparato che si ergerà un giorno
al di sopra delle classi e delle divisioni sociali, sedando i
conflitti e imponendo l’armonia nazionale. Ecco allora che dopo
l’Ottobre, quando la borghesia europea impaurita «ha bisogno di
una nuova organizzazione della violenza», il fascismo – che si
presenta come un movimento capace di neutralizzare le forze
rivoluzionarie potenziali attirandole e mescolandole in una
«accozzaglia di squadracce [durch
den bunt zusammengewürfelten Gewalthaufen]»
– può agevolmente offrire i propri servigi al mantenimento
dell’ordine proprietario.
Per
essere efficace a tal fine e avere presa sulle masse in una
situazione virtualmente rivoluzionaria, il fascismo deve però
prodursi in un sottile esercizio di mimetismo: deve cioè avanzare
«la pretesa di un programma in apparenza rivoluzionario, che viene
sapientemente adattato agli interessi e alle esigenze delle grandi
masse» [ZF 212-13]. Lo dimostra l’esempio del fascismo italiano,
il quale dopo la sconfitta del Biennio rosso – ovvero l’ondata di
sollevazioni culminata nell’occupazione delle fabbriche nel Nord
del paese – era riuscito a catalizzare anche una parte del
malcontento che proveniva dal basso. «La ragione del primo successo
dei fascisti», spiega Zetkin, è perciò legata proprio al «gesto
rivoluzionario» con il quale questo movimento ha preso avvio. È
dipesa cioè in primo luogo dal fatto che il fascismo dichiarava di
«lottare per mantenere le conquiste rivoluzionarie della guerra
rivoluzionaria, e per questo motivo chiedeva uno Stato forte che
fosse in grado di proteggere “i frutti della vittoria
rivoluzionaria” contro gli interessi ostili delle varie classi
della società, rappresentata dal “vecchio Stato”». Da qui il
suo iniziale programma radicaleggiante, diretto «contro tutti gli
sfruttatori, e quindi anche contro la borghesia».
La
reazione avanza sul terreno della rivoluzione, dunque, portando per
la prima volta allo scoperto un intreccio che avrebbe poi
caratterizzato, in forme diverse, tutto il XX secolo. Era possibile
qualcosa di diverso, del resto, in quel contesto di esasperazione e
radicalizzazione sociale nel quale erano evidenti le responsabilità
dello Stato liberale come delle monarchie e, più in generale, in una
fase nella quale l’avvento della società di massa si era già
consumato? Èuna consapevolezza che nella destra europea è presente
sin dalle riflessioni dell’ultimo Nietzsche, il quale aveva
compreso con lungimiranza come, nella crisi della società
tradizionale, la rivoluzione andasse sfidata sul suo stesso terreno e
non certo attraverso la nostalgia del bel mondo antico e dell’Ancien
Régime. E come, dunque – anche a fronte della pavidità dei
liberali e dei conservatori europei di fronte all’imminente
vendetta degli schiavi –, pur in una prospettiva profondamente
antimoderna e antidemocratica, «non possiamo essere altro che
rivoluzionari»24.
Ma
il fascismo si preoccupa ben presto e in maniera efficace di
neutralizzare e rendere innocue quelle sgradite spinte radicali alle
quali, pure, aveva dovuto il proprio iniziale successo: in Italia, ad
esempio, continua Zetkin, «furono creati i sindacati fascisti, le
cosiddette corporazioni» [ZF 216], nelle quali «furono uniti sia i
lavoratori che i datori di lavoro» proprio al fine di disinnescare a
monte il conflitto di classe. Ma se il procacciamento del consenso
non bastava più – soprattutto dopo che nuove e più intransigenti
organizzazioni di classe come il PCdI avevano «rotto con i
menscevichi e con i riformisti»25 e
avevano messo in discussione con la loro coerenza rivoluzionaria il
primato dei vecchi partiti socialisti –, ecco subito manifestarsi
l’altro volto del fenomeno fascista e cioè «l’esercizio del
terrore più brutale e violento» [ZF 212]; una violenza che se di
per sé non era sufficiente, alla lunga rimaneva tuttavia necessaria.
Le masse proletarie che in Italia erano rimaste refrattarie al mito
della “vittoria mutilata” o ad altre formule ideologiche
consimili adoperate dal nazionalismo aggressivo post-bellico andavano
infatti piegate con la coercizione: ecco che «per la repressione
terroristica della classe operaia» [ZF 217] il partito fascista ha
creato «le cosiddette “squadracce” [Geschwader]»
e cioè «organizzazioni militari che si sono sviluppate a partire
dalle squadre di spedizioni punitive agrarie» e sono state infine
«legalizzate» come «organi dello Stato borghese».
In
tal modo, le tendenze rivoluzionarie interne al movimento fascista
stesso sono state presto stroncate e quando il fascismo è giunto al
potere il carattere di classe della sua politica economica si è
messo in mostra in maniera del tutto evidente, a partire dalle
«riduzioni salariali» che nelle fabbriche italiane dal «20–30%»
di media sono arrivate in alcuni settori industriali «anche al
50–60%» [ZF 220]. Da qui il «completo fallimento ideologico del
Fascismo» [ZF 223], il quale è stato immediatamente costretto a
contraddire il proprio stesso programma. Un sacrificio che è stato
anche una precisa confessione politica, perché ha mostrato la natura
meramente retorica e strumentale dell’anticapitalismo fascista; ma
che si è imposto come necessario proprio al fine di «tenere insieme
le diverse forze borghesi che hanno contribuito a farlo arrivare al
potere».
