la
trasformazione del capitalismo transnazionale post crisi 2008
9
novembre 2016: una data che difficilmente sarà
dimenticata negli anni che verranno. Media europei e giornali di
tutto il mondo hanno osservato con un malcelato sgomento l’elezione
di Donald Trump alla presidenza dello stato capitalista più potente
al mondo, gli Usa. La palese collocazione all’estrema destra del
neopresidente – appoggio del Kkk, libri con i discorsi di Hitler
sul comodino, come ebbe a dire l’ex moglie – non è stato un
elemento sufficiente a permettere a Hillary di divenire la prima
donna presidente degli Stati uniti (con il cognome del marito,
aggiungiamo noi). Considerata genericamente come la candidata
dell’establishment, nonostante il sostegno ricevuto
da tutti i settori della “cultura” a stelle-e-strisce (e non
solo), la sua sconfitta è stata significativa, sebbene il divario in
termini di voti ricevuti l’abbiano vista prevalere per circa 2mln
di unità, che non è esattamente una cifra di poco conto. Fiumi di
inchiostro sono stati versati e di pacchi di parole sono stati
inondati tutti i media (asocial compresi) sostenendo tesi e
teorie spesso in evidente bisticcio logico e densi di incoerenze
frutto di veline passate dalle diverse cordate del capitale in
crescente conflitto. Quel che ci proponiamo in questo articolo è, da
parte nostra, dar seguito alle promesse fatte nella nota preliminare
che alcuni mesi fa abbiamo pubblicato sul blog della rivista
(http://rivistacontraddizione.wordpress.com),
tentando di fornire una chiave di lettura di classe per le vicende
più recenti. Per questo, è di prioritaria importanza provare a
fornire una sorta di radiografia delle patologie del capitale
contestualizzando i recenti accadimenti (solo apparentemente) di
natura politica all’interno della fase critica che l’imperialismo
mondiale sta subendo da mezzo secolo e, in maniera ancor più
violenta ormai da un decennio.
Già dalla fine dell’anno
2008, ossia dalle settimane che seguirono il crollo di Lehman Bros.,
e dunque dai momenti appena successivi all’emersione dell’ultima
crisi reale – violenta appendice di quella iniziata già agli inizi
della decade ’70 –, in palese controtendenza con l’ottimismo di
tanti settori della sinistra di classe, evidenziammo l’assenza di
una classe subordinata “per sé”, ossia cosciente del suo ruolo
storico, avrebbe potuto generare tendenze del tutto opposte a quelle
auspicate, nonostante l’arresto dell’accumulazione a livello
mondiale. Non a caso, parlammo più volte della necessità di
analizzare correttamente la fase attuale nella sua accezione non
rivoluzionaria per poi procedere alla progressiva elaborazione di
un programma minimo (in questa ottica va letta la
pubblicazione dell’omonimo testo di Gamba e Pala a cura del
collettivo della Contraddizione, La Città del sole, Napoli, 2015);
il nostro obiettivo consisteva, in sintesi, nell’individuare un
percorso che, tenendo adeguatamente conto della fase fortemente
sfavorevole alla classe subordinata (a livello mondiale e non solo
locale), riuscisse a raccogliere alcuni punti attorno a cui
permettere quella accumulazione delle forze residue necessaria, al di
là di tanti sparuti volontarismi individuali, alla ripresa di lotte
significative. Inutile dire che, nonostante iniziali manifestazioni
di interesse, per diverse ragioni – non ultima quella del superiore
fascino della praticoneria sul complesso e “noioso” processo
analitico della realtà – tale appello sia restato praticamente del
tutto inascoltato. Ma, aggiungiamo, non è mai troppo tempo per
iniziare un nuovo percorso.
