Da: Liberazione,
2 aprile 1997
- Economisti-di-classe-Riccardo-Bellofiore-Giovanna-Vertova
Riccardo
Bellofiore è professore
ordinario di Economia politica all’Università degli Studi di
Bergamo.
Recentemente, su queste colonne ha avuto luogo una
discussione tra Giovanni Mazzetti e Ernesto Screpanti in merito alla
possibilità, alle forme e alle prospettive di una riduzione dell'orario di
lavoro a parità di salario. La questione andrebbe affrontata,certamente,
attraverso il vaglio di una indagine disincantata della natura attuale del
processo di accumulazione capitalistico; come anche attraverso una valutazione
realistica dei limiti della politica economica nell'intervenire dall'alto sui
termini del conflitto di classe. Spero di poterlo fare in futuro,se me ne sarà
data l'opportunità. Adesso, preferisco invece prenderla per così dire più alla
lontana, trattando l'argomento della riduzione dell'orario di lavoro sul
terreno apparentemente più generico, ma forse ricco di qualche insegnamento,
delle fondazioni concettuali, con l'aiuto di due testi che mi è capitato di
(ri)leggere in questi giorni, uno di Guido Calogero, l'altro di Claudio
Napoleoni: grandi maestri, l'uno filosofo l'altro economista, che ci propongono
due modi di affrontare il tema non poco diversi, e però entrambi attuali.
Lo scritto di
Calogero è il testo di una conferenza tenuta nel 1955 intitolata"Lavoro e giuoco nella civiltà di domani"
(la si può leggere in Scuola sotto inchiesta, Einaudi).Calogero definisce
lavoro "ogni attività che svolgo per
ritrarne una remunerazione, e che cesserei di svolgere se tale remunerazione
non mi fosse più corrisposta ... l'attività produttiva di beni economici, i
quali quando vengono scambiati diventano merci". Il lavoro salariato,
insomma, come paradigma del lavoro in generale. Giuoco è invece "ogni altra attività,non determinata
dall'intento di un vantaggio economico perché o la svolgo senza ritrarne alcun
guadagno, o la svolgerei egualmente anche se guadagno non ne ritraessi":
una definizione che ha una qualche parentela, per esempio, coni 'lavori
concreti' di cui parla Giorgio Lunghini, o l' 'economia sociale' (il'terzo
settore') di cui parla Marco Revelli.
L'argomentazione di Calogero si muove in due passaggi. Il primo
è che il lavoro è sempre più, inevitabilmente,"privo di interesse creativo per chi lo esercita", una "servitù che non si deve permettere sia
sofferta solo da altri, e di cui quindi si diminuisce il peso partecipandovi il
più possibile insieme con altri ... Nei limiti in cui il lavoro è una servitù
necessaria, il fondamentale diritto del lavoratore rimane quello di lavorare il
meno possibile". Il secondo è che la realizzazione di questo "fondamentale diritto" è a portata
di mano, perché i mezzi ne sono approntati dallo sviluppo tecnico: "per questo, allora, noi proviamo tanto
interesse quando sentiamo economisti, tecnologi e sociologi prevedere concordi
che, nella civiltà sempre più automatizzata e meccanicizzata di domani, il
tempo del lavoro tenderà continuamente a diminuire, nella settimana dell'uomo,
a paragone del tempo libero, cioè di quello che possiamo ormai chiamare il
tempo del giuoco".