3.
Zetkin: fascismo come movimento di massa e necessità di un’offensiva
egemonica
Cosa
dedurre da questa analisi ai fini della prassi politica, in Italia
come in Germania, e qual era l’intento di Zetkin? Non siamo troppo
distanti qui dalle analisi di Togliatti, il quale, nelle celebri
lezioni degli anni Trenta, pur muovendo dalla definizione ufficiale
data dal Comintern e affermandone il carattere di dittatura della
borghesia reazionaria che si rivolta contro la stessa democrazia,
avrebbe sottolineato ossessivamente la «base di massa» del
fascismo, ovvero il suo significato di «lotta contro la classe
operaia… su una nuova base di massa con carattere
piccolo-borghese». Il suo essere cioè una organizzazione che lega
«la borghesia e la piccola borghesia», compresi i «contadini
poveri in via di arricchimento» e «tutta una massa di spostati
creati dalla guerra», tramite una ««ideologia eclettica» che
«serve a saldare assieme varie correnti» e suscitare «un vasto
movimento di massa»26.
Già
nel 1922, del resto, Togliatti aveva preparato un rapporto per il IV
Congresso dell’Internazionale nel quale le basi del fascismo
venivano individuate esattamente nell’«approfondirsi della crisi
della piccola borghesia italiana», la quale – delusa
dall’opportunismo dei socialisti riformisti – si era raccolta
attorno agli ex interventisti e aveva dato vita ad una «grande massa
socialmente non bene definibile», un’«ibrida costituzione
sociale» capace di reclutare i propri aderenti anche tra «elementi
semiproletari usciti dalle file del movimento operaio»27.
Si trattava, per lui come per Zetkin, di comprendere questa
complessità del fenomeno fascista e di far leva su di essa e sulle
contraddizioni interne che ne derivavano, al fine di trarne un
vantaggio politico. Proprio per la natura composita di questo
movimento, che dalla grande borghesia attraversava i ceti medi e si
rivolgeva persino agli strati proletari per reclutare infine le
proprie truppe anche nel sottoproletariato, «i fascisti non sono in
grado di mantenere le promesse che hanno fatto ai lavoratori e ai
sindacati» [ZF 225-26] e devono dunque entrare in contraddizione con
i propri stessi slogan. Tant’è che, poiché in Italia «chiusure
delle fabbriche» e «licenziamenti» erano all’ordine del giorno,
constatava Zetkin, «accade che la prima protesta contro il movimento
sindacale fascista è nata dalle fila dei fascisti stessi», ovvero
dalle sue frange più popolari e sindacalizzate, le quali ne avevano
ingenuamente preso sul serio il sansepolcrismo iniziale.
Al
di là del malriposto ottimismo rivoluzionario del momento, legato
alla più generale filosofia della storia condivisa in quel periodo
dai comunisti, afferrare la natura complessa di questo movimento ed
evitare le consuete semplificazioni e rozzezze nell’analisi –
evitare ad esempio di vedere nel fascismo il semplice braccio armato
della borghesia capitalistica industriale, oppure, nel caso della
Germania, un semplice maquillage del militarismo prussiano –
costituiva dunque un passo indispensabile, per Zetkin come più
avanti per Togliatti, per contrastarlo in maniera efficace.
Indispensabile, in parole più pratiche, al fine di inserire potenti
cunei dialettici e pratici nelle contraddizioni interne di quel
movimento, composito sul piano sociale come su quello ideologico, e
farle alla lunga saltare. «Non dobbiamo considerare il fascismo come
un fenomeno unitario, come un “blocco di granito” sul quale tutti
i nostri sforzi non avranno effetto» [ZF 226], spiega perciò
Zetkin. «Si tratta piuttosto di una formazione mista che comprende
vari elementi antagonisti» ed è perciò possibile che essa, se
contrastata adeguatamente, «si disintegrerà dall’interno».
Bisognava
perciò in primo luogo di superare «le carenze del partito comunista
[italiano]» degli esordi, carenze «tattiche» che «consistevano
nell’aver purtroppo considerato il fascismo semplicemente come un
fenomeno militare, trascurando i suoi aspetti politici ed ideologici»
[ZF 218] e dunque il suo radicamento sociale. Era necessario, tutto
al contrario, puntare in via preliminare proprio al «superamento
politico e ideologico del fascismo», passaggio che è il presupposto
della sua stessa sconfitta militare. E lo si doveva fare tenendo
conto che certamente «il fascismo è l’espressione più forte e
concentrata, l’espressione classica dell’offensiva generale della
borghesia internazionale» [CZ 204-05], ma anche del fatto che
«propugnatore del fascismo non è una piccola casta ma vasti strati
sociali, larghe masse che precipitano esse stesse nel proletariato»:
il fascismo come movimento reazionario di massa, appunto. Sarebbe
stato inutile e persino controproducente, perciò, limitarsi ad una
pur inevitabile reazione immediata difensiva sul piano militare. Era
in primo luogo urgente, invece, una vasta offensiva egemonica in
grande stile, un assalto ideologico da riversare presso tutti quei
ceti che dal fascismo erano stati avvicinati: «lo sconfiggeremo non
semplicemente con mezzi militari – per usare quest’espressione –
ma dobbiamo abbatterlo anche sul piano politico e ideologico».