Nel
frattempo il capitale mondiale, però, non incontrando
opposizioni all’altezza, oltre a quelle sviluppatesi violentemente
dall’interno della propria classe, sembra aver revisionato alcuni
gangli cardine del sistema, generando dunque un assetto di potere per
alcuni versi nuovo, almeno in apparenza, e certamente più adeguato
alla fase. Uno dei fenomeni più pericolosi per il capitale,
svelatosi nell’ultima drammatica decade, ossia quello della
progressiva rarefazione della classe media (quella che Marx chiamava
“lower middle class”) e la sua nuova collocazione negli originari
ranghi del proletariato al limite della sussistenza è stato gestito
sino ad ora, tutto sommato, in maniera non troppo traumatica in ogni
parte del mondo dalla classe proprietaria delle condizioni di
produzione. Non si tratta (di) un meccanismo molto diverso da quello
già illustrato da Marx ed Engels nel Manifesto dei comunisti per cui
“Quelle che sono state fino ad ora le piccole classi medie dei
piccoli industriali, negozianti e rentiers, degli artigiani e
dei contadini proprietari, finiscono per scendere al livello del
proletariato; in parte perché il piccolo capitale di cui dispongono
non è sufficiente all’esercizio della grande industria e soccombe
quindi nella concorrenza coi grandi capitalisti; e in parte perché
le loro attitudini e abitudini tecniche perdono di valore in
confronto coi nuovi metodi di produzione. Così il proletariato si
va reclutando in tutte le classi della popolazione”. Del resto,
come ci ha già insegnato la storia, in altre situazioni
assimilabili, lo “spodestamento” dell’aristocrazia operaia di
certo non si traduce schematicamente in fenomeni rivoluzionari ma, al
contrario, spesso determina – se lasciato a sé – svolte
altamente conservative o di vera e propria reazione: la genesi del
fascismo e del nazismo, con i dovuti distinguo, da questo punto di
vista, rappresentano casi esemplari. In altri termini, lo svelamento
della legge generale dell’accumulazione che, specie in fasi di
crisi, genera ancor più evidentemente “accumulazione di miseria
insieme a accumulazione di capitale” (ciò che correntemente viene
definita come “polarizzazione”, di classe, e non solo
di reddito, aggiungiamo noi) detiene un potenziale straordinario di
destabilizzazione, in un senso o nell’altro: e questo la classe
dominante lo sa bene.
Da questo punto vista ci
sembra opportuno, prima di proseguire nel ragionamento, puntualizzare
alcune questioni. In molti ambiti, oramai, anche quelli
tradizionalmente più reazionari (Fmi, Bm o anche Vaticano per bocca
di Bergoglio, solo per dirne alcuni) il riferimento all’incremento
delle disuguaglianze è divenuto un ritornello che viene inserito in
ogni dichiarazione pubblica. È ormai innegabile, data la
straordinaria diffusione di numeri statistici a livello
internazionale, che negli ultimi decenni si sia verificata una forte
polarizzazione. Tuttavia, non è di poco di conto qualificare per
bene tale questione, considerando la volgarizzazione che viene spesso
proposta. Puntare il fuoco dell’analisi esclusivamente su
differenze reddituali – cosa prediletta in ambito accademico e
politiche nei loro perpetui intrecci – induce inevitabilmente a
ridurre la questione a un divario tra ricchi e poveri. La conseguenza
più immediata di una analisi che non tiene conto dei rapporti di
proprietà, non si esaurisce in una mera disputa terminologica, è la
distorsione della definizione e comprensione dei concetti. In altri
termini, se l’aumento delle diseguaglianze viene confinato
all’interno del recinto dei redditi, automaticamente salari e
profitti perdono la loro specificità di classe e vengono comparati
solo quantitativamente. Dunque, la lotta di classe viene agilmente
sostituita da una innocua “lotta tra percentili di reddito” come
propone, non a caso, Piketty (2014) e altri suoi seguaci (tra cui
movimenti giovanili, come Occupy Wall Street).
