giovedì 9 gennaio 2020

Abitudini linguistiche e mistificazione - Alessandra Ciattini

Da: https://www.lacittafutura.it/ Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. 

                                                                                                                           Da: Sbatti il mostro in prima pagina
Le parole non sono strumenti neutri, veicolano in maniera surrettizia una certa visione delle cose. Stiamo attenti a come parliamo e a come ci parlano.

Ormai da svariati anni è di moda evitare di usare il maschile per riferirsi a gruppi di persone che prevedono la presenza anche di donne, per cui si scrive, per esempio, “Cari/Care” per non ricadere nel sessismo. Questa nuova sensibilità scaturisce certamente dalla scoperta del valore delle parole nei processi che plasmano la mentalità degli individui con significative ricadute sui loro comportamenti sociali [1].
Si potrebbe osservare che, nonostante l’importanza delle parole, che sempre chiudono in sé tutta una visione del mondo, sicuramente esse non sono sufficienti a cambiare lo stato delle cose esistenti; pertanto, credo che insieme a questa ipersensibilità linguistica bisognerebbe mobilitarsi effettivamente affinché una buona metà del genere umano abbia gli stessi stipendi dell’altra metà, affinché siano disponibili effettivamente gli asili nido (soprattutto nel nostro paese), affinché le donne siano sollevate dal grave peso del lavoro domestico, meccanico e rutinario. E tutto ciò non si può certo risolvere semplicemente con qualche nuova legge spesso invocata a destra e a manca, dato che si tratta di questioni strutturali e di atteggiamenti, che hanno profonde radici nella nostra storia e nella nostra tradizione culturale.

martedì 7 gennaio 2020

Intervista a Joseph Halevi sull’esito delle elezioni in Gran Bretagna.

Da: http://rproject.it/ - joseph-halevi Universita  di Sidney.

RP. Come prima cosa ti chiedo una considerazione generale della sconfitta del partito laburista clamorosa in termini di seggi. Tenendo conto che la vittoria dei conservatori era comunque data per scontata.

JH. Fino a qualche tempo fa, quando anche Boris Johnson si vedeva bocciare le sue iniziative del parlamento, mi sembrava fosse su una linea meno catastrofica di Teresa May, che stava veramente distruggendo il partito conservatore. La scelta di Johnson per riprendere in mano la politica dei conservatori è stata proprio quella di andare alle elezioni e come le ha gestite. Però secondo me queste sono cose superficiali. 


Secondo me il problema fondamentale sono i laburisti, i quali sono entrati in una crisi che rischia di essere di non ritorno. Come, anche se in condizioni completamente diverse, i socialdemocratici tedeschi sono in una crisi di non ritorno: loro oggi sono al 15%, mentre erano un partito del 40%. In Gran Bretagna non c’è lo stesso tipo di situazione, con la medesima politicizzazione che c’è in Europa continentale, quindi la dinamica è diversa, però un partito che sta sul 30% diventa non agibile, diventa non spendibile perché non è un sistema pluralistico al livello politico. È un sistema che si basa su due partiti, che possono fare qualche alleanza qua e là, occasionalmente, però devono essere tutti e due in una situazione maggioritaria, dal punto di vista dei seggi (cioè essere sempre nella situazione di diventare maggioritario). Se uno dei due non ha la maggioranza dei seggi, può rimanere fuori per decenni. Come è accaduto ai laburisti negli anni trenta con la spaccatura introdotta da MacDonald e sono stati fuori fino al 1945; quando, sostanzialmente, è stata la guerra a fargli vincere le elezioni. Perché, anche se la guerra l’ha condotta Churchill, era cambiata l’idea presso la classe lavoratrice inglese che con la vittoria il mondo sarebbe stato diverso per ciò che li riguardava, i diritti, ecc.
Poi sono stati fuori per quasi vent’anni, durante il periodo di Thatcher e Major. Oggi rischiano di restare fuori per un’infinità di tempo.
Ora, veramente, la loro base strutturale si è sfaldata perché hanno perso in zone fondamentali: hanno perso la Scozia, dove già erano stati sconfitti nelle lezioni passate con la vittoria del SNP e adesso hanno finito per perdere anche gli altri seggi – non ricordo se li hanno persi tutti ma anche là sono stati decimati ulteriormente – e hanno perso le loro roccaforti operaie. Perché, ci siano o meno industrie, è la popolazione operaia a cui non hanno saputo dare un’alternativa, quindi questa ha votato a destra. Perché la classe operaia inglese è pro Brexit: questo bisogna metterselo in testa.
RP. Puoi spiegare meglio questo concetto così netto?

sabato 4 gennaio 2020

Di una economia di mercato compatibile con la socializzazione delle sovrastrutture finanziarie - Federico Caffè

