venerdì 23 ottobre 2015

Prigionieri in un triangolo delle competenze* - Jacques Bidet

*manifesto 22.10.2015 


I grandi dibat­titi sulla società hanno sem­pre posto al cen­tro la rela­zione tra mer­cato e orga­niz­za­zione, fra que­sti due modi di coor­di­na­zione razio­nale dell’azione sociale. Marx indaga il capi­ta­li­smo in ter­mini di strut­tura, come stru­men­ta­liz­za­zione del mer­cato, della razio­na­lità mer­can­tile, avve­nuta attra­verso la mer­ci­fi­ca­zione della forza-lavoro. Ma è in ter­mini di ten­denza sto­rica di que­sta strut­tura con­cor­ren­ziale che egli giunge all’organizzazione, trat­tata a par­tire dallo svi­luppo della grande impresa. Egli inter­preta l’organizzazione come un altro tipo di razio­na­lità, oggi nelle mani dei capi­ta­li­sti, ma che finirà per sfug­gire loro e che for­nirà, quando la pro­prietà pri­vata e il mer­cato saranno abo­liti, il tes­suto stesso del socia­li­smo. È que­sto il nucleo duro del grande mito eman­ci­pa­tore del XX secolo.

Oggi ne misu­riamo i limiti. La rifles­sione cri­tica ha del resto preso mol­te­plici forme. Per parte mia, io pro­pongo di ripren­dere, di cor­reg­gere e di allar­gare il pro­ce­di­mento di Marx a par­tire dal suo «comin­cia­mento». La società moderna si carat­te­rizza per il suo rife­ri­mento alla ragione. Ma que­sta non è che la sua meta­strut­tura, che non è posta, come pre­tesa pre­sun­ta­mente con­di­visa di libertà-eguaglianza-razionalità, che nelle con­di­zioni della strut­tura di classe, che a sua volta la presuppone. 

 Appro­pria­zioni privilegiate 

La società moderna è ana­liz­za­bile dun­que nei ter­mini di una stru­men­ta­liz­za­zione della nostra ragione sociale. Que­sta si declina secondo le due media­zioni pri­ma­rie che sono il mer­cato e l’organizzazione. Le quali, in effetti, sono due modi della micro­re­la­zione inte­rin­di­vi­duale posti al di là dell’immediatezza discor­siva. La loro stru­men­ta­liz­za­zione li tra­sforma in fat­tori di classe co-costitutivi dei macro-rapporti di classe moderni. Essa si rea­lizza attra­verso un duplice pro­cesso di appro­pria­zione pri­vi­le­giata: della pro­prietà sul mer­cato e della com­pe­tenza sull’organizzazione. La classe domi­nante, o pri­vi­le­giata, com­prende così due forze sociali, i «capi­ta­li­sti» e i «dirigenti-competenti». L’altra classe, che io chiamo «fon­da­men­tale» o popo­lare, si divide in strati e fra­zioni che si distin­guono in fun­zione delle rela­zioni dei loro mem­bri con i pro­cessi del mer­cato e dell’organizzazione; impli­ca­zione, influenza, esclu­sione. La strut­tura sociale moderna è dun­que al tempo stesso bina­ria e ter­na­ria: da ana­liz­zare come rap­porto fra due classi e tre forze sociali. Il neo­li­be­ri­smo rap­pre­senta una figura par­ti­co­lare di essa. 

Riprendo i con­cetti economico-politici del Capi­tale, a par­tire dalla teo­ria del valore e del plu­sva­lore. Ma allargo e, in que­sto senso, cor­reggo il suo approc­cio. Ci sono cer­ta­mente due classi. Ma nel seno della classe domi­nante vi sono due forze sociali distinte. Ne segue che la società moderna è da leg­gere a par­tire da una figura trian­go­lare. Mi oppongo dun­que agli schemi a tre classi (con una classe inter­me­dia o con due classi domi­nanti) e all’idea di una cop­pia domi­nante che sarebbe com­po­sta dal capi­tale (la società civile) e dallo Stato. L’idea di un pri­vi­le­gio del potere-proprietà sul mer­cato, carat­te­riz­zante il capi­tale, non fa pro­blema. Ma l’idea di un altro pri­vi­le­gio, quello del potere-competenza entro l’organizzazione, richiede di essere spiegata. 

 Un potere sul sociale 

La com­pe­tenza non è il sapere, che non è pro­prietà dei domi­nanti: è piut­to­sto la «com­pe­tenza social­mente rice­vuta», richie­sta per la dire­zione degli altri. Come ha scritto Michel Fou­cault, c’è un altro potere oltre a quello eco­no­mico. Non è quello di com­prare e di ven­dere, di assu­mere e di inve­stire. È quello di segnare lo spa­zio e i tempi, di defi­nire i limiti, gli iti­ne­rari, le tappe, i pro­grammi, le prove, i com­piti, i cri­teri, le norme, gli esseri nor­mali e devianti, i fini per­ti­nenti e i mezzi ade­guati per edu­care, curare, giu­di­care, inclu­dere ed esclu­dere. Il socio­logo Pierre Bour­dieu ha mostrato come que­sto potere si eser­citi spe­ci­fi­ca­mente e si ripro­duca sotto forma di mono­po­lio, come esso cioè formi un blocco sociale, a dispetto della sua interna diversità. 