È opinione condivisa che la
sparizione, progressiva, della middle class – vero
architrave ideologico, e non solo, del capitalismo moderno – sia
una questione destabilizzante e, aggiungiamo noi, avrebbe potuto
svelare il volto del modo di produzione attuale. Tuttavia, attraverso
l’abile utilizzo delle armi più affilate – tra cui anche quelle
del razzismo, terrorismo, immigrazione ecc.– il potenziale problema
è stato, almeno al momento, parzialmente posto sotto controllo da
parte degli organi sovrastrutturali. L’esasperazione della
concorrenza tra chi lavora, garantita da un esercito industriale di
riserva (ossia i disoccupati e i precari) in esponenziale aumento, ha
dunque frammentato ulteriormente la classe lavoratrice in
innumerevoli rivoli favorendone la disgregazione politica.
L’emersione
del dispotismo fascista – che dai media viene edulcorato
ideologicamente da un termine fuori luogo come “populismo” –
perfettamente incarnato da Trump, Le Pen, Farage (collega dei 5* in
parlamento europeo), Npd nonché da Erdogan, Orban, Duda e, per
alcuni versi, da Putin, ha raggiunto, negli ultimi mesi un livello di
pervasività mondiale da far pensare che dalla quantità si sia
passati alla qualità. Partendo dalla Brexit, passando per
l’incresciosa vittoria elettorale di Trump, a cui è seguita la
vittoria referendaria di Erdogan (sul filo di lana), e
l’affermazione, al momento parziale, del Front National alle
elezioni francesi – nonostante Macron – il quadro sembra
delinearsi in una maniera sufficientemente chiara. Il modello
democratico borghese, declinato sull’alternanza destra/sinistra,
che ha sorretto la fase immediatamente successiva alla fine
dell’esperienza sovietica sino all’esplosione del bubbone della
crisi, non offre probabilmente più le stesse garanzie. L’elevata e
persistente mancanza di occupazione – finalmente anche l’Oecd ha
dovuto ammettere che il dato normalmente diffuso (9,5%) è
sottostimato rispetto alla realtà, raddoppiando dunque le stime –
, la povertà e la disuguaglianza crescente hanno svelato
l’illusorietà del gioco (fintamente) democratico che viene
ideologicamente etichettato con una inconsistente “fine dei partiti
tradizionali”. Oramai questi non sono più fenomeni di esclusiva
pertinenza dei paesi dominati ma cominciano ad essere questioni che
riguardano gran parte delle classi subalterne dei paesi imperialisti
che, col tempo, stanno iniziando a perdere visibilmente i connotati
di salotti del mondo.
Il sistema del capitale, a
causa della crisi di accumulazione perdurante, ha dunque necessità
assoluta di gestire in maniera più autoritaria e dispotica il
processo complessivo di produzione e circolazione delle merci. Le
colonne della parvenza liberale della democrazia borghese, per
questo, stanno venendo giù una dopo l’altra, giacché il controllo
della classe potenzialmente rivoluzionaria deve essere mantenuto a un
livello ben più alto rispetto a prima: le cosiddette riforme
costituzionali europee auspicate da JP Morgan, o anche i pacchetti di
repressione poliziesca adottati in mezza Europa con l’alibi del
terrorismo servono a questo. E, così, la produzione di valore e
plusvalore non deve trovare intoppi e soddisfare la voracità dei
proprietari del capitale: le cosiddette riforme del mercato del
lavoro vanno di pari passo a tale inasprimento. Tuttavia, in quanto
parte di un processo, continue contraddizioni che assumono figure più
marcate all’interno della spartizione del potere della classe
dominante sono generate. Per rimanere sul terreno della battaglia
elettorale appena conclusa negli Usa, Trump e Clinton erano
rappresentanti di fazioni per alcuni versi opposte, per altre molto
prossime, ma comunque appartenenti alla stessa classe, ossia quella
del capitale legato al dollaro. Queste contraddizioni tra “fratelli
nemici” si sono risolte nella vittoria da parte di quella fazione
del capitale che predilige maggiore protezione del mercato locale
rispetto all’internazionalismo del capitale più spinto di cui si
faceva interprete Hillary – e una contemporanea retrocessione da
parte della classe lavoratrice (che in parte ha sostenuto il
newyorchese).