Da: «Giornale degli economisti e annali di economia», 1971, 9-10, pp. 664-84. - https://gondrano.blogspot.com/ - Federico Caffè è stato un economista italiano
Leggi anche: Federico Caffè e l’«intelligente pragmatismo». (in appendice “Intervista a Federico Caffè” di «Sinistra 77») - Fernando Vianello  
                        L’economista in tuta da lavoro: Federico Caffè e il capitalismo in crisi - Riccardo Bellofiore  




SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Richiami a una indagine americana del 1955 sul funzionamento del mercato di borsa. - 3. Il caso dell’IOS, a distanza di un quindicennio, e i suoi aspetti più clamorosi. - 4. La “sovranità” del risparmiatore e la sua manipolazione da parte dell’intermediazione specializzata. - 5. Mercato azionario e efficienza economica nel periodo breve. - 6. L’efficienza allocativa dei mercati finanziari nel periodo lungo. - 7. Se la borsa sia un efficace guardiano dell’efficienza dell’impiego delle risorse allocate per suo tramite. - 8. Una proposta recente di centralizzazione nazionale delle operazioni di borsa. - 9. Possibilità di soluzioni che portino a un rigetto della borsa e del suo folklore.




1. Premessa

Se l’occasione immediata per le considerazioni contenute in questo scritto è stata fornita da talune recenti manifestazioni aberranti del modo di operare dei mercati finanziari, nel nostro come in altri paesi, l’interesse per i problemi di cui lo scritto si occupa è ben più remoto.
Nei primissimi anni del dopoguerra mi capitò di leggere un articolo, come sempre limpidissimo e suadente, di Luigi Einaudi che illustrava con piena adesione le idee espresse a suo tempo da Eugenio Rignano nel volume Per una riforma socialista del diritto successorio (1920).
Nell’articolo einaudiano l’accento veniva posto non sul carattere socialista della riforma successoria, ma sulla compatibilità della economia di mercato con un trattamento fiscale delle successioni che fosse ispirato ad avanzate ideali sociali.
A mia volta, più che dal problema specifico, fui interessato dalla tesi generale che esso implicava.
La tesi, cioè, della compatibilità della economia di mercato con riforme le quali incidano profondamente in strutture e istituzioni che storicamente sono venute a coesistere con l’economia di mercato stessa, ma non sono essenziali al suo funzionamento.
Ed è precisamente in questa tesi l’origine remota delle presenti note.

Da tempo sono convinto che la sovrastruttura finanziario-borsistica, con le caratteristiche che presenta nei paesi capitalisticamente avanzati, favorisca non già il vigore competitivo, ma un gioco spregiudicato di tipo predatorio che opera sistematicamente a danno di categorie innumerevoli e sprovvedute di risparmiatori, in un quadro istituzionale che, di fatto, consente e legittima la ricorrente decurtazione o il pratico spossessamento dei loro peculi.

Esiste una evidente incoerenza tra i condizionamenti di ogni genere - legislativi, sindacali, sociali - che vincolano l’attività produttiva “reale” nei vari settori agricolo, industriale, di intermediazione commerciale e la concreta “licenza di espropriare l’altrui risparmio” che esiste sui mercati finanziari.
Un rilievo del genere non trae motivo da fatti episodici o da insufficienze istituzionali attribuibili a carenze legislative.
Si tratta di una costatazione originata dalla persistenza evidente, nell’ambito delle strutture finanziarie-borsistiche, di un capitalismo aggressivo e violento, che non sembra aver nulla in comune con lo “spirito di responsabilità pubblica” rilevabile come componente di una moderna strategia oligopolistica nell’ambito dell’attività produttiva industriale.
Oggi, come è ben noto, non soltanto il creatore d’industria rozzo e brutale, ma persino il creatore d’industria provvidenziale e paternalistico risultano incompatibili con concezioni non obsolete della vita industriale.
Al contrario, esercita tuttora un anacronistico fascino (ed ha, soprattutto, deleterie possibilità di azione) il manipolatore spregiudicato di titoli di varia specie sui mercati finanziari interni e internazionali.
Si tratta di una smagliatura logica il cui esame presenta un interesse non minore delle raffinate analisi intorno alla composizione ottimale del portafoglio in condizioni varie di incertezza.
Indubbiamente il campo di indagine non si presta a ricerche che portino a risultati formalmente eleganti e precisi.
Ma occorre confortarsi ricordando che può essere preferibile “aver ragione in termini vaghi, anziché sbagliare con tutta precisione” (1).

venerdì 3 gennaio 2020

Tecnologia e imperialismo. Crisi economica, produzione intellettuale, sfruttamento e conflittualità tra capitali. - Francesco Schettino


Pubblicato su “materialismostorico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 1 (2019), TECNOLOGIA E IMPERIALISMO. CRISI ECONOMICA, PRODUZIONE INTELLETTUALE, SFRUTTAMENTO E CONFLITTUALITÀ TRA CAPITALI, a cura di Francesco Schettino, pp. 276-292, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0
Francesco Schettino (Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli)