Asso­cio que­sto «potere com­pe­tente» al con­cetto di «orga­niz­za­zione». Esso si eser­cita, in effetti, nella pro­du­zione, nell’amministrazione, nella sanità, secondo l’altro modo di «coor­di­na­zione razio­nale sulla scala sociale». Al di là della coor­di­na­zione imme­dia­ta­mente discor­siva, coo­pe­ra­tiva, asso­cia­tiva, non ci sono che due media­zioni con­ce­pi­bili, il mer­cato e l’organizzazione, l’uno sot­to­messo alla pro­prietà, l’altro alla com­pe­tenza, con­cre­ta­mente intrec­ciati peral­tro in modi mol­te­plici. Que­sti sono i due poli del potere per i quali con­flig­gono le mino­ranze pri­vi­le­giate e il popolo senza privilegi. 

Le due forze domi­nanti sono tra loro in un rap­porto insieme di attra­zione e di oppo­si­zione. Cia­scuna vuole la supre­ma­zia. Una teo­ria dell’egemonia non ha dun­que per oggetto la rela­zione tra una classe domi­nante e una classe domi­nata, ma la rela­zione all’interno di que­sto trit­tico ago­ni­stico.

 L’egemonia che è qui in que­stione com­porta due dimen­sioni, sem­pre interrelate. 

Secondo la dimen­sione strut­tu­rale, un «regime di ege­mo­nia» defi­ni­sce un tipo di rap­porto fra le sue tre forze sociali pri­ma­rie. Le grandi muta­zioni tec­no­lo­gi­che – dalla mac­china a vapore a quelle infor­ma­ti­che – ride­fi­ni­scono il campo di azione poten­ziale di cia­scuno dei due fat­tori di classe, mer­cato e orga­niz­za­zione, oltre che le con­di­zioni della lotta per il loro con­trollo e padro­neg­gia­mento. Le classi non sono infatti dei gruppi sociali. Sono dei cli­va­ges (dif­fe­renze) strut­tu­rali che si ripro­du­cono, defi­nendo gli spazi entro i quali com­pa­iono dei gruppi più o meno effi­meri come il «grande padro­nato» o la «classe ope­raia (indu­striale)». In que­sto con­te­sto, non sono le classi, ma dei gruppi così defi­niti, che svi­lup­pano le «stra­te­gie di egemonia». 

Que­sta ege­mo­nia strut­tu­rale è sem­pre in rela­zione con una ege­mo­nia siste­mica, che rin­via alla con­fi­gu­ra­zione del Sistema-mondo, in potenza colo­niale, satel­lite, relai, Stato-tampone. Qui non c’è «pre­sup­po­sto meta­strut­tu­rale» di libertà-eguaglianza-razionalità, ma uno «stato di guerra» che non cessa in tempo di pace. Il siste­mico si mani­fe­sta costan­te­mente nello strutturale. 

 Pro­fonde differenze 

A par­tire da que­ste pre­messe, la con­fi­gu­ra­zione moderna dell’egemonia com­porta tre ter­mini, desi­gnati come «Capi­tale», «Élite» e «Popolo».

«Capi­tale» desi­gna i capi­ta­li­sti, gli azio­ni­sti e con essi il corpo degli agenti la cui fun­zione è l’accumulazione di plu­sva­lore, che si rico­no­scono per i bene­fici che ne trag­gono. «Élite» desi­gna l’élite auto­pro­mossa di potere-sapere: i «competenti-dirigenti», coloro i quali hanno «rice­vuto com­pe­tenza» per diri­gere, e il cui lavoro è, nello stesso tempo ed essen­zial­mente, l’esercizio di un potere. «Popolo» desi­gna il popolo, la classe popo­lare, o il pro­le­ta­riato non nel senso dei «senza-parte», ma dei «senza-privilegio»: la loro pro­prietà non si accu­mula, il loro sapere non con­fe­ri­sce loro potere. Esso si ripar­ti­sce in diverse fra­zioni, secondo che pro­do­mini il fat­tore orga­niz­za­zione (sala­riati del pub­blico) o il fat­tore mer­cato (gli indi­pen­denti), o ancora una certo equi­li­brio tra que­sti due fat­tori (sala­riati del pri­vato). Ma esso si divide soprat­tutto in strati gerar­chiz­zati. Per­ché l’assenza di pri­vi­legi non signi­fica l’assenza di influenza su que­sti «fat­tori di classe»: le lotte popo­lari, in effetti, si tra­du­cono in acqui­si­zioni sociali e poli­ti­che, in ter­mini di sala­rio, di diritto. Ma non tutti vi hanno egual­mente accesso: secondo il sesso, la pro­fes­sione, la gene­ra­zione, l’origine locale o nazio­nale (inter­fe­renza siste­mica), ci si trova in posi­zione ine­guale riguardo all’impiego e ai diritti, fino all’«esclusione» – esclu­sione da tutte que­ste acqui­si­zioni. Que­sto instaura una pro­fondo cli­vage. Ma gli esclusi si tro­vano presi nel mede­simo rap­porto duale di classe: negli stessi mec­ca­ni­smi del mer­cato e nelle norme dell’organizzazione, non «valendo» niente rispetto ad essi. L’esclusione degli uni non ha per con­tro­par­tita l’inclusione degli altri (nell’ordine sociale vigente). Essa inde­bo­li­sce la posi­zione di tutti. 