Zetkin
era certamente ancora condizionata dall’idea di una corrispondenza
immediata e un po’ meccanica tra posizione, interessi e
consapevolezza di classe quando sosteneva che «il fascismo è un
movimento di affamati, di bisognosi, di persone prive di
sostentamento e di disillusi» [ZF 228-30], perché dava mostra di
considerare l’adesione a quel movimento come uno scarto e una
deviazione rispetto ad una meccanica “pura” della coscienza
proletaria. Coglieva però perfettamente nel segno quando affermava
che «è di enorme importanza» fare ogni sforzo per «conquistare
alla nostra lotta o quantomeno neutralizzare quegli strati sociali
che sono precipitati nel fascismo». Quando cioè non si stancava di
ripetere che bisognava anzitutto «lottare ideologicamente per
conquistare queste masse» e che i comunisti dovevano perciò in
primo luogo lanciare un’offensiva ideologica generale. Un’offensiva
egemonica, in altre parole, che rispondesse ai bisogni pratici delle
masse sradicate a partire da un solido quadro teorico: le classi
impoverite e i ceti medi non stanno infatti soltanto «cercando di
fuggire dalle loro sofferenze presenti» ma con ancor maggiore
urgenza «desiderano una nuova concezione del mondo» e cioè
un’ideologia potente, qualcosa in cui credere e con il cui ausilio
comprendere le proprie stesse miserie. Era l’egemonia, dunque, il
primo terreno di lotta per i comunisti, i quali erano anzitutto
obbligati a far conoscere alle masse «l’intimo contenuto del
comunismo come visione del mondo».
Naturalmente
il proletariato doveva dotarsi di «un apparato di autodifesa
organizzato» [ZF 229-31], è chiaro. Assai più importante era però
che a partire dai suoi quadri dirigenti esso si dimostrasse capace di
un’offensiva egemonica generale: alle masse, in primo luogo,
mostreremo «una nuova, salda visione del mondo» che è al tempo
stesso «la fiamma della nuova vita storica, che risplende e
riscalda, fa speranza e forza nella lotta». Si capisce perciò – e
troviamo qui un secondo elemento assai rilevante e innovativo
rispetto al paradigma tradizionale del conflitto politico-sociale –
che se il terreno di lotta principale era quello delle visioni del
mondo, «i partiti comunisti di ogni paese non devono essere solo
l’avanguardia dei soli lavoratori salariati», come era ovvio che
fosse, ma anche «l’avanguardia dei lavoratori intellettuali» e
cioè di quegli strati più o meno istruiti e colti, in prevalenza
piccolo borghesi, che dell’ideologia intesa anche in senso lato,
ovvero in senso gramsciano, fanno la propria professione. Anche
questo non era però ancora sufficiente: per Zetkin, i comunisti
dovevano in realtà porsi alla testa di tutti i ceti produttivi della
nazione. Essi «devono essere le guide di tutti gli strati sociali
che, per i loro interessi e per il loro desiderio di ascendere a una
civiltà superiore si pongono in crescente contrasto con l’ordine
capitalistico».
Tutto
positivo doveva pertanto essere l’atteggiamento del movimento
comunista, il quale avrebbe dovuto proporsi non come una semplice
parte politica tra altre parti politiche, come l’organizzazione
egoistica di una classe separata, ma come un polo egemonico e cioè
come l’avanguardia di un mondo nuovo. Come il paladino
dell’interesse generale che sa parlare a tutto il paese e a tutte
le sue componenti e, comprendendone la sofferenza, sa indicare loro
la strada verso un futuro condiviso, facendosi in tal modo classe
dirigente nazionale: «il suo appello al mondo borghese sarà: Io
sono la forza! Io sono la lotta! Il futuro appartiene a me!».
Era
una situazione che riguardava in quel momento soprattutto la
Germania, dove da tempo avevano fatto la loro comparsa gli eredi di
coloro che ancora le Tesi
sulla situazione internazionale e sulla politica dell’Intesa del
Comintern, o
il Manifesto
sugli avvenimenti tedeschi dopo il putsch di Kapp, definivano
– in analogia con la scena russa – come «le bande delle guardie
bianche» o i «generali bianchi», oppure come i «servi» della
borghesia28.
«Dopo l’Italia», infatti, a causa dell’esito della guerra e
delle sue conseguenze, «è in Germania che il Fascismo ha raggiunto
la sua posizione più forte e salda» [ZF 227]. Al tempo stesso,
oltretutto, in nessun altro paese il movimento socialista sembrava
ormai più debole e compromesso e dunque «in nessun altro paese il
contrasto tra l’oggettiva maturità per la rivoluzione e
l’immaturità soggettiva della classe operaia [era] così grande
come in Germania».
4.Radek:
Schlageter e il confronto con il movimento neonazionalista
Non
c’è dubbio: nonostante la persistenza di quel riflesso
condizionato di natura sociologica che abbiamo notato prima, e che la
portava a postulare un rapporto diretto tra l’appartenenza a una
classe sociale e il posizionamento politico – e a stupirsi quando
tale rapporto non si presentava in maniera pressoché spontanea –,
Zetkin urtava qui con i limiti del marxismo secondinternazionalista.
E, per usare il linguaggio oggi in voga, si lasciava alle spalle
quella filosofia della storia che parlava di necessità meccanica per
avvicinarsi alla scoperta del campo sociale inteso come campo della
contingenza e cioè della possibilità e della prassi. Confrontandosi
esattamente con lo stesso problema, ma ancor prima di Gramsci e di
Togliatti – e certamente molto prima di Ernesto Laclau e della sua
rinuncia postmoderna alla dimensione dell’oggettività –,
comprendeva perciò la questione dell’egemonia nel suo nesso con la
questione non meno rilevante della coercizione29.
