I grandi dibattiti sulla società hanno sempre posto al centro la relazione tra mercato e organizzazione, fra questi due modi di coordinazione razionale dell’azione sociale. Marx indaga il capitalismo in termini di struttura, come strumentalizzazione del mercato, della razionalità mercantile, avvenuta attraverso la mercificazione della forza-lavoro. Ma è in termini di tendenza storica di questa struttura concorrenziale che egli giunge all’organizzazione, trattata a partire dallo sviluppo della grande impresa. Egli interpreta l’organizzazione come un altro tipo di razionalità, oggi nelle mani dei capitalisti, ma che finirà per sfuggire loro e che fornirà, quando la proprietà privata e il mercato saranno aboliti, il tessuto stesso del socialismo. È questo il nucleo duro del grande mito emancipatore del XX secolo.
Oggi ne misuriamo i limiti. La riflessione critica ha del
resto preso molteplici forme. Per parte mia, io propongo di riprendere, di
correggere e di allargare il procedimento di Marx a partire dal suo
«cominciamento». La società moderna si caratterizza per il suo riferimento
alla ragione. Ma questa non è che la sua metastruttura, che non è posta,
come pretesa presuntamente condivisa di libertà-eguaglianza-razionalità,
che nelle condizioni della struttura di classe, che a sua volta la
presuppone.
Appropriazioni privilegiate
La società moderna è analizzabile dunque nei termini di
una strumentalizzazione della nostra ragione sociale. Questa si declina
secondo le due mediazioni primarie che sono il mercato e l’organizzazione.
Le quali, in effetti, sono due modi della microrelazione interindividuale
posti al di là dell’immediatezza discorsiva. La loro strumentalizzazione
li trasforma in fattori di classe co-costitutivi dei macro-rapporti di classe
moderni. Essa si realizza attraverso un duplice processo di appropriazione
privilegiata: della proprietà sul mercato e della competenza
sull’organizzazione. La classe dominante, o privilegiata, comprende così
due forze sociali, i «capitalisti» e i «dirigenti-competenti». L’altra
classe, che io chiamo «fondamentale» o popolare, si divide in strati e frazioni
che si distinguono in funzione delle relazioni dei loro membri con i processi
del mercato e dell’organizzazione; implicazione, influenza, esclusione. La
struttura sociale moderna è dunque al tempo stesso binaria e ternaria: da
analizzare come rapporto fra due classi e tre forze sociali. Il neoliberismo
rappresenta una figura particolare di essa.
Riprendo i concetti economico-politici del Capitale, a partire
dalla teoria del valore e del plusvalore. Ma allargo e, in questo senso,
correggo il suo approccio. Ci sono certamente due classi. Ma nel seno della
classe dominante vi sono due forze sociali distinte. Ne segue che la società
moderna è da leggere a partire da una figura triangolare. Mi oppongo dunque
agli schemi a tre classi (con una classe intermedia o con due classi dominanti)
e all’idea di una coppia dominante che sarebbe composta dal capitale (la
società civile) e dallo Stato. L’idea di un privilegio del potere-proprietà
sul mercato, caratterizzante il capitale, non fa problema. Ma l’idea di
un altro privilegio, quello del potere-competenza entro l’organizzazione,
richiede di essere spiegata.
Un potere sul sociale
La competenza non è il sapere, che non è proprietà dei
dominanti: è piuttosto la «competenza socialmente ricevuta», richiesta
per la direzione degli altri. Come ha scritto Michel Foucault, c’è un altro
potere oltre a quello economico. Non è quello di comprare e di vendere, di
assumere e di investire. È quello di segnare lo spazio e i tempi, di definire
i limiti, gli itinerari, le tappe, i programmi, le prove, i compiti, i criteri,
le norme, gli esseri normali e devianti, i fini pertinenti e i mezzi adeguati
per educare, curare, giudicare, includere ed escludere. Il sociologo
Pierre Bourdieu ha mostrato come questo potere si eserciti specificamente
e si riproduca sotto forma di monopolio, come esso cioè formi un blocco
sociale, a dispetto della sua interna diversità.
Associo questo «potere competente» al concetto di «organizzazione».
Esso si esercita, in effetti, nella produzione, nell’amministrazione, nella
sanità, secondo l’altro modo di «coordinazione razionale sulla scala
sociale». Al di là della coordinazione immediatamente discorsiva, cooperativa,
associativa, non ci sono che due mediazioni concepibili, il mercato e l’organizzazione,
l’uno sottomesso alla proprietà, l’altro alla competenza, concretamente
intrecciati peraltro in modi molteplici. Questi sono i due poli del potere
per i quali confliggono le minoranze privilegiate e il popolo senza privilegi.
Le due forze dominanti sono tra loro in un rapporto
insieme di attrazione e di opposizione. Ciascuna vuole la supremazia. Una
teoria dell’egemonia non ha dunque per oggetto la relazione tra una classe
dominante e una classe dominata, ma la relazione all’interno di questo trittico
agonistico.
L’egemonia che è qui in questione comporta due dimensioni,
sempre interrelate.
Secondo la dimensione strutturale, un «regime di egemonia»
definisce un tipo di rapporto fra le sue tre forze sociali primarie. Le
grandi mutazioni tecnologiche – dalla macchina a vapore a quelle informatiche
– ridefiniscono il campo di azione potenziale di ciascuno dei due fattori
di classe, mercato e organizzazione, oltre che le condizioni della lotta
per il loro controllo e padroneggiamento. Le classi non sono infatti dei
gruppi sociali. Sono dei clivages (differenze) strutturali che si riproducono,
definendo gli spazi entro i quali compaiono dei gruppi più o meno effimeri
come il «grande padronato» o la «classe operaia (industriale)». In questo
contesto, non sono le classi, ma dei gruppi così definiti, che sviluppano
le «strategie di egemonia».