1. Introduzione

Il dominio della casse borghese sulla classe proletaria (o lavoratrice), quindi subalterna, è l’elemento che innegabilmente qualifica il modo di produzione capitalistico; il rapporto di proprietà instaurato tra le due classi – perno attorno a cui ruota tutto il sistema – si concreta nella produzione di plusvalore, ossia l’appropriazione da parte della classe dominante di una parte dell’attività erogata da quella subalterna, che è l’essenza della riproduzione dell’economia nel suo complesso. Se per il capitale nella sua astratta unicità ciò che interessa è l’incremento della massa di plusvalore e, ancor di più, essa in relazione al valore anticipato dalla totalità dei capitalisti, dal punto di vista del capitale individuale la produzione di plusvalore necessita di “schiudersi”, ossia trasformarsi per divenire utile, realizzandosi quindi in forma monetaria (quella del profitto). L’incremento del plusvalore, ossia dell’appropriazione di lavoro altrui non pagato, è dunque la condizione principale per cui l’accumulazione possa procedere a tassi crescenti ed è per questo motivo l’obiettivo prioritario del sistema nella sua totalità e quindi del singolo agente del capitale.

La contraddittorietà tra unicità del capitale e molteplicità dei suoi agenti si svolge mediata dalla concorrenza e agisce principalmente nel momento della trasformazione del plusvalore in profitto e del saggio di plusvalore in tasso di profitto: infatti, se la massa del profitto coincide con quella del plusvalore, non subendo le fluttuazioni del valore, ciò non avviene per i rispettivi tassi. In particolare, l’agire della concorrenza, nella fase della circolazione e le differenze nella composizione organica dei diversi capitali, rende impossibile tale convergenza. Di conseguenza, le strategie dei diversi partecipanti al “banchetto” del frutto espropriato dall’attività dell’operaio complessivo necessariamente si contrappongono avendo in comune l’obiettivo dell’incetta del maggior quantitativo di fette possibile. Dunque, nella fase della produzione, fermo restando il morboso interesse del capitalista per la quantità di ore non pagate ai propri lavoratori, appare lampante l’importanza della riduzione dell’esborso sostenuto anche per il capitale costante, macchinari e materie prime.

La trasformazione di plusvalore in profitto implica, infatti, che «se il plusvalore è dato, il saggio del profitto può essere aumentato soltanto mediante una diminuzione del valore del capitale costante necessario per la produzione delle merci» [Marx, Il capitale, III.5]: in sostanza, fermo il numeratore del rapporto che rappresenta il saggio del profitto, il capitale individua nella diminuzione del denominatore il fattore complementare all’aumento dello sfruttamento per poter incrementarne l’entità. In altri termini una riduzione del valore di macchinari e materie prime, ossia quella che Marx definisce «economia del capitale costante», implica che il costo connesso all’appropriazione di lavoro vivo altrui diminuisca, permettendo così un incremento della sua produttività che a sua volta si riflette direttamente sul saggio di profitto: nel caso limite in cui il costo di macchinari e materie prime fosse nullo, esso raggiungerebbe il livello massimo, essendo esattamente identico al saggio di plusvalore, ferma restando la variabilità determinata dalla circolazione delle merci, ossia «a prescindere da tutte le modificazioni apportate dal sistema creditizio, da tutte le soperchierie e truffe che i capitalisti commettono l’uno a danno dell’altro, e infine da ogni favorevole scelta del mercato» [C, III.7]. In questo caso, il costo del capitale costante per l’utilizzo della forza-lavoro essendo nullo, il capitalista potrebbe appropriarsi del lavoro pagato e non pagato in maniera totalmente gratuita, permettendo una opportuna accumulazione di capitale che «dipende ancor più dalla produttività che dalla massa di lavoro impiegato» [C, III.5].

giovedì 2 gennaio 2020

"Il Vero Debito Estero" - Guaicaipuro Cuatemoc

Da: http://www.pepe-rodriguez.com/
Leggi anche: https://www.carmillaonline.com/2008/06/04/intervista-a-luis-britto-garcia

Il testo che seguirà è un'opera di finzione, ma il suo contenuto è così fortemente vero, la critica degli europei è così assolutamente giustificata e la scrittura così ingegnosa che merita di essere letta e diffusa.

Il capo Guaicaipuro esisteva poco meno di cinquecento anni fa, sebbene il suo vero nome non includesse l'ormai aggiunto Cuatemoc. L'autore della storia è Luis Britto García, che l'ha pubblicata il 6 ottobre 2003, in occasione della Giornata indigena della resistenza (12 ottobre), con il titolo di "Guaicaipuro Cuatemoc riscuote il debito con l'Europa".