E comprendeva cosa tale questione volesse dire per il movimento
operaio, il quale già in quegli anni sapeva perciò di dover
inevitabilmente fare un notevole lavoro su se stesso se avesse voluto
oltrepassare i propri limiti corporativi, ovvero la propria
parzialità, e proporsi come avanguardia generale nell’ambito di
un’alleanza popolare.
Al
tempo stesso – e cosa non meno rilevante – Zetkin allargava lo
sguardo talmente al di là del proprio fronte politico da cogliere
almeno in parte anche lo sforzo di rinnovamento e complessificazione
della destra europea dopo la Prima guerra mondiale. Il medesimo
evento che aveva messo alla prova l’impianto teorico
secondinternazionalista, infatti, aveva messo non meno in crisi il
patrimonio di idee e valori del conservatorismo tradizionale,
obbligando le nuove generazioni di destra alla ricerca di una via
essa stessa nuova. Se in quegli anni anche la destra era costretta a
tagliare i ponti con il proprio passato per affrontare la questione
del consenso e dell’egemonia su strati sociali sempre più vasti e
a cercare un «nuovo carattere popolare, plebeo»30,
tuttavia, il rinnovamento al quale questa parte politica doveva
disporsi – e che prende il nome di Rivoluzione conservatrice31 –
appariva decisamente più semplice rispetto al compito della
sinistra. È vero che la destra doveva a quel punto imparare a
praticare il linguaggio per lei inusitato della rivoluzione. Al di là
di quel vantaggio politico generale dovuto alla sua spontanea
propensione all’immediatezza, e dunque della sua capacità di
entrare più facilmente in sintonia con gli umori spontanei più
reattivi delle masse, essa aveva però dalla propria parte un
vantaggio essenziale e cioè una notevole dimestichezza con la
questione nazionale, un tema che era eredità di tutto il proprio
passato. E questo, nella Germania dei primi anni Venti e in
particolare dopo l’occupazione franco-belga del territorio
minerario della Ruhr, non poteva che fornirle strumenti egemonici
assai potenti.
Non
solo già all’epoca era nota la prassi della politica egemonica,
dunque: era noto anche – e forse assai più di quanto non lo sia
oggi – come questa politica non fosse affatto un monopolio
ideologico “naturale” della sinistra. Sulla medesima falsariga
dell’intervento di Zetkin va perciò letto l’approccio al
problema del fascismo fornito nello stesso contesto da Karl Radek, il
quale – già allora vicino a Trotzki – era in quel momento
responsabile del Comintern per la Germania. Rispetto alla percezione
del fascismo prevalente anche nel movimento comunista e rispetto
anche alle parole di Zetkin, tuttavia, l’intervento di Radek alla
conferenza del Comitato esecutivo allargato andava ancora oltre e si
proponeva come una vera e propria provocazione32.
Perché a partire dalla vicenda di Albert Leo Schlageter –
l’ufficiale dei Freikorps giustiziato dall’esercito francese dopo
la cattura in seguito a numerose azioni di boicottaggio e sabotaggio,
oggetto di un vero e proprio culto politico a destra negli anni di
Weimar, eletto a martire nazionale dopo l’avvento del nazismo e
omaggiato persino da Martin Heidegger in un celebre discorso come
Rettore di Freiburg33 –
si proponeva in maniera ancora più esplicita di comprendere
l’elemento di verità presente nello stesso movimento
neonazionalista tedesco. E lo faceva nello stesso momento in cui
coglieva l’essenza agonistica dell’egemonia, ovvero il suo essere
nulla di più e nulla di meno che un ulteriore campo di battaglia
relazionale.
«Durante
l’intero discorso della compagna Zetkin a proposito delle
contraddizioni del fascismo, nella mia testa si agitavano il nome di
Schlageter e il suo destino tragico»34,
commentava Radek. Le parole di Zetkin a proposito delle conseguenze
della guerra evocavano infatti «il cadavere di quel fascista
tedesco, di quel nostro avversario di classe, che è stato condannato
a morte e passato per le armi dagli sgherri dell’imperialismo
francese» e cioè «dalla potente organizzazione di un’altra
fazione dei nostri nemici di classe». Ecco allora che «nel momento
in cui prendiamo una posizione politica di fronte al fascismo»,
cercando di comprenderne le radici e le contraddizioni per meglio
combatterlo, «noi dobbiamo ricordarci di lui». Infatti, «le sorti
di questo martire del nazionalismo tedesco non vanno liquidate in
silenzio, né con una frase di circostanza», ma al contrario devono
essere oggetto di seria riflessione per i comunisti.
Nessuna Schadenfreude,
nessuna facile soddisfazione per un nemico in più che è morto,
dunque. In realtà, «Schlageter, il coraggioso soldato della
controrivoluzione, merita di essere apprezzato da noi, soldati della
rivoluzione, in maniera virile e leale». Ma questo rispetto deve
andare ben oltre il rituale riconoscimento encomiastico del suo
valore militare o del suo coraggio. Le sue sorti, infatti, «molto
hanno da dire al popolo tedesco» perché parlano delle sorti della
Germania intera, ripropongono cioè la questione tedesca. Ecco allora
che se i tedeschi, a partire dai nazionalisti ma senza escludere
affatto i comunisti, non comprenderanno «il significato della storia
di Schlageter» – ovvero il significato di un sacrificio che va al
di là delle convinzioni personali del singolo soldato ma chiamano in
causa lo stato di sottomissione della patria, mettendo di conseguenza
in luce i rapporti di subordinazione e dominio imposti
dall’imperialismo delle grandi potenze capitalistiche –, «questi
sarà caduto invano».