Tentando di dare un più
profondo sostegno teorico a tutto ciò che, con difficoltà,
riusciamo a decriptare dalla realtà, l’intera questione va
riportata sul terreno dei rapporti materiali di produzione e dunque
su quelli di proprietà. Ciò che sembra si stia verificando in
questa fase putrescente dell’imperialismo è l’inversione
temporale tra sottomissione formale e quella reale ossia del rapporto
tra le figure struttura e sovrastruttura. In generale, nelle fasi più
avanzate di ogni modo di produzione, “non si verifica neppure il
“salto” di passaggio ai nuovi rapporti sociali di produzione –
si tratterebbe a tal punto di una sorta di inversione temporale nel
processo storico: in codesto caso il vecchio modo di produzione
trascina il proprio carcame in stato di torpore letargico e
allucinato in mezzo a una calca di <zombi>, per cercare di
continuare a prevalere al servizio dei loro padroni. E, qualora tale
ricerca abbia qualche risultato significativo, non sono solo i
processi a esso specifici che gli rimangono realmente sottomessi, ma
anche i processi innovativi che non riescono ancora a fuoriuscire dal
vecchio sistema <coesistente> entro il cui guscio erano stati
contraddittoriamente generati” (Gf. Pala, L’ombra senza corpo,
Edizioni La Città del Sole, Napoli, in corso di stampa). In
altri termini, questo tipo di rovesciamento storico delle due figure
(sottomissione reale e formale) genera dialetticamente una realtà
come quella esistente in cui alla fase di crisi perdurante e
straordinariamente dura si contrappone un pesante inasprimento del
controllo e della repressione della classe dominante su quella
subordinata. È lo sviluppo stesso del modo di produzione del
capitale ad aver generato, specialmente in fasi di maturità
avanzata, uno straordinario spostamento in avanti della frontiera
tecnologica e innovativa contemporaneamente a un affievolimento
proporzionale delle possibilità di accumulazione: dunque, è solo
con un cambiamento sensibile del paradigma del potere politico
(sovrastruttura) che la classe dominante tenta di arginare i processi
innovativi e dunque i nuovi rapporti sociali di produzione
(struttura) che nel frattempo tendono a cristallizzarsi nella forma
economica contemporanea.
Non
è questa certamente la sede in cui analizzare a fondo i
primi mesi di gestione del potere da parte del nuovo presidente
statunitense. L’imprevedibilità di Trump, dovuta sia alla mancanza
di controllo politico da parte del partito repubblicano, che dalla
personale disponibilità di fondi illimitati, nonché da una dubbia
stabilità psichica (più precisamente definita “schizofrenia”
dal fratello nemico Putin, 17.05.2017), è stata a volte
affievolita dal parlamento statunitense che ha vanificato alcune
delle bandiere della campagna elettorale: sulla costruzione del muro
con il Messico e l’abbandono dell’Obama care (assistenza
sanitaria diffusa), a esempio, è stato costretto ad una patetica
marcia indietro che ne ha pregiudicato fortemente il già limitato
prestigio politico di cui godeva.
Tuttavia, quel che più ci
interessa, è tentare di qualificare le linee programmatiche di
gestione del capitale legato al dollaro che sta iniziando a seguire.