L'autore: Luis Britto García (Caracas, 1940). Scrittore venezuelano. Il suo lavoro di fiction, formalmente sperimentale, elabora una critica della situazione politica e sociale del suo paese ( Rajatabla , 1970; Abrapalabra , 1980; The imaginary orgy , 1983). Si è anche dedicato al saggio, i cui titoli comprendono l'impero controculturale: dal rock al postmodernismo (1991). Premio Casa de las Américas nel 1970 e premio nazionale in letteratura nel 1980.


Lettera di un capo indio ai governi europei: "Guaicaipuro Cuatemoc riscuote il debito con l'Europa"

Così sono qua, io, Guaicaipuro Cuatemoc, sono venuto a incontrare i partecipanti a questo incontro. 
Così sono qua, io, discendente di coloro che popolarono l'America quarantamila anni fa, sono venuto a trovare coloro che la trovarono cinquecento anni fa.
Così ci troviamo tutti: sappiamo chi siamo, ed è già abbastanza. Non abbiamo bisogno di altro.
Il fratello doganiere europeo mi chiede una carta scritta con visto per scoprire coloro che mi scoprirono.
Il fratello usuraio europeo mi chiede di pagare un debito contratto da traditori che non ho mai autorizzato a vendermi.
Il fratello leguleio europeo mi spiega che ogni debito si paga con gli interessi, anche fosse vendendo esseri umani e paesi interi senza chiedere il loro consenso.
Questo è quello che sto scoprendo.
Anch'io posso pretendere pagamenti. Anch'io posso reclamare interessi. Fa fede l'Archivio delle Indie.
Foglio dopo foglio, ricevuta dopo ricevuta, firma dopo firma, risulta che solamente tra il 1503 ed il 1660 sono arrivati a San Lucar de Barrameda 185mila chili di oro e 16 milioni di chili di argento provenienti dall'America.
Saccheggio? Non ci penso nemmeno!!!
Perché pensare che i fratelli cristiani disobbediscano al loro settimo comandamento.
Spoliazione? Tanatzin mi guardi dall'immaginare che gli europei, come Caino, uccidano e poi neghino il sangue del fratello!
Genocidio? Sarebbe dar credito a calunniatori come Bartolomeo della Casa che considerarono quella scoperta come la distruzione delle Indie, o ad oltraggiosi come il dottor Arturo Pietri che sostiene che lo sviluppo del capitalismo e dell'attuale civiltà europea sia dovuto all'inondazione di metalli preziosi.
No! Questi 185mila chili di oro e 16 milioni di chili di argento devono essere considerati come il primo dei vari prestiti amichevoli dell'America per lo sviluppo dell'Europa. Pensare il contrario vorrebbe dire supporre crimini di guerra, il che darebbe diritto non solo a chiedere la restituzione immediata ma anche l'indennizzo per danni e truffa.
Io, Guaicaipuro Cuatemoc, preferisco credere alla meno offensiva delle ipotesi. Una così favolosa esportazione di capitali non fu altro che l'inizio del piano Mershalltezuma teso a garantire la ricostruzione della barbara Europa, rovinata dalle sue deplorabili guerre contro i culti musulmani, difensori dell'algebra, della poligamia, dell'igiene quotidiana e di altre superiori conquiste della civiltà.
Per questo, avvicinandosi il Quinto Centenario del Prestito, possiamo chiederci: i fratelli europei hanno fatto un uso razionale, responsabile, o perlomeno produttivo delle risorse così generosamente anticipate dal Fondo Indoamericano Internazionale?
Ci rincresce di dover dire di no. Dal punto di vista strategico le dilapidarono nelle battaglie di Lepanto, nelle armate invincibili, nei terzi Reich ed in altre forme di reciproco sterminio, per poi finire occupati dalle truppe yankee della Nato, come Panama (ma senza canale).
Dal punto di vista finanziario sono stati incapaci " dopo una moratoria di 500 anni " sia di restituire capitale ed interessi che di rendersi indipendenti dalle rendite liquide, dalle materie prime e dall'energia a basso costo che gli esporta il Terzo Mondo. Questo deplorevole quadro conferma l'affermazione di Milton Friedman secondo il quale un economia assistita non potrà mai funzionare e ci obbliga a chiedere " per il loro stesso bene " la restituzione del capitale e degli interessi che abbiamo così generosamente aspettato a richiedere per tutti questi secoli.
Detto questo, vorremmo precisare che non ci abbasseremo a chiedere ai fratelli europei quei vili e sanguinari tassi d'interesse variabile del 20 fino al 30% che i fratelli europei chiedono ai paesi del Terzo Mondo. Ci limiteremo a esigere la restituzione dei materiali preziosi prestati, più il modico interesse fisso del 10% annuale accumulato negli ultimi trecento anni. Su questa base, applicando la formula europea dell'interesse composto, informiamo gli scopritori che ci devono, come primo pagamento del loro debito, soltanto 185mila chili di oro e 16 milioni di chili di argento ambedue elevati alla potenza di trecento. Come dire, un numero per la cui espressione sarebbero necessarie più di trecento cifre, e il cui peso supera ampiamente quello della terra.
Com'è pesante questa mole d'oro e d'argento! Quanto peserebbe calcolata in sangue? Addurre che l'Europa in mezzo millennio non ha saputo generare ricchezze sufficienti a cancellare questo modico interesse sarebbe come ammettere il suo assoluto disastro finanziario e/o la demenziale irrazionalità delle basi del capitalismo.
Tuttavia queste questioni metafisiche non affliggono noi indoamericani. Però chiediamo la firma immediata di una carta d'intenti che disciplini i popoli debitori del vecchio continente e li obblighi a far fede al loro impegno tramite un immediata privatizzazione o riconversione dell'Europa perché ci venga consegnata per intero come primo pagamento di questo debito storico.
Dicono i pessimisti del Vecchio Mondo che la loro civiltà versa in una bancarotta tale che gli impedisce di tener fede ai loro impegni finanziari o morali. In tal caso ci accontenteremo che ci paghino con la pallottola che uccise il poeta.
Ma non potranno. Perché quella pallottola è il cuore dell'Europa..."