Questa egemonia strutturale è sempre in relazione con
una egemonia sistemica, che rinvia alla configurazione del
Sistema-mondo, in potenza coloniale, satellite, relai, Stato-tampone. Qui non
c’è «presupposto metastrutturale» di libertà-eguaglianza-razionalità, ma
uno «stato di guerra» che non cessa in tempo di pace. Il sistemico si manifesta
costantemente nello strutturale.
Profonde differenze
A partire da queste premesse, la configurazione
moderna dell’egemonia comporta tre termini, designati come «Capitale»,
«Élite» e «Popolo».
«Capitale» designa i capitalisti, gli azionisti e con
essi il corpo degli agenti la cui funzione è l’accumulazione di plusvalore,
che si riconoscono per i benefici che ne traggono. «Élite» designa l’élite
autopromossa di potere-sapere: i «competenti-dirigenti», coloro i quali hanno
«ricevuto competenza» per dirigere, e il cui lavoro è, nello stesso tempo
ed essenzialmente, l’esercizio di un potere. «Popolo» designa il popolo, la
classe popolare, o il proletariato non nel senso dei «senza-parte», ma dei
«senza-privilegio»: la loro proprietà non si accumula, il loro sapere non conferisce
loro potere. Esso si ripartisce in diverse frazioni, secondo che prodomini
il fattore organizzazione (salariati del pubblico) o il fattore mercato
(gli indipendenti), o ancora una certo equilibrio tra questi due fattori
(salariati del privato). Ma esso si divide soprattutto in strati gerarchizzati.
Perché l’assenza di privilegi non significa l’assenza di influenza su questi
«fattori di classe»: le lotte popolari, in effetti, si traducono in acquisizioni
sociali e politiche, in termini di salario, di diritto. Ma non tutti vi
hanno egualmente accesso: secondo il sesso, la professione, la generazione,
l’origine locale o nazionale (interferenza sistemica), ci si trova in posizione
ineguale riguardo all’impiego e ai diritti, fino all’«esclusione» – esclusione
da tutte queste acquisizioni. Questo instaura una profondo clivage. Ma
gli esclusi si trovano presi nel medesimo rapporto duale di classe: negli
stessi meccanismi del mercato e nelle norme dell’organizzazione, non
«valendo» niente rispetto ad essi. L’esclusione degli uni non ha per contropartita
l’inclusione degli altri (nell’ordine sociale vigente). Essa indebolisce la
posizione di tutti.
Per chiarire le cose, ho proposto di modificare la terminologia
consueta: il liberalismo è la logica dei capitalisti. Il socialismo
quella dei dirigenti-competenti. Il comunismo, quella del popolo, ossia
l’abolizione del rapporto di classe.
Essendo l’egemonia un rapporto a tre termini — Capitale,
Elite, Popolo -, il fenomeno dell’alleanza fra due elementi contro il terzo
vi gioca un ruolo centrale. Alleanza non significa però assenza di antagonismo.
Si può riprendere a questo proposito la distinzione classica fra contraddizione
principale e contraddizione secondaria, questa ultima essendo più o
meno neutralizzabile sotto la forma di un’alleanza.
Invenzione di un ordine naturale
Alla svolta degli anni Ottanta del secolo scorso, il regime
neoliberale batte in breccia il regime dello Stato sociale nazionale. I
capitalisti prevalgono sull’«Élite», che si separa dal popolo. Riappare
così la configurazione strutturale che era propria del periodo «borghese»,
dove la contraddizione principale è quella che oppone «Capitale» ed
«Élite» a «Popolo», mentre la contraddizione secondaria è quella tra
«Capitale» ed «Élite». In che cosa consiste dunque la novità di questo
regime?
Non si tratta di una nuova dottrina. Il liberalismo, del
resto, non è una dottrina. Si tratta di una pretesa. E la pretesa neoliberista
non contiene nulla di nuovo. È la stessa del liberalismo: quella dei «capitalisti»,
che giustifica le loro pratiche e le loro strategie. Essa ha trovato da
secoli la sua espressione classica, pura e perfetta. Con John Locke, il liberalismo
è dato immediatamente in forma estrema nella tesi di un «ordine naturale»,
quello della proprietà privata e del mercato capitalistico, che il colono
ha il diritto di imporre contro ogni altro occupante, su ogni terra adatta a
essere lavorata in vista di un profitto. Una logica sociale che nasce già
estremista, o, se si vuole, intrinsecamente «neoliberista» (un rinvio
d’obbligo è ai lavori di Ellen Meiksins Wood e Domenico Losurdo).
In che cosa consiste dunque la novità? Sta in un cambiamento
dei rapporti di forza all’interno della struttura. Il «liberalismo» classico
aveva per correlato l’imperialismo, la schiavitù nel sistema-mondo e un dominio
economico e politico senza freni sul lavoro salariato. Tuttavia, ha
potuto presentarsi come moderato. Se, in effetti, in qualche modo lo era, è
perché la sua logica estremista era limitata e contenuta da forze strutturali
contrarie. Da un lato, infatti, l’altro polo della classe dominante, quello
delle «Élite» dei competenti-dirigenti conosceva, in ragione del quadro
nazional-statale del suo emergere, una ascesa parallela, in rapporti di convergenza
o di antagonismo variabili a seconda del luogo e del tempo. Inoltre, il
«Popolo» era già onnipresente, e si manifestava in rivolte e rivoluzioni
ricorrenti. Il neoliberismo non sarà nient’altro che la realizzazione
del vecchio sogno chiamato «liberalismo»: la dittatura del
capitalismo.
Nessun commento:
Posta un commento