Non
c’è nessun dubbio sul fatto che Schlageter, figlio della piccola
borghesia tedesca che come tanti altri suoi coetanei si era fatto
valere durante il conflitto mondiale, abbia completamente sbagliato
fronte. Appena finita la guerra, Schlageter militava già nei
Freikorps che combattevano contro la Russia al servizio delle potenze
controrivoluzionarie e a sostegno dei Bianchi. La Russia
rivoluzionaria era accerchiata e la borghesia tedesca sconfitta
cercava adesso di comprarsi la pietà dell’Intesa fornendole
mercenari in funzione antisovietica, con la tacita complicità dei
socialdemocratici (i quali anche a tal fine tolleravano la presenza
di corpi paramilitari fuori controllo nel paese35). Era «un servizio
da sgherri contro il popolo russo», tramite il quale i capitalisti e
gli Junkers pagavano «i propri tributi di guerra ai vincitori, dando
in affitto il giovane sangue tedesco risparmiato dalle pallottole
della guerra mondiale e impiegandolo contro il popolo russo come
milizie mercenarie dell’Intesa» (RS 6).
Subito
dopo, e a dimostrazione che non si era trattato di un caso o di un
equivoco, Schlageter era andato con i suoi camerati nella Ruhr, per
combattere l’occupazione ma non di meno per reprimere i comunisti e
le loro iniziative di sciopero e boicottaggio delle aziende
minerarie, e lì si era battuto in combutta con il capitale francese
e inglese, riconsegnando il controllo del territorio ai capitalisti
dell’acciaio e del carbone. Era veramente fuori da ogni logica,
perciò, che a piangerlo sui giornali della destra fossero in primo
luogo i responsabili diretti della disfatta e dell’umiliazione
tedesca come Ludendorff o i grandi industriali come Stinnes, il quale
era tra l’altro socio d’affari nella fabbrica in cui erano stato
prodotte le armi che avevano ucciso questo protomartire nazionalista.
Ma per quanto riguardava le truppe di manovra, questi figli del
popolo tedesco? Almeno questi soldati avevano realmente «compreso il
significato della propria azione» (RS 5)?
Perché
Schlageter aveva fatto fa tutto questo? Perché aveva combattuto
contro la rivoluzione e l’auto-organizzazione popolare? Lo aveva
fatto perché era un feroce nemico del popolo? Non è affatto così.
Al contrario, Schlageter – che rappresentava qui la piccola
borghesia nazionalista esacerbata dalla propaganda imperialistica
dello Stato maggiore tedesco e che seguiva il destino sconvolgente di
un’intera generazione – «era convinto di servire il popolo
tedesco» (RS 6) ed era dunque un sincero patriota. E però, nella
sua incapacità di comprensione delle cause reali della guerra, «era
convinto che avrebbe servito al meglio il popolo aiutando a
ripristinare il dominio delle classi che lo hanno guidato sino a
questo momento portandolo in questa indicibile sventura». Fedele
sino in fondo alla propria parte, per lui «ogni lotta contro
l’Intesa sarà impossibile finché non verrà abbattuto il nemico
interno». Dove stava però questo nemico? Esso «era per Schlageter
la classe operaia rivoluzionaria».
Come
si vede, è ormai scontata e implicita qui per Radek la non
corrispondenza diretta tra posizione di classe e coscienza di classe.
Il piccolo borghese Schlageter non era certamente organico alla
grande borghesia e i suoi interessi sarebbero spontaneamente andati
in tutt’altra direzione; ma in quanto ne era succube sul piano
ideologico – come era normale che accadesse, visto che le idee
della classe dominante sono per lo più le idee dominanti – ne è
finito al servizio. Da qui, però, anche la possibilità di cambiare
le cose e di staccare questi strati sociali dall’influenza
borghese, a condizione che il movimento operaio fosse capace di
sfuggire alla trappola del muro contro muro e avvertisse l’importanza
e l’urgenza di un intervento ideologico di natura egemonica che si
rivolgesse a tutti gli Schlageter di Germania e d’Europa. E cioè a
tutte le classi sociali strette tra i grandi proprietari e il
proletariato e adesso contese nelle loro forme di coscienza tra
comunismo e fascismo.
Qual
era però la chiave di questa iniziativa egemonica? Quale il suo
principale «significante vuoto»36,
per usare ancora una volta le parole di Laclau? Nella situazione
concreta della Germania di Weimar, sconfitta senza aver subito
nessuna disfatta militare e caricata poi della colpa morale della
guerra, oltre che del peso delle riparazioni, si trattava – e non
poteva essere diversamente – della questione nazionale.
Era
inevitabile che i ceti medi, per i quali l’identificazione con la
patria era fonte primaria di identità, affidassero le proprie sorti
al fascismo, oppure sarebbe stato ancora possibile per i comunisti e
per la classe operaia di fabbrica una politica di alleanze sociali
che strappasse questi strati alle forze della reazione? La domanda
rivolta ai camerati di Schlageter era perciò in realtà rivolta
all’intero blocco sociale nel quale i neonazionalisti reclutavano
le proprie truppe: nel rivendicare il loro genuino patriottismo,
«contro chi intendono combattere allora i völkisch tedeschi,
contro il capitale dell’Intesa o contro il popolo russo?» (RS 6).
