venerdì 16 ottobre 2015

Orario e condizioni di lavoro: due facce della stessa medaglia - Riccardo Bellofiore

Riccardo Bellofiore è professore ordinario di Economia politica all’Università degli Studi di Bergamo. 


 Recentemente, su queste colonne ha avuto luogo una discussione tra Giovanni Mazzetti e Ernesto Screpanti in merito alla possibilità, alle forme e alle prospettive di una riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario. La questione andrebbe affrontata,certamente, attraverso il vaglio di una indagine disincantata della natura attuale del processo di accumulazione capitalistico; come anche attraverso una valutazione realistica dei limiti della politica economica nell'intervenire dall'alto sui termini del conflitto di classe. Spero di poterlo fare in futuro,se me ne sarà data l'opportunità. Adesso, preferisco invece prenderla per così dire più alla lontana, trattando l'argomento della riduzione dell'orario di lavoro sul terreno apparentemente più generico, ma forse ricco di qualche insegnamento, delle fondazioni concettuali, con l'aiuto di due testi che mi è capitato di (ri)leggere in questi giorni, uno di Guido Calogero, l'altro di Claudio Napoleoni: grandi maestri, l'uno filosofo l'altro economista, che ci propongono due modi di affrontare il tema non poco diversi, e però entrambi attuali.

 Lo scritto di Calogero è il testo di una conferenza tenuta nel 1955 intitolata"Lavoro e giuoco nella civiltà di domani" (la si può leggere in Scuola sotto inchiesta, Einaudi).Calogero definisce lavoro "ogni attività che svolgo per ritrarne una remunerazione, e che cesserei di svolgere se tale remunerazione non mi fosse più corrisposta ... l'attività produttiva di beni economici, i quali quando vengono scambiati diventano merci". Il lavoro salariato, insomma, come paradigma del lavoro in generale. Giuoco è invece "ogni altra attività,non determinata dall'intento di un vantaggio economico perché o la svolgo senza ritrarne alcun guadagno, o la svolgerei egualmente anche se guadagno non ne ritraessi": una definizione che ha una qualche parentela, per esempio, coni 'lavori concreti' di cui parla Giorgio Lunghini, o l' 'economia sociale' (il'terzo settore') di cui parla Marco Revelli.

 L'argomentazione di Calogero si muove in due passaggi. Il primo è che il lavoro è sempre più, inevitabilmente,"privo di interesse creativo per chi lo esercita", una "servitù che non si deve permettere sia sofferta solo da altri, e di cui quindi si diminuisce il peso partecipandovi il più possibile insieme con altri ... Nei limiti in cui il lavoro è una servitù necessaria, il fondamentale diritto del lavoratore rimane quello di lavorare il meno possibile". Il secondo è che la realizzazione di questo "fondamentale diritto" è a portata di mano, perché i mezzi ne sono approntati dallo sviluppo tecnico: "per questo, allora, noi proviamo tanto interesse quando sentiamo economisti, tecnologi e sociologi prevedere concordi che, nella civiltà sempre più automatizzata e meccanicizzata di domani, il tempo del lavoro tenderà continuamente a diminuire, nella settimana dell'uomo, a paragone del tempo libero, cioè di quello che possiamo ormai chiamare il tempo del giuoco".

 Calogero ne trae due conclusioni. Il lavoro, come servitù necessaria, produce alla meglio individui dimidiati, che non trovano soddisfazione nel lavoro, e che quindi sono costretti a sognar d'altro (il che è già meglio, commenta,dell'essere condizionati a non poter sognare nient'altro che il lavoro a cui sono programmati, come nel Nuovo Mondo di Aldous Huxley: una profezia che definisce alla perfezione l'utopia degli imprenditori dei nostri giorni). Una via d'uscita comunque esiste, e si tratta proprio della riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario: per gli imprenditori,"è molto più saggio ed economico spendere una certa parte dei loro profitti per pagarsi, impiegando operai nuovi e non remunerando perciò dimeno la ridotta settimana di lavoro di quelli vecchi, la necessaria mano d'opera supplementare". Insomma: "la lotta contro la disoccupazione coincide con la lotta per l'aumento del tempo libero". Proposizione non valida soltanto "per il mondo più civilizzato", ma pure per i paesi in via di sviluppo, che in fondo, per il nostro autore, non fanno che seguire in ritardo le orme dei primi.

 Passiamo ora a Napoleoni. Le pagine che seguono sono tratte da un testo didattico, il suo manuale di Economia politica edito dalla Nuova Italia, nell'edizione del 1980. Qui Napoleoni passa in rassegna alcune delle risposte che sono state date al quesito di quale sia il ruolo storico del capitale. L'ultima interpretazione che commenta è quella secondo cui "il progresso tecnico che ha luogo nello sviluppo capitalistico ha consentito, e tuttora consente, un progressivo abbassamento della quantità di lavoro occorrente a ottenere una data quantità di ricchezza. Si può estrapolare questa tendenza, fino a ritenere che il ruolo storico del capitale consista proprio nel liberare l'uomo dall'onere del lavoro". Insomma: la condizione del lavoro alienato e astratto, cioè comandato dal capitale, troverebbe nella storia un suo immanente riscatto, perché l'uomo,dapprima ridotto in quella condizione di sacrificio di sé che abbiamo visto così efficacemente descritta da Calogero, potrebbe però infine, in forza di un risultato posto dalla dinamica capitalistica stessa, "uscire dal lavoro", liberarsi dunque, e darsi al giuoco (inclusi, se si guarda alla società nel suo complesso, ai lavori concreti e ai terzi settori).