Nonostante il suo spessore politico non sia particolarmente elevato,
così come la sua capacità di concettualizzazione, in ambito
commerciale, solo in pochi casi il suo linguaggio è stato ambiguo o
poco diretto (cosa apprezzata prima dell’elezione dalla parte della
classe lavoratrice che l’ha votato). Ha, infatti, chiaramente
affermato la volontà di proteggere l’industria (manifatturiera o
dei servizi) statunitense, limitando quelli che a suo dire sarebbero
i frutti della globalizzazione di inizio secolo: disoccupazione dei
lavoratori “bianchi” e chiusura delle fabbriche a
stelle-e-strisce a causa dell’entrata delle merci a basso prezzo
provenienti dall’Asia. Lo slogan “Make America Great Again”
stampato sui celebri cappellini rossi utilizzati in campagna
elettorale (ovviamente made in Vietnam, come un recente scoop
ha mostrato) ha celebrato l’elevazione del protezionismo, condito
da una ridicola retorica patriottica, a linea guida della sua
amministrazione. La fuoriuscita dal Tpp (Transpacific Partnership)
[vedi anche Contraddizione no.149] siglata pressoché
immediatamente dopo la sua elezione, ha palesemente mostrato la
volontà del capitale da lui impersonato di cercare uno scontro
frontale con omologhi asiatici e, ovviamente, in particolare con
quello cinese. L’occasione del World Economic Forum di Davos ha
permesso una cristallizzazione delle opposte posizioni: infatti,
dinanzi alla forte spinta in direzione protezionista di Trump
(volgarmente indicata ormai “de-globalizzazione”) si è
contrapposta una visione ben diversa di Xi Jinping secondo cui “è
vero che la globalizzazione ha creato nuovi problemi, ma questa non è
una giustificazione per cancellarla, quanto piuttosto per adattarla.
Piaccia o no, l’economia globale è l’enorme oceano dal quale
nessuno può tirarsi fuori completamente”.
Il secondo atto di questa
partita a scacchi (vedi anche Boorman S.A., Gli scacchi di Mao,
1969, Oxford University Press, NY, Usa) si è giocata a Miami dove,
nella cosiddetta “Casa bianca invernale”, nei primi giorni di
aprile, si sono incontrati Trump e il presidente cinese. Come era
attendibile, i toni si sono molto attenuati anche a causa della
crescente tensione con la Corea del Nord e l’inevitabile ruolo da
mediatore assunto proprio dalla Rpc. Quale sia stato l’esito del
confronto, al di là delle dichiarazioni ad uso e consumo della
stampa internazionale “continuiamo a rafforzare l’amicizia”, è
ancora poco chiaro. Il fatto che gli unici esiti tangibili siano
l’accettazione in Usa di polli, già cotti, provenienti dalla Cina
a cui saranno invece inviate materie prime il cui ingresso era stato
limitato dalla normativa vigente, non convince. Anzi, si ha quasi
l’impressione che ciò abbia la funzione di celare un confronto che
ha determinato risultati tutt’altro che buoni. Ma come già detto
siamo solo all’inizio della storia che avrà di certo un seguito
anche se, come ormai altamente probabile, Trump sarà sostituito
attraverso l’impeachment entro la fine del 2018 da un altro
esponente repubblicano (Pence, ad esempio) più adeguato a
impersonare le linee politiche del proprio partito e dunque della
fazione del capitale da cui esso è diretto.
Ciò che sta accadendo anche
in America latina è d’altronde profondamente simile e in linea con
tutto ciò: in poco più di due anni, il subcontinente ha cambiato
volto politico, presentando un golpe in Brasile, dove Temer,
fidato consigliere vicepresidente dalla stessa Dilma Rousseff, ha
preso illegalmente il potere – per quanto, al momento in cui
concludiamo questo articolo, sia anche lui sia messo alle corde per
una chiara questione di corruzione e dunque da una più che probabile
procedura di impeachment; l’Argentina sta scontando il
potere reazionario del berlusconiano Macri, che sta rapidamente
capovolgendo i timidi avanzamenti delle gestioni Kirchner. Infine in
Venezuela – nonostante le contraddizioni interne al potere di
Maduro – si stanno verificando gli accadimenti più gravi giacché
l’imperialismo sta tentando in ogni maniera di provocare il governo
in carica in modo da giustificare un intervento militare “esterno”
che, al momento, è considerato – dai burattinai del capitale
legato al dollaro, e non solo – essere l’unico modo per
capovolgere la gestione chavista della repubblica bolivariana.