Calogero ne trae due
conclusioni. Il lavoro, come servitù necessaria, produce alla meglio individui
dimidiati, che non trovano soddisfazione nel lavoro, e che quindi sono
costretti a sognar d'altro (il che è già meglio, commenta,dell'essere
condizionati a non poter sognare nient'altro che il lavoro a cui sono
programmati, come nel Nuovo Mondo di Aldous Huxley: una profezia che definisce
alla perfezione l'utopia degli imprenditori dei nostri giorni). Una via
d'uscita comunque esiste, e si tratta proprio della riduzione dell'orario di
lavoro a parità di salario: per gli imprenditori,"è molto più saggio ed economico spendere una certa parte dei loro
profitti per pagarsi, impiegando operai nuovi e non remunerando perciò dimeno
la ridotta settimana di lavoro di quelli vecchi, la necessaria mano d'opera
supplementare". Insomma: "la lotta contro la disoccupazione coincide
con la lotta per l'aumento del tempo libero". Proposizione non valida
soltanto "per il mondo più civilizzato", ma pure per i paesi in via
di sviluppo, che in fondo, per il nostro autore, non fanno che seguire in
ritardo le orme dei primi.
Passiamo ora a
Napoleoni. Le pagine che seguono sono tratte da un testo didattico, il suo
manuale di Economia politica edito dalla Nuova Italia, nell'edizione del 1980.
Qui Napoleoni passa in rassegna alcune delle risposte che sono state date al
quesito di quale sia il ruolo storico del capitale. L'ultima interpretazione
che commenta è quella secondo cui "il
progresso tecnico che ha luogo nello sviluppo capitalistico ha consentito, e
tuttora consente, un progressivo abbassamento della quantità di lavoro
occorrente a ottenere una data quantità di ricchezza. Si può estrapolare questa
tendenza, fino a ritenere che il ruolo storico del capitale consista proprio
nel liberare l'uomo dall'onere del lavoro". Insomma: la condizione del
lavoro alienato e astratto, cioè comandato dal capitale, troverebbe nella
storia un suo immanente riscatto, perché l'uomo,dapprima ridotto in quella
condizione di sacrificio di sé che abbiamo visto così efficacemente descritta
da Calogero, potrebbe però infine, in forza di un risultato posto dalla
dinamica capitalistica stessa, "uscire
dal lavoro", liberarsi dunque, e darsi al giuoco (inclusi, se si
guarda alla società nel suo complesso, ai lavori concreti e ai terzi settori).
Ci sono però due
problemi che Napoleoni mette avanti. Il primo è che "ci sono ragioni sociali precise" per cui quella tendenza alla
riduzione del tempo di lavoro "nel
sistema capitalistico, che pure l'ha prodotta, incontra ostacoli non superabili".
Non si tratta soltanto, né principalmente,dell'affievolirsi del processo
innovativo dentro l'area capitalistica: qualcosa che può non preoccupare i
fautori della interpretazione considerata, che magari considerano più che
adeguato lo sviluppo materiale sin qui ottenuto (o lo considerano come qualcosa
che cade dal cielo), e pensano dunque che si tratti semplicemente di
redistribuire i risultati di un aumento di produttività che si è già verificato
(o che prosegue autonomamente). Si tratta semmai del fatto che il capitale
controbatte quella tendenza alla riduzione del tempo di lavoro"cercando di trovare sempre nuovi scopi alla
produzione, mediante un allargamento ad ogni costo del consumo", ma
più in generale della domanda, per avere "una giustificazione sociale all'aumento della produzione come alternativa
alla riduzione del lavoro". Come, in altri termini,distinguere il
tempo di lavoro necessario alla soddisfazione dei bisogni autentici dal tempo
di lavoro superfluo rivolto alla soddisfazione dei bisogni indotti, quando
l'essere umano è sempre più socialmente definito?
Si potrebbe, certo,
cercare di "imporre" al
capitale la liberazione dal lavoro come scopo coscientemente perseguito dalla
società. Qui interviene il secondo problema. La riduzione del tempo di lavoro
viene spesso giustificata - Calogero ne è appunto un esempio significativo:
"nel mondo del giuoco noi siamo
spontaneamente altruisti, così come siamo naturalmente competitori, e quindi
egoisti, nel campo del lavoro produttore" - opponendo il lavoro,come
elemento negativo, alla ricchezza prodotta che viene goduta quando il lavoro è
finito, come elemento positivo. "Ma -
prosegue Napoleoni - come fu sostenuto in
particolare da Marx, che il lavoro sia un fatto puramente negativo, un mero
costo, rispetto al quale non si potrebbe porre altro problema che quello di
liberarsene, è un'immagine che sorge appunto sulla base della storia data. Se
questa storia viene criticata, se quindi non si pensa che essa sia stata
l'espressione compiuta delle facoltà umane, allora si può pervenire all'idea
che non soltanto il lavoro potrebbe essere cosa diversa da ciò che è stato
finora, ma potrebbe anzi essere l'attività mediante la quale l'uomo si realizza".
