La nuova Costituzione del 1976 definiva la Repubblica di
Cuba uno stato socialista di operai, contadini e lavoratori, alleati tra loro e
guidati dalla classe operaia diretta dal Partito comunista cubano. Essa
stabiliva l’uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di razza, sesso,
origine nazionale. Sanciva la libertà di espressione, la libertà religiosa,
connessa a quella di praticare il culto prescelto, e la libertà di non credere
(AA.VV., 1994:294-295).
Ma la Costituzione del 1976, approvata con un
referendum popolare da circa il 98% dei votanti, considerava anche la
concezione scientifica materialistica come ideologia ufficiale dello Stato
cubano. Sulla stessa linea si collocano le Tesis sobre Religión, la Iglesia y
los Creyentes discusse in precedenza dal primo Congresso del Partito comunista
cubano, tenutosi nel 1975, nelle quali si ribadisce il diritto a praticare
qualsiasi forma di culto, purché ciò avvenga nel rispetto della legge e della
morale socialiste. In tali tesi si indica come obiettivo da raggiungere
l’affermazione della conoscenza scientifica libera da pregiudizi e
superstizioni, e si esclude che i credenti possano far parte del partito.
Questa decisione scaturì sicuramente dalla volontà di rispondere
all’aggressività mostrata soprattutto dalla gerarchia cattolica nei confronti
della Rivoluzione, la quale con l’abolizione delle scuole private, approvata
negli anni ’60, perdeva un potente strumento di influenza e di penetrazione
culturale.
Nonostante tali posizioni considerate da molti antireligiose, lo
Stato rivoluzionario rivalutò i contenuti estetici, artistici, i valori
folclorici legati alla religiosità popolare, tentando di mettere in secondo
piano i suoi aspetti religiosi e mistici. Tale atteggiamento e l’effettiva
preminenza dei membri del partito comunista nella vita sociale avrebbe spinto
quella parte della popolazione, che in qualche modo seguiva una fede religiosa,
a nascondere tale fede. Tuttavia, nonostante l’adesione all’oggettivismo
positivistico e all’ateismo scientifico, lo Stato cubano perseguì sicuramente
la rivalutazione delle tradizioni popolari cubane, come mostrano, ad esempio,
l’istituzione del Conjunto Folklórico Nacional (lo straordinario corpo di ballo
tutt’ora esistente) e lo spazio dato ad opere teatrali, in cui si
rappresentavano idee e valori legati al retaggio africano. Come osserva Lázara
Menéndez (2004: II parte) tale rivalutazione fece sì che tali forme culturali e
al contempo religiose continuassero ad operare come un fattore di
identificazione, come era avvenuto già nelle epoche passate. Ma poiché, ciò
avveniva accantonando i contenuti religiosi pur caratterizzanti larga parte
della popolazione cubana, si produsse il fenomeno, di cui è difficile valutare
l’estensione, che i cubani chiamano della “doble moral”: essere credenti senza
dichiararlo apertamente. Sicuramente tali osservazioni, sviluppate per esempio
da Lázara Menéndez (2004), sono fondate, ma pongono grossi problemi a chi
voglia auspicare e sostenere una radicale trasformazione sociale, i quali non
possono essere risolti difendendo a tutti i costi le le antiche tradizioni pur
cariche di esperienze esistenziali. Infatti, cambiando il contesto
storico-sociale, inevitabilmente queste ultime, anche se con maggiore lentezza
e gradualità, si trasformano e si riadattano alla nuove circostanze.
Non si
capisce pertanto perché un’organizzazione sociale, che si propone di cambiare
dalle sue basi la precedente struttura sociale, non debba intervenire per
orientare l’innovazione spontanea delle pratiche e delle credenze, favorendo lo
sviluppo di convinzioni e valori funzionali alla nuova strutturazione sociale.
È questo un processo che si è prodotto in tutte le epoche storiche, sia in
quelle rivoluzionarie che in quelle restauratrici.
Naturalmente tale intervento
non può essere in nessun modo repressivo e del resto a Cuba non lo è mai stato,
anche perché come diceva Lenin ai lavoratori interessa mettersi d’accordo sul
“paradiso” in terra, lasciando agli altri le dispute sull’aldilà.
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