Protezionismo
o libero mercato sono dunque tragicamente le parole
attorno a cui si attorcigliano opinioni in ambito politico ed
economico. Persino Pierluigi Bersani, in una delle poche uscite
lucide, è riuscito recentemente a riassumere la questione sostenendo
pubblicamente che se agli inizi del decennio passato l’agenda
politica era focalizzata sulla “globalizzazione”, oggi il
protezionismo è divenuto un’opzione che va di moda. Peccato, però,
che non abbia spiegato che ciò sia dovuto principalmente al fatto
che, in fase di crisi perdurante come quella attuale la tendenza a
proteggersi (appunto!) sia una naturale e vana – a causa
dell’inestricabile groviglio delle filiere produttive mondiali –
velleità di molti capitali, ossia una manifestazione
dell’inasprimento del conflitto intraclassista e delle sue
contraddizioni. La Brexit deve essere letta in questa ottica: non è
un caso che una parte del capitale britannico (e anche
internazionale) abbia tentato di evitare il problema sia con
l’attentato preventivo alla parlamentare laburista britannica sia,
successivamente, provando più volte a sovvertire l’esito
referendario. Come si sa, però, entrambi i tentativi non sono andati
a buon fine e dunque dopo alcuni mesi è stata formalmente richiesta
l’apertura della procedura di uscita dal mercato comune europeo del
Regno unito. Sui social networks sono subito girate molte
notizie in cui si riportavano dati di ottime performance
economiche della città di Londra con lo scopo di voler avvalorare i
vantaggi della Brexit. A scanso di equivoci, è importante
smascherare questa disinformazione, giacché solo a distanza di
qualche mese dalla fine del processo di negoziazione (che durerà non
meno di due anni) si potranno valutare i primi effetti. Ciò che per
ora si può chiaramente vedere è che, il capitale britannico,
allontanato dal partner tedesco – con cui i flussi di merci e
capitali erano di straordinaria importanza – si è trovato, volente
o nolente, a dover saldare ancora di più la secolare alleanza con
quello legato al dollaro.
Dunque, se è normale che la
classe dominante inietti nel dibattito politico concetti come
isolazionismo, razzismo, patriottismo e ritorno a valute ed economie
nazionali, ciò che stupisce è il fatto che parte della sinistra
(anche di classe) stia cadendo in questo tranello, spendendo
importantissime energie per sostenere la fuoriuscita dall’Unione
europea o dalla valuta unica (per un approfondimento si veda
N/euro-fobia - La Contraddizione no.147). Sostenere che “la
rottura con Euro, Ue e Nato non è solo costituente di una posizione
politica, ma un obiettivo reale che bisogna avere il coraggio di
dichiarare non solo necessario, ma possibile” oppure che “se un
popolo rompe con Euro, Ue e Nato, altri popoli imporranno scelte
analoghe. Non esistono Euro e Ue senza l’Italia, salterebbe tutta
la baracca per tutti. E sarebbe un grande fatto positivo. La rottura
è riconquista di democrazia, potere popolare, eguaglianza sociale,
ovunque si avvii poi si diffonderà” [Sedici tesi per l’assemblea
nazionale della Piattaforma Sociale Eurostop, Contropiano, 23
gennaio 2017], significa, da una parte, non comprendere sin in fondo
lo stato degli attuali rapporti di forza che, proprio perché
fortemente sbilanciati verso chi domina, indurrebbero a ragionare più
materialmente sull’elaborazione di un programma minimo (non
massimo, come quello proposto da tanti pur validi compagni);
dall’altro, implica fare il giuoco delle borghesie locali che
attraverso un protezionismo di ritorno vorrebbero serrare i ranghi
nel conflitto interimperialistico che a tutti i livelli si sta
svolgendo. Già Marx il 9 gennaio 1848, all’Associazione
democratica di Bruxelles, avvertiva sul rischio di scivolare su
un’analisi di questo tipo: “in generale ai nostri giorni il
sistema protezionista è conservatore, mentre il sistema del libero
scambio è distruttivo. Esso dissolve le antiche nazionalità e
spinge all’estremo l’antagonismo fra la borghesia e il
proletariato. In una parola, il sistema della libertà di commercio
affretta la rivoluzione sociale. È solamente in questo senso
rivoluzionario, signori, che io voto in favore del libero scambio”
(K Marx, Discorso sul libero scambio).