La stessa riduzione del tempo di lavoro, se non si accompagna a una
modificazione delle condizioni del lavoro nella produzione,"perverrebbe a una situazione di 'tempo
libero', che gli uomini, appunto perché negati nella loro personalità quando
lavorano, non saprebbero come riempire". Di conseguenza, "il traguardo di un lavoro come attività
libera e realizzatrice ... non dovrebbe essere spostato in un futuro
indeterminato, ma dovrebbe essere preparato fin da ora".
I testi sono di tale
chiarezza che si commentano da sé. Aggiungo quindi solo un paio di brevi
chiose. Impressionano, innanzitutto, le date: Calogero scrive in piena epoca
fordista, come oggi è d'uso chiamarla, in cui l'occupazione aumentava trainata
dalla domanda, mentre Napoleoni scrive dopo l'inizio della rivoluzione
informatica e della conseguente disoccupazione tecnologica: pure,il primo
riproduce molti degli argomenti dei fautori odierni della riduzione dell'orario
di lavoro a parità di salario, argomenti che erano in effetti diffusissimi
anche allora. Con più giustificazione, però, perché in quel mondo l'orario di
lavoro effettivamente andava riducendosi (in contrasto con quello che è stato
l'andamento degli ultimi vent'anni), e si poteva dunque pensare che bastasse,
per così dire, accelerare politicamente (culturalmente) il fenomeno,mentre oggi
si deve sapere che si nuota controcorrente. Va sottolineato, poi,l'avvertimento
di Napoleoni. Il capitale è la contraddizione in movimento: insieme la
produzione di una tendenza (la riduzione del tempo di lavoro a produrre la
singola merce) e del suo opposto (l'accrescimento del tempo di lavoro nel suo
complesso: nuovo assorbimento di lavoratori, non necessariamente dove il
capitale li ha espulsi, e non necessariamente garantiti). Occorre dunque
intervenire sulla qualità dello sviluppo capitalistico, e dall'interno, se non
ci si vuol limitare a proclamare l'urgenza della riduzione d'orario, a cui non
si sa bene da sinistra chi potrebbe opporsi.
Colpisce, infine, una concordanza di atteggiamento: la
preoccupazione comune ai due autori è che il lavoro etero diretto sia una
dimensione non sofferta da una parte soltanto della società, ma condivisa da
tutti; la differenza tra i due è che in Napoleoni c'è - giustamente, a me pare -
la considerazione che la gamba della riduzione del tempo di lavoro è zoppa
senza l'altra della contemporanea rimessa in discussione, qui e ora, delle
modalità di svolgimento di quel lavoro. Non si può dire che questa lezione sia
rimasta troppo viva, ultimamente.
I testi sono di tale chiarezza che si commentano da sé. Aggiungo quindi solo un paio di brevi chiose. Impressionano, innanzitutto, le date: Calogero scrive in piena epoca fordista ...
RispondiEliminaCome mai si identifica il 1955 cpme piena epoca fordista ?
Mi sfugge qualcosa ?
E le strategie keynesiane, Beveridge ecc. dove sono ?
Mi pare che Bellofiore eviti di affrontare la portata della rivoluzione keynesiana rivoluzione che ha stravolto le condizioni materiali della società e pertanto richiederebbero un sforzo appunto di sviluppare nuove forme di conoscenze coerenti con le conquiste profondamente incorporate nella società che queste hanno prodotto ma evidentemente non ancora metabolizzate