martedì 31 dicembre 2019

L’infamia riversata nella Storia: chi furono i veri alleati dei nazisti. - Fabrizio Poggi

Da: contropiano.org -
Leggi anche: A letto col Terzo Reich: L'alleanza nascosta degli USA con la Germania nazista contro l'Unione Sovietica. - Michel_Chossudovsky


Il mondo non è ancora entrato nel 2020, quando si celebreranno 75 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, che già si infuocano le discussioni – accese peraltro da molti mesi – sulle responsabilità per il suo scatenamento. O meglio: si infittiscono le grida dell’intera democrazia liberale sulle presunte “colpe di Stalin e dell’URSS”, per cercare di coprire le proprie, autentiche e verificate, collusioni col nazismo. 

Nella marcia a tappe forzate per la messa al bando del comunismo, la famigerata “risoluzione” settembrina del cosiddetto parlamento europeo è, per ora, il più raffinato capolavoro di menzogne su quelle responsabilità. Ma, nei prossimi mesi, con l’avvicinarsi del 9 maggio e dell’anniversario della capitolazione nazista, ci saranno infinite occasioni e necessità di tornare sul tema, che sicuramente farà il paio con quello di chi siano stati gli artefici della vittoria sul nazismo. 

Andrà ancora bene se la Wehrmacht e Casa Savoia non saranno associate agli Alleati nell’aver contribuito alla disfatta degli hitleriani: tutti, ovvio, dalla parte dei “buoni”; meno chi ha sopportato il 90% del peso della guerra, cioè l’Esercito Rosso e i popoli dell’URSS.

sabato 28 dicembre 2019

I danni economici dell’analfabetismo funzionale - Guglielmo Forges Davanzati

Da: Nuovo Quotidiano di Puglia” - Guglielmo Forges Davanzati 
Guglielmo Forges Davanzati, Università del Salento, è un economista italiano.
Leggi anche: Federico Caffè e l’«intelligente pragmatismo». (in appendice “Intervista a Federico Caffè” di «Sinistra 77») - Fernando Vianello  
                        L’economista in tuta da lavoro: Federico Caffè e il capitalismo in crisi - Riccardo Bellofiore 

Vi è ampia evidenza teorica ed empirica in merito al fatto che un’istruzione diffusa – oltre a essere desiderabile in quanto tale – è un rilevante fattore di crescita economica. Ciò fondamentalmente a ragione del fatto che l’acquisizione di conoscenze e competenze, sia attraverso i canali formali della scolarizzazione, sia attraverso i canali informali dell’acquisizione di conoscenze mediante reti amicali e relazionali (le c.d. soft skills), entra come input nel processo produttivo e agevola la crescita della produttività del lavoro.
La crescita economica italiana è al palo dalla svolta dei primi anni novanta, con le manovre restrittive dei Governi Amato e Ciampi (1992-1993), anche a causa del sistematico disinvestimento in istruzione, ricerca e sviluppo, dal momento che minore istruzione implica minore crescita. E vi è ampio accordo fra economisti in merito al fatto che il ventennio che inizia a far data dal 1998 è il peggiore della recente storia economica italiana in termini di tasso di crescita e andamento dell’occupazione.
A partire da quella data si fa strada quello che uno dei maggiori economisti italiani della seconda metà del Novecento, Federico Caffè, ebbe a definire l’allarmismo economico, con particolare riferimento – negli anni novanta e ancora più nel successivo decennio – alla convinzione diffusa che la disoccupazione italiana e, in particolare, la disoccupazione giovanile dipenda dal mismatch qualitativo fra domanda e offerta di lavoro. Ci si riferisce, in particolare, al fatto che si è incominciato a ritenere che la disoccupazione giovanile italiana dipenda dalla scarsa preparazione dei nostri giovani, quest’ultima imputabile all’incapacità delle nostre università di fornire conoscenze e soprattutto competenze tecniche adeguate a quelle domandate dalle nostre imprese.
Sia chiaro che il problema esiste, ma la narrazione dominante (e il connesso allarme) ne amplifica notevolmente le dimensioni. La realtà è che i nostri lavoratori, soprattutto giovani, ricevono per contro una preparazione adeguata, ma vengono assunti, laddove cioè accade, con contratti a tempo determinato, spesso in condizioni di sottoccupazione intellettuale e spesso costretti a emigrare o ad accettare forme di part-time involontario. Una condizione di precariato diffusa, con contratti di lavoro intermittenti, di incerta durata, che amplifica la spirale perversa composta da bassa crescita e peggioramento della qualità dell’occupazione. 