L’inversione
concettuale e temporale (sotto un profilo logico) di
sottomissione reale con quella formale è dunque il processo
contraddittorio attraverso cui è possibile comprendere l’attuale
forma dispotica di gestione del potere borghese. L’anno 2016,
nonostante le parole di straordinario ottimismo di Mario Draghi, è
stato l’anno peggiore di questo millennio in termini di
accumulazione, secondo il Fmi. Il rallentamento, relativo, della Cina
sta inevitabilmente condizionando l’andamento dell’economia
mondiale: e al contempo una immensa bolla speculativa, gonfiata anche
dall’effetto cripto-valute – il cui valore di borsa è
stato pompato in meno di dieci anni di più del 100.000%!1),
nonché dagli sconsiderati alleggerimenti quantitativi (quantitative
easing) delle banche centrali di tutto il mondo, aleggia sulle
teste di ogni rappresentante della classe dominante, che tenta di
spostare un po’ più in là – sia a livello spaziale che
temporale – l’inevitabile esplosione. Dinanzi a ciò, serrare i
ranghi diviene cruciale così come aumentare il controllo sulla
classe potenzialmente rivoluzionaria, per quanto le contraddizioni
interne alla classe proprietaria non permetta che questo processo sia
privo di ostacoli.
Fino a qualche anno fa, la
socialdemocrazia europea (o americana) garantiva, col falso giuoco di
alternanza con la destra liberale, gli affari dell’imperialismo:
ora sembra che queste forme non siano più adeguate ai rapporti
materiali e un nuovo paradigma sovrastrutturale si sta
progressivamente consolidando, prefigurando, nei decenni che
verranno, un livello di repressione (non solo fisica, ma soprattutto
nell’uso della forza-lavoro) sempre più importante. La
classe subalterna è ben lungi, come detto, dal riconoscere il
proprio ruolo storico ma, probabilmente ancora non tutto quanto è
perduto. Bisogna avere la forza e l’umiltà di riconoscere la
sconfitta storica che i comunisti hanno subito e che in gran parte è
dovuta alla scarsa e frammentaria conoscenza del patrimonio teorico
ed ideologico che gli autori del socialismo scientifico ci hanno
tramandato: in altri termini, è necessario ora più che mai
(ri)cominciare a fare lotta teorica. Proiettarsi inoltre nella
“(ri)fondazione di un nuovo (vecchio) partito”, è cosa
quanto mai velleitaria e soggettivistica ed è stata ben resa dalla celebre imitazione di Bertinotti proposta da Corrado Guzzanti2.
La costruzione di un “movimento politico organizzato” che abbia
come discriminante politica (non ideologica) il “programma minimo”
diviene altresì l’unica via percorribile: ovvero “un partito,
come organizzazione di parte, adeguata alla fase, del soggetto
politico portatore della strategia ricompresa all’interno del
programma minimo. Il partito che divenga tale in un processo
che è posto e non presupposto: con un programma che
non sia scritto con le parole d’ordine ma sia fatto dai lavoratori
stessi con le loro lotte” (Gamba e Pala, Il programma minimo,
Edizioni La Città del Sole, Napoli, 2015).
1
Per un approfondimento si veda anche La Contraddizione, 145 e
146.
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