 Ci sono però due problemi che Napoleoni mette avanti. Il primo è che "ci sono ragioni sociali precise" per cui quella tendenza alla riduzione del tempo di lavoro "nel sistema capitalistico, che pure l'ha prodotta, incontra ostacoli non superabili". Non si tratta soltanto, né principalmente,dell'affievolirsi del processo innovativo dentro l'area capitalistica: qualcosa che può non preoccupare i fautori della interpretazione considerata, che magari considerano più che adeguato lo sviluppo materiale sin qui ottenuto (o lo considerano come qualcosa che cade dal cielo), e pensano dunque che si tratti semplicemente di redistribuire i risultati di un aumento di produttività che si è già verificato (o che prosegue autonomamente). Si tratta semmai del fatto che il capitale controbatte quella tendenza alla riduzione del tempo di lavoro"cercando di trovare sempre nuovi scopi alla produzione, mediante un allargamento ad ogni costo del consumo", ma più in generale della domanda, per avere "una giustificazione sociale all'aumento della produzione come alternativa alla riduzione del lavoro". Come, in altri termini,distinguere il tempo di lavoro necessario alla soddisfazione dei bisogni autentici dal tempo di lavoro superfluo rivolto alla soddisfazione dei bisogni indotti, quando l'essere umano è sempre più socialmente definito?

 Si potrebbe, certo, cercare di "imporre" al capitale la liberazione dal lavoro come scopo coscientemente perseguito dalla società. Qui interviene il secondo problema. La riduzione del tempo di lavoro viene spesso giustificata - Calogero ne è appunto un esempio significativo: "nel mondo del giuoco noi siamo spontaneamente altruisti, così come siamo naturalmente competitori, e quindi egoisti, nel campo del lavoro produttore" - opponendo il lavoro,come elemento negativo, alla ricchezza prodotta che viene goduta quando il lavoro è finito, come elemento positivo. "Ma - prosegue Napoleoni - come fu sostenuto in particolare da Marx, che il lavoro sia un fatto puramente negativo, un mero costo, rispetto al quale non si potrebbe porre altro problema che quello di liberarsene, è un'immagine che sorge appunto sulla base della storia data. Se questa storia viene criticata, se quindi non si pensa che essa sia stata l'espressione compiuta delle facoltà umane, allora si può pervenire all'idea che non soltanto il lavoro potrebbe essere cosa diversa da ciò che è stato finora, ma potrebbe anzi essere l'attività mediante la quale l'uomo si realizza". La stessa riduzione del tempo di lavoro, se non si accompagna a una modificazione delle condizioni del lavoro nella produzione,"perverrebbe a una situazione di 'tempo libero', che gli uomini, appunto perché negati nella loro personalità quando lavorano, non saprebbero come riempire". Di conseguenza, "il traguardo di un lavoro come attività libera e realizzatrice ... non dovrebbe essere spostato in un futuro indeterminato, ma dovrebbe essere preparato fin da ora".

 I testi sono di tale chiarezza che si commentano da sé. Aggiungo quindi solo un paio di brevi chiose. Impressionano, innanzitutto, le date: Calogero scrive in piena epoca fordista, come oggi è d'uso chiamarla, in cui l'occupazione aumentava trainata dalla domanda, mentre Napoleoni scrive dopo l'inizio della rivoluzione informatica e della conseguente disoccupazione tecnologica: pure,il primo riproduce molti degli argomenti dei fautori odierni della riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario, argomenti che erano in effetti diffusissimi anche allora. Con più giustificazione, però, perché in quel mondo l'orario di lavoro effettivamente andava riducendosi (in contrasto con quello che è stato l'andamento degli ultimi vent'anni), e si poteva dunque pensare che bastasse, per così dire, accelerare politicamente (culturalmente) il fenomeno,mentre oggi si deve sapere che si nuota controcorrente. Va sottolineato, poi,l'avvertimento di Napoleoni. Il capitale è la contraddizione in movimento: insieme la produzione di una tendenza (la riduzione del tempo di lavoro a produrre la singola merce) e del suo opposto (l'accrescimento del tempo di lavoro nel suo complesso: nuovo assorbimento di lavoratori, non necessariamente dove il capitale li ha espulsi, e non necessariamente garantiti). Occorre dunque intervenire sulla qualità dello sviluppo capitalistico, e dall'interno, se non ci si vuol limitare a proclamare l'urgenza della riduzione d'orario, a cui non si sa bene da sinistra chi potrebbe opporsi.

 Colpisce, infine, una concordanza di atteggiamento: la preoccupazione comune ai due autori è che il lavoro etero diretto sia una dimensione non sofferta da una parte soltanto della società, ma condivisa da tutti; la differenza tra i due è che in Napoleoni c'è - giustamente, a me pare - la considerazione che la gamba della riduzione del tempo di lavoro è zoppa senza l'altra della contemporanea rimessa in discussione, qui e ora, delle modalità di svolgimento di quel lavoro. Non si può dire che questa lezione sia rimasta troppo viva, ultimamente. 


1 commento:

  1. I testi sono di tale chiarezza che si commentano da sé. Aggiungo quindi solo un paio di brevi chiose. Impressionano, innanzitutto, le date: Calogero scrive in piena epoca fordista ...

    Come mai si identifica il 1955 cpme piena epoca fordista ?
    Mi sfugge qualcosa ?
    E le strategie keynesiane, Beveridge ecc. dove sono ?

    Mi pare che Bellofiore eviti di affrontare la portata della rivoluzione keynesiana rivoluzione che ha stravolto le condizioni materiali della società e pertanto richiederebbero un sforzo appunto di sviluppare nuove forme di conoscenze coerenti con le conquiste profondamente incorporate nella società che queste hanno prodotto ma evidentemente non ancora metabolizzate

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