giovedì 26 dicembre 2019

HEGEL, PREFAZIONE DELLA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO

Da: Hegel, Fenomenologia dello spirito, "Prefazione". - https://www.facebook.com/carla.fabiani/ - http://www.filosofico.net/Antologia_file/



La celebre Prefazione della Fenomenologia, portata a termine nel gennaio del 1807, fu concepita dal filosofo non solo come avviamento alla lettura dell’opera, ma come presentazione della posizione dell’autore; per questo si può considerare come una introduzione al sistema filosofico hegeliano. Nella Prefazione, Hegel ripercorre con un unico sguardo tutte le tappe del cammino fenomenologico, per coglierne il significato complessivo ed esporre la concezione di un sapere rigorosamente scientifico. Condizione essenziale di un tale sapere è che l’Assoluto non sia concepito come identità immota, ma come realtà che include anche le differenze; non solo come sostanza, ma anche come soggetto vivente che esce da sé, si fa altro da sé, negandosi, e, attraverso "il dolore, la pazienza e il travaglio del negativo", ritorna a se stesso. L’assoluto, dunque, è il risultato di un processo di scissione e di riunificazione; ciò si può esprimere dicendo che "il vero è l’intero". 


"La vita di Dio e il conoscere divino potranno bene venire espressi come un gioco dell'amore con se stesso; questa idea degrada fino all'edificazione e a dirittura all'insipidezza quando mancano la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio del negativo. In sé quella vita è l'intatta eguaglianza e unità con sé, che non è mai seriamente impegnata nell'essere-altro e nell'estraneazione, e neppure nel superamento di questa estraneazione. Ma siffatto in-sé è l'universalità astratta, nella quale, cioè, si prescinde dalla natura di esso di essere per sé e quindi, in generale, dall'automovimento della forma (3). Qualora la forma venga espressa come eguale all'essenza, si incorre poi in un malinteso se si pensa che il conoscere stia pago allo in-sé o all'essenza, e possa invece fare a meno della forma; - se si pensa che l'assoluto principio fondamentale o l'intuizione assoluta rendano superflua l'attuazione progressiva della prima o lo sviluppo della seconda. Appunto perché la forma è essenziale all'essenza, quanto questa lo è a se stessa, quest'ultima non è concepibile né esprimibile meramente come essenza, ossia come sostanza immediata o come pura autointuizione del divino; anzi, proprio altrettanto come forma, e in tutta la ricchezza della forma sviluppata; solo così è concepita ed espressa come Effettuale. Il vero è l'intero. Ma l'intero è soltanto l'essenza che si completa mediante il suo sviluppo. Dell'Assoluto devesi dire che esso è essenzialmente risultato, che alla fine è ciò che è in verità; e proprio in ciò consiste la sua natura, nell'essere effettualità, soggetto o divenir-se-stesso. 

Per quanto possa sembrare contraddittorio che l'Assoluto sia da concepire essenzialmente come risultato, basta tuttavia riflettere alquanto per rendersi capaci di questa parvenza di contraddizione. Il cominciamento, il principio o l'Assoluto, come da prima e immediatamente viene enunciato, è solo l'Universale. Se io dico: « tutti gli animali», queste parole non potranno mai valere come una zoologia; con altrettanta evidenza balza a gli occhi che le parole: « divino», « assoluto», « eterno», ecc. non esprimono ciò che quivi è contenuto; e tali parole in effetto non esprimono che l'intuizione intesa come l'immediato. Ciò che è più di tali parole, e sia pure il passaggio a una sola proposizione, contiene un divenir-altro che deve venire ripreso, ossia una mediazione (4). Della mediazione peraltro si ha un sacro orrore, come se, quando non ci si limiti ad affermare che essa non è niente di assoluto e non si trova nell'assoluto, si debba rinunziare alla conoscenza assoluta. Ma, in effetto, quel sacro orrore deriva dall'ignoranza della natura della mediazione e della stessa conoscenza assoluta. Infatti la mediazione non è altro che la moventesi eguaglianza con sé o la riflessione in se stesso, il momento dell'Io che è per sé, la negatività pura o abbassata alla sua pura astrazione, il Divenire semplice. L'Io o il divenire in generale, questo atto del mediare, in virtù della sua semplicità è appunto l'immediatezza che è in via di divenire, nonché l'immediato stesso. - Si disconosce quindi la ragione, quando la riflessione, esclusa dal vero, non viene accolta come momento positivo dell'Assoluto. È la riflessione che eleva a risultato il vero, ma che anche toglie questa opposizione verso il suo divenire; giacché il divenire è altrettanto semplice e quindi non diverso da quella forma del vero, la quale fa sì che esso, nel suo risultato, si mostri semplice: esso è, per meglio dire, l'esser ritornato nella semplicità. - Se, indubbiamente, l'embrione è in sé uomo, non lo è tuttavia per sé; per sé lo è soltanto come ragione spiegata, fattasi ciò che essa è in sé; soltanto questa è la sua effettuale realtà. Ma tale risultato è esso stesso immediatezza semplice; esso è infatti la libertà autocosciente, che riposa in se stessa, senza aver messo da parte, per poi lasciarvela abbandonata, l'opposizione; che è, anzi, conciliata con l'opposizione." 