Se anche per loro la contraddizione principale era costituita dalla
sottomissione della Germania, infatti, quali erano le vere ragioni
della sconfitta e delle sofferenze del popolo tedesco e, ancor prima,
per quale motivo la Germania si era impegnata in una guerra che mai
avrebbe potuto vincere, con l’obiettivo di sottomettere a propria
volta altri popoli? Di conseguenza, «con chi vogliono unirsi» tutti
coloro che intendono combattere per la difesa della patria? Stanno
«Con gli operai e i contadini russi per scuotere via insieme il
giogo del capitale dell’Intesa» e cioè affrontando le
ripercussioni drammatiche della guerra a partire dalle loro radici, a
partire dalla gerarchia imperialistica internazionale e dalle sue
propaggini nelle classi dirigenti di ciascun paese? Oppure,
paradossalmente, per l’incapacità di leggere le contraddizioni
reali, si sarebbero schierati proprio con i responsabili della guerra
e delle conseguenti sofferenze del proprio popolo, «con il capitale
dell’Intesa», il quale li conquistava e poi li mobilitava «per
ridurre in schiavitù il popolo tedesco e quello russo»?
5.
Radek: teoria dell’egemonia e questione nazionale
È
chiaro qui il passaggio di Radek a una teoria dell’“egemonia
oggettiva” pressoché integrale, una teoria che riconosceva nella
questione nazionale il terreno principale per una possibile offensiva
ideologica. Ma ancor prima, è chiara nelle sue parole la
consapevolezza per cui nella situazione concreta tale questione era
diventata un momento inscindibile della questione sociale e il primo
inevitabile momento di ogni prospettiva rivoluzionaria.
Sappiamo
che per Lenin dopo il 1917 «la lotta di classe ha cambiato le sue
forme»37. Se questo era
avvenuto in un paese nel quale la classe operaia era andata al potere
e doveva da quel momento difendere con ogni mezzo la sopravvivenza
del nuovo ordine sovietico e dunque l’acquisito primato dei
lavoratori, lo stesso però avveniva, con modalità e per ragioni
diverse, in un paese che per colpa del fallimento dei propri leader
politici ed economici era stato sconfitto e poi sottomesso. Nessuna
rivoluzione proletaria avrebbe mai potuto esserci in Germania senza
passare prima per una liberazione della Germania stessa. La Germania,
infatti, aveva assunto adesso la posizione di una semicolonia
collocata nel cuore stesso dell’Europa. I suoi abitanti erano
diventati di fatto schiavi coloniali ed erano a quel punto
assimilabili ai neri. L’emancipazione della classe operaia tedesca
dal capitale entrato nella fase dell’imperialismo non era perciò
nemmeno immaginabile se non nel contesto dell’emancipazione della
Germania dalle potenze imperialistiche che ne soffocavano la vita e,
per essere conseguenti, dalle proprie stesse pulsioni egemoniche.
Il
paese era stato colonizzato dagli stranieri vittoriosi in accordo con
i grandi capitalisti tedeschi, i quali tradivano la propria stessa
patria a spese della classe operaia ma più in generale di tutte le
classi lavoratrici. Chi voleva conquistare il potere doveva anzitutto
sapersi porre alla testa di queste classi, doveva presentarsi come un
Lord Protettore della nazione. Era necessario, allora, che la classe
operaia tedesca assumesse una consapevolezza nazionale e uscisse
fuori di sé per conquistare «la maggioranza di tutti gli sfruttati»
ovvero «la simpatia delle masse»38 e
svolgere una funzione dirigente, individuando se possibile nella
propria stessa storia le premesse di questa possibile crescita
intellettuale e politica e i propri titoli di legittimità. E in
questo compito la classe operaia tedesca non si trovava affatto
sprovvista di mezzi: nella partecipazione popolare alla resistenza
della Ruhr, infatti, essa non faceva per Radek che rinnovare
l’eredità dei Befreiungskriege antinapoleonici.
E proprio rivendicando questa continuità i comunisti potevano con
pieno diritto proporsi come avanguardia della liberazione nazionale,
inserendo la Germania in quel processo di decolonizzazione delineato
da Lenin nel momento in cui non solo aveva invitato a trasformare la
guerra imperialista in guerra rivoluzionaria ma aveva anche fatto
appello ai popoli delle colonie affinché spezzassero le loro catene.
Come
Engels aveva a suo tempo delineato una «tradizione rivoluzionaria»
della Germania che risaliva quantomeno alla Guerra dei contadini
dell’epoca della Riforma protestante39,
dunque, Radek forniva nel suo discorso un abbozzo di genealogia del
nazionalismo progressivo proletario. Guardiamo alla storia tedesca:
Gneisenau e Scharnhorst, spiegava Radek, riuscirono ad avere la
meglio su un esercito tanto più potente solo facendo appello al
popolo e mobilitando le masse: «solo emancipando i contadini
dall’assoggettamento e dalla schiavitù degli Junker» (RS 7). Essi
compresero che «solo scuotendo via il gioco dalla schiena dei
contadini si sarebbero potute porre le basi per la liberazione della
Germania». In questa maniera, però, nasceva la tradizione del
patriottismo democratico tedesco, ragion per cui sarebbe stata
possibile dopo Versailles un’alternativa popolare sensata al
nazionalismo aggressivo fomentato dal capitale: «ciò che i
contadini tedeschi rappresentavano all’inizio del XIX secolo»,
infatti, «per la storia della nazione tedesca all’inizio del XX
secolo lo è la classe operaia tedesca». La classe operaia
raccoglieva l’eredità di un movimento democratico popolare che,
facendo leva sulle masse contadine, aveva saputo difendere la libertà
della patria vincendo anche la capillare penetrazione dell’egemonia
ideologica francese presso i ceti intellettuali: allo stesso modo,
oggi «solo assieme ad essa la Germania potrà essere liberata dalle
catene della schiavitù, mentre non potrà esserlo senza di essa».