Per chia­rire le cose, ho pro­po­sto di modi­fi­care la ter­mi­no­lo­gia con­sueta: il libe­ra­li­smo è la logica dei capi­ta­li­sti. Il socia­li­smo quella dei dirigenti-competenti. Il comu­ni­smo, quella del popolo, ossia l’abolizione del rap­porto di classe. 

Essendo l’egemonia un rap­porto a tre ter­mini — Capi­tale, Elite, Popolo -, il feno­meno dell’alleanza fra due ele­menti con­tro il terzo vi gioca un ruolo cen­trale. Alleanza non signi­fica però assenza di anta­go­ni­smo. Si può ripren­dere a que­sto pro­po­sito la distin­zione clas­sica fra con­trad­di­zione prin­ci­pale e con­trad­di­zione secon­da­ria, que­sta ultima essendo più o meno neu­tra­liz­za­bile sotto la forma di un’alleanza. 

 Inven­zione di un ordine naturale 

Alla svolta degli anni Ottanta del secolo scorso, il regime neo­li­be­rale batte in brec­cia il regime dello Stato sociale nazio­nale. I capi­ta­li­sti pre­val­gono sull’«Élite», che si separa dal popolo. Riap­pare così la con­fi­gu­ra­zione strut­tu­rale che era pro­pria del periodo «bor­ghese», dove la con­trad­di­zione prin­ci­pale è quella che oppone «Capi­tale» ed «Élite» a «Popolo», men­tre la con­trad­di­zione secon­da­ria è quella tra «Capi­tale» ed «Élite». In che cosa con­si­ste dun­que la novità di que­sto regime? 

Non si tratta di una nuova dot­trina. Il libe­ra­li­smo, del resto, non è una dot­trina. Si tratta di una pre­tesa. E la pre­tesa neo­li­be­ri­sta non con­tiene nulla di nuovo. È la stessa del libe­ra­li­smo: quella dei «capi­ta­li­sti», che giu­sti­fica le loro pra­ti­che e le loro stra­te­gie. Essa ha tro­vato da secoli la sua espres­sione clas­sica, pura e per­fetta. Con John Locke, il libe­ra­li­smo è dato imme­dia­ta­mente in forma estrema nella tesi di un «ordine natu­rale», quello della pro­prietà pri­vata e del mer­cato capi­ta­li­stico, che il colono ha il diritto di imporre con­tro ogni altro occu­pante, su ogni terra adatta a essere lavo­rata in vista di un pro­fitto. Una logica sociale che nasce già estre­mi­sta, o, se si vuole, intrin­se­ca­mente «neo­li­be­ri­sta» (un rin­vio d’obbligo è ai lavori di Ellen Meik­sins Wood e Dome­nico Losurdo). 

In che cosa con­si­ste dun­que la novità? Sta in un cam­bia­mento dei rap­porti di forza all’interno della strut­tura. Il «libe­ra­li­smo» clas­sico aveva per cor­re­lato l’imperialismo, la schia­vitù nel sistema-mondo e un domi­nio eco­no­mico e poli­tico senza freni sul lavoro sala­riato. Tut­ta­via, ha potuto pre­sen­tarsi come mode­rato. Se, in effetti, in qual­che modo lo era, è per­ché la sua logica estre­mi­sta era limi­tata e con­te­nuta da forze strut­tu­rali con­tra­rie. Da un lato, infatti, l’altro polo della classe domi­nante, quello delle «Élite» dei competenti-dirigenti cono­sceva, in ragione del qua­dro nazional-statale del suo emer­gere, una ascesa paral­lela, in rap­porti di con­ver­genza o di anta­go­ni­smo varia­bili a seconda del luogo e del tempo. Inol­tre, il «Popolo» era già onni­pre­sente, e si mani­fe­stava in rivolte e rivo­lu­zioni ricor­renti. Il neo­li­be­ri­smo non sarà nient’altro che la rea­liz­za­zione del vec­chio sogno chia­mato «libe­ra­li­smo»: la dit­ta­tura del capitalismo. 



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