martedì 24 dicembre 2019

Che cosa resta del comunismo? - Luciano Canfora, Sergio Romano

Da: LEZIONI DI STORIA - Luciano Canfora è un filologo classico, storico e saggista italiano. -  Sergio Romano è uno storico, scrittore, giornalista e diplomatico italiano. 
Vedi anche: Come si viveva ai tempi dell'URSS? 
                   Gli USA e il Pacifico - Dario Fabbri
                                                                                 

lunedì 23 dicembre 2019

Rosa Luxemburg critica dell’economia politica - Marco Palazzotto

Da: https://jacobinitalia.it/ - palazzotto-marco ricopre incarichi direttivi nella Cgil in Sicilia, è tra i fondatori di www.Palermo-Grad.com.  
Vedi anche: "Rosa Luxeburg e Karl Liebknecht" 
Leggi anche: Una candela che brucia dalle due parti. Rosa Luxemburg tra critica dell’economia politica e rivoluzione - Riccardo Bellofiore

"L'atto più rivoluzionario è una chiara visione del mondo così com'è."

In questo centenario dalla morte della rivoluzionaria polacca pochi hanno approfondito il suo apporto alla teoria economica, che è stato invece fondamentale per lo sviluppo del marxismo

Nel centenario della morte, Rosa Luxemburg (1871-1919) è stata ricordata come socialista, per il suo ruolo nel pensiero femminile e per la straordinaria personalità che viene fuori dal suo epistolario. Qui vogliamo ricordare anche il suo fondamentale contributo alla critica dell’economia politica, in primo luogo con i libri L’accumulazione del capitale (1913) e Introduzione all’economia politica (1912 ). 
L’accumulazione è senz’altro da considerare l’opera principale di Rosa Luxemburg. Lo scopo dell’opera era rispondere al quesito «dove sono i consumatori del plusvalore?». La risposta della rivoluzionaria polacca è che dentro un sistema puramente capitalistico sarebbe impossibile reperire la domanda per il consumo di merci prodotte in regime di accumulazione. Tale domanda dovrebbe ricercarsi altrove. E proprio per trovare questa domanda aggiuntiva nasce secondo Rosa Luxemburg l’imperialismo. Infatti, la conquista di nuove colonie da parte degli Stati a economia capitalistica andò di pari passo con la concorrenza, militare ed economica, per accaparrarsi nuovi spazi di accumulazione dopo la saturazione delle economie interne. Ma la lotta per la spartizione di queste zone pre-capitalistiche porta prima o poi alla saturazione dell’intera economia globale, in un mondo divenuto integralmente capitalistico. A quel punto si verifica il crollo del sistema per la carenza della domanda del sovrappiù. 
Per questa sua teoria Rosa Luxemburg è stata accusata – anche da illustri marxisti come Lenin o Sweezy – di «crollismo sottoconsumista». Ma andiamo con ordine. Alla fine proveremo a spiegare come si difende da queste accuse e perché il suo contributo fu sottovalutato dai marxisti suoi contemporanei e successivi. 

domenica 22 dicembre 2019

I VECCHI MOSTRI: IL “CASO CASTRUCCI” - Cinzia Nachira

Da: http://rproject.it/ - CINZIA NACHIRAricercatrice universitaria. 