Siamo
di fronte a una grande e spesso malintesa operazione di politica
culturale. Se l’egemonia operaia sui ceti intermedi era
indispensabile nella lotta per disarticolare il fascismo nelle sue
componenti di classe già sul piano ideologico, la questione
nazionale era a sua volta centrale per il conseguimento di questa
egemonia e per la conquista di un ruolo di avanguardia per la classe
operaia, la quale per Radek possedeva comunque già tutti i titoli
etici necessari per dirigere la liberazione tedesca.
In
questa lotta, «la causa tedesca» coincideva con la causa «del
popolo tedesco» ovvero con la «battaglia per i diritti del popolo
tedesco» (RS 7-8). Il proletariato doveva perciò convincere questo
popolo a rompere «con coloro che non solo lo hanno condotto alla
sconfitta ma che perpetuano questa sconfitta e la sua inermità,
perché ne trattano la maggioranza come se fosse il nemico». Proprio
i ceti medi erano i principali interpellati: non credano costoro di
riuscire a trarsi in salvo dalla tempesta della crisi postbellica
abbracciando il neonazionalismo e il fascismo, perché la sconfitta
della classe operaia porterà inevitabilmente con sé l’oppressione
di tutte le classi e lo sfruttamento intensivo dello stesso ceto
medio. Il fascismo era infatti un«martello che, intenzionato a
cadere sulla testa del proletariato per sfracellarla, finirà per
colpire in primo luogo proprio gli strati piccolo- borghesi che lo
brandiscono nell’interesse del grande capitale» [RS 5].
Ecco
allora il cuore della proposta di Radek. Una proposta che, nel
tradurre astutamente in termini nazionali le direttive del Comintern,
intendeva fare esplodere le molteplici contraddizioni interne al
campo delle destre: «se la Germania vuole essere in grado di
combattere, deve formare un fronte comune dei lavoratori [eine
Einheitsfront der Arbeitenden]»
[RS 8]. Un fronte nel quale «i lavoratori intellettuali
[Kopfarbeiter]»,
i quali rappresentano una categoria di per sé strategica ma che
valgono anche da metafora per i ceti medi nel loro complesso,«devono…
unirsi ai lavoratori manuali [Handarbeiter]
in una falange d’acciaio». È un intento che veniva ribadito pochi
giorni dopo di fronte all’Esecutivo allargato dell’Internazionale
giovanile, assieme ad un contesto retorico-tattico complessivo che
puntava a mettere in contraddizione il fascismo di fronte alle masse
piccolo-borghesi: dal momento che sulla testa di queste masse è in
corso un’offensiva egemonica, i comunisti devono sforzarsi di
«trovare accesso» ai loro bisogni ideologici e a tal fine devono
essere in grado di capire le«differenze» presenti nel vasto alveo
della «controrivoluzione»40.
Se
dopo Versailles e ancor più dopo l’occupazione della Ruhr la
rivoluzione tedesca passava per la liberazione della Germania dal
gioco coloniale, era chiaro infatti che la classe operaia tedesca
dovesse saper andare al di là dei propri limiti e dialogare con
altri strati sociali per costruire assieme ad essi un’alleanza
nazionale e un fronte ampio, pur tenendone la testa. Da un lato, «la
condizione dei lavoratori intellettuali esige questa unità» [RS 8],
viste le sofferenze dei ceti medi e al contempo la loro incapacità
di direzione strategica. Dall’altro, «solo pregiudizi obsoleti la
impediscono»: pregiudizi nei confronti dei comunisti, certamente; ma
anche i pregiudizi e i limiti di quei socialisti che, identificando
senz’altro gli Arbeiter con gli operai di fabbrica, finivano per
dimidiare in senso economicistico e puramente operaistico la stessa
teoria marxiana.
.A
questo punto, in piena consonanza con lo spirito del leninismo, «la
causa del popolo» diventa per Radek la «causa della nazione» e
questo passo, reciprocamente, «fa della causa della nazione la causa
del popolo». Nella guerra di liberazione che si confondeva con la
guerra rivoluzionaria, la Germania sarebbe stata perciò finalmente
«unita». Ma lo sarebbe stata non a partire dallo spirito di
vendetta o dal radicamento comunitario o addirittura per appartenenza
razziale, come avrebbero voluto i neonazionalisti, bensì solo sul
terreno proletario, ovvero «come un popolo di lavoratori che
combatte», unico modo per evitare «gesti di disperazione» e
«lottare in maniera efficace».