                     Il cortometraggio "1943-1997" di Ettore Scola proiettato al Palazzo del Quirinale in occasione della celebrazione della "Giornata della memoria" -
                                                                        

  • Vi hanno detto che sono stato un mostro per non farvi sapere che ho combattuto contro i veri mostri che oggi vi governano dominando il mondo”
Questa è la pietra dell’ultimo scandalo in ordine di tempo scoppiato nel nostro Paese perché oggetto di un tweet messo in linea giorni fa da Emanuele Castrucci, docente ordinario di filosofia del diritto all’università di Siena, una delle più prestigiose. Il fatto che questo messaggio fosse corredato da una fotografia che ritrae Adolf Hitler mentre rimira un paesaggio montuoso in compagnia di un cane, ha tratto molti nell’inganno di credere che quell’affermazione mostruosa fosse da addebitare al Fuhrer. Ma leggendola bene emerge qualcosa di più grave: quello è un pensiero “hitlerizzato” del Castrucci medesimo. Perché quelle cose Hitler non può averle dette, a meno che non le abbia pronunciate alla fine della guerra, magari nel bunker di Berlino poco prima di suicidarsi. Ma ciò è ben poco credibile, mentre è assai più credibile che Castrucci, nel tentativo di non incorrere in sanzioni disciplinari, abbia espresso il suo pensiero e affiancandolo a quell’immagine abbia voluto riferirsi agli ebrei e ai migranti.
Questo non diminuisce, ma al contrario aggrava tutta la faccenda. In maniera subdola, ma altrettanto efficace questo docente ribadisce vecchi stereotipi antisemiti, razzisti e xenofobi che nel nostro Paese sono tutto fuorché estranei.

sabato 21 dicembre 2019

COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA SULLA LOGGIA MASSONICA P2 - RELAZIONE DI MAGGIORANZA dell'onorevole TINA ANSELMI


Tina Anselmi





"La prima imprescindibile difesa contro questo progetto politico, metastasi delle istituzioni, negatore di ogni civile progresso, sta appunto nel prenderne dolorosamente atto, nell'avvertire, senza ipocriti infingimenti, l'insidia che esso rappresenta per noi tutti - riconoscendola come tale al di là di pretestuose polemiche, che la gravità del fenomeno non consente - poiché esso colpisce con indiscriminata, perversa efficacia, non parti dei sistema, ma il sistema stesso nella sua più intima ragione di esistere: la sovranità dei cittadini, ultima e definitiva sede del potere che governa la Repubblica." 





LA COMMISSIONE PARLAMENTARE (Da: https://it.wikipedia.org/wiki/P2

Dopo la scoperta delle liste Arnaldo Forlani nominò un comitato di tre saggi (Vezio Crisafulli, Lionello Levi Sandri e Aldo Mazzini Sandulli) per fornire elementi conoscitivi e critici sull'attività della P2.

Negli anni successivi fu istituita, per volontà della Presidente della Camera Nilde Iotti, una commissione parlamentare d'inchiesta, guidata dalla deputata democristiana Tina Anselmi, ex partigiana «bianca» e prima donna a diventare ministro nella storia della Repubblica Italiana. La commissione affrontò un lungo lavoro di analisi per far luce sulla Loggia, considerata un punto di riferimento in Italia per ambienti dei servizi segreti americani intenzionati a tenere sotto controllo la vita politica italiana fino al punto, se necessario, di promuovere riforme costituzionali apposite o di organizzare un colpo di Stato. La commissione parlamentare chiuse i suoi lavori nel 1984 e diede luogo a una relazione di maggioranza e a una di minoranza. La prima, molto più articolata, mise in luce molti aspetti, ad esempio:

Giudicò la lista attendibile ma presumibilmente incompleta.
Giudicò la Loggia «responsabile in termini non giudiziari ma storico-politici, quale essenziale retroterra economico, organizzativo e morale» della strage dell'Italicus.
Giudicò la Loggia «un complotto permanente che si plasma in funzione dell'evoluzione della situazione politica ufficiale».
Sottolineò l'«uso privato della funzione pubblica da parte di alcuni apparati dello stato» legati alla Loggia.
Sottolineò la divisione funzionale della Loggia e quindi che, benché tutti gli affiliati fossero consapevoli del fine surrettizio della Loggia, fosse necessario individuare il settore di appartenenza dei singoli affiliati per risalire alle responsabilità personali.
Sottolineò che la presenza di alcuni imprenditori si poteva spiegare con i benefici economici che il legame con alti dirigenti di imprese pubbliche e banche poteva potenzialmente portare loro, per esempio sotto forma di credito concesso in misura superiore a quanto consentito dalle caratteristiche dell'impresa da finanziare.
Sottolineò come ci fossero «poche ma inequivocabili prove documentali» che provavano l'esistenza della Loggia di Montecarlo (ora Massonic Executive Committee) e della più elitaria P1, considerandole entrambe creazioni di Licio Gelli.
Secondo la commissione d'inchiesta, la Loggia P2 e Gelli stesso godevano di «una sorta di cordone sanitario informativo posto dai Servizi a tutela ed a salvaguardia del Gelli e di quanto lo riguarda» a partire dal 1950 (anno in cui venne segnalato ai servizi il rapporto Cominform", a cui però non seguirono indagini), che permise al gruppo di agire indisturbato, arrivando alla conclusione che Gelli stesso facesse parte dei servizi segreti. [...] 

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 INDICE:   (Da: http://www.strano.net/stragi/

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