Le
conseguenze pratiche erano a quel punto chiare, per quelle forze alle
quali Radek si rivolgeva e delle quali puntava a mettere in evidenza
le contraddizioni: «se i circoli patriottici della Germania», e
cioè i völkisch, «non decideranno di far propria la causa di
questa maggioranza della nazione», e dunque «di stabilire così un
fronte contro il capitale dell’Intesa» ma anche «contro quello
tedesco», rompendo la loro subordinazione di classe alla grande
proprietà ma al tempo stesso rinnegando la propria ideologia
organicistica per abbracciare una visione del mondo fondata sul
primato del lavoro e sulla fratellanza dei popoli sottomessi, ecco
che «quello di Schlageter sarà stato un cammino nel nulla» [RS 7].
Sarebbe stato però, questo, il supremo tradimento nazionale da parte
dei fascisti, perché rinunciare all’alleanza con le forze popolari
o addirittura combatterle avrebbe significato dividere il paese e
spalancare le porte della patria alla strapotenza del nemico:
«allora, di fronte all’invasione straniera, di fronte alla
minaccia ininterrotta da parte dei vincitori, la Germania diverrebbe
il campo di una sanguinosa lotta intestina e sarebbe facile per il
nemico annientarla e farla a pezzi».
Più
nazionali dei neonazionalisti avrebbero dovuto perciò dimostrarsi i
comunisti: «il partito comunista di Germania deve dire apertamente
alle masse nazionaliste piccolo-borghesi: chi, al servizio degli
affaristi, degli speculatori, dei signori dell’acciaio e del
carbone, vorrà provare a rendere schiavo il popolo tedesco o a
gettarlo in qualche avventura, andrà a sbattere nella resistenza
degli operai tedeschi comunisti» e a quel punto «essi risponderanno
alla violenza con la violenza», perché «chi per incomprensione si
unirà ai mercenari del capitale, verrà combattuto con ogni mezzo»
[RS 8]. Non solo però il destino non era scritto, ma la stessa
questione nazionale era un campo di forze nel quale ciò che contava
era anzitutto la capacità egemonica dei soggetti in contesa tra
loro: «noi crediamo però che la grande maggioranza delle masse dai
sentimenti nazionali non faccia parte del campo del capitale ma di
quello del lavoro» e su queste basi «vogliamo cercare la via che
conduce a queste masse e la cercheremo, la vogliamo trovare e la
troveremo». Ecco che i comunisti avrebbero fatto di tutto «affinché
uomini come Schlageter, che erano pronti ad andare verso la morte per
una causa comune, non siano viandanti nel nulla ma diventino
viandanti verso un futuro migliore dell’umanità intera».
È
un passaggio importante, quest’ultimo, che conferma ancora una
volta l’ambizione dell’offensiva egemonica di Radek e sventa a
monte qualunque possibile accusa di collusione con il protofascismo:
come abbiamo visto, bisognava fare in modo che i tedeschi «non
versino più il loro sangue caldo e disinteressato per il profitto
dei baroni del carbone e dell’acciaio ma per la causa del grande
popolo tedesco che lavora», sottraendosi all’egemonia
grande-borghese. Al tempo stesso, però, e cosa non secondaria,
questa guerra di liberazione rendeva i tedeschi «un popolo che fa
parte della famiglia dei popoli che lottano per la propria
liberazione». E cioè li inseriva in un processo di emancipazione
generale dall’imperialismo nel quale essi erano associati, in
seguito alla guerra, a tutti i popoli coloniali e diventavano dunque
parte integrante di un grande movimento internazionale e
internazionalista dei popoli oppressi, a partire dai popoli di colore
sottomessi a suo tempo dalla Germania stessa.
Lungi
dall’essere espressione di vendetta o di spirito social-
sciovinista di rivincita, dunque, lungi dal rappresentare il
particolarismo sempiterno di una Germania che non accettava la
sconfitta e che si camuffava con la maschera del sincretismo
ideologico dando vita a un abominevole campo “rossobruno”
protototalitario, il fronte unitario dei lavoratori proposto dai
comunisti anche ai neonazionalisti si sarebbe battuto «per una
liberazione che è identica alla libertà di tutto il popolo» ma
anche per la «libertà di tutti coloro che lavorano e soffrono in
Germania» [RS 8], indipendentemente dalla classe ma anche
dall’appartenenza in senso etnico alla Volksgemeinschaft. Esso si
proponeva dunque di strappare ai neonazionalisti l’egemonia sulla
questione nazionale e di «convincere gli elementi piccolo-borghesi
che sono presenti nel fascismo e che lottano contro la riduzione in
schiavitù della Germania che il comunismo non è loro nemico ma è
la stella che indica loro il cammino della vittoria».
Se
questa operazione egemonica fosse fallita, invece, se i comunisti non
fossero riusciti a «destare la fiducia delle masse popolari piccolo-borghesi nella capacità della classe operaia di scuotere il giogo
nazionale», avvertiva in tempo reale Radek, sarebbe stato assai
probabile che queste masse divenissero «strumenti in mano alle iene
della guerra», le quali «sfrutteranno i loro legittimi sentimenti
nazionali per ripristinare il dominio della reazione in Germania».
Si sarebbe profilata una catastrofe che avrebbe spinto «ancora più
a fondo la Germania», dunque. Ma sarebbe stata una catastrofe non
minore per la classe operaia tedesca e per l’intero movimento
comunista internazionale ovvero per la rivoluzione in Europa, perché
«la sua vittoria» avrebbe dovuto essere «rinviata per lungo tempo»
[RS2 15].
È
superfluo ricordare quanto questa diagnosi si sia dimostrata esatta e
quanto a questo proposito – e per ragioni che meritano un
ragionamento a parte – Radek sia stato profetico.
Nessun commento:
Posta un commento